Regola di san Benedetto

LA FEDE

Prologo: 21 Armati dunque di fede e di opere buone, sotto la guida del Vangelo, incamminiamoci per le sue vie in modo da meritare la visione di lui, che ci ha chiamati nel suo regno... 49 Mentre invece, man mano che si avanza nella vita monastica e nella fede, si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall'indicibile sovranità dell'amore.
II - L'Abate: 2 Sappiamo infatti per fede che in monastero egli tiene il posto di Cristo, poiché viene chiamato con il suo stesso nome, 3 secondo quanto dice l'Apostolo: "Avete ricevuto lo Spirito di figli adottivi, che vi fa esclamare: Abba, Padre!"
XIX - La partecipazione interiore all'Ufficio divino: 1 Sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto e che "gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi", 2 ma dobbiamo crederlo con assoluta certezza e senza la minima esitazione, quando prendiamo parte all'Ufficio divino.

 


"MAN MANO CHE PROGREDIAMO NELLA VITA MONASTICA E NELLA FEDE"

Prologo della Regola di san Benedetto (RB) 49

John Kurichianil, osb.,

Abate di Kappadu et Presidente dell’ISBF (Confederazione Benedettina Indo Sri-Lankese)

Estratto e tradotto dal “Bollettino n. 84” dell’“Alliance InterMonastère” (oimintl.org) 2005

 

L'obiettivo della vita monastica è quello di vivere la vita cristiana nel modo più perfetto possibile. Essa prende sul serio l'appello di Gesù al giovane ricco: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo: e vieni! Seguimi!" (Mt 19,21) La vita cristiana è soprattutto una vita di fede. Ne consegue che la vita monastica è necessariamente una vita di fede, ancor più della vita cristiana.

Infatti, man mano che si progredisce nella vita monastica e nella fede, il cuore si espande e si corre sulla via dei comandamenti di Dio con l'ineffabile dolcezza dell'amore. "In latino:" Processu vero conversationis et fidei, dilatato corde, inenarrabili dilectionis dulcedine curritur via mandatorum Dei" (RB Prol. 49). Questo versetto è certamente uno dei più importanti di tutta la Regola. Esso riunisce diversi termini e idee che sono cari al cuore di San Benedetto, troviamo qui una presentazione molto positiva e confortante della vita monastica.

 

Fede e conversione: la vita monastica è una conversione permanente. In primo luogo c'è la parola “conversatio” che si traduce come “vita monastica”. Questo termine appare 10 volte nella Regola. C'è anche il termine “convertere” 4 volte. L'uso di questi due termini mostra chiaramente che San Benedetto considera la vita monastica come una conversione, una vita di conversione. Questa conversione inizia non appena si entra nel monastero. Nella professione, ci impegniamo a vivere una vita di conversione fino alla morte. La fedele osservanza della Regola consente di raggiungere "un inizio di vita monastica" ("initium conversationis" RB 73,1), ma c'è sempre la possibilità per il monaco di "affrettarsi verso la vita monastica perfetta" ("ad perfectionem conversationis qui festinat" RB 73,2). Questa comprensione della vita monastica come vita di conversione è implicita anche quando la Regola dice che "la vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale" (RB 49,1). La stessa idea è implicita anche nel Prol 35-38: " Dopo aver concluso con queste parole il Signore attende che, giorno per giorno, rispondiamo con i fatti alle sue sante esortazioni. Ed è proprio per permetterci di correggere i nostri difetti che ci vengono dilazionati i giorni di questa vita secondo le parole dell'Apostolo: "Non sai che con la sua pazienza Dio vuole portarti alla conversione?" Difatti il Signore misericordioso afferma: "Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva". " Secondo RB 7,30 il Signore" è misericordioso e aspetta la nostra conversione". E due strumenti delle buone opere indicano un modo molto efficace di vivere quotidianamente questa conversione: "confessare a Dio ogni giorno nella preghiera con lacrime e gemiti le colpe passate e, inoltre, correggersi per queste colpe" (RB 4,57-58). La conversione è la risposta della fede. La conversione è allontanarsi da tutto il resto, da tutti, compresi se stessi, e rivolgersi a Dio, come il re Ezechia (Is 38,2-3). Rinunciamo a riporre la nostra fiducia in tutto il resto e riponiamo la nostra fiducia in Dio solo. Questa è la fede. Così la fede è la risposta alla chiamata di Dio in ogni momento della vita (Prol 9, 14, 19). I monaci sono coloro che si impegnano a questa risposta di fede o di conversione per tutta la vita.

