Regola di S. Benedetto

 

Capitolo XXXVIII - La lettura in refettorio: 2. Dopo la Messa e la comunione, il lettore che entra in funzione si raccomandi nel coro alle preghiere dei fratelli, perché Dio lo tenga lontano da ogni tentazione di vanità; 3. e tutti ripetano per tre volte il versetto: "Signore apri le mie labbra e la mia bocca annunzierà la tua lode", che è stato intonato dal lettore stesso, ...
10.Prima di iniziare la lettura, il monaco di turno prenda un po' di vino aromatico, sia per rispetto alla santa Comunione, sia per evitare che il digiuno gli pesi troppo, 11. e poi mangi con i fratelli che prestano servizio in cucina e in refettorio.

Capitolo LIX - I piccoli oblati: 1 Se qualche persona facoltosa volesse offrire il proprio figlio a Dio nel monastero e il ragazzo è ancora piccino, i genitori stendano la domanda di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente 2 e l'avvolgano nella tovaglia dell'altare insieme con l'oblazione della Messa e la mano del bimbo, offrendolo in questo modo.... 8 Quanto a coloro che non possiedono proprio nulla, facciano semplicemente la domanda e offrano il loro figlioletto con l'oblazione della Messa, alla presenza di testimoni.

Capitolo LXII - I sacerdoti del monastero: 1. Se un abate desidera che uno dei suoi monaci sia ordinato sacerdote o diacono per il servizio della comunità scelga in essa un fratello degno di esercitare tali funzioni. 2. Ma il monaco ordinato si guardi dalla vanità e dalla superbia ...
5.Conservi sempre il posto che gli spetta in corrispondenza del suo ingresso in monastero, 6. tranne che per il ministero dell'altare, oppure nel caso che la scelta della comunità o la volontà dell'abate l'abbiano promosso in considerazione della sua vita esemplare.

 


 

L'eucaristia nell'interpretazione

dell'evangelista Luca

Anselm Grün O.S.B.

Estratto da “L’eucaristia – Trasformarsi e diventare una cosa sola

Editrice Queriniana 2002


 

Per capire che cosa celebriamo nell’eucaristia, vorrei dare una rapida occhiata al Vangelo di Luca. Luca traduce l’agire di Gesù per il mondo greco e per il suo orizzonte speculativo. I Greci svilupparono le dottrine più importanti della loro filosofia, o passeggiando (i cosiddetti peripatetici) o a tavola (i convivi di Platone). Luca riprende questi due motivi e rappresenta Gesù come divino viandante che scende dal Cielo per camminare in compagnia degli uomini: lungo il cammino, egli spiega loro la sua vita.

Il più bel racconto, a questo proposito, è l’episodio dei discepoli di Emmaus, dal quale risulta in modo chiaro come Luca intenda l’eucaristia. A due discepoli, che stanno fuggendo per la delusione delle loro speranze infrante, Gesù svela il mistero della loro vita. Questa è un’immagine eccezionale della celebrazione eucaristica: noi andiamo a messa, di frequente, come persone che stanno fuggendo da se stesse e dalle delusioni della loro vita. Nella lettura della Parola di Dio, Gesù in persona si unisce a noi e ci spiega la nostra storia personale. Alla luce delle Sacre Scritture, dobbiamo riuscire a capire il motivo per cui tutto è accaduto nel modo in cui è accaduto, qual è il suo significato nascosto e la direzione in cui ci porta il cammino.

Affinché le parole della Bibbia illuminino la nostra vita, è necessaria un’esegesi che sia in grado di tradurre le immagini della Bibbia nella nostra realtà contemporanea. Se noi comprendiamo la nostra vita, possiamo rapportarci ad essa in modo adeguato. Chi non capisce, fugge: e oggi molte persone sono in fuga da se stesse e dalla verità della loro vita. Gesù ci vorrebbe invitare a vedere e a capire la nostra vita alla luce delle sue parole e della sua vicenda, che è liberante e illuminante. Celebrare l’eucaristia significa dare un diverso significato alla nostra vita, sulla base della fede in Gesù Cristo.

Una seconda traccia per la comprensione dell’eucaristia la troviamo nelle numerose narrazioni di banchetti che Luca presenta. La mensa eucaristica è, per Luca, il prosieguo delle riunioni conviviali a cui Gesù ha preso parte durante la sua esistenza, assieme a giusti e ingiusti, a peccatori e a innocenti. In queste riunioni conviviali, Gesù ha reso esperibile per gli uomini la bontà e l’amore di Dio e ha elargito loro dei doni divini, quali l’amore e la misericordia, l’accettazione incondizionata, il perdono dei peccati e la guarigione dalle malattie. Quando Gesù era a tavola con giusti e peccatori, l’atmosfera era piena di gioia e di gratitudine per la vicinanza salvifica e liberante di Dio.

