Regola di S. Benedetto


Capitolo XXXVIII - La lettura in refettorio:
2. Dopo la Messa e la comunione, il lettore che entra in funzione si raccomandi nel coro alle preghiere dei fratelli, perché Dio lo tenga lontano da ogni tentazione di vanità; 3. e tutti ripetano per tre volte il versetto: "Signore apri le mie labbra e la mia bocca annunzierà la tua lode", che è stato intonato dal lettore stesso, ...
10.Prima di iniziare la lettura, il monaco di turno prenda un po' di vino aromatico, sia per rispetto alla santa Comunione, sia per evitare che il digiuno gli pesi troppo, 11. e poi mangi con i fratelli che prestano servizio in cucina e in refettorio.

Capitolo LXII - I sacerdoti del monastero: 1. Se un abate desidera che uno dei suoi monaci sia ordinato sacerdote o diacono per il servizio della comunità scelga in essa un fratello degno di esercitare tali funzioni. 2. Ma il monaco ordinato si guardi dalla vanità e dalla superbia ...
5.Conservi sempre il posto che gli spetta in corrispondenza del suo ingresso in monastero, 6. tranne che per il ministero dell'altare, oppure nel caso che la scelta della comunità o la volontà dell'abate l'abbiano promosso in considerazione della sua vita esemplare.

 


«Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato»

 

L’Eucaristia nella storia della salvezza

di Raniero Cantalamessa O.F.M. Cap.

 

Estratto da “L'Eucaristia nostra santificazione”,

Ed. Ancora 2014 (Prima edizione 1991)

 

In questa prima meditazione vorrei inquadrare il mistero della cena nell’insieme della storia della salvezza. Dio si è rivelato agli uomini nel contesto di una storia, che, dal suo oggetto e dal suo scopo, viene chiamata “storia della salvezza". Dentro la storia visibile e documentabile del mondo, si svolge, dunque, un’altra storia, il cui filo conduttore non sono, come per la storia umana, le guerre, le paci o le invenzioni dell’uomo, ma sono le “invenzioni” di Dio, i mirabilia Dei; gli interventi meravigliosi e benevoli di Dio. Tutte le operazioni compiute da Dio al di fuori di sé (ad extra), a partire dalla creazione fino alla parusia, fanno parte di questa storia. La venuta di Gesù nell’incarnazione segna in essa un salto di qualità, come quando un fiume arriva a una chiusa e la barca riprende la navigazione a un livello più alto. Tutti i gesti compiuti da Gesù durante la sua vita fanno parte della storia della salvezza: anche il suo silenzio e la vita quotidiana di Nazaret appartengono alla storia! Il suo tempo è “il centro dei tempi” e "la pienezza dei tempi”. Ma la storia della salvezza continua anche dopo di lui e anche noi facciamo parte di essa. La vita di ogni singolo credente, dal battesimo alla morte, è una piccola storia di salvezza; è il microcosmo della salvezza, mentre l’altra storia, quella che va dalla creazione alla parusia, ne è il macrocosmo. La venuta finale di Cristo segnerà, in questa lunga storia, un nuovo salto di livello: questa volta, dalla storia a ciò che è sopra la storia, dal tempo all’eternità, dalla speranza al possesso e dalla fede alla gloria.

Noi viviamo, dunque, nella pienezza dei tempi inaugurata dall’incarnazione, in un punto situato tra un “già” e un “non ancora”. Immaginando la storia della salvezza come una lunga linea che si svolge nel tempo, possiamo indicare ciò che si è “già” realizzato con una linea continua che arriva fino al momento presente, e il ‘‘non ancora” accaduto, ciò che aspettiamo che si compia, con una linea tratteggiata che può interrompersi ad ogni istante, giacché questa notte stessa potrebbe tornare ii Signore.

Ora ci domandiamo: che posto occupa, in questa storia della salvezza, l’Eucaristia? In che punto della linea la dobbiamo collocare? La risposta è: non occupa un posto, ma la occupa tutta! L’Eucaristia è coestensiva alla storia della salvezza: tutta la storia della salvezza è presente nell’Eucaristia e l’Eucaristia è presente in tutta la storia della salvezza. Come in una goccia di rugiada appesa a una siepe, in un mattino sereno, si vede riflessa l’intera volta del cielo, così nell’Eucaristia si rispecchia l’intero arco della storia della salvezza.

