Regola di S. Benedetto

Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano: "Ma se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino, perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli. Tutto però si svolga con discrezione, in considerazione dei più deboli."

Capitolo LXIV - L'elezione dell'abate: "Non sia turbolento e ansioso, né esagerato e ostinato, né invidioso e sospettoso, perché così non avrebbe mai pace; negli stessi ordini sia previdente e riflessivo e, tanto se il suo comando riguarda il campo spirituale, quanto se si riferisce a un interesse temporale, proceda con discernimento e moderazione, tenendo presente la discrezione del santo patriarca Giacobbe, che diceva: "Se affaticherò troppo i miei greggi, moriranno tutti in un giorno". Seguendo questo e altri esempi di quella discrezione che è la madre di tutte le virtù, disponga ogni cosa in modo da stimolare le generose aspirazioni dei forti, senza scoraggiare i deboli."


 

DISCERNERE

malìa o incanto?

di Silvano Fausti S.J.

Introduzione al libro “Occasione o tentazione?”– Ed. Ancora 2005

 

Si racconta che le Sirene, affascinanti e demoniache abitatrici di un’isola a occidente delle grandi acque, metà donne e metà uccelli, con la malìa del loro canto seducevano irresistibilmente i naviganti che dovevano passare per quello stretto di mare. E li facevano tutti perire contro gli scogli.

Nel suo viaggio di ritorno, Ulisse tappò con cera gli orecchi dei suoi compagni, perché non le udissero e ne fossero sedotti. Quanto a sé, si fece saldamente legare all’albero maestro, per sentirne la voce senza subirne le conseguenze disastrose. Orfeo, invece, intonò un canto più melodioso che incantò le Sirene, lasciandole mute e di sasso.

 

La Via Lattea

La stazione eretta, frutto di lenta evoluzione, ha permesso all’uomo di stare davanti al suo simile. Così ha incontrato il volto dell’altro.

Ma la posizione supina, arresa all’alto, che tiene quando dorme - l’animale si accovaccia -, gli ha permesso addirittura di stare davanti al cielo. E, nell’oscuro abisso senza limiti, ha cominciato a navigare in cerca di un volto misterioso, quello dell’Altro, con il desiderio recondito di poterlo incontrare, o almeno decifrare. Se gli altri, pur diversi, sono suoi simili, c’è forse un volto comune, al quale tutti somigliamo, dal quale veniamo e verso il quale andiamo?

Questo fu l’inizio del cammino dell’uomo. Da semplice faber, divenne contemplator e viator: un animale che non solo fa, ma anche osserva e va avanti, tentando di capire da dove parte e dove porta il suo fare.

Nelle veglie insonni a lungo ha scrutato il buio per catturare qualche timido segno che illuminasse il suo breve - ahimè troppo breve!- cammino. Per millenni, prima che i fuochi terrestri offuscassero quelli celesti, ha cercato sopra di sé, per vedere quale fosse il suo destino. La tremula luce della “sua” stella quale via gli indicava per raggiungere la patria del desiderio, la sua casa, forse la stessa dell’Altro, del cui volto gli pare aver intravisto almeno un ammiccare negli infiniti occhi della notte?

Gli antichi ritenevano che ciascuno nascesse con una sua stella, che con lui si spegneva. Quella di personaggi importanti era una cometa, con coda adeguata! L’uomo da sempre ha cercato di vedere negli astri l’indicazione della traccia che lo portasse a destinazione. Egli infatti abita sempre altrove, ovunque “straniero” (A. Camus), perché estraneo a sé, fino a quando non dimora là dove è nato.

Ma, contemplando il cielo, non ha perso la terra. Al contrario, ha potuto orientarsi e muoversi su di essa in modo sensato, rendendola abitabile e bella. Lo sguardo verso l’alto ha generato in basso la poesia e l’astronomia, la misura del tempo e dello spazio, la danza e la musica, la liturgia e la matematica. Le cose belle e buone, per i mortali, sono figlie del cielo, stelle fiorite sulla terra. Scienza e arte, filosofia e religione, tutta la cultura viene dalla contemplazione del cielo, suo riflesso sulla terra.

“Con-siderare”, stare-con-le-stelle, in cerca della propria, è l’origine del pensare e dell’agire umano. Solo quando uno ha trovato la propria stella, “de-sidera”, smette-di-considerare, perché sa la direzione verso cui muoversi.

L’uomo è un animale “eccentrico”: ha il suo centro fuori di sé, che lo sbilancia verso l’oggetto del suo desiderio. Solo lì vive, perché lì sta di casa. Uno abita dove ama, più che dove sta. Per questo continuamente si muove, per giungere là dove il suo cuore già dimora, perché non può vivere senza cuore.

Con la sua inquietante biforcazione, la Via Lattea è cifra di ogni “viaggio”. Paragonata, nelle varie tradizioni dei popoli, a serpente e fiume, a traccia di passi e spruzzo di latte, grande albero celeste, passaggio degli uccelli e delle anime, è la via dei pellegrini, degli esploratori e dei mistici, il cammino celeste, che congiunge la terra al suo mistero.

Dove andare? La strada luminosa è visibilmente tracciata, per tutti uguale, da Oriente a Occidente. Ma l’enigma del bivio, posto proprio nel suo cuore, cosa indica?

L’interrogativo non ha risposta, se non la stessa domanda che sempre interroga: dove andare? Ciò che invano cerchi fissando le profondità del cielo o vagando sulla superficie del globo, lo puoi trovare solo nel tuo cuore.

Entrare nel cuore è l’unica via del ritorno, anche se piena di ambiguità, più della Via Lattea.

Ma come trovare quel filo di Arianna che conduce a buon esito l’impresa di entrare nel proprio cuore?

