Regola di S. Benedetto

IL CORPO

Prologo: 42 E se vogliamo arrivare alla vita eterna, sfuggendo alle pene dell'inferno, 43 finche c'è tempo e siamo in questo corpo e abbiamo la possibilità di compiere tutte queste buone azioni, 44 dobbiamo correre e operare adesso quanto ci sarà utile per l'eternità.
II - L'Abate: 27 Riprenda, ammonendoli una prima e una seconda volta, i monaci più docili e assennati, 28 ma i malvagi, i duri, i superbi e i disubbidienti, li castighi all'inizio del peccato, con fustigazioni o altre punizioni corporali , ben sapendo che sta scritto: "Lo stolto non si corregge con le parole" 29 e anche: "Battendo tuo figlio con la verga, salverai l'anima sua dalla morte".
IV - Gli strumenti delle buone opere: 10 Rinnegare completamente se stesso. per seguire Cristo; 11 mortificare il proprio corpo, 12 non cercare le comodità, 13 amare il digiuno.
VII - L'umiltà: 8 La scala così eretta, poi, è la nostra vita terrena che, se il cuore è umile, Dio solleva fino al cielo;
9 noi riteniamo infatti che i due lati della scala siano il corpo e l'anima nostra, nei quali la divina chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà o di esercizio ascetico per cui bisogna salire.
XXIII - La scomunica per le colpe: 4 Ma nel caso che anche questo provvedimento si dimostri inefficace, sia scomunicato, purché sia in grado di valutare la portata di una tale punizione. 5 Se invece difetta di una sufficiente sensibilità, sia sottoposto al castigo corporale.
XXX - La correzione dei ragazzi: 2 Perciò i bambini e gli adolescenti e quelli che non sono in grado di comprendere la gravità della scomunica, 3 quando commettono qualche colpa siano puniti con gravi digiuni o repressi con castighi corporali, perché si correggano.
XXXIII - Il "vizio" della proprietà: 1 Nel monastero questo vizio dev'essere assolutamente stroncato fin dalle radici,... 4 dal momento che ai monaci non è più concesso di disporre liberamente neanche del proprio corpo e della propria volontà
LIII - L'accoglienza degli ospiti: 6 Nel saluto medesimo si dimostri già una profonda umiltà verso gli ospiti in arrivo o in partenza, 7 adorando in loro, con il capo chino o il corpo prostrato a terra, lo stesso Cristo, che così viene accolto nella comunità.
LVII - I monaci che praticano un'arte o un mestiere: 6 Si ricordino sempre di Anania e Safira, per non correre il rischio che la morte, subita da quelli nel corpo, 7 colpisca le anime loro e di tutte le persone, che hanno comunque defraudato le sostanze del monastero.
LVIII - Norme per l'accettazione dei fratelli: 24 Se il novizio possiede dei beni materiali, li distribuisca in precedenza ai poveri o li doni al monastero con un atto ufficiale senza riservare per sé la minima proprietà, 25 ben sapendo che da quel giorno in poi non sarà più padrone neanche del proprio corpo.
LXXII - Il buon zelo dei monaci: 1 Come c'è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta all'inferno, 2 così ce n'è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita eterna. 3 Ed è proprio in quest'ultimo che i monaci devono esercitarsi con la più ardente carità 4 e cioè: si prevengano l'un l'altro nel rendersi onore; 5 sopportino con grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e morali.


L'antropologia monastica nella Regola di Benedetto [1]

Cecilia Falchini [2]

Estratto e tradotto da "Cuadernos Monasticos" 148 (2004) 21 38 - Ediciones Cuadernos Monásticos

(In fase di correzione)

 

Prima di iniziare a parlare dell'argomento citato nel titolo di questo articolo, mi sembra necessario fare una premessa: mi rendo conto che occorre molta cautela nell’affrontare una riflessione sulla Regola di Benedetto [3], poiché il tipo di domanda con cui ci avviciniamo qui corre il rischio di non trovare una risposta, o, quel che è forse peggio, di trovare false risposte, poiché la domanda con cui ci avviciniamo ad essa non ha trovato una formulazione ai tempi di Benedetto. Corriamo il rischio, allora, di fare una lettura antistorica della Regola di Benedetto (RB) e quindi snaturata nei suoi presupposti.

Per questo motivo, la prospettiva da cui sarà condotta la ricerca sarà quella di far parlare il testo della RB con il linguaggio che esso stesso presenta, senza sovrapporsi ad altri testi contemporanei a noi ma estranei alla prospettiva dell'autore della RB. Il recupero, quindi, del genere di concezione dell'uomo («antropologia»), e del monaco («monastica»), presente – implicitamente o esplicitamente – nella RB, sarà condotta attraverso un'analisi che tende a portare alla luce le tracce di due generi antropologici, che al tempo di Benedetto influenzarono di fatto la cultura occidentale e di cui, quindi, si nutriva lo stesso Benedetto: l'antropologia di origine biblica e quella di stampo platonico-neoplatonico. In particolare, in questo articolo prenderemo in considerazione due temi, peculiari soprattutto della tradizione greco-platonica, cercando di vedere se vengono utilizzati nella RB e in che modo, oltre alla rilevanza che ottengono in esso.

1. Il corpo

Il sostantivo corpus è ripetuto nella RB dodici volte e due volte troviamo l'aggettivo corporalis.

In un solo caso il termine "corpo" è usato in senso metaforico: il "corpo" del monastero (61,1), con la connotazione positiva dell'insieme organico dei membri che compongono la comunità e che formano un'unica realtà di comunione.

In tutti gli altri casi, invece, la realtà fisica dell'uomo è così designata. Parlando, ad esempio, di come l'abate deve saper adattare l'eventuale correzione ad ogni monaco nella sua diversità, Benedetto dice che i malvagi, i duri, i superbi e i disubbidienti, li castighi all'inizio del peccato, con fustigazioni o altre punizioni corporali (2,28); così anche in un altro luogo: se difetta di una sufficiente sensibilità, sia sottoposto al castigo corporale (23:5); E se un monaco si rifiuta di chiedere perdono a un fratello che ha offeso, sottoporlo a un castigo corporale (71,9).

In questi testi il corpo appare come una realtà che, anche nella logica della pena, è vista come qualcosa che permette la comunicazione di un messaggio che si rivolge al cuore della persona, alla sua coscienza, e che attraverso il corpo può raggiungerla. Il corpo, allora, è visto come una possibilità di linguaggio che è la via verso l'interiorità della persona.

D'altra parte, il fatto che per quanto riguarda l'accoglienza degli ospiti, Benedetto dice che si adori in loro, con il capo chino o il corpo prostrato a terra, lo stesso Cristo, che così viene accolto nella comunità (53,7), è indice di come la realtà corporea sia vista come espressione di tutta la realtà umana e non possa essere separata da essa. La realtà interiore del monaco è chiamata a tradursi in gesti, in atteggiamento corporeo, e l'abbraccio e il bacio di pace agli ospiti sono il segno della comunione con loro e con loro in Dio. Il corpo, in questo modo, diventa il linguaggio dell'intimità del monaco (7,62-63), ed è il luogo in cui la persona, anche nel silenzio, diventa parola e può stabilire una relazione con l'altro.

