Regola di S. Benedetto

 

Capitolo XVI - La celebrazione dei divini Offici durante le ore del giorno

"Sette volte al giorno ti ho lodato", dice il profeta. Questo sacro numero di sette sarà adempiuto da noi, se assolveremo i doveri del nostro servizio alle Lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e Compieta,...Dunque in queste ore innalziamo lodi al nostro Creatore "per le opere della sua giustizia" e cioè alle lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e a Compieta e di notte alziamoci per celebrare la sua grandezza.

 

Capitolo LXXIII - La modesta portata di questa regola

Abbiamo abbozzato questa Regola con l'intenzione che, mediante la sua osservanza nei nostri monasteri, riusciamo almeno a dar prova di possedere una certa rettitudine di costumi e di essere ai primordi della vita monastica...C'è infatti una pagina, anzi una parola, dell'antico o del nuovo Testamento, che non costituisca una norma esattissima per la vita umana?... O esiste un'opera dei padri della Chiesa che non mostri chiaramente la via più rapida e diretta per raggiungere l'unione con il nostro Creatore?

 


LA SPIRITUALITÀ BENEDETTINA DELLA CREAZIONE

 Tratto dal libro "Apri i tuoi sensi a Dio" di Anselm Grün, O.S.B. - Edizioni San Paolo 2001

L’esperienza di Giobbe

Anche chi si immedesima nella sofferenza del prossimo ha il diritto di ribellarsi a Dio: «No, non può essere vero. Perché hai permesso questo? Come hai potuto farmi una cosa simile?». Anche la ribellione contro Dio può condurre a una nuova esperienza di Dio. L’esperienza di Giobbe fu proprio questa. Quando Dio permise che Satana lo privasse di tutti i suoi beni, dei suoi figli, della salute, i suoi amici si misero in viaggio, ciascuno dalla sua contrada, e andarono a visitarlo. Parteciparono con grande intensità al suo dolore, gridarono, piansero. Poi si sedettero a terra accanto a lui, e per sette giorni e sette notti tacquero. Quando però Giobbe aprì bocca e maledisse il giorno della sua nascita, presero a spiegargli con innumerevoli argomenti che Dio gli aveva inviato la sofferenza perché lui aveva peccato. Il modello interpretativo teologico di cui si avvalgono è: non esiste sofferenza innocente, la sofferenza è sempre un castigo per i nostri peccati. Ma Giobbe si ribella a questa spiegazione. Sa di aver cercato di essere un giusto. E alla fine Dio gli darà ragione e rimprovererà i suoi amici: «Non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe» (Gb 42,7).

La risposta che Dio dà a Giobbe, tuttavia, ci lascia sconcertati. Dio non si lascia coinvolgere in discussioni teologiche, se la sofferenza sia giustificata o meno, se sia lui a causare la sofferenza umana o si limiti a permetterla, se l’uomo possa crescere grazie alla sofferenza, e simili. La sua risposta consiste solo nella lunga allocuzione in cui espone a Giobbe le meraviglie del creato: «Chi è costui che oscura il consiglio con parole insipienti? Cingiti i fianchi come un prode, io t’interrogherò e tu mi istruirai. Doveri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la misura?» (Gb 38,2-5). Poi descrive a Giobbe la terra con le sue meraviglie, il mistero del mare, del vento, della pioggia, dell’alba. Illustra nei minimi particolari le caratteristiche delle cerve, dell’onagro, del bufalo, dello struzzo, del cavallo, dell’aquila. E in un secondo discorso, di mezzo al turbine, lo fa riflettere sulla forza dell’ippopotamo e del coccodrillo. E Giobbe risponde: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere» (Gb 42,5-6).

