Regola di S. Benedetto
Prologo della Regola
Quando poi il Signore cerca il suo operaio tra la folla, insiste dicendo: "Chi è l'uomo che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere giorni felici?". Se a queste parole tu risponderai: "Io!", Dio replicherà: "Se vuoi avere la vita, quella vera ed eterna, guarda la tua lingua dal male e le tue labbra dalla menzogna. Allontanati dall'iniquità, opera il bene, cerca la pace e seguila". Se agirete così rivolgerò i miei occhi verso di voi e le mie orecchie ascolteranno le vostre preghiere, anzi, prima ancora che mi invochiate vi dirò: "Ecco sono qui!".
Capitolo II - L'Abate
Bisogna che prenda chiaramente coscienza di quanto sia difficile e delicato il compito che si è assunto di dirigere le anime e porsi al servizio dei vari temperamenti, incoraggiando uno, rimproverando un altro e correggendo un terzo: perciò si conformi e si adatti a tutti, secondo la rispettiva indole e intelligenza, in modo che, invece di aver a lamentare perdite nel gregge affidato alle sue cure, possa rallegrarsi per l'incremento del numero dei buoni.
Capitolo V - L'obbedienza
Ma questa obbedienza sarà accetta a Dio e gradevole agli uomini, se il comando ricevuto verrà eseguito senza esitazione, lentezza o tiepidezza e tantomeno con mormorazioni o proteste, perché l'obbedienza che si presta agli uomini è resa a Dio, come ha detto lui stesso: "Chi ascolta voi, ascolta me". I monaci dunque devono obbedire con slancio e generosità, perché "Dio ama chi dona con gioia".
Capitolo VII - L'umilità
E per dimostrare come il servo fedele deve sostenere per il Signore tutte le possibili contrarietà, esclama per bocca di quelli che patiscono: "Ogni giorno per te siamo messi a morte, siamo trattati come pecore da macello". Ma con la sicurezza che nasce dalla speranza della divina retribuzione, costoro soggiungono lietamente: "E di tutte queste cose trionfiamo in pieno, grazie a colui che ci ha amato".
Capitolo XLIX - La quaresima dei monaci
Perciò durante la Quaresima aggiungiamo un supplemento al dovere ordinario del nostro servizio, come, per es., preghiere particolari, astinenza nel mangiare o nel bere, in modo che ognuno di noi possa di propria iniziativa offrire a Dio "con la gioia dello Spirito Santo" qualche cosa di più di quanto deve già per la sua professione monastica; si privi cioè di un po' di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo e attenda la santa Pasqua con l'animo fremente di gioioso desiderio.
La gioia dello 
Spirito Santo in 
San Benedetto
Adalbert de 
VOGÜÉ, osb
Collectanea Cisterciensia 71 (2009) 27-41
(Libera 
traduzione dal francese.
Le note più importanti sono state inserite direttamente nel testo)
E' singolare il fatto che, nella Regola di San Benedetto, la gioia (gaudium) appaia soltanto in due 
passaggi ove si tratta di mortificazioni o di prove. Al di là di una frase 
contenuta nel capitolo dedicato all'abate, dove Benedetto gli augura "di provare la gioia 
di vedere crescere il suo gregge" (RB 2,32), le altre occorrenze del sostantivo 
gaudium e del verbo gaudere restituiscono un suono diverso e 
inaspettato.
1. La gioia del monaco nella prova
Nel capitolo 
sull’umiltà, in particolare in questo "grado di umiltà" particolarmente lungo e 
patetico che è il quarto – dove il monaco incontra "difficoltà, contrarietà e 
persino offese non provocate"- Benedetto cita un versetto del Salmo dove persone 
infelici si lamentano di essere trattate " come pecore da macello ", ed 
aggiunge:
Ma con la sicurezza che nasce dalla speranza della 
divina retribuzione, costoro soggiungono lietamente: "E di tutte queste cose 
trionfiamo in pieno, grazie a Colui che ci ha amato". (RB 7,39)
Questa nota di 
gioia (gaudentes) 
nel bel mezzo della prova 
risuona di nuovo nel capitolo sulla Quaresima, dove si fa sentire due volte di 
seguito. Prima Benedetto invita ogni monaco ad "offrire" al Signore, oltre a 
quanto dovuto dal dovere comunitario, "qualcosa di propria iniziativa”, e 
specifica che tale offerta spontanea e gravosa di ciascuno sarà fatta "nella 
gioia dello Spirito Santo (RB 49,6) "(cum gaudio Spiritus 
Sancti) Subito dopo, 
ribadisce e specifica questo invito:
Che ognuno si privi di un po' di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la 
propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo e attenda la santa Pasqua 
con l'animo fremente di gioioso desiderio (RB 49,7).
