IL CORPO
Prologo:
42 E se vogliamo arrivare alla vita eterna, sfuggendo alle pene dell'inferno, 43
finche c'è tempo e siamo in questo corpo e abbiamo
la possibilità di compiere tutte queste buone azioni, 44 dobbiamo correre e
operare adesso quanto ci sarà utile per l'eternità.
II - L'Abate: 27
Riprenda, ammonendoli una prima e una seconda volta, i monaci più docili e
assennati, 28 ma i malvagi, i duri, i superbi e i disubbidienti,
li castighi all'inizio del peccato, con fustigazioni o
altre punizioni corporali , ben sapendo che sta scritto: "Lo stolto non
si corregge con le parole" 29 e anche: "Battendo tuo figlio con la verga,
salverai l'anima sua dalla morte".
IV - Gli strumenti delle buone opere:
10 Rinnegare completamente se stesso. per seguire Cristo; 11
mortificare il proprio corpo, 12 non cercare le
comodità, 13 amare
il digiuno.
VII -
L'umiltà: 8 La scala così eretta, poi, è la
nostra vita terrena che, se il cuore è umile, Dio solleva fino al cielo;
9 noi riteniamo infatti che i
due lati della scala siano il corpo e l'anima nostra, nei quali la divina
chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà o di esercizio ascetico per cui
bisogna salire.
XXIII - La scomunica per le colpe: 4 Ma nel
caso che anche questo provvedimento si dimostri inefficace, sia scomunicato,
purché sia in grado di valutare la portata di una tale punizione. 5 Se invece
difetta di una sufficiente sensibilità, sia
sottoposto al castigo corporale.
XXX - La correzione dei ragazzi:
2 Perciò i bambini e gli adolescenti e quelli che non sono in grado di
comprendere la gravità della scomunica, 3 quando commettono qualche colpa
siano puniti con gravi digiuni o repressi con
castighi corporali, perché si correggano.
XXXIII - Il "vizio" della proprietà:
1 Nel monastero questo vizio dev'essere assolutamente stroncato fin dalle
radici,... 4 dal momento che ai monaci non è
più concesso di disporre liberamente neanche del proprio corpo e della propria
volontà
LIII -
L'accoglienza degli ospiti: 6 Nel saluto
medesimo si dimostri già una profonda umiltà verso gli ospiti in arrivo o in
partenza, 7 adorando in loro, con il capo
chino o il corpo prostrato a terra, lo stesso
Cristo, che così viene accolto nella comunità.
LVII - I monaci che praticano un'arte o un mestiere:
6 Si ricordino sempre di Anania e Safira, per
non correre il rischio che la morte, subita da quelli nel corpo,
7 colpisca le anime loro e di tutte le persone, che hanno comunque defraudato le
sostanze del monastero.
LVIII - Norme per l'accettazione dei fratelli:
24 Se il novizio possiede dei beni materiali, li distribuisca in precedenza ai
poveri o li doni al monastero con un atto ufficiale senza riservare per sé la
minima proprietà, 25 ben sapendo che
da quel giorno in poi non sarà più padrone neanche del proprio corpo.
LXXII - Il buon zelo dei monaci:
1 Come c'è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta
all'inferno, 2 così ce n'è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio
e alla vita eterna. 3 Ed è proprio in quest'ultimo che i monaci devono
esercitarsi con la più ardente carità 4 e cioè: si prevengano l'un l'altro nel
rendersi onore; 5 sopportino con grandissima
pazienza le rispettive miserie fisiche e morali.
L'antropologia monastica nella Regola di Benedetto
[1]
Cecilia Falchini
[2]
Estratto e tradotto da "Cuadernos
Monasticos" 148 (2004)
21
–
38
Prima di iniziare
a parlare dell'argomento
citato nel titolo di questo articolo, mi sembra necessario fare una
premessa: mi rendo conto che occorre molta cautela nell’affrontare una
riflessione sulla
Regola di Benedetto
[3],
poiché il tipo di domanda con cui ci avviciniamo
qui corre il rischio di non trovare una
risposta, o, quel che è forse peggio, di trovare false risposte, poiché la
domanda con cui ci avviciniamo ad essa non ha trovato una formulazione ai tempi
di Benedetto. Corriamo il rischio, allora, di fare una lettura antistorica della
Regola di Benedetto (RB) e quindi snaturata
nei suoi presupposti.