È quindi naturale che progredire nella vita monastica significa crescere nella fede. Significa sperimentare la conversione a un livello sempre più profondo. È così che il Prol 49 mette insieme "il progresso nella vita monastica e nella fede." Insieme perché in effetti i due vanno insieme. Questo spiega altri due punti che incontriamo nella Regola. Colui che non è in grado o rifiuta di correggersi, nonostante i ripetuti ammonimenti e lascia il monastero, è chiamato "infidelis", cioè non semplicemente "infedele" ma "non credente" (1 Cor 7,15). Per poter comprendere le proprie colpe, accettarle e correggersi in futuro, è necessario avere fede. Colui che rifiuta di correggersi è un miscredente, quasi un pagano. Se convertirsi significa allontanarsi dalle vie del mondo, se è intimamente legato alla fede, allora l'ostinata adesione alle vie del mondo tradisce una mancanza di fede.

 

Fede e apertura del cuore e della mente: Leggiamo anche in questo versetto l'espressione “dilatato corde”. Qui San Benedetto deve certamente tenere presente l'apertura di cuore e di mente a cui il monaco deve normalmente arrivare attraverso la vita monastica e la vita di fede.

Penso ad un episodio della vita di Elia (1Re 19,1-18). Il profeta si mette in cammino verso l’Horeb, il monte di Dio. Quando se ne va è nella paura e nella disperazione, ed è stanco. Tutto ciò dimostra che è scosso nella sua fede. Raggiunto il monte, trova rifugio in una grotta, il che indica la sua ristrettezza di cuore e di mente, che è evidente nelle sue parole nei versetti 10 e 14. Allora il Signore gli comanda: "Esci e fermati sul monte davanti al Signore". Il profeta deve lasciare la grotta per stare davanti a Dio. Solo allora egli può aprire il suo cuore e la sua mente e vedere tutte le cose come Dio le vede.

Tale deve essere l'esperienza del monaco. Finché rimane fragile nella fede, il suo cuore e la sua mente rimangono stretti, chiusi. Non deve mai smettere di uscire da questo atteggiamento. Egli deve stare sul monte dove egli sarà in grado di vedere tutte le cose alla maniera di Mosè guardando il paese di Canaan. Questo simbolismo è infatti evidente nella scelta tradizionale delle montagne per costruire monasteri benedettini, una tradizione che risale allo stesso San Benedetto. Stare davanti al Signore significa soprattutto essere connessi a Dio nella preghiera. È anche "camminare davanti a Dio" (Gen 17,1; Is 38,3), per vivere una vita che piace a Dio, per vivere sempre alla sua presenza. È camminando davanti a Dio, stando davanti a lui, vivendo sempre alla sua presenza (RB 7 e 19) che il monaco cresce nella fede. È attraverso questo costante contatto con Dio, specialmente nella preghiera - il più grande esercizio della fede - che il cuore del monaco si trasforma gradualmente secondo il cuore di Dio (1Sam 13,14; Mt 11,29) e che egli comincia a partecipare alla grandezza e all'apertura del cuore di Dio. Egli comincia a vedere gli eventi, le cose e le persone come Dio li vede. Il suo cuore diventa capace di contenere tutto l'universo, tutti gli uomini. Come San Benedetto il monaco è ora in grado di "vedere il mondo intero in un raggio di luce"; e questo raggio ovviamente viene da Dio. Egli è ora in grado di onorare tutti gli esseri umani (RB 4,8). Non ha odio per nessuno (4,65), ama anche i suoi nemici (4,31) e prega per loro (4,72). Ha potuto vedere Cristo in ogni uomo (RB 2,2; 36,1; 53,1, 7,15; 63,13). Grazie alla vita monastica, grazie alla sua vita di fede, il monaco diventa come il Padre celeste (Mt 5,43-48).