Ci sono molti libri che parlano di cammino interiore. C’è gran desiderio di interiorità. Passato di moda il cambiamento delle strutture. ci si rifugia nell’intimismo? O forse intuiamo, secondo un “detto segreto” di Gesù, che «quando le due cose saranno una e l’esterno come l’interno», allora sarà il Regno?

La fame rende di bocca buona! C’è un’abbondante letteratura di tutti i tipi e per tutti i gusti, che va dalle pratiche ascetiche orientali a quelle regressive occidentali, come New Age.

Punto d’accordo di queste ricerche è il centramento su di sé, il “selfismo”. Tra molto fumo - l'oppio è sempre almeno nella sacrestia di ogni tempio! - ci sono anche idee buone, mutuate dal fondo religioso comune e, spesso, dal cristianesimo. Sono però tutti conati di autosalvezza, che chiudono l’uomo nel proprio guscio. Prescindono da Dio, da Cristo, dalla sua carne e dalla sua storia. Al massimo si rifanno al vago dio del teismo, un non ben determinato “invertebrato gassoso”, ultimo prodotto di sublimazione evolutiva, circondato per lo più da eteree figure angeliche, la cui consistenza è pari al loro sesso. E Cristo è ridotto a uno sprovveduto guru di verità impossibili, menzogne sublimi che aiutano a fare sogni buoni contro una realtà cattiva, con l’intento di giustificarla (i guru sono le persone più nocive della storia, grazie soprattutto ai loro pii discepoli).

Sono ideologie che alla lunga producono e accrescono il vuoto che vogliono colmare. Ogni idea che si stacca dalla realtà del Dio fatto carne, è come una cisterna che si taglia fuori dalla sorgente: abbandona la fonte d’acqua viva per scavarsi cisterne screpolate, che non tengono acqua (cf. Ger 2, 13). Se non putrida e velenosa.

Il nostro secolo ha conosciuto gli effetti devastanti delle ideologie. Più erano buone, più hanno legittimato e accresciuto il danno!

E non può essere che così, anche se continuiamo con accanimento a produrne di nuove. Sono tutte monotonamente ripetitive: negano la trascendenza e oscillano come un pendolo dall’esterno all’interno, dal materiale allo psicologico, contrabbandato all’occorrenza per spirituale.

L’anticristo assume in ogni epoca due maschere opposte e uguali, adeguate alla cultura del momento. Così può ingannare sui due fronti. Oggi, epoca del pensiero debole, nella Chiesa assume l’aspetto della certezza assoluta barattata per verità, in modo da screditare ciò che è pur vero; nel mondo laico quello dell’incertezza come verità assoluta, in modo da buttar via ciò che è pur certo.

Ma la moneta della presunzione ha come altra faccia quella della disperazione. L’anticristo alla fine lascia cadere le sue maschere, e svela il suo (non-) volto, perennemente identico a se stesso: sirena incantevole, sempre canta salvezza e sempre conduce a perdizione.

È vero che l’uomo è buono, anzi molto buono (cf. Gen 1, 31). È immagine di Dio, fatto per capire e amare la verità! Però la sua intelligenza è prigioniera della menzogna, la sua volontà schiava del vizio (“vizio”, parola desueta, è il piacere di ciò che è brutto come se fosse bello!).

Solo lentamente l’amore della verità toglie dalla menzogna e la verità dell’amore solleva dalla schiavitù. E allora, non prima, tace il fascino delle voci che fanno naufragare: si libera quel canto, disincanto da ogni incanto, che è la forza per il ritorno a casa.

 

L’uomo

L’uomo si distingue dall’animale perché agisce con intelligenza, dicono alcuni. Altri preferiscono dire che si distingue per la sua stupidità.

L’animale infatti, se è sano, non sbaglia. Programmato per la conservazione della specie e dell’individuo, è guidato infallibilmente dall’istinto. Non si pone la domanda: «Che fare?», che risponde all’enigma: «Chi sono?».

Noi invece possiamo sbagliare. Dotati di ragione, la usiamo solo se e come vogliamo o riusciamo. Gli animali sono come nascono. Noi invece «è per nascere che siamo nati» (P. Neruda). L’uomo non è ciò che è, ma ciò che non è ancora: diventa secondo ciò che desidera. La sua natura, a differenza dal resto, è cultura. Nel racconto della Genesi si dice di ogni creatura che è fatta «secondo la sua specie». Solo lui fa eccezione: non appartiene a nessuna specie.

Aperto a tutto, lui stesso, nella sua sovrana libertà, determina la propria natura. La sua esistenza è una lenta gestazione, fino a quando “nasce” secondo la natura che lui stesso ha stabilito.

Quando Dio ebbe creato l’universo, desiderava che ci fosse una creatura in grado di ammirare l’opera sua. Ma - racconta Pico della Mirandola in quello che è il “manifesto dell’umanesimo” - aveva finito i modelli e i tesori a sua disposizione. Dopo averci pensato, con una trovata da Dio, fece Adamo «e lo pose nel cuore del mondo, dicendogli: “Non ti ho dato, o Adamo, un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell'aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai senza essere costretto da nessuna barriera, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché, libero e sovrano artefice di te stesso, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avrai prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”. [...] Nell’uomo nascente il Padre ripose semi di ogni specie e germi di ogni vita. E secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali, sarà pianta; se sensibili, bruto; se razionali, diventerà uomo celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. Ma se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre colui che fu posto sopra tutte le cose starà sopra tutte le cose. Chi non ammirerà questo nostro camaleonte? O piuttosto chi ammirerà altra cosa di più?» [1].

Il sogno del grande umanista è diventato realtà. L’uomo, consegnato fin dal principio alla propria libertà, l’ha finalmente conseguita. Ora è «condannato alla libertà» (J.P. Sartre). Non solo come desiderio o progetto, ma come realtà di fatto. L’ammirevole “camaleonte”, affidato alle proprie mani, può diventare tutto, trasformarsi in pianta o in Dio, secondo il suo libero proposito.