Per questo motivo, la prospettiva da cui sarà
condotta la ricerca sarà quella di far parlare il testo della RB con il
linguaggio che esso stesso presenta, senza sovrapporsi ad altri testi
contemporanei a noi ma estranei alla prospettiva dell'autore della
RB. Il recupero, quindi,
del genere di concezione dell'uomo («antropologia»), e del monaco («monastica»),
presente – implicitamente o esplicitamente – nella
RB,
sarà condotta
attraverso un'analisi che tende a portare alla luce le tracce di due generi
antropologici, che al tempo di Benedetto influenzarono di fatto la cultura
occidentale e di cui, quindi, si nutriva lo stesso Benedetto: l'antropologia di
origine biblica e quella di stampo
platonico-neoplatonico. In particolare, in questo articolo
prenderemo in considerazione due temi, peculiari soprattutto della tradizione
greco-platonica, cercando di vedere se vengono utilizzati nella
RB
e in che modo, oltre alla rilevanza che ottengono in esso.
1. Il corpo
Il sostantivo
corpus
è ripetuto nella RB dodici volte e due volte troviamo l'aggettivo
corporalis.
In un solo caso il
termine "corpo" è usato in senso metaforico: il
"corpo" del monastero
(61,1), con la connotazione positiva dell'insieme organico dei membri che
compongono la comunità e che formano un'unica realtà di comunione.
In tutti gli altri casi,
invece, la realtà fisica dell'uomo è così designata. Parlando, ad esempio, di
come l'abate deve saper adattare l'eventuale correzione ad ogni monaco nella sua
diversità, Benedetto dice che
i malvagi, i duri, i superbi e i disubbidienti, li castighi
all'inizio del peccato, con fustigazioni o altre punizioni corporali
(2,28); così anche in un altro luogo: se difetta di una sufficiente
sensibilità, sia sottoposto al castigo corporale (23:5); E se un monaco si
rifiuta di chiedere perdono a un fratello che ha offeso,
sottoporlo a un castigo corporale
(71,9).
In questi testi il corpo
appare come una realtà che, anche nella logica della pena, è vista come qualcosa
che permette la comunicazione di un messaggio che si rivolge al cuore della
persona, alla sua coscienza, e che attraverso il corpo può raggiungerla. Il
corpo, allora, è visto come una possibilità di linguaggio che è la via verso
l'interiorità della persona.
D'altra parte, il fatto
che per quanto riguarda l'accoglienza degli ospiti, Benedetto dice che
si adori in loro,
con il capo chino o il corpo prostrato a terra, lo stesso Cristo, che così viene
accolto nella comunità
(53,7), è indice di come
la realtà corporea sia vista come espressione di tutta la realtà umana e non
possa essere separata da essa. La realtà interiore del monaco è chiamata a
tradursi in gesti, in atteggiamento corporeo, e l'abbraccio e il bacio di pace
agli ospiti sono il segno della comunione con loro e con loro in Dio. Il corpo,
in questo modo, diventa il linguaggio dell'intimità del monaco (7,62-63), ed è
il luogo in cui la persona, anche nel silenzio, diventa parola e può stabilire
una relazione con l'altro.
Allo stesso modo, il dodicesimo grado,
infine, è quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma
traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento
esteriore, in quanto durante l'Ufficio divino, in coro, nel monastero,
nell'orto, per via, nei campi, dovunque, sia che sieda, cammini o stia in piedi,
tiene costantemente il capo chino e gli occhi bassi
(7,62-63). Il corpo è impegnato insieme al
cuore nel cammino della conversione, e il culmine della vita spirituale è che il
corpo è penetrato dall'energia dello Spirito Santo e così trasfigurato. Un'opera
che viene suggellata con il passaggio del monaco dal regime della paura a quello
dell'amore:
Una volta ascesi tutti questi gradi dell'umiltà, il monaco giungerà subito a
quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore; (1
Gv
4,18),
per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e quasi
naturalmente, grazie all'abitudine, tutto quello che prima osservava con una
certa paura; in altre parole non più per timore dell'inferno, ma per amore di
Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù. Sono questi i
frutti che, per opera dello Spirito Santo, il Signore si degnerà di rendere
manifesti nel suo servo, purificato ormai dai vizi e dai peccati
(7,67-70).
Il corpo, quindi, è allo
stesso tempo un percorso verso l'interiorità dell'uomo e un'epifania
(manifestazione) di essa, un linguaggio da e verso l'intimità della persona.
Pertanto, secondo una concezione tipicamente biblica, se l'uomo non esprime
attraverso il suo corpo ciò che ha in sé, diventa bugiardo; e viceversa, se ciò
che compie attraverso il corpo non manifesta una realtà che ha nella sua
intimità, diventa ipocrita.
