Mauro Velati
L’ECUMENISMO DI SORELLA MARIA
Estratto da “Maria di Campello – Un’amicizia francescana”
Ed. Morcelliana
Pagina su "SORELLA MARIA DI CAMPELLO" a cura di Marco Roncalli
Nel 1948, negli anni della formazione del Consiglio Ecumenico delle Chiese, la 
redazione del periodico «Ali», legato alla comunità valdese fiorentina, invia 
all’Eremo, così come ad altre realtà ecclesiali dell’epoca, un questionario con 
alcune domande relative alla diffusione delle attività di dialogo ecumenico. 
L’obiettivo era quello di meglio coordinare le attività comuni sorte in Italia 
intorno all’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani. Alla richiesta 
«Quale via, secondo voi, sarebbe da seguire per riavvicinare i cristiani 
separati?» Maria risponde personalmente in termini molto sintetici ma efficaci: 
«Forse l’austera riforma di noi stessi. La Chiesa Madre «presiede nell’agape» 
secondo l’espressione bellissima di sant’Ignazio d’Antiochia, frumento di 
Cristo. Ma noi così detti cattolici abbiamo perduto mi sembra il senso di Cristo 
e di questo imperativo supremo». La lapidaria espressione di Maria pare 
risolvere tutta la problematica del dialogo all’interno di una ben più pressante 
domanda sulla conversione personale e comunitaria, lasciando in sottofondo 
probabilmente le stesse aspettative dei suoi interlocutori. In realtà il tema 
non era del tutto estraneo alla riflessione del nascente movimento ecumenico ed 
apre la questione di come inserire l’esperienza dell’Eremo all’interno di un 
contesto e di una storia che è quella dell’ecumenismo cristiano del novecento.
Numerose sono le esperienze che questa storia ha conosciuto, in genere derivanti 
da opzioni teologiche o pastorali di segno tra loro diverso. Come è noto, nel 
mondo protestante l’ideale ecumenico si è sviluppato per l’incrociarsi di 
elementi diversi tra i quali la tensione missionaria seguita alla stagione degli 
imperialismi, i fenomeni di revival diffusi in molti gruppi protestanti a 
partire dalla metà dell’ottocento, il rinnovato protagonismo delle 
organizzazioni giovanili legate a queste chiese. Nel mondo cattolico invece lo 
sviluppo di una riflessione ecclesiologica si è incrociato con le tensioni 
dialogiche sviluppatesi nei luoghi di frontiera, fossero essi i paesi di 
missione oppure i paesi di presenza mista ove le chiese locali sperimentavano 
ogni giorno le difficoltà della convivenza tra le diverse confessioni. Questi 
rapporti imponevano una revisione delle modalità tradizionali, con il rigetto di 
un approccio semplicemente basato sull’idea di conversione. L’ideale ecumenico 
aveva poi ricevuto una spinta dalle tragiche esperienze delle chiese durante 
l’epoca delle guerre e dei totalitarismi. Proprio in quei contesti era emersa la 
debolezza di un cristianesimo diviso e spaventato. Ma anche, in tali difficili 
frangenti, una tensione tutta spirituale aveva attraversato la storia delle 
chiese, mirando al confronto con l’ideale autentico del cristianesimo primitivo, 
l’epoca della Chiesa unita. Anche la nascita dell’ottavario di preghiera per 
l’unità o di altre iniziative simili testimoniava di questa fiducia in una 
rigenerazione prima di tutto spirituale, come base per il ristabilimento 
dell’unità.
Il cattolicesimo italiano, come del resto quello di altri paesi a maggioranza 
cattolica, era vissuto in un certo senso ai margini di queste evoluzioni. Non 
mancano però anche nella storia del cattolicesimo nostrano gli esempi e le 
figure capaci di incarnare questo ideale ecumenico. Nell’ambiente monastico 
femminile negli anni venti e trenta la trappa di Grottaferrata, sotto la guida 
di madre Maria Pia Giulini, costituiva un ambiente ricettivo ed aperto ad una 
dimensione internazionale. Qui maturava la vocazione di Maria Gabriella Sagheddu, 
esempio di quell’ecumenismo spirituale che tanta parte ha avuto nella 
spiritualità del secolo e che tanto deve all’ispirazione di Paul Couturier. 
L’idea della consacrazione nella preghiera alla causa dell’unità nutriva in modo 
speciale gli ultimi mesi della vita di suor Maria Gabriella, una vita 
consumatasi velocemente a causa di una grave malattia. Di altro segno la 
vocazione laicale di Maria Vingiani che nel secondo dopoguerra, muovendosi da 
una prospettiva di incontro tra i cristiani di diversa confessione ma anche tra 
le religioni, contribuiva sul piano essenzialmente culturale alla diffusione in 
Italia delle tematiche principali del dialogo ecumenico. E ancora si potrebbe 
citare la figura di Chiara Lubich, giunta all’ecumenismo attraverso l’esperienza 
dei Focolari e la valorizzazione dell’idea di «unità» come chiave di lettura 
complessiva dell’esperienza cristiana.
A confronto di queste esperienze, appartenenti a periodi e contesti diversi, 
quella di Maria la Minore assume indubbiamente delle forti peculiarità. Non si 
tratta propriamente di una vocazione «ecumenica» o «all’ecumenismo», in quanto 
il nucleo principale è dato, come mostrano le parole prima citate, dall’esigenza 
di una riforma personale ed ecclesiale attraverso il ritorno alla comunità delle 
origini. La sua prima esigenza è insomma quella di un cristianesimo puro, 
fortemente radicato nell’esperienza della comunità degli Atti degli apostoli, 
visto attraverso la lente della tradizione francescana che Maria aveva 
abbracciato fin da giovane con il suo ingresso nella congregazione della 
Francescane Missionarie di Maria. La stessa esperienza di vita religiosa che 
Maria inaugura negli anni venti non ha le caratteristiche tradizionali delle 
congregazioni femminili. Non vi sono voti né regola ma una vita liberamente 
spesa nella povertà e nella preghiera. Così l’apertura agli «altri» non è dato 
statutario ma connesso piuttosto al fiorire carismatico di una vocazione. Per 
Maria l’essenza del vincolo religioso è l’affetto e proprio il legame affettivo 
è il tramite principale che sorregge la rete dei contatti con esponenti di altre 
religioni o di altre confessioni cristiane.
1. 
La «catena» del vincolo religioso
Se si guarda all’origine di questa rete di contatti ci si imbatte in quella che 
la stessa Maria ha definito una «catena», cioè il passaggio da una persona 
all’altra di una scintilla di intesa spirituale. Già prima della sua scelta per 
l’Eremo, Maria aveva maturato un’apertura nei confronti delle esperienze 
spirituali diverse dalla cattolica. Nella difficile temperie della guerra, 
nell’attività presso l’Ospedale militare angloamericano di Roma, Maria aveva 
apprezzato la tradizione ortodossa dei ricoverati serbi, per i quali aveva 
cercato l’assistenza religiosa di un sacerdote ortodosso. Assistendo alla 
liturgia ortodossa aveva colto il valore religioso di un cristianesimo diverso 
da quello romano. All’origine della «catena» ecumenica vi era stato però il 
pastore valdese Giovanni Luzzi, grazie al quale aveva potuto conoscere Amy 
Turton, l’infermiera anglicana che diventerà poi «nonna Amata», costituendo a 
sua volta un tramite essenziale nei confronti di altre personalità non 
cattoliche. Giovanni Luzzi, svizzero ma vissuto a Lucca fin dalla giovinezza, è 
una figura importante del valdismo italiano di primo novecento, soprattutto per 
la sua opera di traduzione e di diffusione della Bibbia. Nel 1911, durante il 
periodo del suo pastorato a Firenze, Luzzi aveva pubblicato una traduzione del 
Nuovo Testamento che ebbe grande risonanza in Italia non solo negli ambienti 
protestanti. Neanche la condanna del S. Ufficio nel gennaio 1925 ridusse 
l’impatto di quest’opera editoriale che apriva l’accesso alla Bibbia in una 
traduzione moderna e nello stesso tempo rigorosa. E di questo periodo l’amicizia 
di Luzzi con esponenti del modernismo italiano tra i quali Buonaiuti e Casciola.