Prove e gioia, 
rinunce e gioia: queste associazioni paradossali del quarto grado di umiltà e 
del capitolo sulla Quaresima non sono delle pure invenzioni di Benedetto. In 
entrambi i casi, appare chiaramente un substrato scritturale. Quando ci viene 
mostrato, nel trattato sull’umiltà, il monaco dolente e gioioso 
contemporaneamente, occorre stare attenti ad una piccola parola di tre lettere 
inserita da Benedetto in questa frase: se coloro che sono messi alla prova 
superano nella gioia la loro afflizione è perché hanno la "speranza" (spe) 
di essere ricompensati da Dio. E la speranza non è senza gioia, dice san Paolo:
spe gaudentes Questa parola della Lettera ai Romani sottende il quarto 
grado dell’umiltà (RB 7, 35-43, citando Rm 12,12).
Più 
precisamente ancora, la "gioia dello Spirito Santo" di cui parla nel capitolo 
della Quaresima ricorda un'altra parola dell'Apostolo. Scrivendo ai 
Tessalonicesi, Paolo si felicitava con loro per aver "ricevuto la Parola in 
mezzo ad una grande tribolazione, con la gioia dello Spirito Santo" (1 Ts 1,6; 
RB 49,6). La Quaresima dei monaci italiani del VI secolo fa loro rivivere lo 
spirito dei primi cristiani di Tessalonica, perseguitati per la loro adesione 
alla fede in Cristo: la prova che si subisce per causa sua è accompagnata dalla 
gioia dello Spirito. E quando Benedetto, ribadendo la sua affermazione, fa 
sperare che l'attesa della Pasqua sarà immersa nella «gioia del desiderio 
spirituale", si pensa non solo alle parole della Lettera ai Romani menzionate 
sopra – spe gaudentes, "lieti nella speranza"- ma anche al "frutto dello 
Spirito <che> è amore, gioia, pace"ed il resto (Gal 5, 22). Se la gioia è qui 
qualificata come "spirituale" è per il fatto che si tratta, come l'amore, di uno 
dei doni dello Spirito Santo presente nel cuore del cristiano.
La gioia del 
monaco di San Benedetto è, quindi, sia un coesistente alla prova, sia un dono 
dello Spirito Santo. Se Benedetto pronuncia questa parola (gaudium) solo 
in questi due passaggi della sua 
Regola, nel quarto 
grado di umiltà e nel capitolo della Quaresima, non dobbiamo essere sorpresi dal 
fatto che questo tempo che precede la Pasqua abbia un valore esemplare per lui: 
"
La vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale" (RB 49,1). La 
"gioia del desiderio spirituale", con la quale guardiamo verso la Pasqua, 
simboleggia dunque “tutta l’anima" che "anela alla vita eterna", come dice
uno degli
Strumenti delle buone opere (RB 
4,46).
Inoltre, 
l'estrema rarità di passaggi in cui Benedetto pronuncia la parola "gioia" non 
deve far dimenticare due pagine della
Regola dove appare - senza la parola - uno stato d'animo simile. 
Uno di questi passaggi è alla fine del Prologo. Dopo aver definito il monastero, 
così come nella Regola
del Maestro, una "scuola del servizio del Signore", Benedetto 
aggiunge diverse righe in cui egli formula innanzitutto il suo desiderio di non 
imporre cose dolorose e poi mette in guardia contro lo scoraggiamento che 
potrebbero ispirare determinate prescrizioni, giudicate troppo rigorose ed 
insopportabili. Questo è solo un inizio, lui dice:
La via della salvezza in principio è necessariamente stretta e ripida. (Mt 
7, 14). Mentre invece, man mano che si avanza nella vita monastica e nella fede,
si corre per la via dei precetti divini 
col cuore dilatato (Sal 119 (118), 32) dall'indicibile sovranità dell'amore 
(RB Prol 48- 50).
Senza 
pronunciare la parola gaudium Benedetto evoca qui uno stato d’animo molto 
vicino alla gioia. Questa, come nella scala dell’umiltà e nel programma 
quaresimale, paradossalmente consegue alla prova stessa: la via stretta del 
Vangelo, con tutte le sue rinunce, non stringe il cuore, ma, al contrario, lo 
dilata e lo illumina. La carità divina conquista l'uomo, riempiendolo della sua 
tenerezza.
L'altro 
passaggio in cui appare qualcosa che assomiglia alla gioia, è la conclusione del 
grande capitolo sull’umiltà. Con Cassiano ed il Maestro, Benedetto evoca qui lo 
sviluppo a cui porta la salita dell’umiltà, iniziata nel timore del Signore e 
del suo giudizio. Quel timore iniziale sarà sostituito dall'amore. I tre autori 
variano leggermente nella sua rievocazione – all’ «amore del bene" (Cassiano) o 
"della buona abitudine" (il Maestro), Benedetto sostituisce semplicemente 
"l'amore di Cristo" - ma tutti e tre sono concordi nel parlare del "gusto della 
virtù" a cui si accompagna questo amore finale (RB 7,69). Ora, trovare il 
piacere piacere in un atto virtuoso, non significa provare una certa gioia? La 
gioia che dilata l'anima è meno rara di quanto non sembri in San Benedetto. Ma, 
in modo molto coerente, essa affiora sempre nello stesso contesto oblativo e 
sacrificale. Molte volte abbiamo anche notato un evidente substrato scritturale. 