 

Fede e amore: credere è una questione di cuore e amore. Il termine cuore (“cor”) compare frequentemente nella Regola (31 volte). Nella Bibbia, il cuore significa il centro della persona umana, la fonte di tutte le attività umane, l'origine di tutti i sentimenti, pensieri, parole e azioni (1Sam 16,7; Ger 9,29; 15,16; 17,9; 31,33; Ez 3,10; 36,26; Mt 12,34; Mc 7,20-23). A questo proposito è interessante notare che l'espressione "dal cuore dell'uomo" in Mc 7,21 è parallela all'espressione "dall'uomo" in Mc 7,20. (Ndt: 20 Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. 21 Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male. (Mc 7,20-21) Il termine ha le stesse implicazioni anche nella Regola (Prol l, 10, 26; cap. 2,12; 4,24,28; 5,17; 7,3,18,37,48,51,65; 20,3; 39,9; 52,4). Il cuore è anche il simbolo dell'amore (Dt 6,5; Mt 22,37; Mc 12,30; Lc 10,27; Fil 1,7). La Regola usa anche questa parola nello stesso senso in 4,1; 7,51. Nel nostro testo non abbiamo solo la menzione del cuore, ma troviamo anche il termine amore ("dilatato corde, inenarrabili dilectionis dulcedine" Prol. 49). San Benedetto vede un'intima relazione tra fede e amore. È quando cresciamo nella fede che il cuore si espande e che sperimentiamo la dolcezza dell'amore. Crescere nella fede e crescere nell'amore vanno di pari passo. Ne consegue che crescere nella fede è impossibile per una persona che non è in grado di amare, o che ha smesso di amare. Ne consegue anche che credere non è una semplice questione di intelligenza; è soprattutto una questione di cuore. O meglio, credere è sia un atto dell'intelletto che del cuore. Per crescere nella fede, il cuore e la mente devono essere risvegliati.

 

Credere è correre: nel Prol 49 troviamo la parola “progresso” (Lat. Processus), un hapax (parola che ricorre una sola volta) nella Regola, e “correre”, che si trova anche nel Prol 13, 22, 44; cap. 27,5; 43,1. Possiamo confrontare i termini “festinare”, per affrettarsi, (RB 73,2.8) e “festinatio”, la fretta (RB 43,1) e “ambulare”, camminare (RB 5,12; 7,3). Questo significa che la vita monastica, la vita di fede, è come un cammino, dobbiamo andare avanti. È in perfetta consonanza con la Bibbia, in particolare con la comprensione della vita cristiana in San Luca, San Giovanni e San Paolo. Luca considera la vita pubblica di Gesù come un viaggio dalla Galilea a Gerusalemme (Lc 9,51,53; 13,22; 17,11; 18,31; 19,11,28). Negli Atti degli Apostoli si tratta di nuovo di un cammino, quello della Parola di Dio, che inizia a Gerusalemme e arriva fino ai confini della terra (At 1,8). Questo cammino della Parola è reso possibile grazie agli Apostoli, specialmente Paolo, che sono tutti presentati come missionari itineranti. La vita cristiana essendo un'imitazione di Cristo è anche un cammino, seguire Gesù nel suo cammino (Lc 9,57-62). Luca è così eccitato da questa comprensione che quasi identifica la vita cristiana con il termine "via"(Luca 9,51,53; 13,22; 17,11; 18,31; 19,11,28). Il Vangelo di Giovanni parla della vita cristiana, della vita del discepolo, come di un cammino con Gesù (Gv 6,66), dobbiamo evitare di camminare nelle tenebre (Gv 8,12; 12,35) o nella notte (Gv 11,10), camminando durante il giorno (Gv 11,9), nella luce (Gv 12,35). La vita cristiana è anche una corsa verso Gesù (Gv 20,4), è necessario andare o venire da Gesù (Gv 1,39,47 ; 3,2,21 ; 4,30 ; 5,40 ; 6,35,37,44,45,65 ; 7,50 ; 10,41). Più di ogni altro autore del Nuovo Testamento, San Paolo considera la vita, sia cristiana che missionaria, come una camminata o una corsa. "Camminare" si riferisce alla vita cristiana in generale (Rm 6,4; 8,4; 13,13; 14,15; 1 Cor 3,3; 7,17; 2 Cor 4,2; 5,7; Gal 5,16; Ef 2,10; 4,1,17; 5,2,8,15; Fil 3,17,18; Col 1,10; 2,6; 3,7; 4,5; 1 Ts 2,12; 4,1,12; 2 Ts 3,6,11) e alla vita missionaria in particolare (2 Cor 10,2,3; 12,18). "Correre" si riferisce alla vita cristiana in generale (Rm 9,16; 1 Cor 9,24) e alla vita missionaria in particolare (1 Cor 9,26; Gal 2,2 ; Fil 2: 16; 2 Ts 3:1). Nella RB "correre" contiene più dell'idea di progresso o di movimento o di viaggio. Due testi paolini ci metteranno in pista. In 1 Cor 9, 26-27, "far pugilato" è parallelo a "correre". Nel versetto 27 questi verbi sono sostituiti dai verbi “trattare duramente” e “mantenere sottomesso”, con il corpo come oggetto. In Fil 3:12-14 “Correre” significa “correre in avanti”, “essere teso in avanti”. Così il verbo esprime l'idea di uno sforzo sostenuto, di una lotta costante, per raggiungere un obiettivo. Questo è quasi equivalente al tema del "combattimento" (cf. Ef 6,10-17) Il termine ha implicitamente lo stesso significato nella Regola. La vita monastica è una lotta continua. È uno sforzo verso un obiettivo. Prol 2 parla della "fatica dell'obbedienza". Tutta la vita monastica è una prolungata “fatica“ e la Regola chiama il monaco un “lavoratore”, operarius (Prol 14; 7,49,30). La lotta è anche nella Regola: “pugna”, battaglia o lotta, in RB 1,5, in riferimento alla vita dell'eremita. Il termine "militare" (combattere, fare la guerra) si trova in Prol 3,40; 1,2; 58,10; 61,10 e il termine "militia" (servizio militare) si trova in 2,20. Il monaco è un soldato come i martiri. È evidente a San Benedetto che è attraverso una dura lotta che il monaco progredisce nella vita monastica e nella fede. È altrettanto vero dire che ci si impegna in questa battaglia, si sperimenta questa lotta, secondo il grado della propria fede. Questa corsa, questa lotta, riassume tutto ciò che intendiamo per ascesi monastica. La vita di un monaco è fare la propria salvezza nel timore e nel tremore, cioè in un atteggiamento di fede (Fil 2,12).