Luzzi è anima ecumenica per eccellenza e condivide (forse ispira) la visione di 
Maria per un ecumenismo basato sul vincolo dell’amore. Proprio nel 1924, nei 
primi anni della formazione della comunità poi all’Eremo, scrive a Maria 
riflettendo sulla realtà della divisione delle chiese:
«Mi saluti fraternamente il Parroco, a cui voglio bene per tutto il bene che 
vuole a loro. Anch’io sono parroco; e mentre passa che una voragine ci debba 
tenere ecclesiasticamente divisi, se vogliamo, lo Spirito eterno ci può tenere 
uniti per il vincolo che S. Paolo chiamava “vincolo della perfezione”: il 
vincolo dell’amore cristiano. Teniamoci sulla via del dovere e della completa 
consacrazione nella parrocchia dove la Provvidenza ci ha chiamati a lavorare; 
lavoriamo con ardore ma con la larghezza della mente e del cuore di Cristo, per 
la Chiesa ch’è la Chiesa dei nostri padri; della nostra infanzia, del nostro 
cuore; ma teniamo su, ben alto, lo sguardo; e contempliamo là, al di sopra del 
campanile della nostra parrocchia, la gloriosa visione del Regno di Dio: di quel 
regno del Bene nel mondo che noi siamo chiamati a far trionfare e di cui le 
nostre parrocchie non sono che più o meno vaste province».
La distinzione tra la Chiesa e il Regno che Luzzi propone è un tema tipico della 
riflessione ecumenica di tradizione protestante che portava ad una 
relativizzazione degli apparati ecclesiastici. Maria aveva conosciuto Luzzi a 
Roma nel 1918 sempre durante il suo servizio ospedaliero e l’occasione era stata 
proprio la scoperta della sua traduzione del Nuovo Testamento, posseduta da un 
soldato di fede valdese ricoverato presso l’Angloamericano. Più tardi Luzzi 
aveva sostenuto i primi incerti passi della nuova fraternità quando Maria si era 
rifugiata con una compagna a Quarto vicino a Firenze. Presso la comunità 
dell’Eremo la copia del Nuovo Testamento e del libro dei Salmi verrà poi sempre 
conservata come una reliquia, con «una copertina di tela filata e tessuta da 
noi, ricamandovi sopra: PACE GIOVANNI LUZZI!». Era il libro che affettuosamente 
le sorelle chiamavano «il libro del nostro pane».
Luzzi è il tramite per l’amicizia con Amy Turton, l’infermiera che svolse un 
ruolo essenziale nella prima fase di vita della comunità, contribuendo alla 
raccolta dei mezzi per l’acquisto dell’Eremo di Campello. Lei stessa ha 
raccontato le origini e gli sviluppi del sodalizio con Maria in quella che resta 
una fonte essenziale per la storia dell’Eremo, la Storia dell’eremo 
1921-1928. Attraverso Amata si moltiplicano i contatti di Maria con il mondo 
anglicano ed episcopaliano. Nel 1922 Amy legge e traduce la biografia di Sadhu 
Sundar Singh scritta da A. Parker ed inizia il contatto epistolare tra Maria e 
questa singolare figura di «Sadhu» cioè di asceta hindu convertito dall’età di 
sedici anni al cristianesimo. La prima missiva contiene una presentazione tanto 
impressionistica quanto espressiva della stessa esperienza cristiana di Maria: 
«Io sono una povera donna che cerca Cristo e Cristo solo. Devo molto a San Paolo 
e più a San Francesco, il poverello, e il “giullare” di Dio [...] Appartengo, 
con amore e libertà alla Chiesa Romana in cui sono nata. Ma so che non ha 
importanza appartenere a una o a un’altra Confessione, ma quello che importa è 
di essere una creatura nuova in Cristo [...] Vi offro l’augurio che un povero 
contadino fece a San Francesco: “Bada di essere quello che sei creduto”». Nasce 
in questo modo un legame che non divenne mai conoscenza personale ma ebbe 
certamente uno spessore spirituale, nel senso dell’unità nella preghiera e nella 
visione. Sundar sosteneva di aver avuto in visione colloqui con san Francesco e 
con altri santi e certamente la sua breve esistenza è contrassegnata da un certo 
spirito di povertà, mutuato dalla sequela Christi. Aveva dichiarato 
infatti all’inizio delle sue peregrinazioni: «Non sono degno di seguire le orme 
del mio Signore ma, come Lui, non voglio una casa, non voglio dei beni. Come Lui 
io apparterrò alla strada, per condividere la sofferenza del mio popolo, 
mangiando con coloro che vorranno ospitarmi e annunciando a tutti gli uomini 
l’amore di Dio».
Allo stesso modo avviene l’incontro con Evelyn Underhill, scrittrice ed 
educatrice inglese che contribuì a far conoscere l’esperienza dell’Eremo di 
Campello. E sempre Amy a fare da intermediaria dopo la lettura del libro della 
Underhill Vita dello Spirito e vita di oggi e il primo contatto mostra 
immediatamente il tono della sintonia profonda". Il libro della Underhill 
analizzava le caratteristiche della «vita spirituale» non tanto a partire 
dall’esperienza dei grandi mistici (come nella sua prima opera del 1911 
Mysticism) quanto a partire dalla condizione dei cristiani comuni. L’analisi 
psicologica costituiva uno degli aspetti salienti della chiave di lettura scelta 
dalla Underhill. Il nucleo della consonanza che viene a crearsi è probabilmente 
nella comune attenzione al fatto spirituale come elemento tipico del vivere 
umano. La Underhill ben rappresentava un filone culturale che partendo 
dall’influenza della mistica seicentesca (e in particolare dalla figura di 
Giovanni di Ruysbroeck) giungeva alle moderne filosofie del «vitalismo» (H. 
Bergson e R. Eucken), passando attraverso la lezione del barone von Hugel che di 
Evelyn era stato confidente e in certo senso direttore spirituale. Sono idee e 
concetti che hanno nutrito lo sviluppo della teologia ecumenica, proprio perché 
trasversali alle confessioni, e che si possono ritrovare in altre disparate 
esperienze. Come quella di Douglas Van Steere, quacchero americano sul quale 
ebbe duratura influenza il pensiero di von Hugel, propugnatore di un ecumenismo 
come «mutua irradiazione».
Maria stringe con Evelyn un rapporto forte e diverrà per la scrittrice inglese 
un punto di riferimento anche per la vita personale. A Maria la Underhill si 
rivolge ad esempio nel 1929 in un momento di difficoltà in seguito alla scelta 
di una delle sue principali collaboratrici, Clara Smith, di passare al 
cattolicesimo. Come è noto la Underhill portò con sé per tutta la vita il dubbio 
sull’opportunità del passaggio al cattolicesimo, frenata dall’ostilità del 
marito. La Underhill visita Maria e le sue compagne a Poreta nel settembre 
1925. Scriverà poi un articolo che farà conoscere la loro esperienza 
francescana nel mondo anglosassone. Più volte definisce Maria come la sua 
«santa italiana» e vede in lei il modello di un’esperienza mistica non 
disincarnata, capace di unire la grazia e la natura attraverso una sensibilità 
acuta verso il dolore del mondo. Nel già citato articolo ricorda le parole 
lasciategli da Maria come una sorta di consegna per la sua vita cristiana: «In 
tormento e travaglio servire i fratelli».
Non vi è però traccia di un dialogo intellettuale in senso proprio e non è 
semplice valutare le possibilità di una influenza della ricerca intellettuale 
della scrittrice inglese sulla sensibilità religiosa di Maria. Certamente nel 
linguaggio della Minore non mancano gli spunti e i concetti della mistica che la 
Underhill aveva a lungo studiato. Maria utilizza il concetto di 
«superessenziale» tratto dalle opere di Ruysbroeck. È nell’insegnamento del 
mistico fiammingo il mondo al quale solo il mistico può accedere, quel grado 
della conoscenza di Dio per il quale si giunge alla pienezza della divinità al 
di là delle distinzioni trinitarie, nella unità di un Essere unico e 
comprendente il tutto. Al culmine dell’esperienza mistica vi è proprio questa 
unione tra il Tutto e l’anima che ama. E forse a questo livello una spiegazione 
dell’idea di ecumenismo che Maria in molte occasioni ha espresso, l’essere cioè 
«panica», capace di attingere da ogni cosa, da ogni esperienza spirituale. Solo 
chi ha attinto alla suprema unità di Dio può in qualche modo scorgere la 
nascosta unità delle cose e degli uomini, appena scalfita dalle distinzioni 
tutte umane scaturite dalla storia.
Attraverso Amy la fraternità di Maria stringe poi una serie di contatti con gli 
ambienti dell’anglicanesimo italiano. Il pastore Francis Evelyn va a Poreta nel 
1924 nello stesso periodo in cui il pastore della Chiesa anglicana di Roma, 
Lonsdale Ragg, scopre il tesoro della fraternità francescana in «quella schietta 
e spontanea simpatia dello spirito - anima con anima dentro a la divina voglia». 