Ma qual è il suo pro-posito, l’“obiettivo” che si pone-innanzi e verso cui si proietta con il suo agire? Il tutto o il nulla, la vita o la morte?

«Che fare per ereditare la vita eterna?», domanda un sapiente a Gesù (Lc 10, 25).

L’uomo cerca una vita che non sia morte, che non conosca limiti di qualità e di quantità, che mantenga la promessa di gioia e felicità: desidera la vita eterna. Sa che è un’eredità che gli spetta, ma anche che è legata a un «che fare?» incerto. A differenza del bambino, non ignora che il frutto è donato a chi coltiva l’albero.

La domanda: «che fare?», sua miseria e grandezza, riguarda qualcosa che non c’è e viene all’esistenza grazie alla sua azione più o meno libera. Questa libertà lo rende simile a Dio stesso, partecipe della sua prerogativa di creatore, che fa esistere ciò che non c’è, con un atto di intelligenza e di amore.

Per agire è necessaria, ma non sufficiente, la semplice indicazione: va’ dove ti porta il cuore. Il cuore è «un vaso che contiene insieme l’acqua e il fuoco». Biforcuto al centro come la Via Lattea, porta sempre da due parti. Ha desideri tra loro contrari (cf. Gal 5, 17). Bisogna ascoltarli e conoscerli bene, prima di seguirli.

Per non lasciarsi ingannare dalle Sirene, non basta mettere la cera negli orecchi. E impossibile, perché il canto risuona dentro il cuore. Neppure giova farsi legare all’albero maestro. È bello ma atroce, atrocemente bello! Occorre invece liberare il “canto migliore”.

Il desiderio è sempre nostalgia, dolore-per-il-ritorno a casa. Ma qual è la casa dell’uomo?

Creato alla fine di tutto, non è di casa presso nessuna creatura. In lui si compendiano mondo astrale e terrestre, vegetale e animale. Tutto è in lui presente; ma lui non si riduce né agli influssi astrali, né alle reazioni chimiche tra i suoi vari elementi, né alla complessità della sua vita vegetale e animale. Porta dentro di sé le tracce del suo lungo cammino: lo splendore del cielo e l’opacità della terra, la durezza della pietra e la fluidità dell’acqua, la forza della quercia e la delicatezza dell’anemone, il guizzo del serpente e il volo dell’uccello, la tenerezza del mammifero e la sua aggressività istintiva. Ha le caratteristiche di ogni cosa e il loro contrario; non c’è da stupirsi, ma solo da tenerne conto! Tutto fa parte di lui, ma non è lui. In lui i singoli elementi sono tra loro ordinati, l’inferiore al superiore, e lui stesso può ordinare tutto alla libertà per amare.

Creato al sesto giorno, ha il compito di portare l’universo al suo compimento, al riposo del settimo. Se si lascia dominare dai vari elementi, precipita dal suo trono e distrugge se stesso: le sue parti si staccano e degenerano a forma autonoma di vita inferiore, animale, vegetale o inerte che sia. E con lui la creazione stessa è staccata dalla sua sorgente, destinata al caos.

La sua libertà è il bivio tra la vita e la morte. Re del creato, immagine di Dio, è pontefice: è “la” creatura, che fa-da-ponte tra creazione e Creatore.

La prima parola che gli fu rivolta quando si allontanò da Dio, è: «Dove sei?». Infatti non era più nel suo “luogo” (Ruperto di Deutz). E si sentì come un osso slogato, dolorosamente fuori posto. Perché il suo “posto” è Dio: «in lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17, 28).

Tuttavia ogni cosa tende al suo “luogo naturale”. Per questo è l’eterno viandante, fuggiasco o pellegrino, sempre inquieto e angosciato, fino a quando non raggiunge la sua destinazione.

Ma come sapere dove portano le ambiguità del cuore?

 

Il discernimento

Il discernimento è l’arte di leggere in che direzione portano i desideri del cuore, senza lasciarsi sedurre da ciò che conduce dove mai si sarebbe voluti arrivare.

Discernere viene dal latino cernere, da cui la parola “cernita” o scelta. Significa vagliare, setacciare, distinguere.

Distinguere, opera propria dell’intelligenza, è vedere il dissimile nel simile e il simile nel dissimile, il diverso nell’uguale e l’uguale nel diverso. Non è dividere, ma capire ogni cosa per quello che è in relazione all’altra, per quello che è: è unire e ricomporre le diversità in armonia.

Se dividere è morte, distinguere è vita. Cosa succederebbe a uno la cui testa fosse divisa dalle spalle, o non si distinguesse da esse? La distinzione è condizione per esistere: ogni creatura esiste perché distinta da Dio. Se il figlio non si distingue dalla madre, non viene alla luce. Questa prima distinzione origina le successive. Nella Genesi la creazione è vista come opera di distinzione di ogni singolo elemento dall’altro. L’indistinto è inesistente.

Il contrario della distinzione è la confusione, il caos. Non distinguere è fare un frullato, ridurre a omogeneizzato, uccidere. Un frullato di uomo non è più un uomo.

Normalmente la nostra vita interiore è un magma di sentimenti opposti. Fino a quando non li distinguiamo, siamo spiritualmente ancora inesistenti. Discernere una cosa dal suo contrario è venire alla luce come persone, in grado di compiere azioni umane, libere e responsabili. Per questo gli antichi Padri del deserto dicevano che «il discernimento è migliore di tutte le virtù»: è l’“opera” stessa dell’uomo, quella che lo fa uomo.

