Fulgenzio di Ruspe

A Trasamondo (testo parziale)

 

Estratto da “IL CRISTO” Volume III, a cura di Claudio Leonardi

Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori Editore 2001

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I 12, l [1]. [...] Cristo è dunque il nostro pastore, e noi siamo le sue pecore, come ci testimonia l’autorità dell’apostolo [2]; ma perché potesse pienamente mostrarsi capace di prendere su di sé la nostra natura, non ha sdegnato di essere chiamato pastore ma nemmeno di essere chiamato pecora, e di questo testimonia il profeta Isaia, mosso dallo Spirito santo: «Come una pecora è stato portato al macello e come un agnello dal tosatore, senza una voce, e non aprì la sua bocca» (Is. 53, 7), ed egli stesso dice mediante Geremia: «Io sono stato portato come un agnello innocente per essere ucciso, e non lo sapevo: contro di me fu architettato un cattivo disegno, e dicevano: “Venite, mettiamo del veleno nel suo pane”» (Ier. 11, 19). Di lui anche Giovanni Battista proclama: «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo» (Ev. Io. 1, 29). Cose non diverse su Cristo afferma anche l'apostolo Pietro: «Sapendo che non siete stati redenti dai vostri futili costumi, tradizione dei padri, con l’argento e con l'oro, che si corrompono, ma con il sangue prezioso di Gesù Cristo, quasi un agnello incontaminato e immacolato» (1 Ep. Pet. 1, 18-9). Dunque uno stesso è «il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (1 Ep. Ti. 2, 5), lui che è pastore e insieme agnello, sposo e sposa, sacerdote e vittima, uno stesso è chi fa il dono e chi è divenuto dono, perché il donatore non fosse diverso dalla qualità del dono e il dono non fosse diverso dal merito del donatore.

20, 1. Perciò, se si crede alla verità della nostra salvezza nel Cristo, non si neghi di conseguenza la perfezione indivisa e inconfusa della divina e dell’umana sostanza nel solo mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù; poiché figlio di Dio, generato dalla sostanza del Padre, egli non ha perduto l’eternità della natura divina, quando assunse ciò che era nel tempo per la salvezza eterna di chi è nel tempo; non ha perduto il potere della vera natura divina, lui che ha innalzato la vera natura umana che ha assunto sino al Dio illimitato e inammissibile; né la vera forza poté essere indebolita per avere assunto la nostra debolezza, quella forza che fu capace di togliere via da chi è debole il carattere stesso della debolezza; e nemmeno poté essere imperfetto, lui che donò la perfezione a ciò che era imperfetto; né la divinità di Cristo poté discendere all’inferno come in un luogo, poiché essa sta dappertutto compiutamente, ma senza volume, in modo che nessun luogo sia senza divinità, e insieme nessun luogo possa tuttavia contenerla come in un luogo.

2. Infatti la vera e infinita sostanza di Dio sta tutta, ineffabilmente, nelle singole creature e sta tutta in tutte; non viene diminuita nelle più piccole e non si accresce nelle grandi; non viene chiusa dal tempo, non viene circoscritta dalla quantità, non ha avuto inizio né avrà fine; da Dio l’uomo è stato creato perché fosse giusto, e da lui è stato sollevato senza peccato dopo la sua caduta.

Dunque, poiché la disputa sulla verità del mistero del mediatore non ha lasciato margini di ambiguità (per quanto egli stesso, che è il Verbo del Padre, ha concesso con il dono della sua grazia), e ha mostrato che il medesimo Cristo ha dal Padre per sua natura la più completa divinità ed ha tutta e completa la natura dell’uomo in quanto è uomo, bisogna ora preoccuparsi che alcuni non si lascino offuscare da un errore più grave ancora, di pensare carnalmente le cose di Dio: di confessare che la divinità di Cristo sia venuta dal cielo come in un luogo o che sia discesa all’inferno come in un luogo; e di affermare anche che Cristo ha sofferto nella carne e che la divinità ha anch’essa sofferto [3].