Ragg diventerà ben presto il fratello «Giovanni di Desiderio» entusiasta 
dell’amicizia con la comunità della Minore. Scrive nel giugno 1925: «Sono 
gratissimo a tutte le allodole, ed anche più grato a Dio - ch’a suo voler ne 
invoglia - per la dolce ispirazione di quella fratellanza nella quale trovo una 
fonte di coraggio e di carità»'. Nello stesso periodo è in visita a Poreta il 
rettore della Chiesa episcopaliana di Roma, Lowrie. A Roma ha il suo centro 
quella sorta di circolo ecumenico che prende il nome di «Intesa spirituale» e 
che ha come membri alcuni di questi personaggi, oltre a Buonaiuti. Nel 1924 è 
proprio Francis Evelyn a chiedere a Maria di essere introdotto presso l’Intesa. 
Maria risponde segnalando la presenza a Roma di Ragg, Buonaiuti e di Clara 
Palmer, altra conoscenza inglese che Maria definisce di spirito «clarense» e 
quindi francescano.
L’Intesa è un sodalizio spirituale che risponde alla spirito del tempo e che ha 
analogie in altre esperienze sorte in epoca modernista. Già prima della guerra 
mondiale era sorta la Lega di preghiera per la riunione delle chiese cristiane, 
per iniziativa di don Casciola, Luzzi e Janni. A Roma era nata fin dall’inizio 
del secolo la Unione per il bene, associazione di carattere filantropico ed 
ecumenico, frequentata dalla stessa Amy Turton e dai sacerdoti Casciola e 
Semeria. L’Intesa si inserisce in questo clima. Secondo le notizie raccolte da 
Allchin l’idea di una unione di preghiera si era affacciata alla mente della 
Turton già nel 1887. Tra i suoi scritti è presente il racconto di una «visione» 
(«A Modern Parable») che a buon diritto può essere considerata una visione 
ecumenica, antecedente e indipendente dalla conoscenza di sorella Maria. Tante 
strade corrono in salita su una collina. All’inizio sono separate da alti muri 
che mano a mano digradano lasciando la possibilità di un passaggio tra una 
strada e l’altra. I muri dividono ma nello stesso tempo segnano la strada 
aiutando nella salita. Nella parte superiore del cammino si aprono ampie falle 
nei muri permettendo il passaggio da una strada all’altra. Il cambiamento di via 
è per molti un passaggio a condizioni di vita migliori. Esso è però a volte 
fonte di difficoltà e di disorientamento. Molti sono incerti sulla direzione da 
prendere. Allora Amy avrebbe ascoltato una voce dichiarare: «Il cambiamento di 
strada non corrisponde alla volontà di Dio per quelli che già lo conoscono, dal 
momento che ogni strada porta allo stesso modo a Lui. Ogni anima deve procedere 
in avanti da dove Dio la ha collocata allo scopo di raggiungere l’altezza dove 
le divisioni cessano e la verità è riconosciuta come una e onnipresente».
L’idea di una unione di preghiere restò poi per molto tempo inattuata. La stessa 
Turton scriveva: «Maria ha vissuto la sua visione, io ho sognato la mia». Solo 
nel 1923 pare che abbia preso vita il progetto, grazie anche all’intervento 
determinante di Evelyn Underhill. La Confraternita dell’Intesa spirituale 
nasceva come una fraternità senza voti, regole o abiti speciali, con membri di 
ogni nazionalità, classe e forma di fede cristiana. Non esistevano elenchi di 
membri ma solo la compilazione di una scheda con cui si aderiva, contenente un 
breve richiamo agli scopi dell’iniziativa e una promessa da sottoscrivere. Si 
poteva lasciare l’Intesa semplicemente strappando la promessa e informando un 
altro membro. Lo scopo dell’Intesa è «affrettare la venuta del Regno di Dio 
promuovendo l’unione spirituale tra tutti i credenti in Cristo». I mezzi sono la 
preghiera («la preghiera è il solo e solido legame nelle cose spirituali») e il 
lavoro che sarà conforme «ai doni ricevuti da Dio» e intrapreso «per la sua 
Gloria». Era poi prevista la diffusione del progetto attraverso canali 
personali: «L’intesa spirituale deve crescere invisibilmente dall’uno all’altro 
lavorando come il lievito». E significativo il testo della promessa che ogni 
membro si impegnava a rispettare:
«Cercherò, con l’aiuto del Nostro Signore, di incontrare ogni cristiano come un 
fratello. Mi sforzerò, aprendo la mia stessa anima alla grazia di Dio, di 
ritrovarla nell’anima di ogni cristiano, e di trattare con reverenza la sua 
forma di culto. Mi asterrò, per la grazia di Dio, quando mi troverò con fratelli 
cristiani di confessione diversa dalla mia, da ogni critica o espressione di 
incredulità in ogni dottrina da loro tenuta per vera; e cercherò di diffondere 
questo spirito intorno a me. Al fratello che dubita della forma di fede in cui è 
vissuto, suggerirò la ricerca di un consiglio da persone veramente spirituali e 
illuminate; perché Dio mi ha mostrato che egli si trova in ogni anima che lo ama 
veramente, crede in lui e lo serve; e che il suo gregge sarà guidato da strade 
diverse all’unico ovile dove si trova “Un solo gregge, un solo pastore - Gesù 
Cristo”».
Si trattava insomma di una iniziativa nata in modo indipendente da quella 
dell’Eremo, anche se in una certa contemporaneità di azione. Amy d’altra parte 
apparteneva ad una generazione diversa e conobbe sorella Maria in età non più 
giovane (nel 1921). Il progetto è stato paragonato da Allchin all’idea del 
«monastero invisibile» di padre Couturier che ebbe poi maggior successo nel 
contesto del secondo dopoguerra. Sicuramente riflette in modo piuttosto marcato 
esigenze e problemi piuttosto diffusi nel mondo anglosassone, quali il tema dei 
passaggi tra una Chiesa e l’altra.
Appare evidente che tale iniziativa non rappresenta la cifra specifica 
dell’ecumenismo di sorella Maria. Maria appoggia ogni tentativo di creare legami 
interconfessionali e sostiene l’attività dell’Intesa attraverso la preghiera ma 
rifiuta di ragionare in termini di affiliazione o di appartenenze. 
Nel 1932 scrive a Evelyn Benedict:
«Je tenais de méme a vous dire, chère Evelina, que je ne suis point affiliée aux 
Anglicans et aux allemands Luthériens. J’ai des amis vénérés soit dans d’autres 
Eglises chrétiennes, soit dans les religions orientales: je suis dans une 
respectueuse sympathie envers chaque forme de religiosité sincère, et il me 
semble de pouvoir dire en vérité que je me sens unie sans effort à tous les 
frères qu’on appelle “séparés”. En cela mème je cherche exprimer mon besoin et 
mon désir de catholicité. Mais je ne suis agrégée à rien, nous sommes 
d’humbles petites filles de l’Eglise Mère, et c’est tout. L’“Entente 
spirituelle” est une création exclusive de notre chère Amata; je l’ai aidée par 
la prière et en cherchant à m’intéresser à son effort. 
Rien d’autre. Tout cela pour la vérité simple».
Ancora più chiara sarà poi sorella Jacopa nel 1963, reagendo ad un articolo 
commemorativo di Maria scritto da Friedrich Heiler, nel quale l’Intesa veniva 
definita «una fraternità spirituale fondata in Italia di cattolici e 
protestanti» quale «pegno di un’unità esteriore nel futuro», e veniva ricondotta 
all’azione di Maria come «pioniera dell’ecumenismo». Ma puntualizzava Jacopa: 
«Di questa “Intesa spirituale” la Madre non è stata né fondatrice né in alcun 
modo responsabile; partecipava alla unione di preghiere».
2. 
Heiler e l’incontro con il luteranesimo
Friedrich Heiler rappresenta un altro anello importante della «catena» di 
rapporti ecumenici che si va costruendo intorno a Maria. Il teologo tedesco era 
già conosciuto come studioso delle religioni e veniva da una vicenda religiosa 
complessa. Nato da famiglia cattolica aveva aderito nel 1919 alla fede luterana, 
in seguito all’incontro con il vescovo Nathan Söderblom, uno degli ispiratori 
del nascente movimento ecumenico. All’interno del luteranesimo si era però fatto 
portatore di istanze di «Alta Chiesa» guardando con simpatia sia all’idea della 
successione apostolica che al patrimonio liturgico del cattolicesimo. Heiler 
incrocia l’esperienza dell’Eremo nel 1927 poco dopo la fondazione a Marburgo di 
un terz’ordine francescano nella Chiesa evangelica (Evangelische 
Franziskanerbruderschaft der Nachfolge Christi). E’ sempre il canale di Amy 
Turton a fargli conoscere la figura di Maria, come un esempio di attualizzazione 
del messaggio francescano. Nel settembre del 1928, dopo una visita ad Assisi, 
Heiler visita l’Eremo di Campello inaugurando un rapporto duraturo di amicizia 
con Maria e con le sorelle. Heiler tra l’altro sarà il tramite per una serie di 
rapporti con le appartenenti alla fraternità francescana della Chiesa luterana. 