 

La fede e il timore di Dio: nella Bibbia incontriamo due tipi di timore, la paura degli uomini e il timore di Dio.

 

La paura degli uomini: la paura dei nemici (Es 2,14; 14,10; 1Re 19,3). Essa è un segno di mancanza di fede. Abbiamo paura perché non abbiamo abbastanza fede in Dio. Ecco perché Dio chiede a coloro ai quali affida una missione speciale, in particolare ai profeti, di essere senza paura. Egli vuole che abbiano una fede forte. Ciò è implicito quando Gesù chiede ai suoi discepoli o agli altri di essere senza paura (Mt 10,26,31; 14,27; Mc 5,36; 6,50; Lc 8,50; 12,4,7,32; Gv 6,20). In Gv 14,1 Gesù disse ai suoi discepoli: “Non si turbino i vostri cuori; credete in Dio; credete anche in me”. Egli chiede ai discepoli di non essere turbati; e l'antidoto alla paura è la fede.

Timore di Dio: è quasi la stessa cosa della fede. In Gen 22,1 - 12 la fede di Abramo è messa alla prova. Il risultato della prova è specificato nel versetto 12 quando l'angelo del Signore dice: "Ora so che temi Dio". Il popolo d'Israele ebbe paura in Es 14,10, poi vide il grande segno compiuto da Dio, così che "temettero il Signore e credettero nel Signore e nel suo servo Mosè" (Es 14,31). Malachia riassume il rapporto di Israele con Dio in questi termini "onorare" e "temere" (Mal 1:6). Atti 10,2 presenta il centurione Cornelio come un "uomo pio e timorato di Dio".

È significativo che il tema della paura sia molto importante nella Regola, ed è certamente legato al tema della fede. “Timere”, temere, si legge 11 volte, “pavere”, temere in 7.22 e “tremere”, tremare in 2.6 e 7.64. I sostantivi "timor", paura, 11 volte "pavor”, paura in Prol 48 e" tremore", paura o terrore in 47,4; 50,7. I due sensi di paura sopradescritti che si incontrano nella Bibbia, li troviamo anche nella Regola. La paura che è mancanza di fede (Prol 48; 7, 67; 11,9; 19,3; 53,21; 64,1,15; 66,4). La paura che è l'espressione della fede (Prol 12,29; 2,36,39; 3,11; 4,44; 5,9; 7,10,11; 31,2; 36,7; 48,20; 65,15; 72,9). Il secondo uso biblico è più comune nella Regola. Nella maggior parte dei casi l'oggetto del verbo "temere" è Dio (Prol 29; 2,36; 7,11; 31,2; 36,7; 65,15; 72,9), e quando esaminiamo le occorrenze del nome "paura" troviamo che nella stragrande maggioranza dei testi è “il timore del Signore", "timor Domini" (Prol 12) o "il timore di Dio", "timor Dei" (RB 3,11; 5,9; 7,10; 53,21; 64,1; 66,4) .