Allo stesso modo, il dodicesimo grado, infine, è quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento esteriore, in quanto durante l'Ufficio divino, in coro, nel monastero, nell'orto, per via, nei campi, dovunque, sia che sieda, cammini o stia in piedi, tiene costantemente il capo chino e gli occhi bassi (7,62-63). Il corpo è impegnato insieme al cuore nel cammino della conversione, e il culmine della vita spirituale è che il corpo è penetrato dall'energia dello Spirito Santo e così trasfigurato. Un'opera che viene suggellata con il passaggio del monaco dal regime della paura a quello dell'amore: Una volta ascesi tutti questi gradi dell'umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore; (1 Gv 4,18), per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e quasi naturalmente, grazie all'abitudine, tutto quello che prima osservava con una certa paura; in altre parole non più per timore dell'inferno, ma per amore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù. Sono questi i frutti che, per opera dello Spirito Santo, il Signore si degnerà di rendere manifesti nel suo servo, purificato ormai dai vizi e dai peccati (7,67-70).

Il corpo, quindi, è allo stesso tempo un percorso verso l'interiorità dell'uomo e un'epifania (manifestazione) di essa, un linguaggio da e verso l'intimità della persona. Pertanto, secondo una concezione tipicamente biblica, se l'uomo non esprime attraverso il suo corpo ciò che ha in sé, diventa bugiardo; e viceversa, se ciò che compie attraverso il corpo non manifesta una realtà che ha nella sua intimità, diventa ipocrita.

In tale prospettiva, quindi, si possono forse includere anche i testi della RB in cui il riferimento alla corporeità ha una connotazione di significato ascetico, poiché, come abbiamo visto, insieme al cuore e alla volontà, cioè all'interiorità della persona, anche il corpo deve essere coinvolto nel cammino di ritorno al Signore. Ecco perché Benedetto dice: Perciò dobbiamo disporre i cuori e i corpi nostri a militare sotto la santa obbedienza (Prol. 40) Il corpo deve essere preparato a vivere in obbedienza alla parola di Dio! Per questo è necessaria una certa disciplina e al monaco viene chiesto, ad esempio, di amare il digiuno (4,13) e non cercare le comodità [della tavola] (4,12); Ma mentre la Regola del Maestro (RM) prescrive di fuggire dai piaceri [della tavola] (RM 4,12), la RB proibisce semplicemente di offrirsi a loro, di darsi a loro. Benedetto dice inoltre che i monaci non devono essere dediti al vino, né voraci, non dormiglioni, né pigri (4,35-38) e li esorta a non avere desideri illeciti, (4,6) e amare la castità (4,64). Il monaco è invitato a mortificare il proprio corpo (4,11), ma, significativamente Benedetto in quel versetto sopprime l'espressione che seguiva nella RM: per il bene dell'anima, (RM 3:11) Ciò che sembra stare nel cuore di Benedetto non è, dunque, che si privilegi una dimensione spirituale rispetto a quella materiale, ma che tutto l'uomo, cuore e corpo, ritorni al Signore attraverso un cammino di "decentramento" di se stesso, di obbedienza completa. Così, a coloro che, per mezzo dei loro fratelli, si sono dati totalmente nelle mani di Dio, non è più concesso di disporre liberamente neanche del proprio corpo [cf. anche 58,25] e della propria volontà (33,4). Allo stesso modo, sono strumenti delle opere buone, allo stesso tempo, Non appagare i desideri della natura corrotta (4,59) e odiare la propria volontà (4,60).

L'ascesi corporale, così, nella Regola di Benedetto, non appare come una serie di mortificazioni del corpo che porterebbero vantaggio all'anima, ma come un requisito essenziale perché tutto l'essere umano, corpo e cuore, possa compiere il suo movimento e risalire al Signore. Per Benedetto, dunque, ciò che si oppone al cedere ai desideri del corpo non è la supremazia dell'anima sulla corporeità, ma l'obbedienza di tutto l'essere, corpo e volontà del monaco, al Signore. E in questo Benedetto manifesta la sua profonda ispirazione biblica, poiché dal punto di vista biblico, l'opposizione tra anima e corpo non ci fa uscire dalla carne. La morale che esalta l'anima a scapito del corpo è, dunque, nella prospettiva biblica, carnale, e ciò tanto più quanto maggiormente esalta l'anima. Essa contribuisce, come dice Paolo, alla soddisfazione della carne (Col 2,23). L'ascesi che esalta l'anima e reprime il corpo è anch'essa carnale, almeno come l'epicureismo [4].

Per questo, in un suo testo, Benedetto dice, in relazione al modo in cui il monaco è chiamato a vivere il tempo della Quaresima: aggiungiamo un supplemento al dovere ordinario del nostro servizio, come, per es., preghiere particolari, astinenza nel mangiare o nel bere, in modo che ognuno di noi possa di propria iniziativa offrire a Dio "con la gioia dello Spirito Santo" qualche cosa di più di quanto deve già per la sua professione monastica; si privi cioè di un po' di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo e attenda la santa Pasqua con l'animo fremente di gioioso desiderio. Ma anche ciò che ciascuno vuole offrire personalmente a Dio dev'essere prima sottoposto umilmente all'abate e poi compiuto con la sua benedizione e approvazione, perché tutto quello che si fa senza il permesso dell'abate sarà considerato come presunzione e vanità, anziché come merito. Perciò si deve far tutto con l'autorizzazione dell'abate (49,5-10). Ancor più dell'ascesi corporale, ciò che spinge il monaco a camminare verso Dio è, ancora una volta, l'obbedienza; E anche l'ascesi corporale, per essere cristiana, evangelica, deve essere inserita all'interno di un tale movimento obbediente.

Se Benedetto, dunque, da una parte esorta il monaco alla moderazione, alla sobrietà nel mangiare, nel bere, (4,12-13; 35-36; 39,7-9; 40), nel sonno (4,37) e in tutto il resto (39,10), e afferma che la vita del monaco deve mantenere sempre un tenore quaresimale, dall'altra parte la sua preoccupazione sembra essere non tanto il rigore di un'ascesi corporale, ma anche ciò che riguarda il rapporto del monaco con il proprio corpo - sia mediante la privazione di qualcosa, sia mediante una condiscendenza ai suoi bisogni - si compie nell'obbedienza, senza mormorazione (cfr. 40,8-9) e nell'amore.