In tale prospettiva,
quindi, si possono forse includere anche i testi della
RB in cui il riferimento
alla corporeità ha una connotazione di significato ascetico, poiché, come
abbiamo visto, insieme al cuore e alla volontà, cioè all'interiorità della
persona, anche il corpo deve essere coinvolto nel cammino di ritorno al Signore.
Ecco perché Benedetto dice:
Perciò dobbiamo disporre i cuori e i corpi nostri a militare sotto la santa
obbedienza (Prol. 40) Il corpo deve essere preparato a vivere in obbedienza alla
parola di Dio! Per questo è necessaria una certa disciplina e al monaco viene
chiesto, ad esempio, di
amare il digiuno (4,13) e non cercare le
comodità
[della tavola] (4,12); Ma mentre la Regola del Maestro (RM) prescrive di
fuggire dai piaceri
[della tavola] (RM 4,12), la
RB proibisce semplicemente
di offrirsi a loro, di darsi a loro. Benedetto dice inoltre che i monaci non
devono essere
dediti al vino, né
voraci, non dormiglioni, né pigri (4,35-38) e li esorta a
non avere desideri
illeciti,
(4,6) e
amare la castità
(4,64). Il monaco è invitato a
mortificare il proprio corpo
(4,11), ma, significativamente Benedetto in quel versetto sopprime l'espressione
che seguiva nella
RM: per il bene dell'anima, (RM
3:11) Ciò che sembra stare nel cuore di Benedetto non è, dunque, che si
privilegi una dimensione spirituale rispetto a quella materiale, ma che tutto
l'uomo, cuore e corpo, ritorni al Signore attraverso un cammino di
"decentramento" di se stesso, di obbedienza completa. Così, a coloro che, per
mezzo dei loro fratelli, si sono dati totalmente nelle mani di Dio,
non è più concesso di disporre liberamente neanche del proprio
corpo
[cf. anche 58,25]
e della propria volontà
(33,4). Allo stesso modo, sono strumenti delle opere buone, allo stesso tempo,
Non appagare i
desideri della natura corrotta
(4,59) e
odiare la propria
volontà
(4,60).
L'ascesi corporale,
così, nella
Regola
di Benedetto, non appare come una serie di mortificazioni del corpo che
porterebbero vantaggio all'anima, ma come un requisito essenziale perché tutto
l'essere umano, corpo e cuore, possa compiere il suo movimento e risalire al
Signore. Per Benedetto, dunque, ciò che si oppone al cedere ai desideri del
corpo non è la supremazia dell'anima sulla corporeità, ma l'obbedienza di tutto
l'essere, corpo e volontà del monaco, al Signore. E in questo Benedetto
manifesta la sua profonda ispirazione biblica, poiché dal punto di vista
biblico, l'opposizione tra anima e corpo non ci fa uscire dalla carne. La morale
che esalta l'anima a scapito del corpo è, dunque, nella prospettiva biblica,
carnale, e ciò tanto più quanto maggiormente esalta l'anima. Essa contribuisce,
come dice Paolo, alla
soddisfazione della carne (Col
2,23). L'ascesi che esalta l'anima e reprime il corpo è anch'essa carnale,
almeno come l'epicureismo [4].
Per questo, in un suo testo, Benedetto
dice, in relazione al modo in cui il monaco è chiamato a vivere il tempo della
Quaresima:
aggiungiamo un supplemento al dovere ordinario del nostro servizio, come, per
es., preghiere particolari, astinenza nel mangiare o nel bere, in modo che
ognuno di noi possa di propria iniziativa offrire a Dio "con la gioia dello
Spirito Santo" qualche cosa di più di quanto deve già per la sua professione
monastica; si privi cioè di un po' di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la
propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo e attenda la santa Pasqua
con l'animo fremente di gioioso desiderio. Ma anche ciò che ciascuno vuole
offrire personalmente a Dio dev'essere prima sottoposto umilmente all'abate e
poi compiuto con la sua benedizione e approvazione, perché tutto quello che si
fa senza il permesso dell'abate sarà considerato come presunzione e vanità,
anziché come merito. Perciò si deve far tutto con l'autorizzazione dell'abate (49,5-10). Ancor
più dell'ascesi corporale, ciò che spinge il monaco a camminare verso Dio è,
ancora una volta, l'obbedienza; E anche l'ascesi corporale, per essere
cristiana, evangelica, deve essere inserita all'interno di un tale movimento
obbediente.