Da questo ambiente provengono Elizabeth Hempel, Margarete Teresa, Melanine 
Spiegel, Marthe Weise che svolgeranno un ruolo importante nell’allargare gli 
orizzonti della comunità. È in particolare Elizabeth Hempel, considerata una 
«sorella lontana», a svolgere questo ruolo di irradiazione in Germania, 
attraverso una lettera circolare inviata ai membri terziari tedeschi nel 1933 
che descriveva la visita all’Eremo e l’incontro con Maria. Per Elizabeth nella 
comunità dell’Eremo vive la realtà dell’Una Sancta, l’ideale dell’unità tra i 
cristiani, attraverso la presenza di un «amore sconfinato».
La corrispondenza tra Heiler e Maria mostra la partecipazione con la quale 
all’Eremo si seguono le attività di studioso ed ecumenista del teologo tedesco. 
Non si tratta però di un’alleanza organica per portare avanti i progetti 
unionisti di Heiler. Nel 1929 questi era divenuto responsabile della 
Hochkirchliche Vereinigung Augsburgischen Bekenntnisses, con l’intento di 
sviluppare una «cattolicità evangelica» quale ponte di dialogo tra le due 
chiese. Nel 1930 viene anche consacrato vescovo da un ordinante 
vecchio-cattolico per ristabilire la linea di successione apostolica che la 
Chiesa luterana aveva abbandonato. Questo gesto rappresentava per Heiler il 
compimento di quella sintesi tra gli aspetti migliori delle due tradizioni e 
l’avvio alla costruzione della sognata cattolicità evangelica. Maria segue le 
vicende dell’amico tedesco che tra l’altro negli anni trenta soffre per la sua 
opposizione al nazismo. E attenta alla sua salute e cerca soprattutto di 
approfondire quella sintonia spirituale scattata fin dai primi incontri. Nel 
1935, dopo una visita di Heiler all’Eremo, scrive nel giorno della 
commemorazione liturgica di sant’Ignazio di Antiochia, ricordando l’usanza 
dell’affido di ciascuno dei membri della fraternità ad un santo patrono:
«Sono più vicina a te, giacché l’uno e l’altra abbiamo il “frumento di Cristo” 
[Ignazio di Antiochia] come patrono dell’anno. Sento tutta la responsabilità e 
la forza ed il richiamo dell’Amico che è venuto verso di noi. Che
Egli ci sorregga mentre il cuore bruciante di desiderio chiediamo di essere noi 
pure frumento di Cristo, stritolati nella notte oscura del nostro travaglio, per 
giungere a divenire una particella di pane puro».
D’altra parte Heiler, in un momento di difficoltà per la salute ma soprattutto 
per lo stato di divisione della Chiesa evangelica tedesca, aveva evocato 
l’attualità delle visioni dell’Apocalisse e quindi la prospettiva del martirio 
come una dimensione essenziale della testimonianza cristiana:
«La straordinaria debolezza del mio cuore è la conseguenza delle tribolazioni 
spirituali e della lite ecclesiastica. 2Cor 7,5. Ma so che tutto sia la 
volontà d’iddio. Non dobbiamo desiderare una vita più comoda che la vita dei 
santi martiri nei primi secoli che hanno sofferto incomparabilmente più che noi. 
Penso che quei tempi del martirio ritorneranno - tempi beati e pieni di 
benedizione, tempi escatologici e apocalittici. Leggo spesso gli ultimi capitoli 
dell’Apocalisse di San Giovanni (dal cap. XVIII alla fine) che adesso comprendo 
meglio che prima. L’Apocalisse sembra d’esser un libro oscuro e enigmatico, un 
libro di visioni sublimi, ma è un libro delle realtà istoriche, realtà che 
purtroppo sono nascoste alla maggioranza dei cristiani. “Adveniat regnum tuum”».
Sempre nel 1934 Heiler fa partecipe Maria di un tentativo di dialogo con la 
Chiesa romana. Dopo un incontro con il vescovo cattolico di Berlino, Nikolaus 
Bares, che aveva parlato di speranze di riunione, Heiler decide di recarsi a 
Roma per contattare i massimi dirigenti della Curia romana. Prima di giungere a 
Roma chiede a Maria il suo consiglio e l’appoggio nella preghiera. Di fatto il 
tentativo di dialogo è piuttosto velleitario. Giunto a Roma, Heiler dovette 
accontentarsi di lasciare al vescovo Alois Hudal, un terminale di interessi 
tedeschi in Curia, un dossier sulla riunione delle chiese, senza poter 
incontrare né il segretario di Stato Pacelli, né il pontefice Pio XI. Maria 
appoggia e sostiene le speranze di Heiler che a Roma aveva incontrato un 
atteggiamento ben più disincantato e scettico in Buonaiuti e negli ambienti 
modernisti. Per tutti gli anni trenta e oltre la comunità dell’Eremo è partecipe 
della ricerca intellettuale e degli sforzi di Heiler. Nel 1936 è don Brizio 
Casciola a commentare per le sorelle il libro di Heiler sulla Chiesa orientale, 
traducendo il passo nel quale Heiler citava alcune parole della Minore. Il testo 
di Heiler ( Urkirche und Ostkirché) era uno studio sui rapporti tra il 
patrimonio liturgico orientale e il culto delle origini cristiane, completato 
poi da un secondo volume dedicato al rito romano e ai suoi sviluppi di carattere 
«centralizzatore».
Dopo la seconda guerra mondiale che aveva reso molto difficili i rapporti tra 
l’Italia e la Germania, il legame tra l’Eremo e i luterani tedeschi riprende e 
sorella Paola diviene il tramite per l’accesso all’Eremo delle opere di Heiler. 
Così Maria ha tra le mani il libro sul «Mysterium Caritatis», «sfogliato con 
attenzione di amore e di riconoscenza»: conteneva testi di predicazioni di 
Heiler. Legge poi un suo articolo del 1951 sull’Assunzione di Maria che aveva 
pubblicato la rivista italiana «Protestantesimo». Per Maria, che non nascondeva 
le sue perplessità sulla definizione dogmatica, si tratta di uno studio «così 
chiaro, rispettoso, illuminato dall’influsso dello Spirito». Riguardo alla 
definizione dogmatica si era preoccupati all’Eremo delle possibili conseguenze 
sui rapporti con i luterani. Alla fine degli anni cinquanta poi la preghiera e 
l’interessamento di Maria accompagnano i viaggio di Heiler in Oriente (India e 
Giappone) per approfondire un altro dei poli di interesse dello studioso, cioè 
l’esperienza delle religioni orientali (il buddismo in primo luogo). Heiler 
svolge insomma un ruolo importante nella crescita e nel prendere carne 
dell’ecumenismo dell’Eremo anche se la sua prospettiva non viene mai 
organicamente abbracciata da Maria e dalle sorelle.
3. 
Gli sviluppi del dopoguerra
Se gli anni venti rappresentano il momento generativo di quella «catena» di 
rapporti che costituiscono l’ecumenismo di Maria e delle sorelle, i decenni 
successivi non fanno che allargare l’ambito di questi rapporti. Si infittiscono 
ad esempio i contatti con il mondo valdese italiano. Non si tratta solo 
dell’amicizia con personaggi conosciuti come il pastore Valdo Vinay che sale 
all’Eremo nel 1956 restando favorevolmente colpito dalla qualità evangelica 
della vita che vi si svolge:
«Per noi la visita all’eremo è stata un’esperienza viva. Ne avevamo sentito 
parlare molte volte ma non sapevamo renderci conto della vita evangelica 
comunitaria in esso vissuta. Abbiamo trovato pregevoli elementi di pietà 
francescana che tanto si avvicina alla genuina pietà evangelica valdese. La 
povertà abbracciata per amore di Cristo ci sembra oggi essere più che mai una 
necessaria predicazione evangelica nella società moderna in cui tanto forti e 
crudeli sono i contrasti tra quelli che hanno e quelli che si avviliscono in una 
sconsolata miseria».