Nessuna "demonizzazione", dunque, in Benedetto, né del corpo né della volontà del monaco, ma l'assunzione e la comprensione di entrambi nell'obbedienza a Dio attraverso la sottomissione ai fratelli. In questo senso, anche la "volontà personale" nella RB è considerata negativamente[5] non come "volontà" del soggetto, cioè come realtà umana, ma solo in quanto rimane "propria", cioè in quanto si colloca al di fuori di un contesto di obbedienza. Per Benedetto, dunque, e il passo sopra citato sull'osservanza della Quaresima lo insegna chiaramente, la volontà del monaco non deve essere mortificata in quanto tale e in linea di principio, ma deve sottomettersi a una parola che egli riceve e che è chiamato ad accogliere nella libertà e nell'amore (cfr. 68,5). E anche quando la volontà del monaco trova un consenso in quella del padre spirituale, l'atteggiamento con cui il monaco è chiamato a vivere non è quello di chi provvede alla vita da se stesso, ma quello di chi riceve la vita dall’altro, in una dinamica di comunione obbedienziale e di obbedienza comunionale. Ecco perché anche tutto ciò di cui il monaco ha bisogno per il proprio corpo deve essere accolto in una logica di obbedienza: Bisogna sperare tutto il necessario dal padre del monastero e non si può tenere presso di sé alcuna cosa che l'abate che l'abate non abbia dato o permesso (33,5).

Così, nel capitolo sul cibo, Benedetto dice che il monaco deve evitare gli eccessi, perché nulla è tanto sconveniente per un cristiano, quanto gli eccessi della tavola, come dice lo stesso nostro Signore: "State attenti che il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo" (Lc 21,34, RB 39,8-9). Lo scopo della temperanza nel cibo, dunque, è che il cuore non si appesantisca, ma che il monaco acquisisca una libertà interiore, la libertà di un cuore dilatato dall'indicibile sovranità dell'amore e che così corre per la via dei precetti divini (Prol. 49). Corpo e cuore appaiono, ancora una volta, come un'unica e inscindibile realtà nella ricerca e nel servizio di Dio, come rivela anche la sincronicità di corpo e cuore (volontà e amore) con cui la RB descrive l'atteggiamento del monaco obbediente: Il primo grado di umiltà è l'obbedienza senza indugio. Il segno più evidente dell'umiltà è la prontezza nell'obbedienza. Questa è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro di Cristo e, ...appena ricevono un ordine dal superiore non si concedono dilazioni nella sua esecuzione, come se esso venisse direttamente da Dio... questi monaci, che si distaccano subito dalle loro preferenze e rinunciano alla propria volontà, si liberano all'istante dalle loro occupazioni, lasciandole a mezzo, e si precipitano a obbedire, in modo che alla parola del superiore seguano immediatamente i fatti. Quasi allo stesso istante, il comando del maestro e la perfetta esecuzione del discepolo si compiono di comune accordo con quella velocità che è frutto del timor di Dio: così in coloro che sono sospinti dal desiderio di raggiungere la vita eterna. Essi si slanciano dunque per la via stretta... (5,1-4.7-11): mani e piedi in relazione con la volontà e con l'amore, corpo in relazione col cuore.

Alcuni testi, inoltre, rivelano apertamente un tale parallelismo corpo-cuore: Se infatti un fratello obbedisce malvolentieri e mormora, non dico con la bocca, ma anche solo con il cuore... (5,17); Il monaco deve dire la verità con il cuore e con la bocca (4,28); nella dimora del Signore entrerà che pronuncia la verità in cuor suo (Sal 14.3) (Prol. 26); e Il settimo grado dell'umiltà consiste non solo nel qualificarsi come il più miserabile di tutti, ma nell'esserne convinto dal profondo del cuore (7,51); L'abate, dunque, si comporti in modo tale da poter poi dire al Signore con il Profeta: "Non ho tenuto la tua giustizia nascosta in fondo al cuore, ma ho proclamato la tua verità e la tua salvezza; ..." (Sal 39,11; RB 2,9). Infine, proprio all'inizio della sua Regola Benedetto esorta: Perciò dobbiamo disporre i nostri cuori e i nostri corpi a militare sotto la santa obbedienza dei precetti [del Signore] (Prol. 40).

Laddove in questi testi compare un termine correlato al corpo, non si tratta di "anima" ma, secondo la concezione antropologica biblica, di "cuori" (cfr. Prol. 40), «cuore» (cfr. 7,62) e «volontà» (cfr. 33,4). Il corpo, quindi, non è concepito presso Benedetto come realtà opposta all'anima, come parte materiale dell'uomo in contrapposizione a quella immateriale, ma piuttosto come dimensione esterna dell'essere umano, che è chiamato a rimanere costantemente in dialogo, in relazione all'interiorità (il cuore, la volontà). La Regola di Benedetto, infatti, è segnata da un'incessante "dialogicità" tra l'ambito interno ed esterno del monaco e la sua maturità umana e spirituale si manifesta proprio nel fatto che questa capacità dialogica rimane in lui.

Il corpo appare così nella RB non solo come dimensione fondamentale dell'uomo, ma anche come modalità esistenziale dell'uomo: più che "avere" un corpo, egli "è" un corpo. Esistono, tuttavia, due testi della RB in cui "corpo" compare, appunto, accanto ad "anima": prima fra tutte quella in cui Benedetto dice che i due lati di questa scala [della vita nel mondo, che Dio può elevare al cielo] sono il corpo e l'anima nostra, nei quali la divina chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà o di esercizio ascetico per cui bisogna salire (7,9). E poi quello riguardante i monaci incaricati di vendere i prodotti del lavoro svolto nel monastero: Si ricordino sempre di Anania e Saffira, per non correre il rischio che la morte, subita da quelli nel corpo, colpisca le anime loro e di tutte le persone, che hanno comunque defraudato le sostanze del monastero (57,5-6). Nel primo caso, tuttavia, queste realtà non sono presentate come opposte o come una di valore minore o maggiore dell'altra, ma come complementari e sullo stesso piano; e nemmeno nel secondo testo non vi sono segni di opposizione, ma piuttosto di parallelismo. Anche in questi due casi, quindi, in cui la distinzione platonica tra corpo e anima è presente soprattutto a livello di termini, la concezione antropologica implicita in tali testi non sembra che dimostri molto una simile prospettiva filosofica.

Infine, in un altro testo il termine stesso "corpo" sembra essere usato in senso platonico, nel senso, se non appunto della prigione dell'anima, almeno della dimora dell'anima. Questo è il passo in cui Benedetto dice: E se vogliamo arrivare alla vita eterna, sfuggendo alle pene dell'inferno, finché c'è tempo e siamo in questo corpo e abbiamo la possibilità di compiere tutte queste buone azioni, dobbiamo correre e operare adesso quanto ci sarà utile per l'eternità (Prol. 42-44). L'accento, però, più che sul corpo stesso in contrapposizione all'anima, sembra essere posto piuttosto su "questo" corpo, nel senso del corpo che l'uomo possiede in questa vita, in contrapposizione al corpo glorioso che possederà nel Regno di Dio. Benedetto, infatti, usa di nuovo lo stesso pronome dimostrativo in questo passo quando dice: alla luce di "questa" vita. Il significato di questo testo, quindi, sembra essere, secondo una prospettiva biblica, quello di fare una distinzione non di natura spaziale (materiale e immateriale), ma temporale, tra il tempo di questa vita e quello dell'eternità.