Se Benedetto, dunque, da
una parte esorta il monaco alla moderazione, alla sobrietà nel mangiare, nel
bere, (4,12-13; 35-36; 39,7-9; 40), nel sonno (4,37) e in tutto il resto
(39,10), e afferma che la vita del monaco deve mantenere sempre un tenore
quaresimale, dall'altra parte la sua preoccupazione sembra essere non tanto il
rigore di un'ascesi corporale, ma anche ciò che riguarda il rapporto del monaco
con il proprio corpo - sia mediante la privazione di qualcosa, sia mediante una
condiscendenza ai suoi bisogni - si compie nell'obbedienza, senza mormorazione
(cfr. 40,8-9) e nell'amore.
Nessuna
"demonizzazione", dunque, in Benedetto, né del corpo né della volontà del
monaco, ma l'assunzione e la comprensione di entrambi nell'obbedienza a Dio
attraverso la sottomissione ai fratelli. In questo senso, anche la "volontà
personale" nella
RB
è considerata negativamente[5]
non come "volontà" del soggetto, cioè come realtà umana, ma solo in quanto
rimane "propria", cioè in quanto si colloca al di fuori di un contesto di
obbedienza. Per Benedetto, dunque, e il passo sopra citato sull'osservanza della
Quaresima lo insegna chiaramente, la volontà del monaco non deve essere
mortificata in quanto tale e in linea di principio, ma deve sottomettersi a una
parola che egli riceve e che è chiamato ad accogliere nella libertà e nell'amore
(cfr. 68,5). E anche quando la volontà del monaco trova un consenso in quella
del padre spirituale, l'atteggiamento con cui il monaco è chiamato a vivere non
è quello di chi provvede alla vita da se stesso, ma quello di chi riceve la vita
dall’altro, in una dinamica di comunione obbedienziale e di obbedienza
comunionale. Ecco perché anche tutto ciò di cui il monaco ha bisogno per il
proprio corpo deve essere accolto in una logica di obbedienza: Bisogna
sperare tutto il necessario dal padre del monastero e non si può tenere presso
di sé alcuna cosa che l'abate che l'abate non abbia dato o permesso (33,5).
Così, nel capitolo sul
cibo, Benedetto dice che il monaco deve evitare gli eccessi,
perché nulla è tanto sconveniente per un
cristiano, quanto gli eccessi della tavola, come dice lo stesso nostro Signore:
"State attenti che il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo" (Lc 21,34,
RB 39,8-9). Lo scopo della
temperanza nel cibo, dunque, è che il cuore non si appesantisca, ma che il
monaco acquisisca una libertà interiore, la libertà di un cuore
dilatato
dall'indicibile sovranità dell'amore e che così corre per la via dei precetti
divini
(Prol. 49).
Corpo e cuore appaiono, ancora una volta,
come un'unica e inscindibile realtà nella ricerca e nel servizio di Dio, come
rivela anche la sincronicità di corpo e cuore (volontà e amore) con cui la
RB descrive
l'atteggiamento del monaco obbediente:
Il primo grado di umiltà
è l'obbedienza senza indugio. Il segno più evidente dell'umiltà è la prontezza
nell'obbedienza. Questa è caratteristica dei monaci che non hanno niente più
caro di Cristo e, ...appena ricevono un ordine dal superiore non si concedono
dilazioni nella sua esecuzione, come se esso venisse direttamente da Dio...
questi monaci, che si distaccano subito dalle loro preferenze e rinunciano alla
propria volontà, si liberano all'istante dalle loro occupazioni, lasciandole a
mezzo, e si precipitano a obbedire, in modo che alla parola del superiore
seguano immediatamente i fatti. Quasi allo stesso istante, il comando del
maestro e la perfetta esecuzione del discepolo si compiono di comune accordo con
quella velocità che è frutto del timor di Dio: così in coloro che sono sospinti
dal desiderio di raggiungere la vita eterna. Essi si slanciano dunque per la via
stretta... (5,1-4.7-11): mani e piedi in relazione con la volontà e con
l'amore, corpo in relazione col cuore.
Alcuni testi, inoltre, rivelano apertamente un tale parallelismo
corpo-cuore:
Se infatti un fratello obbedisce malvolentieri e mormora, non dico
con la bocca, ma anche solo con il cuore... (5,17); Il monaco
deve
dire la verità con il cuore e con la bocca (4,28); nella dimora del Signore entrerà
che pronuncia la verità in cuor suo (Sal 14.3)
(Prol. 26); e
Il settimo grado dell'umiltà consiste non solo nel qualificarsi come il più
miserabile di tutti, ma nell'esserne convinto dal profondo del cuore
(7,51); L'abate,
dunque, si comporti in modo tale da poter poi dire
al Signore con il Profeta: "Non ho tenuto la tua giustizia nascosta in fondo al
cuore, ma ho proclamato la tua verità e la tua salvezza; ..." (Sal 39,11;
RB 2,9). Infine,
proprio all'inizio della sua
Regola Benedetto esorta:
Perciò dobbiamo disporre
i nostri cuori e i nostri corpi a militare sotto la santa obbedienza dei
precetti [del Signore]
(Prol. 40).