Come i filosofi greci sviluppavano le loro dottrine soprattutto a tavola, così Luca descrive Gesù come il Maestro che annuncia attorno a una tavola i pensieri più importanti del suo messaggio. Con la sua parola ci ricorda di continuo il nucleo divino che possediamo in noi stessi. Il nostro Sé è più importante di quella parte di noi che deve adempiere ai doveri e venire a capo della vita di tutti i giorni. Abbiamo una dignità divina, perché in noi c’è un nucleo divino: il regno di Dio è in noi e noi stessi siamo dimora di Dio. In ciò consiste la nostra essenza, da ciò nasce la nostra dignità.

La prima cena di cui Luca riferisce è quella con i pubblicani e i peccatori (cfr. Lc 5,27). Noi veniamo invitati alla cena dell’amore così come siamo, con tutti i nostri difetti e con tutte le nostre debolezze. Le altre cene si svolgono nella casa di un fariseo. Gesù spiega ai farisei in che cosa consiste il suo annuncio: si tratta dell’amore di Dio, che egli dimostra agli uomini nel banchetto, e del perdono dei peccati che egli promette a noi (cfr. Lc 7,36-50). Poi mostra ai farisei in che cosa essi si sono discostati dall’amore di Dio (cfr. Lc 11,37-54): Gesù delinea una bella immagine dell’eucaristia nella parabola del figlio prodigo, raccontata per motivare la sua presenza a mensa con i peccatori. Noi siamo come il figlio prodigo: ci siamo alienati a noi stessi e abbiamo perduto la patria interiore, abbiamo dilapidato il nostro patrimonio e abbiamo vissuto una vita parallela. Ora tacitiamo la nostra fame con cose di poco conto e stiamo sempre peggio. Nell’eucaristia ci accingiamo a fare ritorno nella casa di nostro padre e intuiamo che là riceveremo ciò che mette veramente a tacere la nostra fame.

L’eucaristia è la mensa gioiosa che il Padre imbandisce per noi, dicendoci: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,24). Perciò dobbiamo prendere parte al banchetto ed essere contenti. Eravamo morti, tagliati fuori dai nostri sentimenti, esclusi dalla vita, abbiamo perduto noi stessi e siamo caduti fuori dal nostro centro, ma nell’eucaristia troviamo la via verso noi stessi e ritorniamo a vivere, celebrando il banchetto della vita. Qui scopriamo chi siamo e qual è il vero fondamento della nostra esistenza, e cioè che siamo amati incondizionatamente da Dio, che Dio ci aspetta e che non è mai troppo tardi per partire e ritornare là dove ci sentiamo veramente a casa.

Prima dell’ultima Cena, Gesù siede a mensa, per l’ultima volta, in casa di un pubblicano di nome Zaccheo: anche noi, come Zaccheo, ci presentiamo con i nostri complessi d’inferiorità, che compensiamo cercando di accumulare più denaro e più proprietà possibili. Soffriamo della nostra inferiorità e desideriamo ardentemente essere amati in maniera incondizionata. Proprio di questo possiamo fare esperienza, come Zaccheo, nell’eucaristia. Durante quella cena, Gesù dice per due volte ‘oggi’: «Oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19,5); e: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Lc 19,9). In tutto il Vangelo di Luca questo misterioso ‘oggi’ ricorre sette volte, che corrispondono ai sette sacramenti: in essi accade oggi ciò che accadde allora. In ogni celebrazione dell’eucaristia ridiventa presente, oggi, ciò che accadde un tempo: Gesù è fra di noi, siede a tavola con noi e ci annuncia la sua Parola. Egli guarisce le nostre malattie: noi ci presentiamo, come Zaccheo, con la nostra carente autostima, ci facciamo avanti come lebbrosi che non riescono a sopportare e ad accettare se stessi, siamo ciechi e paralitici, pieni di zone d'ombra e bloccati dalla paura. Siamo storpi, rassegnati, delusi dalla vita e schiacciati dal suo peso. Nell’eucaristia, Gesù ci risolleva, ci tocca e ci ripete le stesse parole rivolte a Zaccheo:

 

«Oggi la salvezza entra in questa casa, perché anche tu sei figliola di Abramo, perché anche tu hai un nucleo divino» (cfr. Lc 19,9).

 

Luca, riferendo di tanti banchetti, fa capire ciò che avviene nell’eucaristia. Anche per lui, l’eucaristia è innanzitutto memoria dell’ultima Cena fatta da Gesù con i suoi discepoli. Durante quella Cena egli conferì un nuovo significato allo spezzare il pane e al bere al calice: Gesù utilizzò il rito del banchetto pasquale ebraico per affidare ai suoi discepoli un nuovo rito da celebrare in maniera perenne dopo la sua morte perché potessero ricordare il suo amore, e interpretò così in modo nuovo i riti che gli Ebrei celebravano per la festa di Pesah. Lo spezzare il pane indica l’imminente morte in croce, dove Gesù viene ‘spezzato’; essa, però, non significa la catastrofe né il fallimento della sua missione, ma anzi è l’espressione del suo donarsi a noi. Nel pane spezzato egli porge se stesso ai discepoli: questo pane è segno dell’amore con cui egli ci ha amato oltre la morte.