Senza discernimento non si agisce: si è semplicemente agiti e agitati da pulsioni contrastanti, che portano alla totale destrutturazione. Per questo recita un antico detto ebraico:«Non fare regali a un bambino fino a quando non sa distinguere un sasso da una noce». Potrebbe soffocare inghiottendo la noce, o cercare di rompere il sasso per mangiarne i frantumi.

Ogni uomo, anche l’ateo, ha una “sua” esperienza mistica: il suo io        tocca direttamente Dio che direttamente lo tocca. Se, sufficientemente libero dai suoi condizionamenti, non gli oppone rifiuto, Dio lo attira progressivamente al suo amore e lo avvia al suo cammino, che è solo suo [2]: è il suo nome, il nocciolo duro, il seme della sua realtà, che deve crescere e svilupparsi in grande albero.

Bisogna imparare a leggere questo “tocco”, a sentirlo e distinguerlo da altri impulsi, che partono da altra sorgente e portano altrove. Solo allora si sa «che fare» e si trova la via verso casa, senza naufragare nel viaggio.

Il discernimento, come ogni tipo di conoscenza - anche e soprattutto quella della fede - è un’opera di mente e di cuore, risultato di doti naturali e di esercizio personale. È un gioco di sensibilità e buon gusto: un fatto estetico, una “percezione o sensazione bella” del “tocco” di Dio, che culmina nel piacere del bene. E una questione di “fiuto”, che infallibilmente distingue un fiore da una carogna, la fragranza di vita dal fetore di morte. Un uomo senza discernimento è come un segugio senza olfatto.

Il discernimento, direbbe Paolo (cf.  Fil 1, 9-11), è il frutto maturo di un amore che cresce sempre di più nella conoscenza e nella “percezione” (= “estetica” in greco) delle differenze, per valutare ciò che rende più luminoso e agile il cammino verso il giorno del Signore, in una trasparenza sempre maggiore di lui.

 

Cosa si discerne

L’uomo agisce mosso non dalla ragione - facciamo tante cose irragionevoli! -, ma dall’amore. È spinto alla decisione dal desiderio profondo di una promessa di felicità che lo alletta. Ciò che più “sente” dentro e lo attira, lo sappia o no, lo determina. La delectatio victrix, il piacere vincente (sant’Agostino), «il canto più seducente», sbilancia ogni sua valutazione e lo porta all’azione.

Il “suo” sentire riguarda sempre “altro”, qualunque cosa gli capiti o qualunque persona incontri.

È importante sapere - chi ne ha esperienza, lo sa bene - che il suo sentire può avere tre fonti diverse: il suo io naturale, il suo Dio e il suo nemico mortale (espressione poco simpatica, quest’ultima, che volentieri avrei evitato, se non fosse che tutti conosciamo una realtà ostile che è in noi e non è noi). Ciascuno lo attira nella propria direzione. Inoltre sia Dio che il nemico interferiscono nel suo sentire naturale e lo sollecitano, il primo verso la libertà e il secondo verso la schiavitù. Imparare a distinguere da dove partono e dove portano i sentimenti è indispensabile perché l’azione sia il più possibile cosciente e libera, umana.

Il sentire naturale viene dall’indole e dalla cultura, e apre una persona a tutto campo sulla realtà. È un’energia di cui uno può disporre solo se impara a conoscerla e canalizzarla. Diversamente lo tiene in sua balìa, come una banderuola agitata da tutti i venti.

Dio può farsi sentire direttamente, senza mediazioni, infondendo la sua gioia; oppure indirettamente, mediante un suo messaggero (= angelo), che suscita immagini, illuminazioni e desideri che portano a vivere la sua libertà.

Il       nemico, anche lui mediante immagini, ragionamenti e desideri, alletta alla schiavitù con l’esca del piacere apparente, oppure blocca con menzogne e paure; o infine, più sottilmente, con la maschera del bene, anzi del meglio, cerca di portare al male o almeno di disturbare chi non cederebbe al male.

Quindi nel nostro cuore, oltre la nostra voce, c’è anche quella di Dio, quella di un suo “messaggero buono”, e quella di un “messaggero cattivo”.

Quando tutto tace, solo Dio, nel suo silenzio, può parlare senza parola: è il fondo stesso della coscienza di ogni uomo. Per il resto le voci del messaggero buono e di quello cattivo interagiscono sempre con la nostra e con quella di Dio stesso, con intenti opposti tra di loro.

Distinguere tra il vocìo che è dentro di noi, individuare e liberare “il canto più bello”, è l’arte delle arti: è il discernimento, che ci fa conoscere da dove vengono e verso dove vanno i vari moti del cuore.

Gli antichi Padri del deserto dicevano: «A ogni pensiero che ti assale, chiedi: “Sei dei nostri o vieni dall’avversario?”, e certamente te lo dirà». E ancora: «L’anima è una fonte: se la scavi, si purifica; se ci getti della terra, scompare».

 

Perché discernere

Discernere è necessario perché il nostro agire sia umano: cosciente e voluto, libero e responsabile, capace di decidere che fare qui e ora e di imprimere l’orientamento di fondo alla vita.

Le azioni, esterne e visibili, sono determinate da moti interiori invisibili. Fino a quando questi restano ignoti, le azioni non sono umane, anche se dell’uomo. Senza conoscenza e libertà l’uomo non è ancora umano: è piuttosto una bestiola, solo un po’ più complicata, perché mosso da impulsi diversi a seconda degli stimoli; e tutto può stimolarlo, perché, fatto per l’infinito, è infinitamente insoddisfatto.

I più non sanno ciò che fanno. Fossero almeno contenti! Invece soffrono e fanno soffrire per questa loro confusione. Nel campo cresce ogni specie di erba e l’animale sa riconoscere la buona dalla velenosa. Come può l’uomo distinguere tra tutto ciò che cresce nel suo cuore? Porta al bene o al male, alla libertà o alla schiavitù, a casa o in prigione?