Laddove in questi testi
compare un termine correlato al corpo, non si tratta di "anima" ma, secondo la
concezione antropologica biblica, di "cuori" (cfr.
Prol.
40), «cuore» (cfr. 7,62) e «volontà» (cfr. 33,4). Il corpo, quindi, non è
concepito presso Benedetto come realtà opposta all'anima, come parte materiale
dell'uomo in contrapposizione a quella immateriale, ma piuttosto come dimensione
esterna dell'essere umano, che è chiamato a rimanere costantemente in dialogo,
in relazione all'interiorità (il cuore, la volontà). La
Regola di Benedetto,
infatti, è segnata da un'incessante "dialogicità" tra l'ambito interno ed
esterno del monaco e la sua maturità umana e spirituale si manifesta proprio nel
fatto che questa capacità dialogica rimane in lui.
Il corpo appare così
nella
RB
non solo come dimensione fondamentale dell'uomo, ma anche come modalità
esistenziale dell'uomo: più che "avere" un corpo, egli "è" un corpo. Esistono,
tuttavia, due testi della
RB in cui "corpo" compare, appunto,
accanto ad "anima": prima fra tutte quella in cui Benedetto dice che
i due lati di
questa scala
[della vita nel mondo, che Dio può elevare al cielo]
sono il corpo e l'anima nostra, nei quali
la divina chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà o di esercizio ascetico
per cui bisogna salire
(7,9). E poi quello riguardante i
monaci incaricati di vendere i prodotti del lavoro svolto nel monastero:
Si ricordino
sempre di Anania e Saffira, per non correre il rischio che la morte, subita da
quelli nel corpo, colpisca le anime loro e di tutte le persone, che hanno
comunque defraudato le sostanze del monastero
(57,5-6). Nel
primo caso, tuttavia, queste realtà non sono presentate come opposte o come una
di valore minore o maggiore dell'altra, ma come complementari e sullo stesso
piano; e nemmeno nel secondo testo non vi sono segni di opposizione, ma
piuttosto di parallelismo. Anche in questi due casi, quindi, in cui la
distinzione platonica tra corpo e anima è presente soprattutto a livello di
termini, la concezione antropologica implicita in tali testi non sembra che
dimostri molto una simile prospettiva filosofica.
Infine, in un altro
testo il termine stesso "corpo" sembra essere usato in senso platonico, nel
senso, se non appunto della prigione dell'anima, almeno della dimora dell'anima.
Questo è il passo in cui Benedetto dice:
E se vogliamo arrivare alla vita eterna,
sfuggendo alle pene dell'inferno, finché c'è tempo e siamo in questo corpo e
abbiamo la possibilità di compiere tutte queste buone azioni, dobbiamo correre e
operare adesso quanto ci sarà utile per l'eternità (Prol.
42-44). L'accento, però, più che sul corpo stesso in contrapposizione all'anima,
sembra essere posto piuttosto su "questo" corpo, nel senso del corpo che l'uomo
possiede in questa vita, in contrapposizione al corpo glorioso che possederà nel
Regno di Dio. Benedetto, infatti, usa di nuovo lo stesso pronome dimostrativo in
questo passo quando dice:
alla luce di "questa" vita.
Il significato di questo testo, quindi, sembra essere, secondo una prospettiva
biblica, quello di fare una distinzione non di natura spaziale (materiale e
immateriale), ma temporale, tra il tempo di questa vita e quello dell'eternità.
Accanto a questa
riflessione sull'uso del termine "corpo", c'è anche una considerazione su quale
sia un ulteriore aspetto del rapporto del monaco con la dimensione della propria
corporeità nella
RB:
l'aspetto della "castità". Solo una volta nella
Regola
compare il sostantivo "castità" tratto da un passo della
RM: amare la
castità (RB
4,64 e
RM
3,70) è, infatti, uno degli strumenti delle buone opere.
Tuttavia, mentre nella
RM
il contesto semantico di questo termine si riferiva al rapporto con il proprio
corpo o con quello degli altri nell'ambito della sfera sessuale,
RB sembra ammettere una
diversa e complementare sfumatura di significato: infatti, in essa, e in due
testi che non compaiono nella RM, si trova anche l'avverbio "castamente"
(caste):
quei monaci che nell'elezione dell'abate avranno cura che non prevalga il piano
dei malvagi, riceveranno una ricompensa dal Signore se l'avranno fatto
castamente e con
zelo per Dio
(64,6), dove il senso di castamente sembra essere: «Con purezza di cuore, con
intenzione pura ». Poi, nell'ambito delle relazioni comunitarie, si dice che i
monaci
pratichino
castamente la carità fraterna (72.8), dove mi sembra che "castamente" non escluda entrambi i
sensi sopra menzionati (uno relativo alla corporeità e l'altro al cuore), ma con
una maggiore enfasi sulla purezza dell'intenzione, del cuore.