Questo riferimento al Nuovo Testamento, soprattutto agli scritti paolini, ci 
impegna a esaminarli per capire meglio ciò che ne hanno tratto gli scrittori 
monastici. Vediamo ciò che san Paolo, così come san Giovanni, dice della gioia.
2. Prova e gioia in san Paolo
Il capitolo 
sulla Quaresima di Benedetto ci ha posti alla presenza di due parole 
dell'Apostolo che sono collegate l’una all'altra: la "gioia" e la "prova". 
"Lieti nella speranza, pazienti nella prova, perseveranti nella preghiera" (Rm 
12,12): tali saranno i Romani se soddisfano i desideri di san Paolo (Spe 
gaudentes, 
in tribulatione patientes, 
orationi instantes). E prima 
ancora, i Tessalonicesi sono stati elogiati per aver “accolto la Parola in mezzo 
a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo" (1 Ts 1,6). Questa 
combinazione della gioia e di ciò che è apparentemente il suo opposto – la 
prova, la tribolazione – si ritrova altrove in san Paolo. Di sé stesso diceva ai 
Corinzi: “noi sembriamo come afflitti, ma sempre lieti (Quasi tristes, sempre autem
gaudentes)" (2 Cor 6,10).
D'altra parte, 
la "gioia dello Spirito Santo", citata nella Lettera ai Tessalonicesi, trova 
diversi echi nell’epistolario paolino. Quando Paolo elenca nella Lettera ai 
Galati i "frutti dello Spirito", la gioia arriva seconda, subito dopo l'amore, 
nella lista di nove parole: "Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace" ed il 
resto (Fructus 
autem Spiritus est caritas, gaudium, pax) (Gal 5,22). E quando 
l'Apostolo definisce per i Romani la vera natura del Regno di Dio, egli scrive: 
"Il Regno di Dio non è cibo e bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello
Spirito Santo (Iustitia et pax et gaudium in Spiritu Sancto)" (Rm 14,17). In armonia 
con questi propositi di san Paolo, gli Atti degli Apostoli ci presentano i suoi 
discepoli in Asia Minore, "pieni di gioia e di Spirito Santo", persino nel mezzo 
della persecuzione che imperversa contro di loro (Discipuli quoque replebantur gaudio et Spiritu Sancto) (At 13, 52).
Un’altra 
compagna ricorrente della gioia è la preghiera. Nella frase della Lettera ai 
Romani citata prima, dopo aver raccomandato la "gioia nella speranza" e la 
"pazienza nella prova", Paolo aggiunge subito dopo la "perseveranza nella 
preghiera" (Rm 12,12). E quando dice ai Tessalonicesi: "Siate sempre lieti", non 
manca di aggiungere: "Pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie (Semper 
gaudete sine intermissione orate, in gratias omnibus agite)" (1 Ts 
5,17-18). Quest’ultimo passaggio delle Epistole di Paolo è della massima 
importanza per la storia della preghiera cristiana. E’ infatti questo "Pregate 
ininterrottamente" che ha ispirato tutte le ricerche dei fedeli e delle comunità 
per occupare il tempo con delle preghiere: così è nato l'ufficio divino delle 
Chiese e dei monasteri. Ma mentre questo "Pregate ininterrottamente" della 
Lettera ai Tessalonicesi generava pratiche di ogni genere ed era costantemente 
invocato dai liturgisti, ruminato dalle anime pie, ricordato dagli scrittori 
spirituali, le due frasi vicine nella stessa epistola - "Siate sempre gioiosi," 
ed "In ogni cosa rendete grazie" - non conoscevano per niente lo stesso 
sviluppo.
Un famoso 
autore monastico, Giovanni Cassiano, può servire come esempio in tal senso. Il 
"Pregate ininterrottamente" dell'Apostolo è menzionato otto volte nelle sue 
Istituzioni e Conferenze, in cui questa raccomandazione del Nuovo Testamento 
sta alla base dell'intera organizzazione della preghiera delle ore (Inst. 
Coen. II, 1 e Conl. IX 3,4). Al 
contrario, la vicina prescrizione di san Paolo - "Siate sempre lieti" - non 
compare mai, a quanto pare, nel lavoro di Cassiano. Il monaco deve pregare 
sempre, ci piace ricordarglielo. Ma essere sempre gioioso, ci sembra di 
dimenticare che egli ha anche questo dovere.
"Siate sempre 
lieti". Un lettore della Regola 
benedettina potrebbe obiettare che Benedetto, come molti antichi autori 
monastici, è severo a proposito del ridere. Uno dei suoi "strumenti delle buone 
opere" vieta di pronunciare " 
parole leggere 
o ridicole", e raccomanda quanto segue "non ridere spesso e smodatamente (RB 
4,53-54 = RM 3,59-60)". Oltre a queste sentenze, che gli vengono dal Maestro, 
Benedetto segue ancora quest’ultimo, e con lui Cassiano, in uno degli ultimi 
gradini della sua scala dell’umiltà, che vuole che non siamo "sempre pronti a 
ridere (RB 7,59 = RM 10,78)". Eppure queste frasi non condannano tutti i modi 
del ridere, ma solo alcune forme di esso. Ma altri autori monastici, anteriori o 
contemporanei, arrivano persino a vietare che si rida, sostenendo non solo il 
"Guai a voi, che ora ridete (Lc 6,25; citato da Basilio di Cesarea nelle 
Grandi Regole)" ma anche l'esempio di Gesù, che il Vangelo mostra a volte 
nel pianto, mai col sorriso (Lc 19,41-44; Gv 11,35; Eb 5,7; oltre a Basilio, 
Gr Reg, e Ferréol nella Regula ad monachos ).