II 7, 1. Cristo ebbe inizio nella sua natura di uomo con la nascita, in cui la madre che lo generò non poteva non avere inizio: così si poteva riconoscere, una volta constatata la verità della natura umana, che la natura divina non poteva aver avuto nessun inizio, poiché come l’eterno Padre non ebbe inizio così non poté avere nessuna nascita. In questo modo Cristo Gesù mostrò in sé la verità dell’una e dell’altra sostanza; nella sostanza dell’uomo-Cristo si trova sostanzialmente, a parte il privilegio della sua singolare dignità, quello che è nell’uomo secondo la sua natura, così nel Dio-Cristo crediamo che sostanzialmente vi sia ciò che nel padre sussiste secondo natura; così che nell’uomo-Cristo si mostra la verità dell’uomo, nello stesso Dio-Cristo si conosce la verità della divinità del Padre; e mentre quella nascita è soggetta ad inizio, in quanto ha la sua sostanza nel tempo da un uomo che è nel tempo, questa nascita è addirittura senza inizio, in quanto sussiste eternamente nella sua sostanza dall’eterno Dio. 2. Il Cristo è per questo senza madre nella sua sostanza divina, perché è generato secondo la sua natura dal solo Padre; ed è senza padre, frutto di una vergine inviolata, che non conobbe l’amplesso del marito; per questo egli, di cui fu scritto: «La sua generazione chi la racconterà?» (Is. 53, 8), è senza genealogia, affinché la vera eternità secondo natura della divina generazione venga riconosciuta, dal momento che la fede ci fa conoscere la vera generazione del figlio di Dio, mentre l’eternità supera ogni parola umana, in quanto la fede si nutre costantemente della fermezza del credere, e la parola umana con la sua audacia viene battuta dall’umile timore della fede. 3. Infatti l’eterno, poiché è divino, senza dubbio è naturalmente vero, perché niente è falso in Dio; poiché non ha avuto inizio e non è stato creato, supera ogni possibilità di conoscenza della natura che ha avuto inizio ed è stata creata, come sorpassa ogni facoltà della parola. O forse dubitiamo di accettare per la sua generazione quello che in verità ascoltammo, circa la pace di Dio, dall’autorità dell’apostolo? Paolo santissimo ci dice infatti: «La pace di Dio, che supera ogni intelletto, custodisca i vostri cuori e le vostre intelligenze in Cristo Gesù» (Ep. Phil. 4, 7).  4. Benché superi ogni intelletto, questa pace è tuttavia vera, eterna e a lui naturale: perché allora della sua generazione che supera certamente ogni intelletto si nega la vera natura, la sua infinita eternità? Dove c’è la pace eterna, si creda che c'è anche l’eterna nascita; e se si deve credere alla sua eterna nascita, non si neghi la sua immensa maestà, poiché non è racchiuso in un limite naturale ciò che non ha avuto un inizio per nascita, e perciò si riconosce immensa quella sostanza, la cui nascita, sebbene sia vera, è tuttavia priva di inizio.  5. Ciò che è circoscritto da un limite, infatti, necessariamente è dentro il tempo o lo spazio. Ma in che modo si crede che abbia creato il tempo e lo spazio se lo si pone dentro il tempo e lo spazio? Per mezzo di lui ogni spazio è stato creato, perché «tutte le cose sono state fatte per suo mezzo e senza di lui non è stato fatto niente» (Ev. Io. 1, 3). E per mezzo di lui si conosce anche il tempo che è stato fatto, come dice Paolo [4]: «Un tempo Dio ha parlato ai padri nei profeti nei modi più diversi; ma in questi ultimi tempi ci ha parlato nel Figlio, che ha costituito erede di tutto e per mezzo del Figlio ha fatto anche i secoli» {Ep. Hebr. 1, 1-2).  6. Non è certo nello spazio colui per mezzo del quale lo spazio è stato fatto, come non è nel tempo colui per mezzo del quale è stato fatto il tempo; se fosse nello spazio colui che ha fatto lo spazio, è anche certo che ogni cosa che ha uno spazio è nello spazio; si deve allora ritenere, conseguentemente, che prima sarebbe stato nello spazio e così poi avrebbe potuto crearlo. Ma io chiedo: questo spazio, in cui si sostiene che sia stato il figlio di Dio, è anteriore o coevo ai Figlio? Se alcuni lo ritengono anteriore al Figlio, considerino a quale abissale affermazione d’empietà vanno incontro, poiché al creatore di tutte le cose antepongono una cosa creata. E mentre ricorda che tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui (cfr. Ev. Io. 1, 3), Giovanni non avrebbe detto nessuna verità (che ciò non sia!), se una qualche cosa creata avesse preceduto il creatore. 7. In che modo infatti poté creare lo spazio, colui che non poté essere prima dello spazio o senza di esso, se così è stato fatto? Riflettano dunque con grande attenzione, perché essi sembrano dare allo spazio l’infinità dell’eterno, che cercano di togliere al figlio di Dio. Se affermano perciò che il figlio di Dio è nato non senza un inizio, dal momento che l’evangelista Giovanni dice: «In principio era il Verbo» (Ev. Io. 1, 1), e non dice: «Prima del principio era il Verbo»; coloro che sostengono che lo spazio era prima del Verbo, necessariamente dicono che lo spazio fu anche prima del principio; perché pensano che ciò che fu prima del Verbo non abbia avuto principio. Se poi lo spazio non ha avuto principio, esso è senza possibilità di dubbio coeterno all’eterno Padre.  8. E poiché l’eterno non può essere diverso dall’eterno, quell’empietà raggiunge una assurdità tanto grande da dover ritenere o che Dio abbia uno spazio o che lo spazio sia ciò che è Dio o ancora che lo spazio sia un principio senza Dio, che per la sua eternità continui secondo la sua natura ad essere ingenerato. Ma queste cose non si credono senza empietà, e per questo non si deve affermare né che lo spazio è anteriore al Figlio, ma neppure che gli è coevo. A colui per mezzo del quale «tutte le cose sono state fatte» (Ev. Io. 1, 3), non è possibile anteporre nessun fatto, e neppure porlo sullo stesso piano: colui che ha disposto tutte le cose secondo la loro quantità, il loro peso e la loro misura (cft. Sap. 11, 21), non può essere numerato mediante il tempo e misurato mediante lo spazio. Per questo nel Salmo si canta con piena verità: «Grande è il Signore Dio nostro, grande è la sua forza, e la sua sapienza non si può contare» (Ps. 146, 3).  9. E in altro luogo si dice, per mostrare l’infinita immensità di questa indivisibile eternità: «Grande è il Signore e molto lodevole, e la sua grandezza è senza fine» (Ps. 144, 3). E invero è necessario che venga dichiarato immenso per natura ciò che è per natura eterno, perché ciò che è sempre non è contenuto in un numero e ciò che è intero ovunque non è chiuso in uno spazio, e per questo si dice della sapienza in un’altra testimonianza della Scrittura: «Si estende dappertutto per la sua purezza» (Sap. 7, 24), e poco dopo: «Si estende con forza da un’estremità all’altra, e dispone tutto con dolcezza» ( Sap. 8, 1). Qui, avendo udito che la sapienza si estende da un’estremità all'altra, bisogna intendere senza dubbio che, estendendosi da un’estremità all’altra, essa con l’immensità della sua infinità le supera entrambe. Infatti può estendersi fino ai limiti della creatura solo colui che la creatura pur nella sua totalità non può contenere; e come riempiendo il cielo permane nella sua immensità, così estendendosi da un’estremità all’altra resta infinito. «Si estende con forza da un’estremità all’altra» corrisponde infatti a quanto è detto con le parole di Geremia: «Io sono un Dio che si avvicina e non un Dio da lontano. Se un uomo si nasconde nel segreto, forse io per questo non lo vedrò? Non sono forse io che riempio il cielo e la terra?» (Ier. 23, 23-4).