L’Eucaristia, però, è presente in tre modi diversi nei tempi, o fasi, che abbiamo distinto nella storia della salvezza: è presente nell’Antico Testamento come figura; è presente nel Nuovo Testamento come evento ed è presente nel tempo della Chiesa, in cui viviamo noi, come sacramento. La figura anticipa e prepara l’evento, il sacramento “prolunga” e attualizza l’evento.

 

1. Le figure dell’Eucaristia

Nell’Antico Testamento, dicevo, l’Eucaristia è presente “in figura”. Tutto l’Antico Testamento era una preparazione della cena del Signore. «Un uomo diede una grande cena»: «Chi è quest’uomo - esclama sant’Agostino - se non il mediatore di Dio e degli uomini Cristo Gesù? “All’ora della cena, mandò a dire agli invitati: Venite, è pronto” (Le 14, 16 s): chi sono gli invitati se non coloro che furono chiamati attraverso i profeti? Sempre, da quando cominciarono a essere mandati, i profeti invitavano alla cena di Cristo. Furono inviati al popolo d’Israele; spesso furono inviati, spesso invitarono, perché al tempo opportuno venissero alla cena» [1].

Questa attesa dell’ora della cena, oltre che dalle parole dei profeti, fu tenuta desta anche mediante delle figure o dei "tipi”, cioè mediante dei segni o riti concreti che, della cena di Cristo, costituivano la preparazione visibile e quasi "l’abbozzo”.

Una di queste figure, ricordata da Gesù stesso, era la manna (cf Es 16, 4 ss; Gv 6, 31 ss). Un’altra figura era il sacrificio di Melchisedek che offrì pane e vino (cf Gen 14, 18; Sal 110, 4; Eb 7, 1 ss). Un’altra ancora il sacrificio di Isacco. Nella sequenza Lauda Sion Salvatorem, composta da san Tommaso d’Aquino per la festa del Corpus Domini, si canta: «Adombrato nelle figure: immolato in Isacco, indicato nell’agnello pasquale, dato ai padri come manna». Tra tutte queste figure dell’Eucaristia, ce n’è una che è più che una "figura”; ne è la preparazione e quasi l’antefatto: la Pasqua! Da essa l’Eucaristia prende il nome, la sua fisionomia di banchetto o cena pasquale; in riferimento a essa Gesù è detto "l’Agnello di Dio”. Già fin dalla notte dell’esodo dall’Egitto, Dio contemplava l’Eucaristia, già pensava a donarci il vero Agnello: «Io vedrò il sangue - dice Dio - e passerò oltre» (Es 12, 13), cioè vi farò “fare Pasqua”, vi risparmierò e vi salverò. I Padri della Chiesa si domandavano, a questo punto, cosa vedesse di tanto prezioso il Signore sulle case degli ebrei, da “passar oltre” e da dire al suo angelo di non colpire, e rispondevano: vedeva il Sangue di Cristo, vedeva l’Eucaristia! In uno dei primi testi pasquali della Chiesa, leggiamo queste parole: «0 mistero nuovo e inesprimibile! L’immolazione dell’agnello divenne salvezza per Israele, la morte dell’agnello divenne vita del popolo e il sangue intimorì l’angelo (cf Es 12, 23). Rispondimi, o angelo: cosa fu a incuterti timore: l’uccisione dell’agnello o la vita del Signore? La morte dell’agnello o la vita del Signore? Il sangue dell’agnello o lo Spirito del Signore? È chiaro cosa ti ha spaventato: tu hai visto il mistero del Signore compiutosi nell’agnello, la vita del Signore nell’immolazione dell’agnello, la figura del Signore nella morte dell’agnello e per questo non hai colpito Israele» [2]. «Quale sarà mai la forza della realtà (cioè della Pasqua cristiana), se già la semplice figura di essa era causa di salvezza?» [3]. Grazie a questa efficacia che avevano in quanto figure dell’Eucaristia, san Tommaso arriva a chiamare i riti dell’Antico Testamento «i sacramenti dell’antica Legge» [4].