Mary Rossi, che sarà strettamente associata alla vita delle sorelle, aveva un 
incarico presso la segreteria della Unione cristiana delle giovani, associazione 
interconfessionale che raccoglieva donne di varia provenienza. E’ significativo 
questo rapporto perché mette l’Eremo a contatto con un certo ambiente, quello 
delle associazioni che in modo diretto andavano costruendo il futuro movimento 
ecumenico. La Rossi partecipa nel 1939 a Ginevra alla Conferenza mondiale della 
gioventù cristiana, in un contesto in cui la discussione sulle possibilità di 
unione tra le chiese appassionava intere generazioni (si ricordi che solo pochi 
anni dopo, nel 1948, sarebbe nato a Ginevra il Consiglio Ecumenico delle 
Chiese). Tempo dopo scrive a Maria: «Si è molto discusso a Ginevra la Comunità 
Cristiana e l’Una Sancta, come sa, cara sorella Maria, ma io ho visto la prima 
ed intravisto la seconda proprio all’Eremo francescano e sia benedetto Iddio! 
Ch’Egli continui a far risplendere la Sua luce attraverso “le Sue piccole 
serve” a questa povera umanità randagia che ne ha tanto bisogno».
Nel contatto con l’ecumenismo immediato, «caldo» dell’Eremo non è difficile che 
risalti a volte la debolezza di attività e istituzioni che almeno nella 
denominazione o nel programma portavano il segno dell’unità tra le chiese. 
Scrive ancora Mary Rossi a Maria nel 1950, nel periodo in cui si trovava a 
preparare il congresso nazionale delle Unioni Cristiane delle giovani (ramo 
femminile della ymca): «Ma quante miserie umane anche nel lavoro per il Signore. 
Comincio a capire perché il Signore ci tiene lontano il raggiungimento 
dell’ideale nostro. Non ne siamo degne. Abbiamo “calcolato” come si farebbe con 
un macchinario, un congegno ed il Signore invece ci guarda le mani, la lingua e 
i cuori». Allo stesso modo Claud Nelson, senior della ymca, scrive a Maria nel 
1948: «E sempre confortante pensare che ci sono gruppi fedeli che testimoniano 
della vera fede e carità cristiane in tempi come gli attuali! Quando penso 
quanto è limitata la permeazione della nostra YMCA del vero spirito cristiano, 
sento profondamente il bisogno di una forza spirituale mille volte più grande 
della mia, onde questa massa di giovani possano comprendere, sentire e vivere 
sempre più la vita che Iddio vorrebbe donare loro». Nelson, pastore metodista 
americano, era stato a Roma per molti anni responsabile dell’Associazione 
giovanile evangelica ed aveva conosciuto l’Eremo attraverso l’amicizia con 
Ferdinando Velia. Era salito per la prima volta a Campello nel 1946 accompagnato 
da Velia e Coraggia, entrambi amici di Buonaiuti.
Colleghe di Mary Rossi sono Linda Marchetti e Ines Zilli Gay, la direttrice 
della rivista femminile che nel 1948 interroga Maria sulla sua attività 
ecumenica. Ai quesiti della rivista Maria risponde in modo semplice e dimesso. 
Alla domanda se conoscesse iniziative di qualche tipo in occasione della 
settimana di preghiera per l’unità Maria confessa di non avere «capacità 
d’interessamento al riguardo». Alla richiesta invece di sapere se ha avuto 
esperienze di contatto con i non cattolici risponde in modo convinto citando le 
amicizie nate nei decenni precedenti, tra le quali anche quella con gli ambienti 
della rivista fiorentina («Sì ho avuto ed ho esperienza di rapporti cordiali con 
evangelici. Luterani o dell’Alta Chiesa in Germania. Anglicani, Episcopali, tra 
i nostri amici in Inghilterra e in America. Calvinisti in Svizzera. Valdesi del 
nostro Piemonte, o battisti ecc. Soprattutto in ali sento la ricerca sincera e 
lo spirito temperato e fraterno»). La già citata risposta sui mezzi per 
raggiungere l’unità delle chiese completa poi questo piccolo ritratto 
dell’ecumenismo di Maria. Pur non identificandosi con i progetti e le speranze 
degli ambienti ecumenici valdesi Maria ne segue gli sviluppi con simpatia, 
incoraggiando ed aiutando con l’offerta della preghiera e dell’amicizia.
Da questi ambienti tra l’altro Maria ricevette anche un aiuto concreto negli 
anni difficili del dopoguerra. Proprio attraverso Mary Rossi l’Eremo ebbe 
contributi, anche in denaro, nel periodo successivo al 1945. Maria vede però 
nel mondo valdese una risorsa importante nella diffusione soprattutto della 
Bibbia e, come già agli inizi con il pastore Giovanni Luzzi, ad esso si rivolge 
nel dopoguerra per avere edizioni a poco prezzo del testo biblico da distribuire 
alle persone che vedevano nell’Eremo un punto di riferimento religioso. È questa 
l’occasione per il contatto con Giovanni e Guido Miegge che a partire dal 1951 
entrano nella rete epistolare della Minore. Maria cercava delle Bibbie di poco 
prezzo per gli «operai» della zona di Campello e si trovò di fronte alla 
difficoltà dei costi proibitivi di molte edizioni cattoliche. Ebbe poi negli 
anni seguenti la fornitura gratuita da parte dell’editrice valdese.
4. 
Una comunità ecumenica?
La rete di contatti stabilita da Maria non è in grado da sola di caratterizzare 
l’Eremo come un «centro ecumenico». E giustamente è stato osservato come le 
peculiari caratteristiche della vita spirituale di Maria e la sua idea 
dell’Eremo come una «piccola» via verso la radicalità del Vangelo, portino molto 
al di là dei modelli che lo stesso movimento ecumenico ha generato. Nondimeno 
l’Eremo nella sua progressiva organizzazione di realtà comunitaria ha assunto 
una connotazione «ecumenica» evidente. La composizione stessa della comunità, 
con la presenza di elementi provenienti da appartenenze ecclesiali diverse, 
anticipa una tendenza che si è dispiegata al meglio in successive esperienze di 
frontiera, quali ad esempio la comunità di Taizé. A Campello convivono per 
lunghi tratti donne cattoliche, anglicane e luterane in una spontaneità di 
rapporti che non ha regole prestabilite ma risponde all’istinto evangelico della 
Minore. E non si tratta solo di un frutto del caso. La Minore cerca attivamente 
di allargare la comunità delle sorelle, chiedendo aiuto anche ad ambienti 
valdesi o luterani. Più volte domanda al pastore Luzzi di inviare all’Eremo una 
giovane ragazza da Poschiavo. Non si tratta semplicemente di un ripiego, visto 
l’isolamento in cui la comunità si dibatteva rispetto all’ambiente cattolico 
umbro. Analoghe richieste sono comuni nell’epistolario di Maria nei confronti di 
molti dei sacerdoti o religiosi cattolici da lei conosciuti. C’è però un plus 
che proviene dall’incrocio di culture e mentalità religiose differenti, di cui 
Maria è persuasa. Scrive nel maggio 1946 a Margarete Teresa, manifestando la 
necessità della presenza di due nuove sorelle: «Le preferirei luterane ed 
evangeliche». E ancora: «Vorrei la cooperazione fraterna di sorelline tedesche: 
perché apprezzo il vostro senso di disciplina e la vostra coscienza religiosa».
L’attività dell’accoglienza, che per Maria è una delle «consuetudini 
disciplinate» che stanno alla base della vita dell’Eremo, arricchisce poi in 
maniera molto ampia l’arcobaleno di questa convivenza. Nel 1935 Maria scrive ad 
Heiler con un certo compiacimento, descrivendo la venuta di don Bernardino per 
la comunione: «E quattro chiese erano presenti: la Chiesa orientale (una greca è 
fra noi), la Chiesa Evangelica (sorella Margarete), la Chiesa anglicana (Amata) 
e la Chiesa che “presiede nell’Agape”». Allo stesso modo nel maggio 1937 Maria 
racconta ad Elizabeth Hempel dell’apertura dell’accoglienza fissata per il 1° 
giugno, con la presenza prevista di «un’olandese ebrea, una tedesca luterana, 
un’inglese presbiteriana e un’altra inglese quacchera». Non è ovviamente 
possibile ricostruire nei dettagli la successione di queste visite e contatti ma 
certamente appare evidente il fatto della convivenza e dell’incontro, destinato 
ad avere conseguenze sulla stessa vita comunitaria.