Questi 
avvertimenti contro il ridere ci impediscono di coltivare la gioia? No, 
certamente, perché non è necessario ridere per essere gioiosi. E’ anche 
l'opposto del ridere – le lacrime - che Benedetto associa, nel suo programma 
quaresimale, alla "gioia dello Spirito Santo" che deve dominare l'anima in 
questo periodo. Ciò che il monaco "offre a Dio con la gioia dello Spirito Santo" 
è appunto una serie di ristrettezze che riguardano non solo il cibo, il bere ed 
il dormire, ma anche la loquacità ed il divertimento. Nello stesso tempo, la 
preghiera quaresimale si accompagna con le "lacrime" e la "compunzione del 
cuore", così come con l’astinenza (RB 49,4-7). Lungi dall’impedire la gioia, 
queste manifestazioni di dolore spirituale ne sono il nutrimento.
3. Pienezza della gioia in san Giovanni
La gioia che 
nasce dalla prova e dalla sofferenza: questa sequenza che presenta la
Regola benedettina e che abbiamo ritrovato in san Paolo, si trova 
anche in un passaggio di San Giovanni. Quando Gesù, durante l'Ultima Cena, parla 
della sua imminente partenza e della sua separazione dai suoi discepoli, questi 
sentono la tristezza (Gv 
16, 6: 
tristitia implevit cor vestrum), 
e Gesù prevede 
loro che essi "piangeranno e si lamenteranno", mentre il mondo si rallegrerà. Ma 
questa tristezza, aggiunge, si cambierà in gioia. E per illustrare la sua 
predizione, Cristo cita la partoriente nelle doglie del parto, la cui tristezza 
scompare alla nascita del bambino e si trasforma in gioia (Gv 16,20-21).
Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro 
cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia (Gv 16, 22).
Prima e dopo 
questo passaggio centrale, che ricorda la gioia nella prova in san Benedetto, il 
quarto Vangelo parla a più riprese della gioia, in termini che ritornano con 
un’insistenza sorprendente. Il verbo che di solito accompagna la parola "gioia" 
(Greco - 
χαρά, latino - gaudium) evoca la 
"pienezza" di questo sentimento nell'anima di coloro che amano Cristo. Già 
Giovanni Battista, l'amico che gioisce alla voce dello Sposo, dice che la gioia 
che egli prova è "piena" (impletum est - 
πεπλήρωται, Gv 3,29). E 
Cristo, a sua volta, usa la stessa parola più volte:
Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia 
piena (impleatur - 
πληρωθή, Gv 15,11). Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena 
(plenum - 
πεπληρωμέη, Gv 16,24). Io dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in sé 
stessi la pienezza della mia gioia (impletum - 
πεπληρωμένην Gv 17,13).
Altre due 
volte, nelle sue Lettere, Giovanni usa lo stesso vocabolario:
Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena (plenum 
-πεπληρωμέη, 1 Gv 1, 4). 
Spero tuttavia di venire da voi e di poter parlare a viva voce, perché la nostra 
gioia sia piena (2 Gv 12).
E per tre volte 
il quarto Vangelo parla ancora di gioia, sia a proposito di coloro che seminano 
e di coloro che mietono (“perché chi semina gioisca insieme a chi miete” Gv 
4,36), sia riguardo ad Abramo ed alla conoscenza che egli ebbe di Cristo 
(“Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e 
fu pieno di gioia” Gv 8, 56), sia in una frase in cui Cristo stesso parla della 
sua gioia nel prevedere che i suoi discepoli crederanno in lui (“Lazzaro è morto 
e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate” Gv 
11,15).
4. 
Gioia e "letizia"
nel Maestro
Dopo aver 
ritrovato nella Scrittura, fonte principale del pensiero di Benedetto, ciò che 
lo Spirito Santo ha detto della gioia, non è inutile ascoltare anche i propositi 
di un autore molto vicino a Benedetto - così vicino che ci si può chiedere se 
questo "Maestro" anonimo non sia lo stesso Benedetto nella sua giovinezza. La
Regola del Maestro ha in ogni caso 
preceduto la Regola Benedettina, che 
riproduce o adatta gran parte della sua sostanza.
Tre volte più 
lunga di quella di Benedetto, l’opera del Maestro adotta, per quanto riguarda la 
gioia, un vocabolario più variato: alle sole parole gaudium e gaudere 
impiegate da Benedetto, il Maestro aggiunge il verbo laetari (7 volte), 
il sostantivo laetitia (13 volte) e l'aggettivo laetus (1 volta). 