Al tempo di Gesù, il rito della Pasqua ebraica si svolgeva in due tempi: il primo tempo era costituito dall’immolazione dell’agnello che avveniva nel tempio di Gerusalemme, nel pomeriggio del 14 Nisan; il secondo tempo era costituito dalla consumazione della vittima, nella cena pasquale che si svolgeva, famiglia per famiglia, nella notte successiva al 14 Nisan. Durante la liturgia della cena, il padre di famiglia, che in quest’unica circostanza era rivestito di una dignità sacerdotale, illustrava il significato dei riti, tracciando ai suoi figli un riassunto della meravigliosa storia di Dio nei confronti del suo popolo. Ai tempi di Gesù, la Pasqua aveva finito per divenire il “memoriale”, non solo dell’esodo dall’Egitto, ma anche di tutti gli altri interventi di Dio nella storia d’Israele: la Pasqua era il memoriale e l’anniversario delle quattro notti più importanti del mondo: della notte della creazione, quando la luce brillò nelle tenebre, della notte del sacrificio di Isacco da parte di Abramo, della notte dell’uscita dall’Egitto e della notte, ancora futura, della venuta del Messia [5].

La Pasqua ebraica era, dunque, un memoriale (secondo la parola di Es 12, 14) ed era anche un’attesa. Il dramma fu che, quando il Messia atteso venne, non fu riconosciuto, ma «fecero di lui quello che vollero», uccidendolo proprio durante una festa di Pasqua. Ma proprio uccidendolo, essi realizzarono la figura, compirono ciò che si attendeva e cioè l’immolazione del vero Agnello di Dio. Mentre, in quei giorni, c’era, come al solito, in Gerusalemme, un gran brulicare di gente venuta per celebrare la Pasqua, nessuno sapeva che in una "sala alta” della città si stava realizzando ciò che da secoli si aspettava. Quando Gesù, dopo aver preso del pane e reso grazie, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19), quella parola «memoria» dovette richiamare immediatamente la stessa parola contenuta in Esodo e far pensare a una nuova istituzione della Pasqua. Difatti, rimane l’antico memoriale, ma è cambiato - meglio, è compiuto - il suo contenuto: d’ora in poi la Pasqua sarà memoriale di un’altra immolazione e di un altro passaggio. «Beata sei tu, o notte ultima, perché in te si è compiuta la notte d’Egitto. Il Signore nostro in te mangiò la piccola Pasqua e diventò lui stesso la grande Pasqua; la Pasqua si sostituì alla Pasqua, la festa alla festa. Ecco la Pasqua che passa e la Pasqua che non passa; ecco la figura e il suo compimento» [6].

 

2. L’Eucaristia come evento

Siamo ormai nella pienezza dei tempi: l’Eucaristia non è più presente ormai come figura, ma come realtà. Non è distrutto o dimenticato il contenuto antico della Pasqua, ma a esso se ne sovrappone un altro infinitamente più importante che lo «invera» e lo sovrasta. La grande novità è tutta racchiusa in questa esclamazione dell’Apostolo: «Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!» (l Cor 5, 7). Per questo l’Eucaristia può essere chiamata «il mistero antico e nuovo: antico per la prefigurazione, nuovo per la realizzazione» [7].

Ma in che cosa consiste, propriamente, l’evento che fonda l’Eucaristia e che realizza la nuova Pasqua? I Vangeli ci danno, su ciò, due risposte diverse, ma complementari, le quali, insieme, permettono di avere una visione più comprensiva del mistero, come una cosa vista da due angolature differenti. La Pasqua ebraica - abbiamo visto - si svolgeva in due tempi e in due luoghi diversi: l’immolazione nel tempio e la cena nelle case. Ebbene, l’evangelista Giovanni guarda di preferenza al momento dell’immolazione; per lui la Pasqua cristiana - e quindi l’Eucaristia - viene istituita sulla croce, nel momento in cui Gesù, vero Agnello di Dio, viene immolato. Egli stabilisce un singolare sincronismo nel suo vangelo: da una parte, sottolinea continuamente l’avvicinarsi della Pasqua dei giudei («mancavano sei giorni alla Pasqua dei giudei», «era il giorno prima della Pasqua», «era il giorno della Pasqua»), dall’altra, sottolinea l’avvicinarsi, per Gesù, della sua «ora», l’ora della sua «glorificazione», cioè della sua morte. C’è, dunque, un avvicinarsi “temporale”, di un giorno e di un’ora precisi, e un avvicinarsi «spaziale» verso Gerusalemme, finché questi due movimenti convergono e si incrociano sul Calvario, nel pomeriggio del 14 Nisan, precisamente nel momento in cui, nel tempio, cominciava l’immolazione degli agnelli pasquali. Per sottolineare ancor più chiaramente questa coincidenza, Giovanni mette in rilievo il fatto che a Gesù, sulla croce, «non fu spezzato alcun osso» (Gv 19, 36), come era, appunto, prescritto per la vittima pasquale (cf Es 12, 46). È come se l’evangelista facesse sue, in questo momento, le parole del Battista e, additando Gesù sulla croce, proclamasse solennemente al mondo: «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1, 29).