 

Saper vedere nella creazione il Creatore

La vista della creazione fu per Giobbe “visione di Dio”. E la creazione non viene affatto descritta da Dio in modo idilliaco, ma con tutti i suoi aspetti crudeli e contraddittori. Alcuni teologi ritengono che Dio non abbia risposto soddisfacentemente alla domanda di Giobbe. Ma a mio parere si tratta invece della risposta più appropriata che si potesse dare. Impegolarsi in discussioni sulla giustizia o ingiustizia di Dio non porta a nulla. Perché così resto fuori da Dio. Così non faccio che parlare di Dio. Mentre invece si tratta di vedere chi è Dio, di guardare con stupore il mistero della creazione intorno a me. Nell’osservare come il mare ribolle, come il sole sorge, come le cerve partoriscono i loro piccoli, come l’aquila si libra nell’aria, io vedo Dio. Non disserto su di lui. Non elaboro intellettualmente una qualche dimostrazione della sua esistenza. Mi limito a guardare. E, nel guardare, faccio esperienza di Dio. Nella creazione vedo il Creatore, il mistero della sua onnipotenza e della sua fantasia, la molteplicità della vita, la sapienza insita in ogni cosa.

Per me questa è una via importante dell’esperienza di Dio. Nei colloqui sento sempre la gente lamentarsi che Dio è così lontano, che non si mostra, che non si rivela. E a queste affermazioni non ho altra risposta se non quella che Dio dà a Giobbe. Guardati intorno! Guarda la vita! Che cosa vedi, quando guardi un fiore, quando osservi l’ape suggere il nettare, quando contempli con stupore la farfalla in tutto il suo splendore? È solo natura? Ma che cos’è, la natura? Non è forse stata creata da Dio, non è animata dallo Spirito divino, non è pervasa dall’amore di Dio? Che cosa senti, quando ascolti cantare gli uccelli, mormorare il vento, scrosciare e gorgogliare un ruscello? Solo rumori o l’inno di lode del cosmo, che dai tempi dei tempi canta le lodi del Creatore?

Pitagora ha udito il canto delle sfere celesti, e in esso ha percepito il convergere del mondo in un’armonia divina. Anche oggi vi sono ancora persone spirituali che nella creazione sentono la voce del Creatore, suoni divini, il sempiterno inno di lode del cielo. La liturgia ci invita ogni giorno a unirci a questo perpetuo inno di lode delle potenze e dei principati, degli angeli e dei santi, a elevare a Dio con tutto il cosmo un inno di lode. Se siamo tutt’occhi e tutt’orecchi, in ogni cosa vediamo e udiamo Dio stesso. Nel fiore, nei monti, negli uccelli del cielo contempliamo il Creatore. Da ogni cosa udiamo provenire la sua voce. Allora non discettiamo più su Dio, neppure su Dio come causa prima della creazione, come motore immobile. Nella creazione sfioriamo il Creatore stesso.

Conosco molte persone che proprio nella natura fanno le loro più intense esperienze di Dio. Io stesso, sin da bambino, sentivo il fascino profondo e suggestivo della creazione. Durante le nostre passeggiate domenicali, mio padre sensibilizzava noi bambini alla bellezza della natura. Ci teneva affascinanti lezioni sul mistero di un albero, ci insegnava a distinguere il canto dei diversi uccelli, o le varie costellazioni. Nella creazione vedeva e ci insegnava a vedere il Creatore, che ha saputo dar vita a tante meraviglie.