Quando Maria dice «Raccolgo da tutte le chiese e questa è cattolicità» si basa 
non su un astratto studio delle diverse tradizioni cristiane ma su questa realtà 
vivente dell’incontro, unita a quell’altra «consuetudine disciplinata» che per 
l’Eremo rappresenta la corrispondenza. Ma c’è anche un ambito nel quale questo 
raccogliere ha dato frutti significativi ed è quello liturgico. Come è noto 
Maria non ha voluto sistematizzare la vita liturgica dell’Eremo attraverso un 
Ordo, né ha aderito semplicemente ai modelli della tradizione precedente. La 
preghiera all’Eremo era realtà spontanea, incardinata solamente alla radice 
evangelica. Per il resto Maria accosta, inventa, raccoglie andando anche oltre i 
confini della pietà cristiana. Nel 1939 nella Piccola Cronaca (cioè in quel 
foglio di collegamento inviato alle sorelle lontane) Maria ricorda un’usanza 
liturgica pasquale ortodossa che da tempo faceva parte delle abitudini della 
comunità: «La mattina di Pasqua, nella Chiesa orientale, anzi nel monachesimo 
della Chiesa orientale, i monaci al primo mattino si scambiano mazzetti di fiori 
dicendo l’uno: Cristo è risorto! e rispondendo l’altro: E’ veramente risorto! 
Avevo raccolto quest’usanza e vi siamo fedeli ogni anno».
Da altre tradizioni Maria raccoglie un repertorio di canti e di preghiere che 
entrano a far parte del patrimonio liturgico della sua comunità. Apprezza ad 
esempio la «Benedizione della sera» di Lutero, inviatale da Margarete Teresa, 
perché coglie in essa un elemento di semplicità e di religiosità pura. Allo 
stesso modo spinge la comunità a imparare inni delle diverse tradizioni. Nel 
1940 la Piccola Cronaca registra l’ingresso nel repertorio della comunità di 
nuovi canti di origine luterana, anglicana e valdese, insieme ad un inno 
gregoriano al rosario. Il canto non è un aspetto secondario per Maria. Fa parte 
di quelle «consuetudini disciplinate» che segnano la vita dell’Eremo. Secondo 
sorella Jacopa esso poi svolge una vera e propria funzione «ecumenica». Scrive 
a Elisabeth: «Cotesti cori che affratellano in una medesima devozione genti di 
diverse confessioni sono già la vita eterna. Il cielo (“Multas terriculis 
linguae, celestibus una”). Non pensi anche tu che quell’“una” sia il canto?».
Il progressivo arricchimento del patrimonio liturgico dell’Eremo si è in parte 
sedimentato in quello che Maria stessa ha chiamato il Vademecum, una 
sorta di libro liturgico da lei composto come un aiuto per le sorelle 
dell’Eremo. C’è una parte dedicata agli inni, introdotta da Maria con queste 
parole: «Vorrei raccogliere ancora inni delle venerande Chiese che fanno parte 
della cattolicità, e in cui abbiamo sorelle, fratelli, amici. Ma purtroppo il 
tempo stringe e io sono insufficiente. Solo alcuni posso offrirvi». Seguono i 
testi di un inno anglicano che piaceva ad Amata («Concedi a noi o Signore lo 
spirito...»), un inno di Newman cantato da Verrier, Amata e altri in consonanza 
spirituale con Gandhi («O cara luce...»), un inno episcopaliano («Nella tenera 
bellezza delle rose...»), «Resta con noi Signore...» delle chiese evangeliche, 
un inno norvegese e uno finlandese, un inno luterano rielaborato dalla Madre nel 
1937 («La cara luce del crepuscolo...») e infine un testo russo sul tema del 
«Maestro unico». Vi sono però anche testi egiziani, giapponesi, indiani, a 
testimoniare l’idea di universalità della preghiera in cui Maria credeva 
fermamente.
5. 
L’apertura all’ecumenismo
L’esperienza del contatto con i non cattolici mette Maria di fronte a tutta una 
serie di questioni tipiche dell’approccio ecumenico. Non è un mistero che 
l’atteggiamento della Chiesa verso i non cattolici fosse determinato all’inizio 
del ventesimo secolo da una ben precisa categorizzazione che si esprimeva anche 
a livello linguistico. Protestanti e ortodossi venivano definiti rispettivamente 
«eretici» e «scismatici», con una sfumatura di valore che privilegiava il 
rapporto con le chiese di Oriente. Nel mondo cattolico non erano infrequenti 
atteggiamenti e giudizi piuttosto duri nei confronti del mondo protestante. 
Maria si colloca in questo contesto ma elabora subito un atteggiamento diverso, 
più rispettoso della comune eredità cristiana che legava le diverse chiese. Ci 
sono nei suoi scritti o nell’epistolario episodi magari di scarsa importanza ma 
che rivelano una presa di distanza dagli atteggiamenti comuni del mondo 
cattolico. Racconta ad esempio Maria di un episodio accaduto a Pavia durante una 
delle sue visite a don Orione, Sul treno un prete
«diceva sciocchezze. Fra queste ne ricordo una: “I protestanti? Cos’hanno i 
protestanti? Non hanno nulla, solo Dio e la carità”. E arringava bonariamente 
quei pochi ascoltatori, lo per non indignarmi (la sciocchezza mi è sempre 
intollerabile) mi ero messa a cantare. Dapprima a voce bassa ma poi mi prese la 
gioia del canto, e volta verso il finestrino e le stelle, mi dimenticai di 
tutto. M’interruppi forse perché il treno si fermava ad una stazione. Uno degli 
uomini trasse qualche moneta dal taschino e volle mettermela in mano, dicendomi 
“Canti ancora!”. Rimasi un po’ commossa, ringraziai delle monete senza prenderle 
s’intende e continuai a cantare».
Allo stesso modo scrivendo a Fedora Fagioli nel 1940 rimprovera alla sua 
interlocutrice la facilità nell’usare in modo dispregiativo la parola 
«protestante». Scrive Maria:
«Mi dice che [suo fratello] “parla come un protestante”. Ma i protestanti 
possono parlare assai meglio di noi, se hanno spirito più retto e più 
consapevole del nostro. Lei sia rispettosa del modo di pensare e di parlare di 
suo fratello. Forse Lei, e tutti noi cattolici, abbiamo bisogno di convincerci 
che non tocca a noi di riformare i nostri fratelli, e che piuttosto dobbiamo 
incominciare a riformare noi stessi, ed è gran tempo, perché di sciocchezze in 
tema religioso ne diciamo tante, ed è per ciò che i nostri fratelli si turbano».
Ritorna il tema della riforma personale e comunitaria, insieme ad una certa 
insofferenza verso i pregiudizi diffusi nel mondo cattolico e cristallizzati 
ormai nel linguaggio comune. Maria manifesta la stessa insofferenza anche nei 
confronti dell’uso del termine fratelli separati, che pure nella evoluzione 
dell’atteggiamento cattolico rappresentava un passo avanti rispetto alla 
distinzione canonica eretici/scismatici.
Negli anni venti, il periodo di avvio dell’esperienza dell’Eremo, la Chiesa 
cattolica era in vario modo interpellata dalle prime consistenti iniziative 
ecumeniche internazionali. Nel mondo cattolico si guardava con simpatia 
soprattutto allo sviluppo del movimento di Fede e costituzione, avviato 
con l’assemblea di Losanna nel 1926. Si pensi alla posizione di un vescovo 
autorevole quale Geremia Bonomelli, il quale aveva buone relazioni con i leader 
del movimento. Negli stessi anni anche il card. Mercier, coadiuvato dall’azione 
di Lambert Beauduin, aveva avviato le cosiddette «conversazioni di Malines» con 
l’apertura al mondo anglicano. Nel 1928 però l’enciclica di Pio XI Mortalium 
animos sembrava chiudere gli spazi per ogni possibilità di dialogo. 
L’enciclica stigmatizzava tali tentativi di unione perché fondati sulla «falsa 
teoria che suppone buone e lodevoli tutte le religioni, in quanto tutte, sebbene 
in maniera diversa, manifestano e significano egualmente quel sentimento a tutti 
congenito per il quale ci sentiamo portati a Dio e all’ossequente riconoscimento 
del suo dominio». L’enciclica vedeva negli sforzi dei cosiddetti 
«pancristianisti», e di coloro che nel mondo cattolico solidarizzavano con la 
loro causa, l’apertura di un fatale baratro verso l’indifferentismo e l’ateismo, 
piuttosto che la realizzazione del comando di Gesù sull’unità dei suoi discepoli 
(Gv 17). La vera unità dei cristiani - ribadiva l’enciclica - è solo nel ritorno 
al seno del cattolicesimo («non si può altrimenti favorire l’unità dei cristiani 
che procurando il ritorno dei dissidenti all’unica vera Chiesa di Cristo, dalla 
quale essi un giorno infelicemente s’allontanarono: a quella sola vera Chiesa di 
Cristo che a tutti certamente è manifesta e che, per volontà del suo Fondatore, 
deve restare sempre quale Egli stesso la istituì per la salvezza di tutti»).