Gli altri tre evangelisti, i Sinottici, guardano invece, di preferenza, al momento della cena. È nella cena, precisamente nell’istituzione dell’Eucaristia, che si compie, per essi, il passaggio dall’antica alla nuova Pasqua. Un grande rilievo assume in essi la preparazione dell’ultima cena pasquale celebrata da Gesù prima di morire: «Dov’è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?» (Lc 22, 11). Potremmo dire che la cena dei Sinottici anticipa e contiene già l’evento pasquale della immolazione di Cristo, come l’azione simbolica anticipa talvolta, nei profeti, l’evento annunciato. L’azione simbolica, o il gesto profetico - come è per esempio lo spezzare la brocca da parte di Geremia (19, 1 ss), o il giacere a terra legato di Ezechiele (4, 4 ss) - non è una semplice illustrazione didattica dell’annuncio orale; è «una prefigurazione creatrice della realtà avvenire a cui doveva seguire immediatamente l’attuazione. Nel momento in cui il profeta, sia pure nelle ridotte dimensioni del segno, innesta l’avvenire nella storia, l’avvenire stesso comincia ad attuarsi e quindi il segno del profeta non è altro che una forma sublime di discorso profetico» (G. von Rad). «I segni profetici sono il concreto realizzarsi della parola di Jahvè e sono avvenimenti che anticipano la storia predetta dalla parola di Dio» (W. Zimmerli).

In questa luce il gesto che Gesù compie nell’ultima cena, spezzando il pane e istituendo l’Eucaristia, è la suprema azione simbolica e profetica della storia della salvezza; esso si colloca sulla scia delle azioni simboliche dei profeti, anche se le supera di tanto quanto la parola di Gesù è superiore a quella dei profeti e la persona di Gesù più divina di quella dei profeti. Nell’istituire l’Eucaristia, Gesù annuncia profeticamente e anticipa sacramentalmente ciò che avverrà di lì a poco - la sua morte e risurrezione -, innestando già l’avvenire nella storia. La predicazione di Gesù annuncia il veniente regno di Dio; l’istituzione dell’Eucaristia è l’azione profetica che anticipa il compimento di questo annuncio che diventerà realtà nella morte-risurrezione di Cristo. I Padri (specialmente i Padri siriaci) sentivano così fortemente questo realismo del gesto di Cristo, che erano soliti contare i tre giorni della morte di Gesù, non a partire dal momento in cui muore sulla croce, ma dal momento in cui, nel cenacolo, «spezzò il suo corpo per i suoi discepoli» [8]. Si tratta dunque di uno stesso fondamentale evento che i Sinottici presentano anticipato nell’azione simbolica e sacramentale dell’Eucaristia e che Giovanni presenta nel suo pieno e definitivo manifestarsi sulla croce.

Giovanni accentua il momento dell’immolazione reale (la croce), mentre i Sinottici accentuano il momento dell’immolazione mistica (la cena). Ma si tratta dello stesso evento guardato da due diversi punti di osservazione e tale evento è l’immolazione di Cristo. «Nella cena - scrive sant’Efrem - Gesù si immolò da se stesso; sulla croce fu immolato dagli altri» [9], e questo per indicare che nessuno poteva togliergli la vita, se non fosse stato lui a offrirla liberamente, avendo il potere di offrirla e di riprenderla di nuovo (cf Gv 10, 18).