A scuola invece si raccomandavano che il nostro incontro con Dio avvenisse soprattutto in chiesa, nelle funzioni religiose. E chi avesse detto che Dio lo si poteva incontrare anche facendo una passeggiata in un bosco si sarebbe reso ridicolo. Ma così si crea un’inutile antinomia. Non a caso molti popoli celebravano nella natura le loro funzioni religiose. Nel sole sperimentavano qualcosa del mistero dell’amore di Dio. Nelle vette contemplavano la sua maestosa bellezza. Giovanni della Croce parla delle «mie amate, le gigantesche montagne». Al nostro priore, Fidelis Ruppert, è accaduto di ripetere questa esperienza del grande mistico spagnolo quando in Perù ha visto il monte sacro, l’Apu Ausangate. Gli è parso che irradiasse la presenza di Dio e di un amore ineffabile. E come se dal monte l’amore fluisse a lui e lo pervadesse. L’unica reazione possibile era restare in silenzio, un silenzio colmo di stupefazione, e pregare (Ruppert, Mein Geliebter, die riesigen Berge, pp. 18 ss.). Al cospetto di quella montagna ha avvertito la presenza di Dio più intensamente che in tante funzioni religiose. Per me, un’esperienza importante è quando in estate, di prima mattina, dopo le Lodi, vado a fare una passeggiata nel nostro viale lungo il fiume: spalanco le braccia per pregare e sento il soffio fresco del vento, e in esso l’affettuosa presenza di Dio. L’eucaristia che celebriamo di lì a poco mi concretizza poi l’amore di Dio sotto la forma del pane e del vino. Ma l’esperienza è una sola: non avrebbe senso contrapporle. Giovanni della Croce evidentemente avvertì l’amore di Dio nei monti della sua terra, la Spagna. Là Dio gli era particolarmente vicino. La notte oscura di cui parla non è affatto una negazione della sua esperienza di Dio nella creazione. E semmai la purificazione che fa sì che l’individuo veda la creazione con occhi nuovi, che in ogni cosa riconosca e sperimenti il mistero di Dio.

 

Spiritualità della creazione

Sulle orme di Matthew Fox, si parla oggi di “spiritualità della creazione”, contrapponendola alla spiritualità della redenzione. Essa consiste nel fare esperienza di Dio soprattutto nella creazione. La creazione è il primo dono di Dio agli uomini. Dio ci abbraccia nella creazione. La natura è pervasa dallo Spirito di Dio, dal suo amore, dalla sua bellezza. Contemplando la natura possiamo avere un’intuizione di Dio. Ma per fare esperienza di Dio nella creazione è necessaria la capacità di stupirsi. Il vocabolo tedesco staunen, “stupirsi”, viene da stauen, che significa “bloccare, arrestare”. Per potermi stupire mi devo fermare. Devo essere tutto concentrato su ciò che vedo. I greci esprimevano questo atteggiamento nel vocabolo che usavano per “stupirsi: thaumázein, “meravigliarsi”. Nello stupore mi si rivela la meraviglia della creazione. È la stupefatta meraviglia l’atteggiamento appropriato nei confronti della creazione. E alla creazione appartiene naturalmente anche l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio. Anche nella bellezza del suo corpo, nei suoi occhi, nelle opere delle sue mani ci si può rivelare la gloria di Dio.

 

La spiritualità benedettina è da sempre una spiritualità della creazione. Benedetto invita i monaci a lodare sette volte al giorno Dio, il Creatore. La liturgia è per lui innanzitutto lode del Creatore. Nella misura in cui i monaci lodano il Creatore e la sua creazione in salmi ed inni, i loro sensi si aprono per fare esperienza, nella creazione, del Creatore stesso. La spiritualità benedettina della creazione è contraddistinta inoltre da un rapporto attento e rispettoso con i concreti oggetti della vita quotidiana, gli utensili, gli strumenti di lavoro. Chi è tutto concentrato nel rapporto con le cose che tocca e con cui lavora, può fare esperienza di Dio nell’umile quotidianità. Per lui, tutto è espressione della presenza di Dio. Nell’accuratezza con cui lavora, il monaco esprime che quel lavoro egli lo fa al cospetto di Dio, e che quel suo lavoro lo lega a Dio e lo conduce a Dio. La Liturgia delle Ore è contraddistinta da una particolare sensibilità per la qualità del tempo, per il ritmo della creazione. Il monaco, con il concreto dipanarsi della sua giornata, si coinvolge nel ritmo che Dio gli ha assegnato nella sua creazione. E così non solo il rapporto con le cose, ma anche il concreto ritmo della giornata diventa luogo dell’esperienza di Dio.

 


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9 dicembre 2021                a cura di Alberto "da Cormano"       Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net