III 3, l [5]. Questo vero Dio e vita eterna, «essendo nella forma di Dio non ritenne una rapina essere eguale a Dio, ma annichilì sé stesso prendendo la forma del servo» (Ep. Phil. 2, 6-7); essendo vero Dio non rapì questa eguaglianza con il vero Dio, che eterno possedeva con il padre per l’unità della natura. Perciò l’unigenito figlio di Dio rimase pieno di grazia e di verità anche quando annichilì sé stesso prendendo la forma del servo. «Abbiamo visto», dice Giovanni, «la sua gloria, la gloria quasi dell’unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità» (Ev. Io. 1, 14).  2. Ciò si può con certezza dire perché nello stesso che annichilisce sé stesso ed è insieme pieno di grazia e verità, si mostra la verità dell’annichilimento volontario, una volta accettata la forma del servo, mentre la forma di Dio, che permane eterna, mostra la pienezza della grazia e della verità. Che cos’è allora questo annichilimento dell’unigenito, se non l’umanità passibile e mortale accolta da Cristo? Cos’è la pienezza dell’unigenito se non la divinità di Cristo che permane impassibile e immortale? In lui l’uomo perfetto è pieno di grazia, in lui il perfetto Dio è pieno di verità; e per mostrare che questo nome di pienezza è senza dubbio proprio della divinità, ascoltiamo l’apostolo Paolo che parimenti dice di Cristo: «Poiché in lui abita ogni pienezza di divinità corporalmente, anche voi siete fatti pieni in lui» (Ep. Col. 2, 9-10).  3. Quale sia la pienezza di divinità che abita nel Cristo, lo dichiara Giovanni quando dice: «Il Verbo si è fatto carne e abitò tra noi» (Ev. Io. 1, 14). E Giovanni il Battista ci assicura che noi abbiamo ricevuto da questa pienezza: «E dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto, e grazia su grazia» (Ev. Io. 1, 16).