Accanto a questa riflessione sull'uso del termine "corpo", c'è anche una considerazione su quale sia un ulteriore aspetto del rapporto del monaco con la dimensione della propria corporeità nella RB: l'aspetto della "castità". Solo una volta nella Regola compare il sostantivo "castità" tratto da un passo della RM: amare la castità (RB 4,64 e RM 3,70) è, infatti, uno degli strumenti delle buone opere.

Tuttavia, mentre nella RM il contesto semantico di questo termine si riferiva al rapporto con il proprio corpo o con quello degli altri nell'ambito della sfera sessuale, RB sembra ammettere una diversa e complementare sfumatura di significato: infatti, in essa, e in due testi che non compaiono nella RM, si trova anche l'avverbio "castamente" (caste): quei monaci che nell'elezione dell'abate avranno cura che non prevalga il piano dei malvagi, riceveranno una ricompensa dal Signore se l'avranno fatto castamente e con zelo per Dio (64,6), dove il senso di castamente sembra essere: «Con purezza di cuore, con intenzione pura ». Poi, nell'ambito delle relazioni comunitarie, si dice che i monaci pratichino castamente la carità fraterna (72.8), dove mi sembra che "castamente" non escluda entrambi i sensi sopra menzionati (uno relativo alla corporeità e l'altro al cuore), ma con una maggiore enfasi sulla purezza dell'intenzione, del cuore.

Da tutti i testi esaminati, poi, sembra che per Benedetto la castità legata al corpo sia solo un aspetto, manifestazione di un'altra realtà molto più profonda e rilevante, che coinvolge tutto l'essere umano, e cioè la purezza del cuore.

Trovo significativa l'insistenza con cui Benedetto ritorna alla sua Regola sull'importanza della purezza di cuore nella vita del monaco: nella preghiera, quanto più dobbiamo rivolgere la nostra supplica a Dio, Signore di tutte le cose, con profonda umiltà e sincera devozione (20,2). Bisogna inoltre sapere che non saremo esauditi per le nostre parole, ma per la purezza del cuore e la compunzione che strappa le lacrime (20,3). Perciò la preghiera dev'essere breve e pura (20,4). Inoltre, almeno durante la Quaresima ognuno vigili con gran fervore sulla purezza della propria vita, profittando di quei santi giorni per cancellare tutte le negligenze degli altri periodi dell'anno. E questo si realizza degnamente, astenendosi da ogni peccato e dedicandosi con impegno alla preghiera accompagnata da lacrime di pentimento, allo studio della parola di Dio, alla compunzione del cuore e al digiuno (49,2-4). La «purezza», dunque, è prima di tutto purezza di cuore, frutto di un cammino di sincera conversione.

Diverso, tuttavia, era l'accento posto dalla RM nell’enumerare gli strumenti delle opere buone; in effetti, essa prescriveva prima di tutto, la castità del corpo, una coscienza semplice, l'astinenza, la purezza, la semplicità... (4,4-5). All'inizio si parla della castità del corpo, mentre solo in secondo luogo si parla di «purezza» - l'unico caso in cui tale termine compare nella RM - che, essendo accanto alla «semplicità», sembra indicare la purezza del cuore. Mentre nella RM sembra prevalere l'attenzione alla qualità del rapporto del monaco con il proprio corpo, nella RB l'attenzione è rivolta principalmente alla purezza di cuore, nella quale si include anche il rapporto del monaco con il proprio e l’altrui corpo. Nella RB la "castità" racchiude questa prospettiva globale.

L'abate stesso, dunque, sia casto: Il nuovo eletto, poi, pensi sempre al carico che si è addossato e a chi dovrà rendere conto del suo governo e sia consapevole che il suo dovere è di aiutare, piuttosto che di comandare. Bisogna quindi che sia esperto nella legge di Dio per possedere la conoscenza e la materia da cui trarre "cose nuove e antiche" (Mt 13,52); casto, sobrio, (1 Tm 3,2), comprensivo e faccia "trionfare la misericordia sulla giustizia"(Gc 2,13) in modo da meritare un giorno lo stesso trattamento per sé. Detesti i vizi, ma ami i suoi monaci. (64,7-11); Qui l'appello di Benedetto alla castità dell'abate richiede una trasposizione dell'esortazione contenuta nella prima lettera a Timoteo di san Paolo (cfr. 1 Tm 3,2) al vescovo della Comunità: abbia una sola moglie, sia sobrio, ed è collocato nel contesto di una pressante chiamata al servizio dei fratelli (l'amministrazione di cui dovrà rendere conto, la parola divina da distribuire), alla misericordia e all’amore. Così, il rapporto con il proprio corpo (sia casto) e con le cose (sobrio) diventa la doppia dimensione della realtà umana che Benedetto assume e vede come la possibilità concreta di un cammino in direzione dell'amore, che indica nel Prologo come il culmine della vita del monaco. La castità, dunque, come forma di carità e come cammino verso la carità.

Per questo, sia la visione del corpo come realtà correlativa al cuore, fino a comprendere la stessa "castità" prima di tutto come "purezza di cuore", sia la maggiore rilevanza che Benedetto attribuisce a questo aspetto interiore della vita del monaco rispetto a quello immediatamente corporeo, mi sembra che Benedetto si collochi nella tradizione più autentica dell'antropologia biblica e del Nuovo Testamento (cfr. Pr 4,23 e Mt 15,18-20).

Ulteriori riferimenti al corpo, infine, sono offerti da quei passi in cui la pretesa della corporeità è talvolta solo implicita, anche se estremamente forte, e che riguardano, in generale, la necessità di prendersi cura delle infermità e delle debolezze di ogni monaco: i fratelli sopportino con grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e morali (72,5). Così, per i fratelli malati o deboli, Benedetto chiede una sollecitudine speciale, anche per quanto riguarda il cibo e il lavoro (4,16; 31,9; 36; 39,11; 48,24-25). Allo stesso modo, un'attenzione specifica è riservata anche ai bambini e agli anziani (RB 36 e 37). Notiamo, quindi, l'esplicita preoccupazione perché vi sia a disposizione un tempo di riposare (48,5), perché si provveda il cibo al corpo affaticato (35,12; 38,10; 39,6; 41,4-5) e perché l'abate distribuisca ai fratelli il vestiario, le calzature e il necessario per la cella secondo la qualità del clima (55,1-6) e le reali necessità di ciascuno (55,8.18-21).

Risulta, quindi, nella RB una visione serena e non angosciosa della corporeità. Il corpo non è disprezzato; le sue esigenze non sono fonte di paura e di angoscia, e le sue debolezze non sono viste come un impedimento alla vita interiore (dell'"anima"), ma come un'opportunità di crescita nella carità e quindi nella stessa vita spirituale. Allo stesso modo, le loro possibilità e capacità non ispirino diffidenza (49,5-7ss.; 57,1; 64,19).