La certezza di questo amore la si ritrova in ogni celebrazione eucaristica: il suo amore è il fondamento su cui possiamo costruire - e la sorgente a cui possiamo attingere - la vita. Gesù dice che il vino è il suo sangue, attraverso il quale viene fondata la nuova alleanza. Il sangue è segno di un amore che si riversa per noi, e la nuova alleanza di cui Gesù parla nell’ultima Cena è il patto dell’amore incondizionato di Dio. L’antica alleanza si basava su un obbligo reciproco: Dio si legava agli uomini, a condizione che essi mantenessero i patti. Ora Dio, nel sangue di Gesù, nell’amore del Figlio fatto uomo, stringe un patto privo di condizioni e si lega a noi per amore, confidando che l’amore - divenuto visibile nel suo donarsi a noi - trasformi i nostri cuori.

La questione, ora, riguarda il modo in cui noi dobbiamo intendere questa azione simbolica di Gesù durante l’ultima Cena. Una speculazione filosofica su come Gesù si può donare nel pane e nel vino non ci sarebbe di grande aiuto; si può invece rendere comprensibile l’essenza della mensa eucaristica partendo dall’esperienza più propriamente umana.

Maria Caterina Jacobelli, un’etnologa italiana che ha scritto anche a proposito del risus paschalis, comprende - come donna e madre - il mistero della Cena del Signore, partendo dall’amore umano:

 

«Chi di noi madri, chi di noi amanti, al contatto con il corpo del proprio figlio neonato o del proprio uomo non ha sentito il bisogno prepotente di farsene cibo? Chi di noi madri non ha desiderato di poter assorbire di nuovo quelle carni uscite da noi? Chi di noi amanti non ha nell’amplesso d’amore segnato con i denti il corpo del proprio uomo o della propria donna? “Ti mangerei di baci”... Chi non ha mai detto o sentito questa frase? Unire a sé l’amato in un’unione di assorbimento totale: divenire cibo, trasformarsi in vita; diventare reciproco nutrimento, per vivere insieme nell’unione più completa, ancora più completa di quella sessuale» (M.C. Jacobelli, Il Risus paschalis, 140).

 

Poiché Gesù voleva mostrare il suo amore in modo concreto a tutti gli uomini e in tutti i tempi, ha istituito la santa Cena, che è testimonianza del suo amore e anche il luogo in cui possiamo sempre farne esperienza con tutti i nostri sensi. Quando, nel pane, mangio e mastico il suo corpo, immagino che esso sia il bacio del suo amore; e quando, nel vino, bevo il sangue che egli per a- more ha versato per me, mi viene in mente la frase del Cantico dei cantici: «Il tuo amore è più dolce del vino» (Ct 4,10).

In molte culture esistono i pasti sacri: in essi diventa realtà ciò che si può intuire ogni volta che si mangia. Ogni volta che mangiamo, diventiamo partecipi dei doni di Dio, dei doni della sua creazione e di quelli del suo amore: in questo senso, possiamo avvertire un po’ della sua bontà e della sua tenerezza. L’eucaristia è il culmine di tutto quello che gli uomini desiderano dalla mensa. Chi gusta un buon cibo e ne gode totalmente, può fare anche in questo esperienza del divenire una cosa sola con Dio. L’eucaristia ci vuol far vedere ciò che succede ogni volta che mangiamo, e cioè che noi diventiamo una cosa sola con il Creatore di tutti i doni. La chiesa nascente ha paragonato l’eucaristia con i pasti sacri che venivano celebrati nei culti misterici dell’antichità. In essi, i partecipanti (mystēs) immaginavano di cibarsi della divinità stessa e di diventare con essa una cosa sola. Nell’atto del mangiare, essi non solo ricevevano la divinità, ma anche si offrivano ad essa. Liberatisi da ogni inibizione, si davano totalmente al cibo onde sperimentare concretamente l’unità con il dio. La mensa rituale è «sposalizio dell’anima umana con la divini» (W. Schubart, Religion und Eros, 135). I mistici cristiani decantano, nella comunione, «la dolcezza del sapore di Dio» (ibid.). Talvolta, alla comunione, noi cantiamo il versetto: «Gustate et videte, quoniam suavis est Dominus» (Gustate e vedete quanto è buono, dolce, piacevole e amabile il Signore).

La comunione è l’esperienza concreta dell’amore di Dio: in ogni eucaristia riceviamo conferma di questo amore che ha raggiunto, in Cristo, il suo massimo splendore, onde vivere di questo amore, immergerci in esso e diventare una sorgente d’amore per gli altri.

 


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19 giugno 2025                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net