Da tutti i testi
esaminati, poi, sembra che per Benedetto la castità legata al corpo sia solo un
aspetto, manifestazione di un'altra realtà molto più profonda e rilevante, che
coinvolge tutto l'essere umano, e cioè la purezza del cuore.
Trovo significativa l'insistenza con cui Benedetto ritorna alla sua
Regola sull'importanza della purezza di cuore nella vita del monaco:
nella preghiera,
quanto più dobbiamo rivolgere la nostra supplica a Dio, Signore di
tutte le cose, con profonda umiltà e sincera devozione
(20,2).
Bisogna inoltre sapere che non saremo esauditi per le nostre parole, ma per la
purezza del cuore e la compunzione che strappa le lacrime
(20,3).
Perciò la preghiera dev'essere breve e pura (20,4). Inoltre,
almeno durante la Quaresima ognuno vigili con gran fervore sulla purezza della
propria vita, profittando di quei santi giorni per cancellare tutte le
negligenze degli altri periodi dell'anno. E questo si realizza degnamente,
astenendosi da ogni peccato e dedicandosi con impegno alla preghiera
accompagnata da lacrime di pentimento, allo studio della parola di Dio, alla
compunzione del cuore e al digiuno
(49,2-4). La «purezza», dunque, è prima di
tutto purezza di cuore, frutto di un cammino di sincera conversione.
Diverso, tuttavia, era
l'accento posto dalla
RM nell’enumerare gli strumenti delle
opere buone; in effetti, essa prescriveva
prima di tutto, la castità del corpo, una
coscienza semplice, l'astinenza, la purezza, la semplicità...
(4,4-5). All'inizio si parla della castità del corpo, mentre solo in secondo
luogo si parla di «purezza» - l'unico caso in cui tale termine compare nella
RM - che, essendo accanto alla «semplicità», sembra indicare la purezza del
cuore. Mentre nella
RM
sembra prevalere l'attenzione alla qualità del rapporto del monaco con il
proprio corpo, nella
RB
l'attenzione è rivolta principalmente alla purezza di cuore, nella quale si
include anche il rapporto del monaco con il proprio e l’altrui corpo. Nella
RB
la "castità" racchiude questa prospettiva globale.
L'abate stesso, dunque,
sia casto:
Il nuovo eletto, poi, pensi sempre al carico che si è addossato e a chi dovrà
rendere conto del suo governo e sia consapevole che il suo dovere è di aiutare,
piuttosto che di comandare. Bisogna quindi che sia esperto nella legge di Dio
per possedere la conoscenza e la materia da cui trarre "cose nuove e antiche"
(Mt 13,52);
casto, sobrio,
(1
Tm
3,2),
comprensivo e
faccia "trionfare la misericordia sulla giustizia"(Gc
2,13)
in modo da
meritare un giorno lo stesso trattamento per sé. Detesti i vizi, ma ami i suoi
monaci.
(64,7-11); Qui l'appello di Benedetto alla castità dell'abate richiede una
trasposizione dell'esortazione contenuta nella prima lettera a Timoteo di san
Paolo (cfr.
1 Tm
3,2) al vescovo della Comunità:
abbia una sola moglie, sia sobrio,
ed è collocato nel contesto di una pressante chiamata al servizio dei fratelli
(l'amministrazione di cui dovrà rendere conto, la parola divina da distribuire),
alla misericordia e all’amore. Così, il rapporto con il proprio corpo
(sia casto)
e con le cose (sobrio) diventa la doppia dimensione della
realtà umana che Benedetto assume e vede come la possibilità concreta di un
cammino in direzione dell'amore, che indica nel Prologo come il culmine della
vita del monaco. La castità, dunque, come forma di carità e come cammino verso
la carità.
Per questo, sia la
visione del corpo come realtà correlativa al cuore, fino a comprendere la stessa
"castità" prima di tutto come "purezza di cuore", sia la maggiore rilevanza che
Benedetto attribuisce a questo aspetto interiore della vita del monaco rispetto
a quello immediatamente corporeo, mi sembra che Benedetto si collochi nella
tradizione più autentica dell'antropologia biblica e del Nuovo Testamento (cfr.