Così, nella RB non sembrano esserci tracce di una prospettiva spiritualistica, di stampo platonico, in nome della quale il monaco dovrebbe cercare di liberare l'anima dal corpo, ma, piuttosto, secondo un'ispirazione intensamente biblica, è visibile una piena e serena assunzione della corporeità e una volontà di guidare l'intero essere umano del monaco. anima e corpo, al Signore, mediante l'obbedienza e la carità.

 

2. L’anima

 

Il termine "anima" (anima) [6], Oltre ai due casi in cui l'abbiamo visto comparire accanto a "corpo", è abbastanza ricorrente nella RB.

L'anima, prima di tutto, deve essere custodita: Custodisca l’anima sua (31,8), e perciò preservata dall'ozio, che la mette in pericolo: L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio (48,1). Allo stesso modo, l'abate e il superiore devono guardarsi dalla discordia e dalla rivalità tra di loro, poiché le loro anime vengono necessariamente a trovarsi in pericolo a motivo di questo contrasto (65,8); e l'abate deve vegliare su se stesso affinché non avvenga che la fiamma dell’invidia e della gelosia gli divori l'anima (65,22). Tale sollecitudine per la vita dell'anima appare anche in un passo riguardante i novizi: Ad essi venga inoltre preposto un monaco anziano, capace di conquistare le anime, con l'incarico di osservarli molto attentamente (58,6). Perché anche l'anima può cadere nel peccato; In tal caso, se il movente segreto del peccato fosse nascosto nell'intimo della coscienza [il monaco che ha peccato] lo manifesti solo all'abate o a qualche monaco anziano, che sappia curare le miserie proprie e altrui senza svelarle e renderle di pubblico dominio (46,5-6). Nel caso in cui l'abate debba correggere il peccato di un monaco ribelle, per la salvezza della sua anima può anche ricorrere alle punizioni corporali: ma castighi duramente i riottosi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti, appena tentano di trasgredire, ben sapendo che sta scritto: "Lo stolto non si corregge con le parole" (Pr 29,19), e anche: "Battendo tuo figlio con la verga, salverai l'anima sua dalla morte" (Pr 23,14; RB 2,28-29).

L'abate, infatti, è responsabile davanti a Dio delle anime a lui affidate: Bisogna che prenda chiaramente coscienza di quanto sia difficile e delicato il compito che si è assunto di dirigere le anime e porsi al servizio dei vari temperamenti (2,31). Per questo Benedetto lo esorta a cercare anzitutto il Regno di Dio e a mantenere viva una costante tensione escatologica: Soprattutto si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza delle anime, di cui è responsabile, per preoccuparsi eccessivamente delle realtà terrene, transitorie e caduche, ma pensi sempre che si è assunto l'impegno di dirigere delle anime, di cui un giorno dovrà rendere conto e non cerchi una scusante nelle eventuali difficoltà economiche, ricordandosi che sta scritto :"Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in soprappiù" (Mt 6,33), e anche: "Nulla manca a coloro che lo temono"(Sal 33,10). Sappia inoltre che chi si assume l'impegno di dirigere le anime deve prepararsi a renderne conto e stia certo che, quanti sono i monaci di cui deve prendersi cura, tante solo le anime di cui nel giorno del giudizio sarà ritenuto responsabile di fronte a Dio, naturalmente oltre che della propria (2,33-38). Per questo l'abate, anche nelle situazioni più difficili, come nel caso dei fratelli scomunicati, deve essere ben consapevole di essersi assunto il compito di curare anime inferme e non di dover esercitare il dominio sulle sane (27,6). Per questo motivo regoli e disponga tutto in modo che le anime si salvino e i monaci possano compiere il proprio dovere senza un motivo fondato di mormorazione (41,5) [7].

L'anima, dunque, è allo stesso tempo preziosa e debole, fragile. Consapevole di questo davanti a Dio, il monaco è chiamato a custodire la sua "anima", secondo l'insegnamento della Scrittura, in una profonda umiltà: Così dicendo [la Scrittura] ci fa intendere che ogni esaltazione è una forma di superbia, dalla quale il profeta mostra di volersi guardare quando dice: "Signore, non si è esaltato il mio cuore, né si è innalzato il mio sguardo, non sono andato dietro a cose troppo grandi o troppo alte per me". E allora? "Se non ho nutrito sentimenti di umiltà, se il mio cuore si è insuperbito, tu mi tratterai come un bimbo svezzato dalla propria madre"" (Sal 130,1; RB 7,2-4). Una tale sinonimia tra cuore e anima, che appare qui e che la RB imita dalla RM 10,2-4, rivela una concezione biblica di fondo, secondo la quale i due termini insieme indicano la totalità della vita dell'uomo (cfr. Dt 13,4; Gs 22,5; Ger 32,41; e At 4,32)[8].

Ci sono, dunque, due testi che rivelano – non per ciò che affermano esplicitamente, ma per ciò che suggeriscono – la concezione benedettina del possibile rapporto tra anima e corpo: anzitutto il passo citato sopra di RB 4,11, dove Benedetto sopprime l'espressione di RM 3,11: per il bene dell'anima (trattare il corpo con austerità, per il bene dell'anima). In secondo luogo, l'ampia e significativa soppressione da parte di Benedetto, nel capitolo sul silenzio, di MR 8,1-30, dove il Maestro presentava l'individuo come una composizione articolata di corpo e anima. In essa, tra le altre cose, il Maestro diceva: L’edificio del genere umano è il nostro povero corpo; (corpusculum)... Perciò questa carne del nostro povero corpo è una specie di dimora dell’anima, destinata a servizio della vita come il fodero è al servizio della spada (RM 8,1.6), testo che rivela una significativa influenza della prospettiva platonica.

Benedetto, poi, elimina quei testi in cui c'è una contrapposizione tra corpo e anima e la terminologia relativa all'anima è presente, sì, nella RB, ma all'interno di contesti che rivelano la fedeltà dell'autore a una concezione autenticamente biblica e neotestamentaria. L'anima è concepita non come una parte immateriale dell'uomo, di cui il corpo sarebbe la dimora terrena e per la cui vita il corpo costituirebbe un ostacolo, ma come la sede della vita interiore dell'uomo, che ha nel corpo un compagno di strada e un collaboratore, in un'unica dinamica e sinergia.

Sempre nell'ambito della terminologia relativa all'anima, troviamo anche nella RB un altro termine, che potrebbe corrispondere a quella che nella visione platonica veniva chiamata "anima irascibile": il termine "animus".