A differenza di gaudere e gaudium, da dove vengono le nostre 
parole italiane "giore" e "gioia", la laetitia è rappresentata nella 
nostra lingua solo da una parola di uso molto limitato: "letizia (liesse 
in francese. Ndt)".
Che dice dunque
la
Regola del Maestro 
della "gioia" e di questa "letizia"? La prima compare fin dall’inizio
nella
Regola quando il Maestro parla, nel 
suo Thema (Introduzione), di ciò che è alla radice di ogni vita 
monastica: l'acqua del battesimo. Dopo aver bevuto a questa fonte divina, egli 
scrive, «E dopo essere così risorti, restammo lì sbalorditi, fra l’immenso 
gaudio (RM Tema 12)." Questa gioia così grande, addirittura "immensa" 
(nimio), del primo incontro con Dio riappare a proposito del Tempo pasquale, 
"Chi semina nelle lacrime miete nel gaudio", scrive il Maestro, citando un Salmo 
(RM 53,20; Sal 125,5). Questa citazione del Salmo è interessante perché implica 
una concezione della Quaresima che contrasta con quella di Benedetto. 
Quest'ultimo, come abbiamo visto, rappresenta questi quaranta giorni come un 
momento in cui la "compunzione del cuore" fa "pregare con le lacrime," 
certamente, ma dove tutta la penitenza che ci si impone è "offerta a Dio con la 
gioia dello Spirito Santo" e si attende la Santa Pasqua "con la gioia del 
desiderio spirituale". Più brevemente, il Maestro appone in modo puro e semplice 
le lacrime della Quaresima alla gioia di Pasqua, che si presenta come un 
completo rovesciamento della tristezza precedente.
Tra questa 
prima e quest'ultima menzione del gaudium, la prima a proposito del 
battesimo, l'altra riguardo al tempo pasquale, il Maestro rileva inoltre che la 
gioia accompagna l’ospitalità - siamo lieti di ricevere il Signore nella persona 
dell’ospite (RM 1,16; pro gaudio 
supervenientes) - e che essa caratterizza il nostro destino eterno, in 
contrasto con le lacrime di questo mondo (RM 11,78; Sal 125,5 secondo il 
Salterio Romano). Ma il più significativo di questi richiami alla gioia è forse 
quello in cui il Maestro cita numerosi "frutti dello Spirito" elencati da san 
Paolo. La sua lista degli "strumenti spirituali con i quali si esercita l'arte 
divina" inizia infatti con le tre virtù teologali – anch’esse paoline - della 
fede, speranza e carità (fides, spes, 
caritas), ma subito aggiunge: "la pace, la gioia, la dolcezza (pax, 
gaudium, mansuetudo)" (RM 4,1-2) che segue la triade delle grandi virtù 
monastiche: "l’umiltà, l'obbedienza, la taciturnità".
Caritas, pax, gaudium, 
mansuetudo: con un'inversione - Paolo mette la gioia 
davanti alla pace - ecco i primi quattro "frutti dello Spirito" enumerati 
dall'Apostolo ai Galati (“Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, 
magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” Gal 5,22). 
Dopo la carità, la terza delle virtù teologali ed il primo dei frutti dello 
Spirito, ecco la gioia (Greco - 
χαρά, latino - gaudium) sistemata tra 
questi ultimi ed offerta ai monaci in quanto tale, come uno "strumento 
spirituale" di grande importanza. Il monaco deve dunque coltivare la pace e la 
gioia, così come la fede, la speranza e la carità.
Quando, nella 
Regola del Maestro, si passa da gaudium all’altro termine per la gioia -
laetitia – occorre innanzitutto notare la maggiore frequenza delle parole 
di questa famiglia: agli undici utilizzi di gaudium, gaudere e 
gauisci (o gavisci: 
RM 81,15; 82,29. Questo verbo è una parola molto rara ed un po’ oscura) 
replicano le venti occorrenze di laetari, laetitia e laetus. Quest'ultimo 
aggettivo compare una sola volta, a proposito dell’alleluia pasquale (RM
53,49), ma il sostantivo laetitia ("letizia") non 
ritorna meno di undici volte, sia a proposito della stessa gioia della Pasqua 
(RM 3,93; 28,44), sia parlando della gioia eterna che questa preannuncia ( RM 
10,93; 10,116; 53,22; 90,16), sia ancora a proposito della domenica, del giorno 
della Resurrezione e di altri giorni festivi (RM 27,45 domenica e feste; 45,7 
Natale; 45,18 dedicazione dell’oratorio), sia infine a proposito della visita di 
un fratello spirituale, nel quale si riconosce il Signore stesso (RM 61,5). Per 
quanto riguarda il verbo laetari, i suoi sette utilizzi sono originati 
dalle stesse cause: giubilo di Pasqua e di Natale (RM 53,19), giubilo della 
domenica (RM 45,14; 75,7; 57,26; citando Sal 149), giubilo dell'eternità (RM 
53,25).