Impresa tanto ardua quanto necessaria! C’è infatti lo scandalo del male che sembra bene e del bene che sembra male, del bene che riesce male e con difficoltà e del male che riesce bene e con facilità, addirittura del male che vince e del bene che perde, del male che vincendo perde e del bene che perdendo vince. E se questo è in qualche misura comprensibile per il fatto che io sono cattivo o non ancora buono, come mai capita così sovente che proprio chi è buono, in nome del bene, anzi del meglio - la storia insegna, ma nessuno impara! - fa il male, anzi il peggio!?

Distinguere tra loro le voci di Dio, del messaggero buono e di quello cattivo, è fondamentale per scegliere con libertà e agire moralmente.

Infatti il bene o il male non sta nelle cose, ma nell’azione dell’uomo, che può servirsene per crescere nella libertà di amare o meno. E ogni sua azione nasce da una seduzione interna che lo attira in una direzione piuttosto che in un’altra. Non c’è nulla fuori da lui che, entrando in lui, possa contaminarlo; è invece quanto esce da lui che lo contamina: dal suo interno infatti, dal suo cuore, escono le intenzioni cattive (cf. Mc 7, 15.21). Ma anche quelle buone!

Inoltre il discernimento mi fa capire qual è il bene da fare qui e ora. Questo non è indicato da nessuna legge. Data la complessità del reale, in ogni decisione c’è conflitto di valori diversi, e non è chiaro in sé cosa fare. La faccenda è ancor più complicata in epoche di grandi cambiamenti, come l’attuale, in cui ciò che ieri pareva ovvio, oggi può scandalizzare, per esempio la schiavitù, il razzismo, il nazionalismo, l’inferiorità della donna, il potere temporale della chiesa, per dire solo qualcosa che tutti ora più o meno riconoscono.

Al contrario, ciò che ieri poteva scandalizzare, oggi o domani, può essere ovvio: non faccio esempi per non scandalizzare chi ancora non vive l’oggi o non capisce il domani!

Non basta agire “in buona fede”. Il male, dall’albero dell’Eden a quello della croce, si consuma sempre nell’ignoranza. Adamo agì per inganno; dei suoi crocifissori Gesù dice che «non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). Il Signore è dovuto finire in croce per indurre un po’ di malafede in chi era in buona fede.

Facciamo un esempio: oggi c’è l’“orgoglio gay”; una volta l’omosessualità era demonizzata. L’orgoglio gay rispetta ogni persona, è vero. Ma è proprio bene - gesto di libertà che fa crescere l’altro e me - servirmi dell’altro per necessità o piacere mio e ridurlo come me, soprattutto se è giovane e in età delicata? La demonizzazione ha forse per l’addietro scoraggiato qualcuno da un’esperienza ritenuta negativa. Ma è proprio bene - gesto di libertà che fa crescere l’altro e me - disprezzare una persona umana?

Ci sono in ballo due valori, che si escludono nella decisione pratica: quello del rispetto di tutti, principio divino, e quello della tutela dei più fragili, principio altrettanto divino. Si può stabilire che non si deve disprezzare mai nessuno, ed è giusto; si può anche fare una scala di valori, ponendo come primo valore la tutela del più debole. Ma chi è ora il più debole? Quale dei due, e in quale modo, è meglio tutelare qui e ora? Dal dilemma non si può uscire, se non con una valutazione attenta, che decide assumendosi le sue responsabilità.

La medesima considerazione vale per una saggia legislazione sull’aborto, la droga, la prostituzione, tutti problemi diversi ma ugualmente scottanti, dove entra in gioco una molteplicità di pro e di contro. Vale però anche per ogni decisione personale: che professione scegliere, che tempo dedicare ai vari impegni, come educare i figli? E vale inoltre per tutte le decisioni economiche e politiche, con una complessità sempre maggiore.

Infine nessuna legge mi può dire che scelta di vita devo fare. Solo il discernimento mi fa cogliere la volontà di Dio su di me, mi dice il mio vero nome, che solo io posso conoscere (cf. Ap 2, 17): mi dà l’incanto del suo canto per me, che sono io stesso. Il nome col quale egli mi chiama, e che io realizzo nella mia vita, è la mia “vocazione”; e sarà anche la mia “missione”, il mio rapporto all’altro che dice il mio nome.

 

A che fine si discerne

Lo scopo del discernimento non è solo teorico. Distinguere da dove partono e dove portano i moti interiori ha un fine eminentemente pratico: «trattenere i buoni e respingere i cattivi» [3]. Serve ad attuare la libertà, a decidere responsabilmente per il “sì” a ciò che è bene, senza confonderlo per inavvertenza o ignoranza col suo contrario.

Il discernimento è un metodo di ricerca: non dà risposte a priori, ma valuta la situazione concreta, per decidere che fare qui e ora, cosa favorire o meno nella mia azione presente.

Per agire umanamente devo innanzitutto avvertire ciò che mi muove, perché la coscienza non sia assopita nell’incoscienza; e poi conoscere da dove parte e dove porta, al bene o al male, perché l’intelligenza non sia ingannata dalla falsità; e infine trattenere o respingere ciò che rispettivamente porta al bene o al male, perché la volontà non sia schiava del vizio. Tuttavia, anche se è schiava, mi rimane sempre il libero arbitrio, la capacità di dissentire da ciò che sento e so che mi trascina irresistibilmente al male.

Questa soglia ultima di libertà è caratteristica inalienabile di ogni uomo, in qualunque situazione si trovi. Anche gli psicologi è bene che lo tengano presente, per non togliergli quella prerogativa che lo distingue dall’animale (si ricordino anche che l’occhio non è specchio, ma finestra!). Quanti infine credono nell’oroscopo (sempre, oggi come una volta, sono tanti, soprattutto tra i non credenti - in qualcosa bisogna pur credere! -) sappiano pure loro che, se vogliono, possono essere liberi.