Tutti nel monastero devono avere questo timore di Dio nel loro cuore: l'abate (3,11), il cellerario (31,2), chi accoglie gli ospiti (53,21), il portinaio (66,4), colui che cura i malati (36,7) e tutti i monaci in generale (Prol 12; 5,9; 7,19; 11,9; 19,3; 65,15; 72,9). Un monaco deve essere pieno del timore di Dio e questa paura lo libera da qualsiasi altra paura.

 

Fede e preghiera: Le due sono molto vicine. La Regola dà grande importanza alla preghiera, la preghiera comunitaria in particolare, l'ufficio. Come il popolo di Israele e la comunità dei credenti negli Atti degli Apostoli, anche la comunità monastica è una comunità di preghiera. La Regola chiama questa preghiera comunitaria "ufficio divino", "opus divinum" o opera di Dio, "opus Dei" (7,63; 22,6,8; 43,titolo,3,6,10; 44,1,7; 47,titolo,1; 50,3; 52,2,5; 58,7; 67,2,3). Come per il popolo d'Israele, la preghiera era l'espressione della loro fede nel vero Dio (Es 20,1-5; Dt 5,6-9), così è anche per la comunità monastica.

Troviamo l'espressione "opus Dei", in Gv 6,28-29. La gente chiede a Gesù: "Cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio? e Gesù risponde: "L'opera di Dio è che crediate in colui che Egli ha mandato”. Notiamo il passaggio, dal plurale al singolare nella risposta, e anche la precisione: credere in Gesù è "opera di Dio". Questa è la stessa espressione che la Regola usa per designare la preghiera comunitaria. Questa è, per non dire altro, una chiara indicazione che fede e preghiera vanno sempre di pari passo.

Il cieco dalla nascita che Gesù guarì confessa la sua fede dicendo: "Io credo, Signore "(Gv 9,38) e l'evangelista aggiunge: "e si prostrò". L'implicazione è ovvia: l'adorazione è l'espressione della fede. Lo stesso vale per il monaco: egli crede in Cristo e di conseguenza lo adora. Quando Prol 28 e 4,50 parlano di spezzare "i pensieri malvagi" contro la roccia di Cristo, significa sicuramente vincere la tentazione grazie all'aiuto di Cristo, pregando Cristo. Se la Regola richiede che Cristo sia adorato negli ospiti (53,7), la preghiera liturgica, la preghiera comunitaria è certamente l'adorazione di Cristo.

Ne traggo un'altra conclusione: la Regola chiede al monaco di "non preferire nulla all'amore di Cristo" (4,21), ma in 43,3 troviamo l'ingiunzione: "Non preferire nulla all'opera di Dio". L'identità dell'espressione non può essere casuale. Ci viene imposta una conclusione importante: la fede in Cristo ci fa amare Cristo più di ogni altra cosa; l'amore ci rende adoratori di Cristo e dà un posto di rilievo alla preghiera comunitaria. In altre parole: trascurare la preghiera comunitaria significa mancare di fede e di amore.

 

Fede e obbedienza: La Regola attribuisce grande importanza all'obbedienza. Nella Bibbia l'obbedienza è legata ai temi della fede e dell'amore. Anche per San Benedetto i tre temi sono collegati. La fedeltà di Israele al Dio dell'Alleanza doveva essere manifestata nella loro obbedienza ai comandamenti. Geremia arriva a dire che Dio non ha mai chiesto sacrifici e che ha fatto una sola richiesta: " Ascoltate la mia voce, e io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo; camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici" (Ger 7,23). Isaia riassume questo messaggio di conversione e di fede con due affermazioni simili, quasi identiche, significative, ma in due testi diversi: "Se obbedirete bene, mangerete i prodotti della terra" (Is 1,19) e "Se non crederete, non vi manterrete" (Is 7,9). Credere e obbedire sono praticamente la stessa cosa. L'obbedienza è l'espressione della fede. Abramo dimostrò la sua fede in Dio con la sua obbedienza (Gen 12,1-4; 22,1-12; Eb 11,8). I profeti dovevano mostrare la loro fede in Dio essendo perfettamente obbedienti a Dio (Ger 1,7; Ez 2,8). Nel Vangelo di Giovanni, il discepolo è colui che crede in Gesù, che ama Gesù e che dimostra la sua fede e il suo amore obbedendogli (Gv 14,15,21,23,24; 14,15). Quando Paolo parla di "obbedienza della fede" in Rm 1,5; 16,26 dobbiamo interpretare "l’obbedienza che è la fede.”