5. Gioia e tristezza nella vita di Benedetto
Tanto la 
Regola del Maestro, fonte 
letteraria di quella di San Benedetto, è ricca di notazioni relative alla gioia, 
quanto poco parla di gaudium o di laetitia il Secondo Libro dei
Dialoghi
di Gregorio Magno, che racconta la vita del santo. Bisogna 
aspettare uno degli ultimi capitoli per vedere Benedetto "rallegrarsi" della 
fine gloriosa della sorella Scolastica, di cui vide l'anima entrare in cielo 
sotto forma di colomba. Questa gioia spirituale lo fa erompere in inni di lode e 
di ringraziamento (Dial. II 34). Del resto, questa fine così felice è stata 
preceduta tre giorni prima da un lungo incontro notturno in cui il fratello e la 
sorella hanno parlato insieme delle "gioie della vita celeste (Dial. II 33, 2)". 
Non è solo qui, ma anche e soprattutto nell'aldilà che si trova la gioia, 
oggetto di speranza.
Lo stesso 
orientamento escatologico appare nell'episodio che segue. Subito dopo, infatti, 
Gregorio parla dei rapporti del santo con un altro abate che gli assomigliava, 
questo diacono Servando il cui monastero si trovava a Napoli e che spesso veniva 
ad incontrarlo. Queste frequenti visite avevano uno scopo tutto spirituale. Come 
Benedetto, Servando era:
…anche lui ripieno di dottrina celeste e così si trasfondevano a vicenda 
confortevoli parole di vita e non potendo ancora gustare il dolce cibo della 
patria del cielo, lo pregustavano almeno con ardente desiderio (Dial II, 35).
Gaudendo, questa 
parola che la traduzione italiana rende con "gioire" è il verbo 
che dice la " gioia". Questa, nella sua forma "perfetta" è riservata per 
l'aldilà. Quaggiù, le gioie del cielo si possono "gustare" solo "desiderandole".
Scolastica e 
Servando: queste due persone, a proposito delle quali il biografo parla di 
gioia, compaiono solo alla fine del racconto, quando Benedetto si prepara a 
passare la soglia della morte ed a conoscere le gioie dell'eternità. Ma nelle 
pagine precedenti, lo vediamo due volte confortare anime doloranti. A Subiaco, 
quando ha ripescato lo strumento che un monaco goto aveva fatto cadere nel lago, 
disse a questo discepolo afflitto: "seguita pure il 
tuo lavoro e stattene contento!". (Dial II 
6,2.). E quando, a Montecassino, una carestia affligge i fratelli, Benedetto 
promette loro un soccorso della Provvidenza, dicendo:
Ma perché ve la state a prendere tanto per la scarsezza del pane? Oggi, è 
vero, ce n'è poco: ma domani vedrete quanta abbondanza ne avremo! (Dial. II 21).
Nonostante i 
suoi sforzi per dissipare la tristezza degli altri, Benedetto è spesso lui 
stesso addolorato per dei fatti infelici. L'odio feroce che gli destina, a 
Subiaco, il parroco del luogo, lo fa soffrire (Dial. II 8,4) e, quando questo 
cattivo prete scompare improvvisamente, Benedetto si lamenta per il suo destino, 
così come per la gioia sconsiderata che Mauro ha tratto da questa disgrazia 
(Dial. II 8.7).
A Monte 
Cassino, si vede di nuovo il santo esasperato da uno dei suoi santi monaci che 
lo assale con le sue lamentele ed al quale infine gli dice di andarsene (Dial. 
II 25,1). Più oltre Gregorio mostra, in due occasioni, Benedetto "rattristato" 
da richieste o azioni di gente esterna al monastero: un padre che gli chiede di 
resuscitare il suo bambino morto (Dial. 32,2); sua sorella Scolastica, che lo 
obbliga a passare la notte fuori del monastero (Dial. II 33,4).
Nel complesso, 
la Vita di Benedetto presenta 
un’immagine del santo molto umana e reale, dove la tristezza non è meno presente 
della gioia, essendo questa soprattutto l'oggetto di una speranza.
6. Il vizio della tristezza presso Cassiano
Al di là della
Regola 
del Maestro, sia attraverso di essa che direttamente, Benedetto 
ricava la sua dottrina spirituale dal grande maestro dei monaci occidentali che 
fu Giovanni Cassiano, Secondo Cassiano, la tristezza è uno degli otto principali 
vizi contro i quali i monaci e tutti i cristiani devono lottare incessantemente. 
I solitari, in particolare, sono spesso e in modo grave malati di tristezza o di 
accidia, osserva l'autore delle Conferenze (Conl. V, 9), e questi due 
vizi sono tanto più difficili da combattere poiché, a differenza degli altri, 
non sono sempre provocati da cause esterne, ma talvolta da movimenti interiori 
(Conl. V, 3). In altre parole, la tristezza giunge spesso senza alcuna ragione 
apparente, in modo tale che non si sa cosa fare per sconfiggerla.