L’evento che fonda, o istituisce, l’Eucaristia è, dunque, la morte e risurrezione di Cristo, il suo «dare la vita per riprenderla di nuovo». Lo chiamiamo “evento” perché è qualcosa di storicamente accaduto, un fatto unico nel tempo e nello spazio, avvenuto una volta sola (semel) e irripetibile: Cristo «una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso» (Eb 9, 26). Ma non si tratta di nudi “fatti”; questi fatti hanno una ragione, un “perché”, che costituisce come l’anima di questi fatti ed è l’amore. L’Eucaristia nasce dall’amore; tutto si spiega con questo motivo: perché ci amava; «Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5, 2). Ecco la migliore descrizione dell’origine e dell’essenza dell’Eucaristia. Essa ci appare come opera e dono di tutta la Trinità; tutta la Trinità è implicata nell’istituzione dell’Eucaristia: c’è il Figlio che si offre, il Padre al quale si offre e lo Spirito Santo nel quale si offre (cf Eb 9,14).

Tutta la Trinità partecipa al sacrificio dal quale nasce l’Eucaristia, non Gesù soltanto. Questo ci aiuta a correggere un’idea errata che possiamo avere concepito riguardo al Padre. Una certa cultura moderna tenta, stoltamente e sacrilegamente, di trasferire su Dio-Padre alcune prevenzioni che la psicanalisi ha reso familiari nei confronti del padre terreno. Così, si immagina il Padre impassibile, nell’alto dei cieli, mentre il Figlio muore sulla croce, pronto, anzi, a ricevere l’offerta del suo sangue. Un Padre che riceve soltanto e non si dona, che chiede il sangue del proprio Figlio come prezzo del riscatto, non potrebbe che ispirarci spavento e ripugnanza. Ma questa è una rappresentazione tutta sbagliata. San Paolo dice che il Padre «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8, 32). «Per tutti noi»: qui sta la chiave per capire tutto. Se il Padre trova gradimento nel sacrificio del Figlio è perché esso gli ha restituito «tutti i figli dispersi» (cf Gv 11, 52), perché gli permette di realizzare la sua più grande volontà che è «che tutti gli uomini siano salvi» (cf 1 Tm 2, 4). Il Padre ama Gesù di amore così smisurato, perché egli si è sacrificato per i fratelli; non, si badi bene, semplicemente perché si è sacrificato, ma perché si è sacrificato per i fratelli. Dio resta sempre il Dio che «vuole misericordia, non sacrificio» (Os 6, 6); se ha gradito il sacrificio del Figlio, è perché esso gli ha permesso di usare misericordia al mondo.

Il Padre non è, dunque, soltanto colui che riceve il sacrificio del Figlio, ma anche colui che dà in sacrificio il Figlio; che fa il sacrificio di darci il suo Figlio! Se Gesù - come diceva Paolo - ha offerto se stesso a Dio «per noi», allora il destinatario del sacrificio è, sì, Dio, ma il beneficiario non è Dio, è l’uomo, siamo noi, e questo distingue il sacrificio cristiano da ogni altro sacrificio.

Potremmo continuare a parlare a lungo dell’evento della croce da cui deriva l’Eucaristia: non ne esauriremmo mai la ricchezza. In quell’evento, apparentemente così breve e così piccolo rispetto alla storia del mondo, è racchiusa tanta energia che su di esso riposa la salvezza della storia e del mondo. Viene da pensare, per analogia, all’energia immensa contenuta nell’atomo, che è anch’esso così piccolo. Riferendosi a quel momento, Gesù disse una volta: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12, 49). Realmente, sulla croce «tutto è compiuto»: non c’è nulla che si possa pensare o fare di più grande; lì, si è dato fondo a tutte le risorse divine e umane: ogni male è vinto in radice, ogni salvezza procurata, ogni gloria data alla Trinità.

 

3. L’Eucaristia come sacramento

Adesso consideriamo l’Eucaristia nel terzo tempo della storia della salvezza, nel tempo della Chiesa, in cui noi stessi viviamo. Essa è presente, in questo tempo, come sacramento, cioè nel segno del pane e del vino, istituito da Gesù nell’ultima cena con le parole: «Fate questo in memoria di me».