Questo sembra essere nella RB un senso prevalentemente psicologico, nel senso della sede del sentimento, del pensiero e dell'intelligenza. Benedetto spera, infatti, di essere "nobile" e di avere intelligenza (2,27); ed esorta i monaci ad obbedire con slancio e generosità, perché "Dio ama chi dà lietamente". Se infatti un fratello obbedisce malvolentieri e mormora... non compie un atto gradito a Dio (5,16-18). È bene che anche l'economo sappia svolgere il suo compito con animo sereno: Se la comunità fosse numerosa, gli si concedano degli aiuti con la cui collaborazione possa svolgere serenamente il compito che gli è stato assegnato (31,17). Inoltre, il monaco deve chiedere immediatamente perdono se ha offeso un anziano e vede che la sua mente è stata turbata per questo motivo: Se si accorge semplicemente che un anziano è sdegnato o anche leggermente alterato nei suoi riguardi, si inginocchi subito dinanzi a lui, senza la minima esitazione, e rimanga così per riparare (71,7-8). Infine, il monaco deve sempre rimanere alla presenza di Dio e meditare sulle realtà escatologiche nella sua mente: Dunque il primo grado dell'umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione, si tengono costantemente presenti i divini comandamenti e si pensa di continuo all'inferno, in cui gli empi sono puniti per i loro peccati, e alla vita eterna preparata invece per i giusti (7,10-11).

Questo elemento antropologico è stato ripreso anche da Benedetto. Ciò, tuttavia, non sembra designare nella RB una facoltà umana distinta dalle altre, ma piuttosto una dimensione esistenziale di tutta la persona, che indica la vita cosciente, anche se non necessariamente razionale, della persona.

In corrispondenza, inoltre, a quella che era l'"anima concupiscibile" in Platone, troviamo nella RB una terminologia relativa alla concupiscentia. Uno degli strumenti delle opere buone, infatti, è: Non concupiscere (4,6); e nel capitolo sull'umiltà Benedetto esorta: Quanto poi alle passioni della nostra natura decaduta, bisogna credere ugualmente che Dio è sempre presente, secondo il detto del profeta: "Ogni mio desiderio sta davanti a te" (Sal 37,10). Dobbiamo quindi guardarci dalle passioni malsane, perché la morte è annidata sulla soglia del piacere. Per questa ragione la Scrittura prescrive: "Non seguire le tue voglie" (Sir 18,30; RB 7,23-25). Entrambi i testi, in cui i termini relativi alla concupiscenza appaiono in senso negativo, sono tratti dalla RM (3,6 e 10,36).

C'è, d'altra parte, un altro testo della RB in cui troviamo il termine concupiscentia e in cui Benedetto apporta una modifica significativa rispetto alla RM: uno degli strumenti delle opere buone, infatti, è desiderare la vita eterna con ogni concupiscenza spirituale (4,46), dove l’espressione “con ogni la concupiscenza spirituale” (omni concupiscentia spiritali), sostituisce nella RB il testo “e la santa Gerusalemme” di RM 3,52 (desiderare la vita eterna e la santa Gerusalemme). Benedetto usa così il termine concupiscentia, che nell'antropologia platonica indicava la sfera inferiore dell'anima e nella letteratura patristica e monastica, con una connotazione negativa, le passioni dell'uomo [9], per esprimere invece l'ardore del desiderio di vita eterna, dandogli così un significato positivo[10]. In Benedetto, dunque, l'elemento della passione non appare come negativo e non deve, quindi, essere eliminato dalla vita del monaco; deve, invece, essere positivamente assunta e orientata verso il Signore e il suo Regno. Anche questo testo, dunque, rivela l'apprezzamento di Benedetto per la realtà umana, la luce positiva in cui la concepisce e la assume, orientandola verso Colui che l'ha creata e che la chiama a rivolgersi a Lui.

Infine, come per Platone c'era un'"anima razionale", così anche nella RB c'è una terminologia relativa al regno del pensiero. Il vocabolario in questione è piuttosto articolato: troviamo, infatti, i sostantivi "mente" (mens), "Pensieri" (cogitationes e cogitatus), "intelletto" (intellectus), "intelligenza" (intellegentia); i verbi "pensare, riflettere" (cogitare), e "capire" (intellegere); e due aggettivi che significano entrambi "capace di capire" (intellegens e intellegibilis). Infine, concludiamo con una riflessione a parte sul significato del termine ratio.

Innanzitutto, mens appare nella RB solo due volte (e anche quella scarsa frequenza mi sembra significativa): una volta, dove si dice, a proposito dell'abate, che anzi il suo comando e il suo insegnamento devono infondere nelle anime ("in mentibus")  dei discepoli il fermento della santità (2,5); e un'altra in cui, riferendosi all'atteggiamento dei monaci nei confronti della salmodia, Benedetto dice: che l'intima disposizione dell'animo ("mens") si armonizzi con la nostra voce (19,7) [11].

Nel primo caso, riguardante l'abate, mens è impiegato con riferimento a comandi e insegnamenti, entrambi visti come "fermento" da seminare e sparso in vista della crescita del seme e dei frutti che deve produrre. Tenendo presente, quindi, ciò che abbiamo visto sopra circa l'ascolto o il non ascolto della parola del Signore che, per Benedetto, avviene nel cuore, mi sembra che in questo testo il senso di mens non sta tanto ad indicare la facoltà propria della razionalità umana, quanto piuttosto, più estesamente, l’animo, chiamato ad essere concorde con la parola che la voce proclama, ad accettare quella parola e a prestarle attenzione.

Per quanto riguarda il secondo versetto, considerando il contesto di tutto il capitolo 19 (sulla partecipazione interiore all'Ufficio divino), dove, da una parte, l'atteggiamento a cui Benedetto esorta il monaco durante la preghiera liturgica è quello della fede, (vv. 1-2), del timore di Dio (v. 3), della sapienza (v. 4), e dove, dall'altro lato, tale versetto si trova alla fine del capitolo ed è retto da un "quindi" (ergo), sembra che con queste parole Benedetto abbia voluto invitare il monaco non solo ad una comprensione intellettuale del testo, ma ad assumere tutti quegli atteggiamenti sopra indicati, designando con il termine mens non la facoltà intellettuale del monaco ma la sede della sua vita interiore. Il senso di mens, dunque, anche in questo testo sembra essere quello di stato d'animo o di spirito[12].

Se, quindi, potrebbe sembrare che, almeno a livello terminologico, l'uso di mens nella RB denota un'influenza della cultura greca, tale termine, che riflette anche una terminologia di ispirazione platonica, non sembra avere nella RB il senso di una comprensione intellettuale, né si tratta di una "discorsività" razionale, ma piuttosto di un "animo" o di uno "spirito" nel senso della facoltà della vita interiore e cosciente.