Pr
4,23 e
Mt
15,18-20).
Ulteriori riferimenti al
corpo, infine, sono offerti da quei passi in cui la pretesa della corporeità è
talvolta solo implicita, anche se estremamente forte, e che riguardano, in
generale, la necessità di prendersi cura delle infermità e delle debolezze di
ogni monaco: i fratelli
sopportino con
grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e morali (72,5). Così,
per i fratelli malati o deboli, Benedetto chiede una sollecitudine speciale,
anche per quanto riguarda il cibo e il lavoro (4,16; 31,9; 36; 39,11; 48,24-25).
Allo stesso modo, un'attenzione specifica è riservata anche ai bambini e agli
anziani
(RB
36 e 37). Notiamo, quindi, l'esplicita preoccupazione perché vi sia a
disposizione un tempo di riposare (48,5), perché si provveda il cibo al corpo
affaticato (35,12; 38,10; 39,6; 41,4-5) e perché l'abate distribuisca ai
fratelli il vestiario, le calzature e il necessario per la cella secondo la
qualità del clima (55,1-6) e le reali necessità di ciascuno (55,8.18-21).
Risulta, quindi, nella
RB
una visione serena e non angosciosa della corporeità. Il corpo non è
disprezzato; le sue esigenze non sono fonte di paura e di angoscia, e le sue
debolezze non sono viste come un impedimento alla vita interiore (dell'"anima"),
ma come un'opportunità di crescita nella carità e quindi nella stessa vita
spirituale. Allo stesso modo, le loro possibilità e capacità non ispirino
diffidenza (49,5-7ss.; 57,1; 64,19).
Così, nella
RB
non sembrano esserci tracce di una prospettiva spiritualistica, di stampo
platonico, in nome della quale il monaco dovrebbe cercare di liberare l'anima
dal corpo, ma, piuttosto, secondo un'ispirazione intensamente biblica, è
visibile una piena e serena assunzione della corporeità e una volontà di guidare
l'intero essere umano del monaco. anima e corpo, al Signore, mediante
l'obbedienza e la carità.
2. L’anima
Il termine "anima"
(anima)
[6],
Oltre ai due casi in cui l'abbiamo visto comparire accanto a "corpo", è
abbastanza ricorrente nella
RB.
L'anima, prima di tutto, deve essere custodita:
Custodisca l’anima sua (31,8), e perciò preservata dall'ozio, che la mette in pericolo:
L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in
determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio
(48,1). Allo
stesso modo, l'abate e il superiore devono guardarsi dalla discordia e dalla
rivalità tra di loro, poiché
le loro anime vengono necessariamente a trovarsi in pericolo a motivo di questo
contrasto
(65,8); e l'abate deve vegliare su se
stesso affinché non avvenga che
la fiamma dell’invidia e della
gelosia gli divori l'anima (65,22). Tale sollecitudine per la vita dell'anima appare anche in
un passo riguardante i novizi:
Ad essi venga inoltre
preposto un monaco anziano, capace di conquistare le anime, con l'incarico di
osservarli molto attentamente
(58,6). Perché anche l'anima può cadere
nel peccato; In tal caso,
se il movente segreto del peccato fosse nascosto nell'intimo della
coscienza
[il monaco che ha peccato]
lo manifesti solo all'abate o a qualche monaco anziano, che sappia curare le
miserie proprie e altrui senza svelarle e renderle di pubblico dominio
(46,5-6). Nel caso
in cui l'abate debba correggere il peccato di un monaco ribelle, per la salvezza
della sua anima può anche ricorrere alle punizioni corporali:
ma castighi duramente i riottosi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti,
appena tentano di trasgredire, ben sapendo che sta scritto: "Lo stolto non si
corregge con le parole" (Pr 29,19),
e anche:
"Battendo tuo figlio con la verga, salverai l'anima sua dalla morte" (Pr 23,14;
RB 2,28-29).
L'abate, infatti, è responsabile davanti a Dio delle anime a lui
affidate:
Bisogna che prenda chiaramente coscienza di quanto sia difficile e
delicato il compito che si è assunto di dirigere le anime e porsi al servizio
dei vari temperamenti
(2,31). Per questo Benedetto lo esorta a
cercare anzitutto il Regno di Dio e a mantenere viva una costante tensione
escatologica:
Soprattutto si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza delle
anime, di cui è responsabile, per preoccuparsi eccessivamente delle realtà
terrene, transitorie e caduche, ma pensi sempre che si è assunto l'impegno di
dirigere delle anime, di cui un giorno dovrà rendere conto e non cerchi una
scusante nelle eventuali difficoltà economiche, ricordandosi che sta scritto
:"Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi
saranno date in soprappiù" (Mt 6,33),
e anche: "Nulla
manca a coloro che lo temono"(Sal 33,10).