 

San Benedetto comprende l'obbedienza allo stesso modo. La professione monastica è un patto. Il monaco promette di obbedire alla professione per tutta la vita (RB 58,16). Secondo Prol 2, l'unico programma di vita monastica è quello di "tornare" a Dio "attraverso la fatica dell'obbedienza". Come si dice di Gesù in Eb 5,8, anche il monaco deve “imparare l'obbedienza” e questo è difficile. Il maestro dei novizi deve osservare il novizio per assicurarsi che sia "ansioso nell'obbedienza" (RB 58,7). Se succede che l'obbedienza sia difficile, il monaco dovrà "obbedire per amore, confidando nell'aiuto di Dio" (68,5). L'obbedienza perfetta è senza indugio, e questo è possibile solo per "coloro che non hanno nulla di più caro di Cristo" (5,1-2). Questo ci riporta alla comprensione giovannea del rapporto tra fede, amore e obbedienza.

 

Fede e conoscenza: La Bibbia attribuisce grande importanza alla conoscenza. Conoscere Dio è quasi come credere in lui. Da qui la ripetuta lamentela dei profeti: il popolo d'Israele non conosce Dio (Is 1,3; Os 4,1). Questa situazione cambierà con l'istituzione del nuovo patto. Allora "dal più piccolo al più grande" tutti conosceranno il Signore (Ger 31,34). Non è, naturalmente, una conoscenza intellettuale, ma una conoscenza sia della mente che del cuore. Questo è quasi l'equivalente della fede. Questa equazione si trova nel vangelo di Giovanni in modo sorprendente. Ci sono almeno due testi nel Vangelo in cui i temi sono usati in stretto parallelo, dando l'impressione che rappresentino la stessa realtà. In Gv 6,69, parlando a nome dei dodici, Pietro disse a Gesù: "Abbiamo creduto e sappiamo che tu sei il Santo di Dio". In Gv 17,8 Gesù disse al Padre nella sua preghiera, parlando dei discepoli: “Le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato”. È facile vedere che gli oggetti della fede e della conoscenza sono gli stessi in entrambi i testi. Da cui possiamo cautamente trarre la conclusione che, per Giovanni, credere e conoscere sono sinonimi, o almeno inseparabilmente legati. La posizione della Regola è la stessa. San Benedetto chiede al monaco di essere " saggio "(Prol 33; 7,61; 19,4; 27,2; 28,2; 31,1; 40,7; 53,22; 66,1) e non “sciocco” (2:28; 7:59). Incontriamo la "sapienza", sapientia, in RB 21,4 e 64,2. La saggezza qui è la conoscenza divina. Ci sono due modi per il monaco di acquisire questa conoscenza, la lettura orante e l'insegnamento dell'Abate.

1) Lettura orante. Incontriamo il termine "legere", leggere, 26 volte, il termine "lectio", lezione o lettura, 39 volte e l'espressione specifica "lectio divina" in RB 48,1. Il programma giornaliero è organizzato in modo che il monaco abbia abbastanza tempo per la lettura e lo studio personali (8,3 e cap. 48). Si prevede anche di leggere insieme - un fratello legge e gli altri ascoltano (4,55; 9,5,8; 11,2,5,7; 11,2; 38,1; 42,3). La Regola specifica ciò che deve essere letto: "i libri dell'autorità divina, sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, così come i commenti che sono stati dati dai Padri cattolici qualificati per la loro ortodossia" (9,8), "le Conferenze di Cassiano o le Vite dei Padri o qualcos'altro che può edificare gli ascoltatori" (42,3), "le Conferenze dei Padri, le loro istituzioni e le loro vite, così come la Regola del nostro Santo Padre Basilio" (73,5).