Maria non avrebbe certamente mai espresso riserve o critiche nei confronti 
dell’enciclica ma pare muoversi ben al di là degli ammonimenti in essa 
contenuti. Dice la Minore pochi mesi dopo la pubblicazione dell’enciclica: «Non 
ho nessuna tenerezza speciale verso nessunissima forma di esperienza religiosa 
stabilita; ma, come verso gli stranieri, così verso i fratelli di altre Chiese 
mi pare ci sia un debito di particolare cortesia, e questo è anche un servire 
non dico la vera Chiesa, ché vera Chiesa non c’è sulla terra, ma la causa del 
Signore». Questo debito d’amore porta Maria ad andare anche nel linguaggio al di 
là delle regole ribadite dal magistero pontificio. Non ha difficoltà a 
riconoscere alle comunità separate la qualifica di chiese. Rovescia del tutto 
l’ermeneutica del termine «pancristiano» che ai suoi occhi diventa proprio la 
chiave per una nuova considerazione dei non cattolici. D’altra parte era stato 
proprio Söderblom, uno dei padri del nascente movimento ecumenico e uno dei 
primi ad utilizzare il termine, a riconoscere: «Per modestia noi non avremmo 
osato attribuircelo [il termine “pancristianisti”], ma poiché il papa ce lo 
riconosce, bando alla modestia ed accettiamo il qualificativo [...] il Papa 
[...] ha involontariamente conferito a coloro che condanna un nome onorevole». 
L’idea dell’ecumenismo come pancristianesimo era stata introdotta in Italia da 
una figura amata da Maria, il teologo valdese Ugo Janni, i cui libri in più 
occasioni furono oggetto di lettura all’Eremo di Campello. Per lui l’idea aveva 
però un valore programmatico che in Maria non è rintracciabile. Nei suoi 
articoli infatti lo Janni proponeva l’idea di una purificazione interna delle 
chiese (nel senso di uno sfrondamento degli aspetti meno universali), capace di 
preparare una sintesi superiore delle caratteristiche tipiche e dei pregi di 
cattolicesimo, ortodossia e protestantesimo.
Maria non ha dubbi sulla propria appartenenza al cattolicesimo anche se vissuta 
all’interno di un contesto di prove e di conflitti. Ed è significativa la 
reazione di sorella Jacopa all’articolo commemorativo scritto dallo stesso 
Heiler nel 1963 che sembrava suggerire una Maria combattuta ad ogni momento tra 
il restare e il lasciare il grembo del cattolicesimo: «Per la Madre non è mai 
stata questione di rimanere o non rimanere nella Chiesa cattolica». Maria è però 
consapevole che la natura stessa della sua vocazione la portava ad 
un’appartenenza sui generis, «tenendoci al largo per essere con tutti». 
L’appartenenza cioè non è concepita in termini strettamente identitari ma come 
supporto alla dinamica dell’amore. La fedeltà di Maria al cattolicesimo riposa 
su una percezione acuta del carattere distintivo del cattolicesimo seppure 
espresso in termini forse poco usuali per il suo tempo. Quando fa riferimento 
all’espressione di Ignazio di Antiochia sulla Chiesa madre che presiede 
all’Agape esprime una interpretazione piuttosto fine del ruolo di Roma nella 
storia cristiana.
In essa sono fusi due temi di origine apostolica e patristica. Da una parte il 
tema della Chiesa «madre» che si trova in molti scrittori dell’antichità 
cristiana, da Ireneo a Tertulliano, a Cipriano di Cartagine. Proprio in 
quest’ultimo autore il tema della maternità della Chiesa si veniva a saldare con 
quello dell’unità, configurando la maternità della Chiesa nel senso della sua 
capacità di unire gli uomini. Infatti è di Cipriano la nota frase, che Maria 
conosceva: «Non può aver Dio per padre chi non ha la Chiesa per madre» (De 
Ecclesiae Unitate, 6, «habere non potest Deum patrem qui ecclesiam non habet 
matrem»). Per chi aveva vissuto a Roma, poi, l’idea della Chiesa madre non 
poteva non rimandare alla cattedrale del Laterano, sede del vescovo di Roma, e 
«madre» appunto di tutte le chiese, secondo l’antica tradizione. Non a caso a 
questo tema la Minore unisce l’idea del primato della Chiesa di Roma che già 
Ignazio di Antiochia aveva illustrato. Ignazio - è bene ricordarlo - era stato 
il primo a definire la Chiesa «cattolica», a rammentare cioè il suo carattere 
per definizione universale e quindi «ecumenico». Nell’intestazione della sua 
lettera ai Romani il vescovo di Antiochia mostrava la consapevolezza, 
evidentemente già diffusa nelle chiese d’Oriente, di uno speciale ruolo della 
sede romana, senza però definirne le prerogative in termini teologici o 
giuridici. Tra le definizioni proposte vi era quella della comunità che 
«presiede nella carità». Si tratta di riferimenti, echi forse familiari dopo il 
Vaticano il ma non usuali nella letteratura dell’epoca se il canonico Gradassi, 
chiamato a indagare sull’ortodossia delle affermazioni della Minore, si trovò 
disorientato di fronte ad essi, salvo poi trovare rassicurazione nei riferimenti 
espliciti a Ignazio di Antiochia.
Maria insomma rimane fedele alla sua appartenenza al cattolicesimo, «libera e 
sottomessa» come ha sottolineato la sua fedele interprete sorella Jacopa. Ma 
vivendo ai margini, o «al largo» come preferiva dire, si trova a contatto con 
quella zona grigia ai confini tra le confessioni che ha svolto sempre un ruolo 
non trascurabile nelle esperienze ecumeniche del novecento. Si trova a lambire 
ad esempio una delle questioni chiave dell’ecumenismo, quella cioè della 
conversione e del proselitismo. Molti dei rapporti intrecciati da Maria sono in 
realtà esperienze di confine, per le quali sarebbe forse poco proprio parlare di 
«ecumenismo» in senso stretto. La Underhill è esponente dell’anglocattolicesimo 
e visse per tutta la sua vita il desiderio del passaggio al cattolicesimo. Allo 
stesso modo Heiler, di origine cattolica, non può certamente essere considerato 
esemplificativo del luteranesimo tedesco. La vicenda di questi personaggi di 
frontiera è stata letta in modi contraddittori: da una parte sono stati visti 
come «traditori» della propria fede e quindi nemici del vero ecumenismo, 
dall’altra hanno svolto un ruolo importante di tramite e di mediazione 
nell’avvicinamento tra le confessioni. Maria è estranea alla preoccupazione del 
proselitismo o della missione per le conversioni, che pure ha svolto un ruolo 
importante nel cattolicesimo del secolo, soprattutto nei paesi di convivenza tra 
le confessioni. Tra critici della prima ora di questo atteggiamento «unionista» 
vi era stato negli anni venti il benedettino Lambert Beauduin, fondatore 
dell’abbazia di Amay-sur-Meuse. Sulle pagine di «Irenikon», la rivista che Maria 
conosce ed apprezza, aveva scritto nel 1926 parole di fuoco contro una 
«concezione imperialista dell’unità religiosa».