Per quanto riguarda i termini intellectus (30,1; 42,2), intellegentia (2,32), intellegere (7,7.16; 23,4; 30,2; 63,12), intellegens (7,27) e intellegibilis (2,27; 63,19), Benedetto afferma, parlando delle misure disciplinari, che ogni età e intelligenza (intellectus) dev'essere trattata in modo adeguato (30,1). Così anche l'abate, riprenda, ammonendoli una prima e una seconda volta, i monaci più docili e assennati, ma castighi duramente ("verberum vel corporis castigatio") i riottosi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti, appena tentano di trasgredire (2,27-28). Se un monaco, dopo essere stato rimproverato davanti a tutti non si è corretto, sia scomunicato, purché sia in grado di valutare la portata di una tale punizione (23,4); Perciò i bambini e gli adolescenti e quelli che non sono in grado di comprendere la gravità della scomunica, quando commettono qualche colpa siano puniti con gravi digiuni o repressi con castighi corporali, perché si correggano (30,2-3). I ragazzi più piccoli e i giovanetti ... fuori di lì siano sorvegliati e tenuti dappertutto sotto la disciplina, finché non avranno raggiunto un età più matura (63,18-19). La «ragione» sembra consistere non tanto nella mera cognizione intellettuale, quanto nel possesso di una piena e matura consapevolezza del senso profondo degli avvenimenti.

Benedetto, poi, raccomanda che di notte non leggano i primi sette libri della Bibbia e neppure quelli dei Re, perché ai temperamenti impressionabili non fa bene ascoltare a quell'ora i suddetti testi scritturistici (42,4), dove "intellectus" sembra avere il senso ampio di "animo", di una facoltà dell'inconscio, secondo il senso del verbo corrispondente nel Salmo 13,2, citato in RB 7,27: "il Signore esamina attentamente i figli degli uomini per vedere se vi sia chi abbia intelletto (intellegens) e cerchi Dio”, e anche nel Salmo 138,3 citato nella RB 7,16: tu hai intuito (intellexisti) da lontano i miei pensieri. Nello stesso senso, forse, possiamo interpretare anche il passo in cui Benedetto dice che l'abate ha il compito di dirigere le anime e porsi al servizio dei vari temperamenti, adattandosi a tutti, secondo la rispettiva indole e intelligenza (2,31-32).

Sulla base, quindi, dei rispettivi contesti in cui i termini menzionati si trovano nella RB, sembra che il suo significato nella Regola sia quello di indicare una facoltà che non è esclusivamente razionale-discorsiva del monaco, ma la sua capacità di comprensione globale della realtà, legata più alla coscienza che alla mera dimensione intellettuale. Quest'ultimo senso non è certo escluso, come quando intellegere indica la necessità di comprendere il significato di una frase della Scrittura (7,7) o di un termine particolare (63,12), ma questa non sembra essere la caratteristica predominante della RB.

Per quanto riguarda la cogitatio, presente dieci volte nella Regola e sempre usata al plurale, sia le nove volte[13] in cui è tratta dalla RM come nell'unico testo medesimo della RB (65,5), indica sempre i «pensieri» malvagi contro i quali il monaco è chiamato a combattere. Benedetto, dunque, sembra qui porsi sulla stessa linea del Maestro. Cogitationes, tuttavia, oltre a cogitatus (Prol. 28), anche se generalmente sono tradotti come "pensieri", non indicano esclusivamente nella RB l'atto riflessivo cosciente del monaco, ma anche i moti profondi della sua mente: la Regola parla, infatti, di pensieri cattivi che arrivano al cuore (4,50; 7,44 e cfr. Prol. 28), non alla mente. Anche il verbo cogitare, d'altra parte, è ripetuto sette volte nella RB (e sempre in testi propri), sembra avere, più che il senso stretto di "pensare discorsivamente", quello di accogliere una verità e meditarla incessantemente, facendola scendere nelle profondità della sua intimità. L'abate, infatti, pensi sempre che si è assunto l'impegno di dirigere delle anime, di cui un giorno dovrà rendere conto (2,34); in tutte le sue decisioni si ricordi del giudizio di Dio (55,22); e anche: pensi sempre che dovrà rendere conto a Dio di tutte le sue decisioni e azioni (63,3). E ancora: l'abate, da parte sua, si ricordi sempre che un giorno dovrà rendere conto a Dio di tutte le sue decisioni, per evitare che la fiamma dell'invidia e della gelosia gli divori l'anima (65,22). E inoltre: Il nuovo (abate) eletto, poi, pensi sempre al carico che si è addossato e a chi dovrà rendere conto del suo governo (64,7). All'abate, inoltre, sia chiamato "signore" e "abate", non perché si sia arrogato da sé un tale titolo, ma in onore e per amore di Cristo del quale sappiamo per fede che egli fa le veci. Da parte sua, però, rifletta sull'onore che gli viene tributato e se ne dimostri degno (63,13-14). Anche quando assegna un lavoro, infine, proceda con discernimento e moderazione, tenendo presente la discrezione del santo patriarca Giacobbe, che diceva: "Se farò incamminare troppo i miei greggi, moriranno tutti in un giorno" (Gen 33,13; RB 64,18). Il significato di questo cogitare, quindi, sembra essere quella di una meditazione profonda che impegna sia la mente che la parte interiore del monaco in piena obbedienza alla parola del Signore.

Infine, per quanto riguarda il termine ratio, nella RB non indica la "ragione" nel senso di facoltà razionale, ma soprattutto la responsabilità verso Dio nel giorno del giudizio,[14] o, in senso lato, i criteri delle azioni del monaco[15]. Due volte, quindi, può essere interpretato nel semplice senso di "razionalità": Durante la stagione invernale, cioè dal principio di novembre sino a Pasqua, secondo un calcolo “ragionevole”, ("iuxta considerationem rationis") la sveglia sia verso le due del mattino (8,1). E riguardo alle correzioni dei bambini Benedetto dice: i ragazzi, però, rimangano fino a quindici anni sotto la disciplina e l'oculata vigilanza di tutti, ma sempre con grande moderazione e buon senso. ("omni mensura e ratione"; RB 70,4-5).

In due testi, inoltre, troviamo l'aggettivo rationabilis ("ragionevole"): [L'Abate] non anteponga un monaco proveniente da un ceto elevato a uno di umili origini, a meno che non ci sia un motivo ragionevole (2,18). Infine: L'undicesimo grado dell'umiltà è quello nel quale il monaco, quando parla, si esprime pacatamente e seriamente, con umiltà e gravità, e pronuncia poche parole assennate, senza alzare la voce (7,60).

Per tre volte, infine, è presente nella Regola l'avverbio "ragionevolmente" (rationabiliter): se capita che un fratello chieda qualcosa al cellerario "irragionevolmente", non lo mortifichi sprezzantemente, ma sappia respingere la richiesta inopportuna con ragionevolezza e umiltà. (31,7). Se, in seguito, un monaco pellegrino, rilevi qualche inconveniente o dia qualche suggerimento, l'abate si chieda se il Signore non lo abbia mandato proprio per questo. (61,4). Infine, per quanto riguarda la nomina del superiore: Se le condizioni locali lo esigono o la comunità lo chiede umilmente e con ragioni fondate e l'abate lo giudica opportuno, nomini egli stesso priore quel monaco che avrà scelto con il consiglio di fratelli timorati di Dio. (65,14-15).