Il fine del discernimento, del sentire e conoscere, è acconsentire a ciò che è da Dio, e dissentire da ciò che il nemico pone nel cuore a danno proprio e altrui: è l’esercizio stesso della libertà, che ci fa uomini.

Agire moralmente non è seguire le leggi? Morale non è ciò che è conforme alla norma?

È prudente, talora indispensabile, seguire le leggi, ma non basta. Ulisse può legarsi all’albero maestro, per non cedere alla malìa. E la legge è la legatura più perfetta. Così però non libera in sé il “canto più bello”, che lo slega e lo rende capace di seguirne il fascino verso la sua destinazione (forse si fa legare perché già percepisce dentro il canto del ritorno, la “nostalgia”, ma solo come doloroso richiamo, e non ancora come bellezza capace di vincere la se-duzione del cattivo incanto). Anche gli animali seguono ferreamente la norma del loro istinto, o leggi di comportamento indotte; ma non agiscono moralmente, perché non hanno la possibilità di far diversamente.

Per agire bene non basta osservare materialmente le leggi e le norme. L’uomo sarebbe ridotto ad animale addestrato, che reagisce come deve o meno, secondo la connessione che ha fatto tra una certa azione e la sanzione o gratifica che riceve.

Non è neppure sufficiente osservare le norme per convinzione profonda nel valore che propongono. Infatti in ogni decisione, come detto, entrano in conflitto valori diversi, per cui scegliendo l’uno scarto necessariamente l’altro. Se volessi comportarmi in base alle convinzioni, non saprei mai che fare, o ne sceglierei arbitrariamente una a scapito delle altre.

Per agire moralmente devo valutare la complessità della situazione, con un discernimento attento, e decidere con responsabilità, assumendomi il peso di una scelta sempre necessariamente imperfetta, perché parziale e cosciente di esserlo.

A un'etica delle leggi e delle convinzioni, che può essere rispettivamente animalesca o irresponsabile, deve succedere un’etica della responsabilità, basata sul discernimento, che ha come principio la libertà dell’amore e l’amore della libertà. Vedi il comportamento di Paolo nel caso controverso ed esemplare delle carni sacrificate agli idoli (cf. 1 Cor 8, 1 ss; 10, 23, 32).

La moralità di un atto è proporzionale al grado di libertà che implica e promuove: ciò che non è libero non è morale e ciò che liberamente non promuove la libertà è immorale. L’amoralità è la mancanza di libertà di chi agisce; l’immoralità è la mancanza di libertà, propria o altrui, liberamente accettata. Il male è comunque sempre mancanza di libertà, ossia di conoscenza e/o di volontà.

La libertà, sommo bene, è misura di ogni azione umana: ciò che la diminuisce o toglie, è male; ciò che la promuove, è bene. Il principio del bene e del male è il cuore (cf. Mc 7, 21), lasciato alla sua libertà di rispondere o meno all’amore.

Per questo è indispensabile avvertire e conoscere quale spirito ci muove, di che tipo è il canto che più ci attira.

Il       discernimento è la categoria morale fondamentale: senza di esso non si può parlare di moralità.

 

Discernimento e pastorale

La “pastorale”, che si occupa della formazione alla vita cristiana, è l’arte di educare al discernimento. Ogni persona deve essere responsabile di sé e delle proprie azioni, discernere il bene dal male, conoscere la propria destinazione unica e irripetibile in questo mondo. A questo dovrebbe aiutare il servizio pastorale.

Educare significa e-ducere, “tirar-fuori”. E il paziente lavoro “maieutico” di una levatrice che, senza traumi e in modo naturale, aiuta a venire alla luce l’uomo nuovo che è in ciascuno di noi. È la nascita dell’uomo libero, “poema” di Dio, figlio creato e salvato nel Figlio (cf. Ef 2, 10).

Questa educazione alla libertà è particolarmente necessaria nel nostro tempo per due motivi.

Primo, perché la modernità, con la rottura dell’orizzonte tradizionale, si caratterizza per la libertà nei confronti della natura e della cultura. Le religioni, che si fondano sulla legge, entrano in crisi.

O       scompariranno lasciando un vuoto pericoloso o si irrigidiranno in fondamentalismi non meno pericolosi. Il cristianesimo, nella misura in cui è rispettoso della sua verità, che è quella della libertà del Figlio, non solo resisterà, ma ne uscirà purificato e rafforzato, addirittura in grado di salvare la modernità dal nichilismo, dando alla libertà stessa un contenuto positivo.

Inoltre oggi le possibilità sono aperte all’impossibile. Il «che fare?» per l’uomo postmoderno è sempre più problematico. Se non lo si educa al discernimento, a «scoprire l’uomo nascosto del cuore» (cf. 1 Pt 3, 4), che gli dice la sua identità positiva, la sua libertà diviene una potentissima mina in mano a un bambino che gioca, solo che può mettere in gioco il mondo intero. Oggi siamo coscienti che, per la prima volta nella storia, dalla nostra libertà dipende il destino non solo personale, ma dell’umanità.

Di quali mezzi disponiamo per usare bene questo enorme potenziale esplosivo che ci troviamo tra mano?

La Scrittura, letta nella Chiesa, è lo strumento sempre principale di ogni cammino personale e comunitario: è lampada per i nostri passi e luce sul nostro cammino (cf. Sal 119, 105). È la parola sulla quale ognuno si misura per ricevere il suo nome, il proprio volto verso l’altro. Presa nella sua globalità, essa ci presenta la nostra identità, che si compendia in Gesù, uomo vero, capace di amare in libertà. Le sue azioni, raccontate nei Vangeli, non sono mai ovvie. Sono sempre sorprendenti; e, leggendole, siamo invitati a chiederci che discernimento lui abbia fatto - a quali valori ha mirato, quali ovvietà ha messo in crisi, quali difficoltà ha incontrato, quali frutti ha ottenuto - e quali risonanze tutto questo ha suscitato in noi.