Se la tristezza 
è un vizio, la gioia, che è il suo contrario, sarebbe una virtù? Cassiano non ha 
mai detto ciò, a nostra conoscenza, ma non manca di parlare della gioia tra i 
"frutti dello Spirito" elencati da san Paolo, che sono «carità, gioia, pace" ed 
il resto (Inst. Coen . IX, 11). L'occasione ed il contesto di questa citazione 
paolina sono d’altronde piene di interessi. Nel trattare il vizio della 
tristezza, l'autore delle 
Istituzioni ricorda un'altra parola dell'Apostolo: la distinzione tra 
la "tristezza secondo Dio" che porta al pentimento ed alla salvezza, e la 
"tristezza del secolo" che produce la morte (Inst. Coen. IX, 10). La tristezza 
secondo Dio attraverso la quale ci si pente del peccato, dice Cassiano, è 
accompagnata da un’effusione dello Spirito, che comporta la gioia, mentre la 
tristezza del secolo è privata di questi doni spirituali. Paradossalmente, si 
può dire della tristezza secondo Dio che è " in qualche modo gioiosa e 
fortificata dalla speranza del proprio progresso (Inst. Coen. IX, 11)".
Questo 
paradosso di una tristezza non priva di gioia, di una tristezza che persino 
genera una certa gioia, è al centro della vita monastica. Come non ricordare, a 
questo proposito, che Gesù stesso ha "provato tristezza ed angoscia" (Mt 26, 
37-38), confessando di avere "l’anima triste fino alla morte? "(Mc 14, 34; Lc 
22, 43-44; Gv 12,27). Queste parole del Vangelo, che Cassiano non cita mai, sono 
ben costruite per rassicurarci nel momento della prova. Ma l'opposizione paolina 
delle due tristezze, che Cassiano sostiene, è anche una grande luce, in grado di 
premunire il monaco contro la tristezza viziosa, sterile, contraria allo 
Spirito.
7. Tre Regole fanno sperare la gioia
Nella grande 
famiglia delle Regole 
monastiche, ce ne sono tre che citano, ognuna in un contesto particolare, 
le parole ripetute da Cristo nella parabola dei servitori: "Prendi parte alla 
gioia del tuo padrone" (Mt 25, 21-23).
Negli anni 
553-581, Ferréol, vescovo di Uzès, invita i monaci di un monastero da lui 
fondato fuori della sua diocesi a riverire ed amare il loro abate. Grande, 
infatti, è la responsabilità di costui. Avendo ricevuto molto, egli dovrà 
rendere conto di tutto ciò. Possa egli sentirsi dire: " 
Bene, servitore buono e fedele; prendi parte alla gioia del tuo padrone!
(Ferréol, 
Regula ad monachos 
2,6)".
Un po’ più 
tardi, senza dubbio verso il 580, Leandro di Siviglia indirizza alla sua giovane 
sorella Florentina, consacrata a Dio fin dall'infanzia, una lunga esortazione a 
rimanere nella comunità di vergini ed a beneficiare al massimo dei beni 
spirituali di cui lei è stata colmata. Curiosamente, è nel bel mezzo di un 
avvertimento contro il ridere che riecheggia il richiamo alla gioia:
Sii lieta in Dio, tranquilla di animo e moderata, secondo quanto dice 
l’Apostolo: Rallegratevi nel Signore 
sempre; ve lo ripeto, rallegratevi (Fil 4, 4). E in un altro luogo dice: 
Il frutto dello Spirito è la gioia (Gal 5, 22). Tale gioia non turba 
lo spirito con la volgarità del riso, ma innalza l’anima ai desideri della 
superna quiete dove possa udire: Entra nel gaudio del tuo Signore. 
(Leandro di Siviglia,
Regula 21)
Questa volta, 
la gioia non appare solo come una ricompensa nell'aldilà, ma come un dono dello 
Spirito che riempie l'anima fin da ora. La speranza diventa esperienza, questa 
precede e suscita l’altra. Questa gioia che viene da Dio non ha a che fare col 
ridere, di cui Leandro fa il processo nelle righe seguenti, fino a presagire le 
lacrime ed i sospiri dell'anima che aspira ad "essere con Cristo". 
Paradossalmente questo capitolo, che inizia col presagire la gioia, si conclude 
con un invito a piangere. Ma l'ultima parola è per la consolazione: «Se tu 
piangerai a causa della sua assenza, ti consolerà con la sua presenza".
Sessanta anni 
dopo, verso il 640, un terzo vescovo, Donato di Besançon scrisse
una Regola per le 
sorelle del monastero che hanno fondato i suoi genitori. Cominciando come 
Benedetto, con un direttorio della badessa, egli termina questo primo capitolo 
facendo sperare alla superiora che un giorno sentirà il Signore che le dirà, 
come ai servitori buoni e fedeli: «Entra nella gioia del tuo padrone» (Donato di 
Besançon, 
Regula ad virgines 
1,20, correggendo opportunamente RB 64,22). Questa volta si ritrova il 
contesto puramente escatologico in cui il Vangelo situa questa parola. Come 
Ferréol, Donato pensa solo alla gioia finale dell’aldilà. E’ dunque solo in 
Leandro che appare un’anticipazione di questa gioia celeste, che non esclude per 
niente, tuttavia, le sofferenze terrene, ma al contrario lascia intendere un 
certo dolore, nell’attesa della gioia pura e totale che ci è promessa.