È importante che comprendiamo bene la differenza tra l’evento che abbiamo descritto finora e il sacramento, la differenza tra la storia e la liturgia. Ci aiuta sant’Agostino. Noi - dice il santo dottore - sappiamo e crediamo con fede certissima che Cristo è morto una sola volta per noi, lui giusto per i peccatori, lui Signore per i servi. Sappiamo perfettamente che ciò è avvenuto una sola volta; e, tuttavia, il sacramento periodicamente lo rinnova, come se si ripetesse più volte quello che la storia proclama essere avvenuto una sola volta. Eppure evento e sacramento non sono tra loro in contrasto, quasi che il sacramento sia fallace e solo l’evento sia vero. Infatti, di ciò che la storia afferma essere accaduto, nella realtà, una sola volta, di questo il sacramento rinnova (renovat) spesso la celebrazione nel cuore dei fedeli. La storia svela ciò che è accaduto una volta e come è accaduto, la liturgia fa sì che il passato non sia dimenticato; non nel senso che lo fa accadere di nuovo (non faciendo), ma nel senso che lo celebra (sed celebrando) [10].

Precisare il nesso che esiste tra il sacrificio unico della croce e la Messa è una cosa assai delicata ed è stato sempre uno dei punti di maggior dissenso tra cattolici e protestanti. Agostino usa, come abbiamo visto, due verbi: rinnovare e celebrare, che sono giustissimi, a patto però di essere intesi l’uno alla luce dell’altro: la Messa rinnova l’evento della croce celebrandolo (non reiterandolo!) e lo celebra rinnovandolo (non soltanto ricordandolo!). La parola, nella quale si realizza oggi il maggior consenso ecumenico, è forse il verbo (usato anche da Paolo VI, nell’enciclica Mysterium fidei) rappresentare, inteso nel senso forte di ri-presentare, cioè rendere nuovamente presente [11].

Secondo la storia, c’è stata, dunque, una sola Eucaristia, quella realizzata da Gesù con la sua vita e la sua morte; secondo la liturgia, invece, cioè grazie al sacramento istituito da Gesù nell’ultima cena, ci sono tante Eucaristie quante se ne sono celebrate e se ne celebreranno fino alla fine del mondo. L’evento si è realizzato una sola volta (semel), il sacramento si realizza «ogni volta» (quotiescumque).

Grazie al sacramento dell’Eucaristia, noi diventiamo, misteriosamente, contemporanei dell’evento; l’evento si fa presente a noi e noi all’evento. Nella liturgia della notte di Pasqua, gli ebrei del tempo di Gesù dicevano: «In ogni generazione, ognuno deve considerare se stesso, come se egli in persona fosse uscito, quella notte, dall’Egitto» [12]. Applicato a noi cristiani, questo testo viene a dire che in ogni generazione, ciascuno deve considerare se stesso, come se egli in persona fosse stato, quel pomeriggio, sotto la croce, insieme con Maria e con Giovanni. Sì, noi eravamo là; «tutti là siamo nati». Quando ascolto quel canto “spiritual” negro che dice: «C’eri tu, c’eri tu, alla croce di Gesù?», dentro di me rispondo sempre: Sì, c’ero anch’io alla croce di Gesù!

Ma il sacramento dell’Eucaristia non rende presente l’evento della croce soltanto a noi; sarebbe poco: lo rende presente soprattutto al Padre. A ogni “frazione del pane”, quando il sacerdote spezza l’ostia, è come se venisse di nuovo infranto il vaso di alabastro dell’umanità di Cristo, come avvenne, appunto, sulla croce, e il profumo della sua obbedienza salisse ad intenerire ancora il cuore del Padre. Come quando Isacco aspirò il profumo delle vesti di Giacobbe e lo benedisse dicendo: «Ecco l’odore del mio figlio come l’odore di un campo che il Signore ha benedetto» (Gen 27, 27).

Se ci domandiamo come mai l’evento della croce non è finito e concluso in se stesso, come ogni altro fatto della storia, ma continua, invece, a essere attuale anche oggi, la risposta ultima è: lo Spirito Santo! Riprendendo un detto di san Basilio, papa Leone XIII, nella sua enciclica sullo Spirito Santo, dice che «Cristo ha compiuto ogni sua opera, e specialmente il suo sacrificio, con l’intervento dello Spirito Santo (praesente Spiritu)». Nella Messa, prima della comunione, il sacerdote prega dicendo: «Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, che per volontà del Padre “e con l’opera dello Spirito Santo”, morendo hai dato la vita al mondo...». Tutto ciò si fonda sulla parola della Scrittura, in cui si dice che Cristo, «in virtù di uno Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio» (Eb 9, 14). Queste parole illuminano l’evento della croce di una luce nuova; esso appare un evento «spirituale», nel senso che fu operato nello Spirito Santo. Era lo Spirito Santo, che è amore, a suscitare nelle profondità dell’anima umana di Cristo quel movimento di autodonazione di sé al Padre, per noi, che gli fece abbracciare la croce.