La Scrittura è oggettiva e uguale per tutti: narra la storia del Signore-con-noi. La contemplazione del “bello” di Dio, che si manifesta nella nostra carne, affina la nostra sensibilità a percepire la sua azione. La “memoria” di ciò che ha fatto ci addestra l’occhio a vedere ciò che ancora adesso fa, in modo che possiamo collaborare con lui.

La Scrittura però è anche soggettiva e diversa per ciascuno. È uno splendido spartito musicale: esiste solo quando e come è eseguito. E può esserlo in infiniti modi e con tutti gli strumenti, secondo l’indole, la maestria e l’ispirazione di ciascuno. Ogni singola creatura è uno strumento unico, e come tale voluto e amato, che dà gloria a Dio: «omnis spiritus laudet Dominum» (Sal 150, 5). Come il     sole e la pioggia fanno sì che ogni seme cresca e sia se stesso, così l’unica Parola nell’unico Spirito suscita ogni diversità, che si fa strumento e nota in più che contribuisce alla sinfonia del tutto.

Ognuno, sentendo lo stesso racconto, reagisce in modo diverso, secondo l’azione dello spirito buono o cattivo al quale presta ascolto.

La Scrittura è quindi principio di discernimento per due motivi. Primo, perché ci mette in sintonia con Dio: ci comunica la sua stessa sensibilità, il suo modo di pensare e di agire. Secondo, perché ci dà l’oggetto del discernimento: la Parola provoca in noi reazioni e risonanze, nelle quali percepiamo il suo canto per noi, che nessuna persona e istituzione ci può offrire.

Le istituzioni religiose, i riti e le norme sono necessari come il corpo per vivere. Ma non mi dicono il mio nome, non mi danno la mia identità e, dove sono assolutizzate e senza discernimento, hanno sapore di morte. Per questo guai alle omologazioni, in cui la “disciplina di corpo” prevale sullo Spirito.

 

Discernimento e tradizione

La tradizione è un mercato: offre di tutto. Mette a disposizione il patrimonio di quanti hanno pensato e agito; ne tramanda la parte più significativa, sopravvissuta al vaglio del tempo. Trascurare la tradizione sarebbe azzerare la memoria, negare la storia, perdere la propria identità, far saltar per aria la casa in cui si dimora.

Tuttavia al mercato devo saper scegliere ciò di cui ho bisogno. Posso prendere l’ombrello da pioggia o la crema solare: cosa mi serve in questo luogo e con questo tempo?

Sul tema del discernimento la tradizione è ricca di indicazioni. Sulla base di un’esperienza lunga e oculata, ha sviluppato una scienza accurata sui moti del cuore, su come leggerli e agire di conseguenza. Al confronto la nostra psicologia moderna è piuttosto primitiva. Infatti, se pur privilegia la psiche dell’uomo - e qui ha fatto delle conquiste -, ne ignora spesso lo spirito, l’intelligenza, la volontà, il libero arbitrio, il desiderio di trascendenza, di alterità, di amore e di felicità. Se conscia dei suoi limiti - «nessuna scienza è dei propri principi», Aristotele disse e Gödel ribadì! - va bene per riparare eventuali guasti della psiche. Però è insufficiente per interpretare l’uomo. La psicologia “suppone” un’antropologia. Ma quale? Quella positivistica, quella della New Age, o qualunque altra che salti di pari passo tutto un cammino culturale plurimillenario? Se la psicologia stessa si pone come “antropologia”, fa più danni di quelli che vuol riparare. Se poi addirittura si appiattisce sull’etologia, per certi aspetti pure utile, allora non dice più nulla sull’essere umano in quanto tale. All’animale tutto ci accomuna. Ma c’è pur qualcosa che ci distingue!

Gli antichi si sono dedicati all’esperienza interiore, cogliendo le leggi dello spirito con la stessa precisione con cui oggi noi cogliamo quelle della materia. Come noi abbiamo una conoscenza avanzata per controllare la natura, così essi hanno sviluppato conoscenze e tecniche utili al progresso della vita spirituale e psicologica (la zona di confine è comune).

L’uomo, soddisfatti i bisogni animali, fin dall’inizio si è cimentato con i problemi dello spirito. Si è interrogato sulla vita e sulla morte, sulle attrazioni e sulle paure, sui misteri del cuore; si è arrovellato per trovare risposte e atteggiamenti idonei a procurargli quella pienezza di vita che la sua condizione di mortale, cosciente di esserlo, insieme vieta e fa desiderare. Solo in un secondo tempo si è dedicato a conoscenze materiali per migliorare la qualità della sua vita, proprio perché ne aveva scoperto il valore. Diversamente si sarebbe lasciato morire.

Nel “buio” medioevo, come si usava dire - è sempre buio ciò che non si conosce -, la scienza e l’arte culminavano nella filosofia come riflessione sul mondo e sull’uomo; la filosofia culminava nella teologia, come riflessione sul rapporto uomo/Dio; la teologia culminava nella mistica, scienza suprema che apre l'uomo all’esperienza di Dio. Questa si poneva come vertice del sapere e agire umano, con una ricca strumentazione che abbracciava tutto lo scibile. Vedi, per esempio, le opere di Guglielmo di St. Thierry, contemporaneo del mistico e generoso Bernardo non che del raffinato e inquieto Abelardo.