È questa la prospettiva di Maria che mette al di sopra di tutto il debito di 
amore del cattolico nei confronti dei fratelli ed evita qualsiasi pressione nei 
confronti degli interlocutori. Vi sono vicende significative come quella di 
Ursula, una giovane ragazza segnalata a Maria da Heiler ed inviata all’Eremo nel 
1931. Dopo un primo periodo in cui si palesano le difficoltà dovute alla 
fragilità del carattere della ragazza, Ursula ritorna in Germania, pur 
mantenendo un contatto con l’Eremo e con Maria e lasciando aperta la possibilità 
di un suo ingresso tra le sorelle. Nel 1933 Maria consiglia la ragazza riguardo 
alle sue scelte professionali e religiose (aveva manifestato infatti il 
desiderio di passare al cattolicesimo). La sua proposta è quella di recarsi a 
Roma presso la Scuola convitto del Policlinico per finire la sua formazione 
infermieristica. In quel contesto ogni decisione sul passaggio alla Chiesa 
cattolica e sull’ingresso in una congregazione religiosa avrebbe potuto 
maturare. Non vi sono pressioni né secondi fini e la questione dell’appartenenza 
ecclesiale passa decisamente in secondo piano rispetto al desiderio di avere 
comunque Ursula tra le sorelle, unita alla fraternità dell’Eremo. Scrive la 
Minore: «Finita la scuola, o anche senza fare la scuola, se tu fossi cattolica, 
ti sarebbe aperto un qualsiasi convento; io stessa ti indirizzerei forse 
all’Istituto dove sono stata, e che ha qualità serie. Se invece fossi ancora 
esitante, oh come la piccola famiglia delle allodole ti accoglierebbe a cuore 
aperto! Tu lo sai: cattolica romana o evangelica luterana, io ti sentirei 
ugualmente in comunione con noi». Poco dopo Ursula decide di divenire 
cattolica e di entrare in una congregazione religiosa, dove avrebbe svolto 
un’attività specifica di apostolato per le conversioni tra i protestanti. Negli 
anni seguenti resta in contatto con l’Eremo e quando, nel 1952, chiede di 
ritornare per un mese a Campello, Maria è perplessa. Nota su un taccuino: «Qui 
non ci sono affatto dei protestanti da convertire, grazie a Dio».
Maria è convinta che il passaggio da una Chiesa all’altra possa essere a volte 
la risposta ad una ricerca spirituale ma evita ogni tipo di pressione. L’unica 
parziale eccezione a questo atteggiamento di estremo rispetto, l’unica forma di 
«propaganda» ammessa da Maria, è nel proporre a tutti gli ospiti dell’Eremo, 
cattolici e non cattolici, la preghiera del rosario. Scrive Maria a Francisca, 
nel 1938:
«Nella Chiesuccia dell’Eremo (un gioiello di semplicità antica verso il mille, 
benedettina prima ancora che francescana) vi è posto e reverenza per i nostri 
fratelli separati. E alcuni fra questi accolgono il tacito invito ed entrano a 
far parte della Chiesa “una, santa, cattolica, apostolica”. Ma solo il silenzio 
è tramite. E anche timidamente l’offerta di un rosario. Mi è sempre una 
commozione vedere cari amici non cattolici accettare l’umile rosario e 
chiedermi: “come si dice?...” spesso durante l’ora del silenzio che precede il 
tramonto vedo l’uno o l’altro di questi cari con il rosario in mano, scorrendo i 
grani. Ma questa piccola propaganda è la sola che mi permetto: con esitazione e 
commozione sempre nuova, affidando alla Madonna tutto il resto, di cui non sono 
degna né capace né pronta».
6. 
Un ecumenismo vissuto
L’esperienza ecumenica dell’Eremo si conferma piuttosto eccentrica rispetto 
alle forme più in voga nelle attività del cosiddetto movimento ecumenico. 
Morozzo della Rocca ha parlato di un «ecumenismo praticato senza professionismo 
e senza volontarismo ma con sincera letizia». Maria non ha in effetti al centro 
della propria attenzione la visuale dell’unità tra le Chiese, nel senso di una 
progettualità, ma vive piuttosto una sorta di «riflesso ecumenico» derivante 
dalla sua ricerca spirituale. E’ un atteggiamento spontaneo di apertura verso 
gli altri, che va al di là della questione storica delle divisioni nella Chiesa. 
Ha scritto Mariangela Maraviglia in un saggio dedicato proprio al tema che 
stiamo trattando: «L’eremo è una sorta di piccolo porto a cui attraccano tutti, 
o almeno tanti riformismi della prima metà del secolo scorso: attraverso la 
presenza di personalità rappresentative o di semplici ospiti, per il tramite 
della corrispondenza e delle letture spesso consigliate dagli amici, grazie 
all’ascolto e alla condivisione di tensioni e ideali. Di queste istanze 
riformiste è elemento essenziale la dimensione ecumenica, variamente vissuta e 
interpretata dalla maggior parte delle figure che approdavano personalmente o 
attraverso i loro scritti a Campello». La dimensione ecumenica è dunque 
interpretata come un aspetto di una più generale temperie riformista che senza 
dubbio ha caratterizzato alcuni settori del cattolicesimo italiano di primo 
novecento. Se questo vale però in modo evidente in molti degli interlocutori di 
Maria, cattolici e non, non sembra corrispondere propriamente allo specifico 
della sua esperienza spirituale. Sono indubbi i legami di Maria con il quadro 
più generale delle istanze di riforma e di ritorno alle origini propugnate dagli 
ambienti modernisti. Legami che lasciano nell’eremita torinese un segno profondo 
nel senso di un cristianesimo escatologico sul modello della comunità primitiva. 
Ma la categoria del «riformismo», pure applicabile a molti dei personaggi che si 
muovevano intorno all’Eremo, risulta probabilmente inadeguata a definire il più 
intimo atteggiamento della Minore, lontana da pretese di rinnovamento teologico 
o disciplinare.
Il confronto con Buonaiuti è forse da questo punto di vista interessante. Il 
sacerdote romano non aveva mai palesato un’esplicita attenzione alla questione 
ecumenica. Nella sua immensa produzione storica e teologica essa non occupa un 
ruolo centrale e anzi vi sono accenni critici ad esempio nei confronti della 
Riforma protestante e della figura di Lutero. Vero è che nel testamento 
spirituale lo stesso Buonaiuti non ebbe timore a dichiarare la sua comunione 
profonda con gli ambienti del movimento ecumenico protestante: «mi sento 
partecipe in speranza e in comunione con quella nuova Chiesa Cristiana ecumenica 
a cui ho veduto lavorare quelle denominazioni evangeliche che mi sono sempre 
apparse travagliate da un autentico spirito di fraternità, di pace e di vita 
carismatica nel mondo. Una parola di fraterna gratitudine io debbo a quei 
rappresentanti di questi movimenti ecumenici, della cui cordiale solidarietà la 
Provvidenza del Padre mi ha concesso il privilegio». Era un dovuto omaggio a 
quelle persone e ambienti che nelle difficoltà della sua esistenza, dopo la 
scomunica vitando, lo avevano sostenuto dal punto di vista morale e 
materiale. Tuttavia, proprio davanti a un uditorio «ecumenico», Buonaiuti aveva 
affermato nel 1937 di non considerare come centrale la questione ecumenica, nel 
contesto di una crisi ben più profonda di fede e di spiritualità:
«Noi vediamo da ogni parte compiersi dei tentativi indubbiamente notevoli per 
l’avvicinamento reciproco delle Chiese e per la ricerca di posizioni religiose, 
che, obliterando le vecchie controversie dogmatico-disciplinari, ridiano alla 
fede cristiana, nel mondo, la capacità di magistero e di edificazione, che 
appare così miserevolmente compromessa. Ma noi ci domandiamo se la crisi della 
spiritualità contemporanea non va a toccare, nel subcosciente della 
collettività, regioni più profonde di quelle nelle quali hanno le loro 
fondamenta le istituzioni e le dogmatiche ecclesiastiche. La crisi della fede 
oggi non è una crisi denominazionale, è una crisi di più larga spiritualità. Noi 
ci domandiamo esitanti se la crisi non investe ogni forma di fede, ogni forma di 
tradizione religiosa; e noi ci domandiamo pertanto se il problema, quale si pone 
innanzi a chiunque avverta l’inquietudine angosciata del mondo, non è il 
problema della possibilità stessa della fede, della possibile delineazione del 
suo contenuto, della necessità di un ritorno a quella sensazione del mistero 
sacrale dell’universo, da cui la religione trae il suo impulso primitivo e il 
suo ininterrotto rinnovamento».
Maria avrebbe potuto sottoscrivere buona parte degli elementi di questa 
riflessione, da una certa svalutazione degli obiettivi del movimento ecumenico, 
alla necessità di ritornare invece alla dimensione primitiva della religione 
cristiana come comunione universale. Maria è lontana dalle esperienze 
dell’ecumenismo organizzato. Nel farsi della sua esperienza all’Eremo sviluppa 
però una via originale al dialogo e alla comprensione dei cristiani di altra 
confessione nonché dell’insieme delle esperienze religiose storiche. Vicina 
nella preghiera ai sogni della compagna Amy Turton, ma distante nell’approccio, 
mette al centro la conversione personale e l’abbandono dei pregiudizi che 
ostacolano l’apertura all’altro. Realizza così non un modello ma una via, una 
storia ancora oggi stimolante per l’ecumenismo.
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21 giugno 2014   
            a cura di
Alberto
"da Cormano"        
      
alberto@ora-et-labora.net