6, 1. Uno solo e medesimo è il Cristo, figlio di Dio e figlio dell’uomo, che annichilì sé stesso e rimase pieno di grazia e di verità, fatto realmente mutevole rimanendo immutabile, realmente sofferente non sottostando alla sofferenza, realmente morto non provando la morte, ma uccidendola. Tutte queste cose Cristo, lui solo, fece e realizzò, perché nell’uno e solo Cristo rimase la vera natura della divinità e la vera natura dell’umanità, e Dio non fu confuso con l’uomo ma a lui unito, così che in una sola persona mostrò la presenza di tutte e due le nature, affinché il vero e pieno Dio splendesse con tutte le sue facoltà divine nell’uomo assunto e la vera debolezza umana mostrasse in Dio il vero e pieno uomo [6].  2. Perciò l’apostolo Paolo chiama Cristo uno e medesimo e crocefisso e lo dice nello stesso tempo la forza e la sapienza di Dio: «Ma noi predichiamo Cristo crocefisso, scandalo invero per i giudei, stoltezza per i gentili, ma per coloro che sono stati chiamati, giudei e greci, un Cristo che è la forza e la sapienza di Dio» (1 Ep. Cor. 1, 23-4), e aggiunge, per mostrare la grandezza del potere divino nella debolezza dell’umano che aveva assunto: «Ciò che è stolto di Dio è più sapiente della sapienza umana e ciò che è debole di Dio è più forte della forza umana» (1 Ep. Cor. 1, 25). Il figlio di Dio, che è il potere di Dio e la sapienza di Dio, all’inizio della nostra redenzione, compì nell’uomo qualcosa di diverso da quello che aveva sempre nel Padre, perché altra cosa qui fu costituita dalla maestà della nascita, altra cosa là richiese la misericordia per la redenzione. In quel mistero della nascita eterna infatti l’eterno e immutabile Padre generò un altro a lui non diverso; e quanto grande egli si fece vedere con questa generazione, tanto grande egli rimase, e distinse secondo la persona colui che totalmente ha in sé secondo la natura. È questo che ci viene manifestato dalla parola stessa del Figlio che afferma: «Io sono nel Padre e il Padre è in me» (Ev. Io. 14, 10).  3. Senza confusione dunque la natura li unisce entrambi, benché la persona inseparabilmente li distingua, come testimonia il Figlio stesso: «Io e il Padre siamo una sola cosa» (Ev. Io. 10, 30). Così quando dice «una sola cosa», la divinità non viene separata da Dio; quando dice «siamo», il nato non si confonde con il genitore.