Lo Spirito Santo è detto, in questo passo, Spirito «eterno»: eterno significa, qui, che non è destinato a cessare, come i sacrifici dell’Antico Testamento, ma che dura sempre, sino alla fine dei secoli. Grazie allo Spirito «eterno», Gesù ci ha procurato una redenzione «eterna» (cf Eb 9, 12). Il sacrificio della croce, per sé, finì, nel momento, in cui Gesù, chinato il capo, spirò. Ma in esso c’era come una fiamma nascosta, che, una volta accesa, non poteva più essere spenta, neppure dalla morte. Gesù di Nazaret, come tale, non resta con noi «sempre», ma torna al Padre; invece il suo Spirito resta con noi «in eterno». Lo dice Gesù stesso. Ai giudei che gli obiettavano: «Noi abbiamo appreso dalla legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato?» (Gv 12, 34), Gesù risponde indirettamente, di lì a poco, quando dice: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi sempre» (Gv 14, 16). Cristo rimane in eterno, dando ai discepoli il suo Spirito che resta con loro per sempre.

Questo fa capire perché il sacrificio della croce può, in un certo senso, durare ancora. Come la vita intera di Gesù, esso è concluso e non concluso, momentaneo e duraturo: momentaneo secondo la storia, duraturo secondo lo Spirito. I sacramenti della Chiesa, e in modo tutto speciale l’Eucaristia, sono resi possibili dallo Spirito di Gesù che vive nella Chiesa. Da questo fondamento teologico, scaturisce l’importanza dell’epiclesi, cioè dell’invocazione dello Spirito Santo, nella Messa, al momento di consacrare le offerte.

Sulla croce Gesù, chinato il capo «spirò», cioè «emise lo Spirito» (cf Gv 19, 30); a ogni Messa è come se quell’ultimo respiro di Gesù, mai spento, tornasse ad aleggiare su di noi, a smuovere, per così dire, l’aria e a riempire l’assemblea della presenza di Cristo. Si rinnova, in modo tutto spirituale e invisibile, il prodigio che avvenne, per la preghiera di Elia, sul monte Carmelo, quando un fuoco scese dal cielo e bruciò la legna dell’olocausto, consumando il sacrificio (cf 1 Re 18, 38).

Se celebreremo anche noi - come fece Gesù sulla croce - la nostra Messa «in compagnia dello Spirito Santo», egli darà un raccoglimento nuovo e una luce nuova alle nostre celebrazioni. Farà davvero di noi - come chiediamo nel canone della Messa - «un sacrificio perenne a Dio gradito».

 


[1] Agostino, Sermo 112 (PL 38, 643).

[2] Melitone di Sardi, Sulla Pasqua, 31 ss (SCh 123, p. 76 s).

[3] Omelia pasquale di antico autore, 3 (SCh 27, p. 12l).

[4] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae III, q. 60, a. 2,2.

[5] Cf Targum su Esodo 12,42 (R. Le Déaut, La nuit pascale, Roma 1963, pp. 64 s).

[6] Efrem, Inni sulla crocifissione, 3,2 (ed. Th. I. Lamy, 1882, p. 656).

[7] Melitone di Sardi, Sulla Pasqua, 2 s (SCh 123, p. 60 s).

[8] Efrem, Comm. al Diatess., 9, 4 (SCh 121, p. 333).

[9] Id., Inni sulla crocifissione, 3,1 (ed. Th. I. Lamy, 1882, p. 655).

[10] Cf Agostino, Sermo 220 (PL 38,1089).

[11] Cf Paolo VI, Mysterium fidei (AAS 57,1965, p. 753 ss).

[12] Pesachim, X, 5.

 


Testo della RegolaTemi della Regola


| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |

| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |


11 giugno 2023                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net