Oggi la mistica è ridotta a un’appendice della teologia, che è una deviazione della filosofia, che può essere un optional della scienza. Oppure è più semplicemente lasciata in balia a mistificatori, che fanno leva sulla sete di Dio per propinare bevande di tutti i tipi.

La nostra attuale conoscenza dello spirito non è sufficiente rispetto a quella che abbiamo della materia. C’è uno squilibrio pericoloso. Se non vogliamo estinguerci nell’angoscia del non senso, è bene che torniamo a riflettere su ciò che dà senso al resto.

Il       “discernimento degli spiriti” ha una lunga tradizione. Basta leggere La Filocalia per rendersi conto di quale posto l’argomento occupi presso gli antichi autori cristiani, eredi prudenti e attenti dell’esperienza dei loro predecessori, di diversa cultura e provenienza. Tra loro spicca per acutezza Diadoco di Fotica. Tra i medievali ricordiamo la preziosissima Imitazione di Cristo, incomparabile manuale di accompagnamento per il cammino di chiunque, ancora adesso, voglia incontrare Dio. Tra i moderni si può sempre leggere con gusto e profitto Lewis [4]. Anche M. Ruiz Jurado [5] offre una ricca panoramica sull’argomento.

In queste pagine seguirò Ignazio di Loyola, che si situa a cavallo tra epoca antica e moderna. Giustamente R. Barthes lo pone tra i “logoteti”, i fondatori di linguaggio, e precisamente del linguaggio mistico. Nel suo aureo libretto propone degli esercizi da fare per liberare la persona dall’ignoranza e dai vizi che la imprigionano, perché sappia cercare, trovare e fare la propria verità nella vita di ogni giorno.

Riporto e commento liberamente quanto Ignazio propone per aiutare l’uomo a entrare in se stesso, a guardare se stesso, a leggere se stesso e a decidere da se stesso (è estremamente moderno quest’uomo del Cinquecento!). Seguirò qualcuna delle istruzioni pratiche dei suoi Esercizi spirituali - che d’ora in poi citerò con la sigla ES -, dove l’autore attinge dall’esperienza propria e altrui, in particolare dall’Imitazione di Cristo. Stimolante è il commento di Achille Gagliardi (1590), disponibile in francese [6]. In appendice a questa edizione c’è la traduzione del Breve Compendio di perfezione cristiana, tanto breve quanto splendido, il cui influsso fu determinante per la spiritualità dei secoli successivi. Notevole, anche se difficile da determinare, è in esso il contributo della mistica Isabella Bellinzaga.

Mi fermerò soprattutto sulle “regole” del discernimento, utili per leggere ciò che avviene nel proprio cuore. Insegnano a distinguere il canto di Dio, che chiama alla libertà, dalle malìe del nemico, che vuol trattenere o ricondurre in schiavitù.

Sono più chiare di qualunque spiegazione. Chi le legge con cura se ne rende conto. La spiegazione è un pretesto per richiamare l’attenzione sul testo. Sono un liofilizzato che ha bisogno di essere diluito. Vanno esaminate con cura, pazienza e tempo e, soprattutto, applicate. Facili da applicare ad altri, sono però difficili da applicare a se stessi. Anche dopo un lungo allenamento, è sempre utile confrontarsi con persona esperta e prudente. L’altro, per quanto sprovveduto sia, vede il mio volto meglio di me.

Allo scopo di illuminare la tua esperienza, chiediti dove portano i sentieri di un tempo, tracciati da quelli che prima di te hanno camminato verso casa.

Se rifiuti il passato, ti privi del presente e del futuro. Se vuoi conoscere senza sperimentare, sei stolto; ma se vuoi sperimentare senza confrontarti con gli altri, sei anche pazzo. Confrontati con questi suggerimenti: ti servirà a far sì che le tue scelte non siano stolte o pazze più del necessario!

La vita spirituale è una lotta. Gli antichi monaci si chiamavano “lottatori”, la loro vita “lotta continua”. Ma non contro persone, bensì contro la tenebra che vuol impedirci di venire alla luce (cf. Ef 6, 10-12). È la battaglia contro il nostro falso io, il vero unico nemico.

Chi vuol camminare lo metta in conto, senza meravigliarsi o cadere in confusione. Perché così è: se sei suddito del male, questo ti lascia in una tranquillità da anestesia più o meno totale; ma se lotti contro, anch’esso lotta contro di te. Per questo la schiavitù pare meno dura della libertà. Si dice che per Dio fu più facile tirar fuori Israele dall’Egitto, che l’Egitto dal cuore di Israele. Per la prima operazione fu sufficiente una notte. Per la seconda non bastarono quarant’anni di deserto.

«Se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione» (Sir 2, 1 ). «Un uomo non tentato, è inetto», dice il Signore (Didascalia Sir., 2, 8).

«Ricordatevi che i vostri padri furono messi alla prova per vedere se davvero temevano il loro Dio. Ricordate come fu tentato il vostro padre Abramo e come proprio attraverso la prova di molte tribolazioni egli divenne l’amico di Dio. Così pure Isacco, così Giacobbe, così Mosè e tutti quelli che piacquero a Dio furono provati con molte tribolazioni e si mantennero fedeli» (Gdt 8, 21-23 vulg.).

C’è quindi una lotta per giungere alla libertà. I suoi costi sono però infinitamente inferiori a quelli della schiavitù.

E poi: libero è bello!

 



[1] Pico della Mirandola, De hominis dignitate, Firenze 1942, pp. 105-106.

[2] Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 15.

[3]    Ibid., n. 313.

[4] C.S. Lewis, Le lettere di Berlicche, Milano 1991.

[5] M. Ruiz Jurado, Il discernimento spirituale. Teologia, storia, pratica, Milano 1997.

[6] A. Gagliardi, Commentaire des exercices spirituels d’Ignace de Loyola, Paris 1996.

 


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1 giugno 2015                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net