I testi esaminati finora, tutti specifici per la RB (mentre nella RM non troviamo tale terminologia), rivelano chiaramente come nella RB non c'è neppure l'idea platonica della ragione umana come facoltà che ha il compito di dirigere i moti istintivi e passionali dell'anima, ma c'è invece un forte richiamo alla saggezza, nel significato di una profonda adesione alla realtà delle cose, delle persone (anche di se stesse) e degli eventi. che dovrebbe ispirare l'azione concreta del monaco e della comunità. Sapienza, dunque, come chiamata a cogliere la realtà profonda e globale delle situazioni e delle persone, in un'obbedienza e un'adesione ad essa che diventa saggezza di vita.

Se, infatti, nel caso della RB c'è una forza capace di contrastare il male che nasce dal cuore del monaco e di dirigere e guidare le sue passioni, questa forza non è, come nella prospettiva platonica, la ragione, ma una forza che viene da Dio e che viene acquisita dal monaco attraverso la lotta interiore e l'apertura del cuore al padre spirituale: infatti, può entrare nella dimora di Dio solo chi ha sgominato il diavolo, che malignamente cercava di sedurlo con le sue suggestioni, respingendolo dall'intimo del proprio cuore e ha impugnato coraggiosamente le sue insinuazioni per spezzarle su Cristo al loro primo sorgere (Prol. 28). Perciò, [il monaco deve] spezzare subito in Cristo tutti i cattivi pensieri che gli sorgono in cuore e manifestarli al padre spirituale (4,50).

Anche per quanto riguarda l'uso della terminologia relativa alla facoltà dell'intelletto, la prospettiva di Benedetto si rivela di carattere non primariamente etico, ma teologico; e la sua riflessione non è di natura filosofica o platonica, ma biblica.

 

Monastero di Bose

13887 MAGNANO BI

Italia

 


[1] Questo articolo propone, dopo una breve premessa, un capitolo del volume (pubblicazione della tesi di laurea) "Monachesimo: un cammino di unificazione. Saggio di antropologia monastica nella Regola di Benedetto", Bose 1986, di prossima pubblicazione in edizione riveduta e aggiornata, con il titolo Volto del monaco, volto dell' uomo. Tradotto da Sr. Nice Cicciopastore, ocso. I passaggi tra parentesi quadre sono aggiunti dal traduttore, per una migliore comprensione in spagnolo.

[2] Cecilia Falchini è nata nel 1961 e, dopo aver studiato lettere classiche e filosofia, è entrata nella comunità monastica di Bose nel 1984. Ha realizzato diverse pubblicazioni riguardanti i Padri medievali, in particolare i Cistercensi, e il monachesimo dall'antichità al Medioevo.

[3] Di seguito indicato con RB.

[4] C. Tresmontant, Essai sur la pensée hébraique, Parigi 1953, p. 109. Qui faccio a meno dell'interpretazione del fenomeno storico-filosofico dell'epicureismo, per sfruttare il significato (quello di edonismo) che l'autore gli attribuisce nell'ambito di una chiarificazione del suo discorso.

[5] Numerosi sono i passaggi sull'argomento. Diamo un'occhiata ai seguenti esempi: Prol. 3; 3,8; 4,60; 5,7.13; 7,12.19.31-32.

[6] Per una trattazione più approfondita del tema dell'anima nella cultura occidentale, si veda G. FAGGIN, L'anima nel pensiero classico antico, L'anima, di M. F. SCIACCA, Brescia 1954, pp. 9-27 e 29-69; C. FABRO, L'anima nell'età patristica e medioevale, in Ibid. pp. 71-105; E. L. FORTIN Christianisme et culture philosophique. Le problème de l’âme humaine en Occident, Parigi, 1959; y C. TRESMONTANT, Le problème de l’âme, Parigi 1971.

[7] Riferendosi a questo versetto, G. AULINGER osserva che lì anima designa, come nella Scrittura, l'intera persona. Cfr. G. AULINGER, Das humanum, p. 86 e n. 157-158, riferendosi nella Scrittura Gn 17,14; 46,15.18.22; Es 1,5; 12,15 ss.; Dt 10,22; Sal 3,3; 11,1; 35,7; 88,15; 120,6; 142,5; Pr 11,17; Is 3,9; Ger 3,11 ; 52,29; Ez 4,14.

[8] Così si esprimeva a volte Agostino, per il quale il termine "cuore" è l'equivalente lirico del termine "anima". e ciò appare spontaneo quando il linguaggio filosofico viene sostituito dallo stile poetico e biblico (A. GUILLAUMONT, Les sens des noms du coeur dans l’Antiquité, in Le coeur, Parigi 1950 [Studi Carmelitani 29], p. 73).

[9] Cf. Cassiano Inst. Cap. V, 14, 1: gulae... concupiscentia, e Cap. V, 14, 2: oestus carnalis concupiscenti

[10] In particolare, sul tema del desiderio nella RB si verifichi A. de VOGÜÉ, La conversion du désir dans le chapitre de saint Benoît sur la Carême (RB 49), in particolare Collectanea Cisterciensia 56 (1994), pp. 134-138.

[11] In questo versetto, e in particolare in relazione all'unione tra vox e mens W. Cramer vede una corrispondenza con il pensiero stoico e una probabile dipendenza da esso ("Mens concordet voci. Zum Fortleben einer stichen Gebetsmaxime in der Regula Benedicti", in Pietas. Festschriftn für Bernhard Kötting, a cura di E. DASSMANN e K. SUSO FRANK, Münster 1980, pp. 447-457). Per una riflessione su questo versetto si veda anche V. WARNACH, "Mens concordet voci. Zur Lehre des hl. Benedikt über die geistige Haltung beim Chorgebet nach dem 19. Kap. seiner Klosterregel”, en Liturgisches Leben 5 (1938), pp. 89-110.

[12] D'altra parte, la posizione di Cassiano era stata diversa a questo riguardo, in quanto aveva affermato l'identificazione di mens con il greco nous e con la parola latina ratio attribuendole un carattere intellettuale, chiaramente ispirato a Platone: Vel certe secundum tropicum sensum mens, id est nous sive ratio... (Inst. Cap. VIII, 10). Sulla necessità, per Cassiano, che la mens si liberi dal peso della carne per poter esercitare meglio la propria facoltà intellettuale e percepire la realtà più alta, si veda Conlationes. Cap. I,14.

[13] RB 1,5; 4,50; 7,12; 7,14; 7,15.16.17.18.44.

[14] Cfr. RB 2,34.37.38; 3,11; 31,9; 63,3; 64,1.7; 65,22.

[15] Cfr. RB Prol. 47: Ma se, per la correzione dei difetti o per una ragione ("ratione") di equità, dovrà introdursi una certa austerità...; e 24.4: Il trattamento inflitto a chi viene escluso dalla mensa seguirà il criterio ("ratio")seguente.

 


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9 dicembre 2023                a cura di Alberto "da Cormano"       Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net