7, 1. Mentre si realizzava l’evento della nostra redenzione, conveniva che il Dio vero e pieno si unisse al vero e pieno uomo, ma in modo che nell’unità della persona non potessero essere confusi Dio nell’uomo e l’uomo in Dio. Infatti nessun uomo sarebbe stato capace di vincere il nemico del genere umano, se nel mediatore tra Dio e gli uomini, nell’uomo Cristo Gesù, ci fosse stato un uomo diminuito oppure se l’uomo assunto da Dio fosse stato consumato dalla assunzione divina. Ma la natura umana non poteva essere consumata nell’opera di riparazione dalla colpa, senza che la sua parte condannata non fosse consumata dall’eternità della pena.  2. Poiché del castigo è proprio il consumare, della grazia il rinnovare, occorre ritenere che il redentore del genere umano è veramente Dio, che assume pienamente l'uomo, che è pieno di quella grazia per cui Dio si è degnato di diventare uomo, e pieno di quella verità per cui lo stesso Dio, che si è fatto uomo, rimane tale senza alcun cambiamento, come aveva già detto per mezzo del profeta: «Vedete che io sono e non cambio» (ved. Mal. 3, 6); ed anche Paolo ricorda che il beato Davide aveva cantato così: «Tu li cambierai, e saranno cambiati; ma tu invece sei sempre lo stesso» (Ep. Hebr. 1, 12; cfr. Ps. 101, 27- 8).  3. Uno solo e lo stesso Cristo, dunque, per il fatto che è pieno di grazia, non ha una natura umana diminuita, è pienamente uomo nato da uomo; per il fatto che è pieno di verità, non ha una paternità divina diminuita, è pienamente Dio generato dal Padre. Infatti non era pieno di grazia l’unigenito del Padre, se nel figlio di Dio c’era un uomo diminuito, e non era pieno di verità, se nello stesso figlio dell’uomo c’era una divinità diminuita. Così l’ineffabile Dio, generato senza inizio dal Padre secondo la natura quando «venne la pienezza dei tempi» (Ep. Gal. 4, 4) [7], mandato dal Padre perché divenisse uomo da una donna e fosse soggetto alla legge (cfr. Ep. Gal. 4, 4) [8], «affinché salvasse coloro che erano soggetti alla legge, e ricevessimo l’adozione a figli di Dio» (Ep. Gal, 4, 5), era completamente re nel seno del Padre [9], e completamente formatosi nell’utero della vergine.

8, 1. Non è infatti che una parte di lui sia rimasta nel Padre e una parte sia discesa nella vergine: tutto rimase nel Padre come era prima, e tutto divenne nella vergine come prima non era; tutto rimase con il Padre, compiendo ogni cosa e contenendo il mondo, tutto divenne nell’utero della vergine, costruendo la sua casa (è infatti scritto: «La sapienza costruì la sua casa» [Prov. 9, 1]), tutto nell’eterno Padre e tutto nell’uomo assunto, tutto nel cielo e tutto nel mondo, tutto anche all’inferno. Così il vero e sommo Dio accolse in sé tutto l’uomo, e così la pienezza della divinità congiunse sé stessa pienamente all'uomo, pur restando in verità inconfuse la sostanza divina e la sostanza umana, mentre rimaneva in eterno l’unità della persona, così che l’uomo-Cristo non potesse essere diviso dalla sua divinità e neppure Dio-Cristo potesse essere diviso dalla sua umanità.  2. Ciò richiedeva del resto la guarigione della nostra malattia, perché come l’unità della natura rimane nel Padre e nel Figlio, così l’unità della persona rimanesse nel Cristo, e come la distinzione delle persone non dà luogo a due sostanze nel Padre e nel Figlio, così la distinzione delle nature non desse luogo nel Cristo a due persone; e come l’unità della natura non confonde il Padre e il Figlio, così l’unità della persona non potesse confondere l’uomo e il Verbo; e come per l’unità della natura l’unigenito Figlio non può essere mai diviso da Dio padre, così per l'unità della persona l’uomo assunto non potesse mai essere separato dal Dio che lo ha assunto; così benché Cristo non si potesse mai confondere né dividere, ci fu un solo e medesimo Cristo sia nella realtà della passione umana, perché punisse le cose che erano dell’uomo, sia nella realtà dell’impassibilità divina, perché ci fossero date le cose che erano di Dio, per far sì che mentre si faceva povero pur restando intatte le sue ricchezze, Cristo ci facesse diventare da poveri ricchi, dandoci le infinite ricchezze della sua povertà.  3. Tutto questo l’uomo scelto da Dio [10] sembra denunciare quanto dice: «Voi conoscete la grazia del nostro signor Gesù Cristo, perché egli si è fatto povero per voi mentre era ricco, perché con la sua povertà voi foste ricchi» (2 Ep. Cor. 8, 9). Tutto questo compì l’unità inseparabile della persona nella quale Dio e l'uomo è un solo Cristo, così da permettere che l’uomo-Cristo nascesse per grazia da Dio, rimanendo intatta la realtà e la pienezza della natura umana, e da permettere che lo stesso Dio-Cristo soffrisse volontariamente nella carne, intatta rimanendo l’impassibile pienezza della sostanza divina. Come è uno solo colui di cui parla l’apostolo Paolo: «I padri (degli ebrei), da cui Cristo è nato secondo la carne, lui che è Dio sopra ogni cosa, benedetto per tutti i secoli» (Ep. Rom. 9, 5), così è uno solo colui di cui ancora Paolo afferma: «Benché infatti sia stato crocefisso nella sua debolezza, tuttavia egli vive per potere di Dio» (2 Ep. Cor. 13, 4).  4. Uno solo è dunque il Cristo: in lui crocefisso fu la debolezza della carne, in lui vivente splendette il potere della vera divinità; ciò è insieme umano, perché Dio lo possiede nella realtà della natura umana, ed è divino, perché l’uomo lo possiede nella realtà della sostanza divina. Per questo di Cristo si può dire che è imprendibile anche se preso sulla croce, inviolabile anche se violato nelle ferite, impassibile anche se condannato a patire, immortale anche se ha conosciuto la morte.