8. Una gioia perpetua, perché no?
In questa 
prospettiva evangelica, la gioia appare come un bene futuro, come una promessa 
per l'aldilà. Ma che dire di questa vita? A questo proposito, noi possiamo 
rammentare il precetto dato da san Paolo ai Tessalonicesi: "Siate sempre lieti”. 
Ma dobbiamo ammettere che questo comando paolino non ha forse ricevuto, nella 
tradizione cristiana, tutta l'attenzione che merita. Abbiamo già riconosciuto 
questo fatto confrontando il "Siate sempre lieti" alla parola che lo segue 
immediatamente: "Pregate ininterrottamente". Mentre questa ha provocato 
l'immenso sforzo dei monaci nel praticare la preghiera incessante, sia nella 
forma collettiva dell'Ufficio divino, sia attraverso le numerose azioni 
individuali di ciascuno, al contrario non si sente parlare di una dottrina o di 
una pratica simile in vista di coltivare sempre la gioia.
Questa 
osservazione che noi abbiamo fatto in precedenza a proposito della preghiera, 
possiamo ora estenderla all'ultimo elemento della triade paolina: l’azione di 
grazie. "Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete 
grazie". L'Eucaristia, o "azione di grazie", è stata anch’essa oggetto di uno 
sforzo di continuità, che si esprime in particolare nella forma solenne della 
liturgia:
E’ veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere 
grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed 
eterno....
Queste parole, 
che il sacerdote ripete in ogni Messa, confermano esattamente il precetto di san 
Paolo: "In ogni cosa rendete grazie". Così come il "Pregate ininterrottamente" 
si svolge nell’ "opera di Dio" dei monaci e nella preghiera quotidiana dei 
fedeli, ugualmente il "Rendete grazie in ogni cosa» si esprime in questa 
Eucaristia, che è l'atto centrale e costantemente rinnovato di tutta la Chiesa.
Questa 
osservazione ci porta a chiedere: perché il primo termine della trilogia paolina 
non suscita uno sforzo analogo da parte nostra? Perché il "Siate sempre felici" 
non sarebbe preso sul serio, come le due ingiunzioni che lo seguono? Perché la 
nostra gioia non dovrebbe essere incessante, proprio come la nostra preghiera e 
la nostra azione di grazie? Spe gaudentes "lieti nella speranza". Se noi 
non coltiviamo la gioia così come i suoi due compagni - la preghiera e l’azione 
di grazie - non è forse perché la nostra speranza è troppo debole, il nostro 
desiderio della vita eterna troppo poco ardente, il nostro sguardo troppo 
assorbito da oggetti terrestri condannati a perire?
Dio ci chiama 
alla gioia eterna, e noi, fin d’ora, nella speranza, possiamo e dobbiamo 
coltivare la gioia. Per rafforzare la nostra convinzione in questo senso, 
possiamo ricordarci due passaggi della Lettera ai Filippesi in cui san Paolo 
riunì di nuovo la gioia, la preghiera e l’azione di grazie, come aveva fatto 
alcuni anni prima, nella sua lettera ai cristiani di Tessalonica. Questo Lettera 
ai Filippesi parla della gioia in una dozzina di passaggi, e la cosa è tanto più 
notevole per il fatto che Paolo è allora prigioniero e va verso la sua fine. 
Senza passare in rivista tutte queste menzioni della gioia, limitiamoci alle due 
frasi che associano la gioia alle sue due sorelle. Ecco la prima, dopo il saluto 
iniziale:
Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. Sempre, quando 
prego per tutti voi, lo faccio con gioia (Fil 1, 3-4).
Nella lettera 
ai Tessalonicesi, Paolo metteva questi tre atti nel seguente ordine: gioia, 
preghiera, azione di grazie. Qui lui inverte questo ordine: l’azione di grazie 
viene per primo, seguito dalla preghiera e dalla gioia. Ma entrambe le triadi 
sono sostanzialmente identiche, e la nota di continuità ("ogni volta che [...] 
sempre, quando prego per voi") risuona ora come prima.
Iniziata in 
questo modo, la lettera ai Filippesi termina ugualmente, e questa volta si 
tratta di una frase che la liturgia ci ha reso familiare:
Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra 
amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma 
in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, 
suppliche e ringraziamenti (Fil 4, 4-6).
Gioia, 
preghiera, azione di grazie: questa volta, i tre termini sono disposti nello 
stesso ordine di un tempo, quando san Paolo si rivolgeva ai fedeli di 
Tessalonica. E questo ordine enfatizza la gioia, nominata per prima ed 
espressamente prescritta "sempre", con una ripetizione che ne sottolinea la 
necessità. Non si può essere più categorici su questo dovere di essere sempre 
felici.
Adalbert de VOGÜÉ, osb
Abbaye 
Sainte-Marie de La Pierre-qui-Vire
F - 89630 ST LEGER-VAUBAN
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30 ottobre 2021   
            a cura di Alberto
"da Cormano"        
      
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