2) L'insegnamento dell'Abate (RB 2,5 e seg.). Nel capitolo 64 Benedetto chiede all'Abate di essere “dotto nella legge divina, per conoscere e avere dove trarre le vecchie e le nuove lezioni.” Egli deve condividere la sua conoscenza con i suoi discepoli che, a loro volta, devono assorbirla e diventare "dottori nella legge divina". Ciò significa che la Regola richiede ai monaci di possedere conoscenza. Nutrirà e sosterrà la loro vita di fede, amore e preghiera. Non si sopravvive a lungo nella vita monastica se si abbandona la lettura e lo studio (“lectio divina”). È pericoloso come rinunciare alla preghiera.

 

La fede come fonte di forza interiore: Isaia è il grande profeta della fede. Ne parla in modo molto profondo e accattivante. Al re Acaz e al popolo che aveva molta paura, i cui "cuori tremavano come gli alberi della foresta tremano al vento" (Is 7,2) di fronte ai re di Israele e di Siria che marciavano contro Gerusalemme, il profeta dà questo messaggio: "Fa’ attenzione e sta’ tranquillo, non temere e il tuo cuore non si abbatta" (7,4). In 7,9 è categorico: “se non crederete, non resterete saldi”. Più tardi, quando la nazione cerca l'appoggio militare dell'Egitto contro l'Assiria (31,1-3), il profeta dice loro: "nella conversione e nella calma troverete la salvezza; in una perfetta fiducia sarà la vostra forza" (30,15). Quindi la fede è uno stato di calma e riposo. È uno stato di pace interiore, di assenza di paura che impedisce al cuore di indebolirsi. La fede è quella forza interiore che permette a una persona di stare ferma e senza tremare anche nelle circostanze più ostili e incerte. Questo è esattamente il modo in cui la Regola considera la fede. Il monaco deve poter "partecipare con pazienza alle sofferenze di Cristo" (Prol 50). Nonostante la rigorosa disciplina che fa parte della vita comunitaria, le umiliazioni (opprobria, RB 58,7), le cose dure e amare (dura et aspera, RB 58,8), e nonostante il fatto che il tipo di vita monastica è la via stretta (Prol 48), egli non deve avere paura e fuggire, ma deve perseverare "fino alla morte" (Prol 50). Egli obbedisce "non importa quanto siano duri e contrarianti gli ordini ricevuti, e quand’anche fosse vittima di ogni sorta di ingiustizie; egli sopporta tutto senza stancarsi e senza tirarsi indietro" (RB 7,35-36). Può essere che a volte in obbedienza egli debba fare cose completamente contrarie alla sua volontà o al di là delle sue capacità (RB 68,1-5). Egli deve sempre contare sull'aiuto di Dio e "non disperare mai della misericordia di Dio" (RB 4,74). Tutto ciò richiede una grande forza interiore, uno spirito di pace (Prol 17). E questa forza interiore viene certamente dalla fede. Questo modo di intendere la fede spiega due cose contenute nella Regola.

La Regola è fermamente contraria alla mormorazione: "non lasciare mai che il vizio della mormorazione appaia, per qualsiasi motivo, né nelle parole né in alcun segno" (RB 34,6). Troviamo il verbo “murmurare” in RB 5,17 e seg.; 23,1; 40,8, il sostantivo "murmuratio" in RB 34,6; 35,13; 40,9; 41,5; 53,18, un altro sostantivo "murmurium" in RB  5, 14 e l'aggettivo "murmuriosus" in RB 4, 39. La ragione di questa fermezza è ovvia. Nella Bibbia la mormorazione è sempre espressione della mancanza di fede (Es 14,11-12; 16,2-3; 17,2-3; Nm 11,4-6; 12,1-2; 14,1-3; 16,1-3,12-14; Gv 6,41,52,60-61). Un monaco mormoratore è un uomo senza fede. Infatti la mormorazione non è solo espressione della mancanza di fede, la mormorazione costante distrugge anche la poca fede che si ha.

Per parlare di colui che abbandona la vita monastica, la Regola è severa. Il suo abbandono è "su istigazione del diavolo" (RB 58,28), prende in giro Dio (RB 58,28), è chiamato "malus" (cattivo, RB 28,6) e "infedelis" (incredulo, RB 28,9). Tutte queste espressioni descrivono una persona senza fede. Lasciamo la vita monastica per mancanza di fede o perché l'abbiamo persa. Ci comportiamo come i discepoli di Gesù che hanno trovato il suo insegnamento troppo difficile da seguire (Gv 6,60) e che hanno smesso di seguirlo.