[1] Nel primo libro (de mysterio mediatoris), dopo un'introduzione in cui si rivolge a re Trasamondo, elogiandolo per il suo desiderio di conoscere la verità su Cristo, Fulgenzio affronta il problema capitale dell’arianesimo, il mistero dell'incarnazione di Dio nel Figlio, ed esamina varie eresie in proposito; presenta infine una serie di passi della Bibbia per mostrare come Cristo si sia presentato sia come Dio sia come uomo (scegliamo I 12, 1-2) per concludere con l’affermazione di Cristo mediatore (I 20, 1-2).

[2] Pietro (1 Ep. Pet. 2, 25) citato poco sopra (a 11, 2).

[3] A questo punto Fulgenzio annuncia i temi (e i titoli) degli altri due libri della sua opera: de immensitate divinitatis filii Dei, tema tipicamente anti-ariano, perché si vuole affermare la piena divinità del Verbo; e de sacramento dominicae passionis. A II 1-6 Fulgenzio espone all’interno del problema trinitario la perfetta figliolanza divina del Cristo in parallelo con quello del Verbo, per venire poi a parlare della sua nascita come uomo. Il passo precedente a quello che ora si tradurrà, dice: «Infatti il figlio di Dio, per portare il nostro intelletto dalle cose visibili alle invisibili, mostrò in sé la verità della natura umana, affinché si credesse conseguentemente che egli era per natura vero Dio dalla natura del vero Dio e per natura vero uomo in quanto nato dall’uomo» (II 6,5).

[4] Per tutto il Medioevo si è ritenuto che la lettera agli Ebrei fosse stata scritta dall’apostolo Paolo.

[5] Nel terzo libro Fulgenzio affronta il problema della morte di Cristo: egli deve trovare una linea in cui la duplicità della natura spieghi la mortalità di Cristo, salvando insieme la divinità della persona. Mentre il primo aspetto viene ampiamente dibattuto (qui diamo alcuni dei capitoli centrali di questa prima sezione del libro), più lungamente ma anche con qualche incertezza egli illustra l’impassibilità di Cristo-Dio.

[6] Si veda anche in questo passo il debito che Fulgenzio ha con il concilio di Calcedonia e la sua fedeltà al dettato conciliare (cfr. M. Simonetti, Il Cristo II, Milano 1986, pp. 442-5).

[7] Il concetto è neotestamentario: cfr. Ev. Marc. 1, 15, Ep. Gal. 4, 4 (che qui Fulgenzio cita), Ep. Hebr. 9, 26 e 1 Ep. Pet. 1, 20: la venuta di Cristo è il vertice del tempo; dopo di lui inizia la consumazione del tempo, fino alla fine.

[8] Sub lege indica di nuovo l'economia dell’Antico Testamento, e precisamente dei tempi dopo Mosè, quando la sua legge fu la norma per il popolo ebraico.

[9] Fulgenzio ricorda Ev. Io. 1, 18 unigenitus filius qui est in sinu Patris.

[10] Vas electionis, «il vaso della scelta», cioè l’uomo su cui si è fatta la scelta: così è definito Paolo in Act. Ap. 9, 15.



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21 aprile 2022   a cura di Alberto "da Cormano"   Grazie dei suggerimenti   alberto@ora-et-labora.net