 

Sperimentare ciò in cui crediamo: questo è di grande importanza nella Bibbia. Anna crede nella promessa di Dio fatta attraverso il sacerdote Eli (1 Sam 1,17-18) e sperimenta ciò che crede (1 Sam 1,19-20). Acaz deve credere che Dio proteggerà lui e il suo popolo dall'attacco di Israele e della Siria e che Dio distruggerà i loro piani malvagi (Is 7,4-7). Se crede, ciò che crede si adempirà e sarà stabilito, rimarrà saldo (Is 7,9). Ezechia crede alle parole di Isaia ed è guarito dalla sua malattia (Is 38,5-9).

La stessa cosa la troviamo nei vangeli. Ci sono persone che chiedono segni, ma senza fede. Gesù rifiuta (Mt 12,38-39; 16,1-4; Mc 8,11-12; 15,32; Lc 11,16,29; Gv 2,18; 6,30; 7,3). Ma Gesù compie dei segni per coloro che credono. Al centurione che chiede la guarigione del suo servo Gesù dice: "Va’, sia fatto a te come hai creduto" (Mt 8,13). Ai due ciechi che chiedono di riacquistare la vista Gesù chiede: "Credete che io possa fare questo?"(Mt 9,28). E quando dicono "Sì", egli risponde loro: "Avvenga per voi secondo la vostra fede". Circa la possibilità per i discepoli di compiere dei segni, Gesù dichiara loro: "In verità io vi dico: se uno dicesse a questo monte: “Lèvati e gettati nel mare”, senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avviene, ciò avverrà" (Mc 11,23). Infine, a proposito della preghiera, Gesù dice ai discepoli: "Tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà" (Mc 11,24). Nell'Epistola ai Romani Paolo presenta la fede esattamente allo stesso modo. Abramo credette in Dio "che dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che non esistono" (Rm 4,17). E Abramo sperimentò ciò in cui credeva perché ebbe un figlio, Isacco, “pur vedendo già come morto il proprio corpo” (v. 19). E Paolo continua dicendo che la nostra fede è esattamente la stessa. Crediamo in Dio "che ha risuscitato Gesù nostro Signore dai morti" (v. 24). Questa fede ci permette di sperimentare la risurrezione, di partecipare alla risurrezione di Gesù, non solo nella vita quotidiana della vita cristiana (Rm 6) ma anche nella risurrezione finale (1 Cor 15). Questa comprensione della fede è importante per il monaco. Determina in gran parte la sua esperienza di vita. San Benedetto parla di credere in particolare in tre contesti: a) Il monaco crede che Dio sia presente ovunque (RB 7,23; 19,1), ma soprattutto quando è in preghiera (RB 19,2); b) crede che l'Abate prenda il posto di Cristo (RB 2,2; 63,13); c) deve vedere Cristo nei malati e negli ospiti che vengono al monastero, specialmente nei poveri e nei pellegrini (RB 36,1-2 e 53,1.7,15).

 

Se il monaco è serio su ciò in cui crede, anche lui, come gli uomini e le donne della Bibbia, sperimenterà ciò in cui crede. Se crede veramente che Dio è presente ovunque, sperimenterà questa presenza e sarà in grado di vivere incessantemente in questa presenza divina. Se crede che Dio è presente in modo speciale quando prega, si comporterà di conseguenza e sperimenterà la presenza di Dio e la sua preghiera porterà frutto. Se egli è in grado di vedere Cristo nella persona dell'abate, nella e attraverso la persona e il ministero dell'abate, farà esperienza di Dio Padre (RB 2,1-3.24; 33,5; 49,9), di Cristo Maestro e Pastore (il termine “pastore” è applicato a Cristo in RB 2,39; 27,8 e per l'abate in 2,7-9). Se è in grado di vedere Cristo in ciascuno dei membri della comunità e in tutte le categorie di persone che vengono al monastero, sarà una vera esperienza per lui. Tutti diventeranno per lui una rivelazione di Cristo, che gli permetterà di vedere sempre più la gloria di Cristo e così di crescere sempre più profondamente nella vita di fede, nella vita monastica.


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11 dicembre 2023                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net