Sappia inoltre
che chi si assume l'impegno di dirigere le anime deve prepararsi a renderne
conto e stia certo che, quanti sono i monaci di cui deve prendersi cura, tante
solo le anime di cui nel giorno del giudizio sarà ritenuto responsabile di
fronte a Dio, naturalmente oltre che della propria
(2,33-38). Per questo l'abate, anche nelle
situazioni più difficili, come nel caso dei fratelli scomunicati, deve essere
ben consapevole
di essersi assunto il compito di curare anime inferme e non di
dover esercitare il dominio sulle sane
(27,6). Per questo motivo regoli e
disponga tutto in modo che le anime si salvino e i monaci possano compiere il
proprio dovere senza un motivo fondato di mormorazione (41,5)
[7].
L'anima, dunque, è allo stesso tempo
preziosa e debole, fragile. Consapevole di questo davanti a Dio, il monaco è
chiamato a custodire la sua "anima", secondo l'insegnamento della Scrittura, in
una profonda umiltà:
Così dicendo [la Scrittura]
ci fa intendere che ogni esaltazione è una forma di superbia, dalla quale il
profeta mostra di volersi guardare quando dice: "Signore, non si è esaltato il
mio cuore, né si è innalzato il mio sguardo, non sono andato dietro a cose
troppo grandi o troppo alte per me". E allora? "Se non ho nutrito sentimenti di
umiltà, se il mio cuore si è insuperbito, tu mi tratterai come un bimbo svezzato
dalla propria madre"" (Sal 130,1;
RB 7,2-4). Una tale
sinonimia tra cuore e anima, che
appare qui e che la
RB
imita dalla
RM
10,2-4, rivela una concezione biblica di fondo, secondo la quale i due termini
insieme indicano la totalità della vita dell'uomo (cfr. Dt 13,4;
Gs
22,5;
Ger
32,41; e At 4,32)[8].
Ci sono, dunque, due
testi che rivelano – non per ciò che affermano esplicitamente, ma per ciò che
suggeriscono – la concezione benedettina del possibile rapporto tra anima e
corpo: anzitutto il passo citato sopra di RB 4,11, dove Benedetto
sopprime l'espressione di RM 3,11:
per il bene dell'anima (trattare il corpo con austerità, per il bene
dell'anima).
In secondo luogo, l'ampia e significativa soppressione da parte di Benedetto,
nel capitolo sul silenzio, di
MR 8,1-30, dove il Maestro presentava
l'individuo come una composizione articolata di corpo e anima. In essa, tra le
altre cose, il Maestro diceva:
L’edificio del genere umano è il nostro povero corpo;
(corpusculum)... Perciò questa carne del nostro povero corpo è una specie di
dimora dell’anima, destinata a servizio della vita come il fodero è al servizio
della spada (RM
8,1.6), testo che rivela una significativa influenza della prospettiva
platonica.
Benedetto, poi, elimina
quei testi in cui c'è una contrapposizione tra corpo e anima e la terminologia
relativa all'anima è presente, sì, nella
RB, ma all'interno di
contesti che rivelano la fedeltà dell'autore a una concezione autenticamente
biblica e neotestamentaria. L'anima è concepita non come una parte immateriale
dell'uomo, di cui il corpo sarebbe la dimora terrena e per la cui vita il corpo
costituirebbe un ostacolo, ma come la sede della vita interiore dell'uomo, che
ha nel corpo un compagno di strada e un collaboratore, in un'unica dinamica e
sinergia.
Sempre nell'ambito della
terminologia relativa all'anima, troviamo anche nella
RB un altro termine, che
potrebbe corrispondere a quella che nella visione platonica veniva chiamata
"anima irascibile": il termine "animus".
Questo sembra essere
nella
RB
un senso prevalentemente psicologico,
nel senso della sede del
sentimento, del pensiero e dell'intelligenza. Benedetto spera, infatti, di
essere "nobile" e di avere intelligenza (2,27); ed esorta i monaci ad obbedire
con slancio e
generosità, perché "Dio ama chi dà lietamente". Se infatti un fratello obbedisce
malvolentieri e mormora... non compie un atto gradito a Dio (5,16-18).
È bene che anche
l'economo sappia svolgere il suo compito con animo sereno:
Se la comunità fosse numerosa, gli si concedano degli aiuti con la cui
collaborazione possa svolgere serenamente il compito che gli è stato assegnato
(31,17).
Inoltre, il monaco
deve chiedere immediatamente perdono se ha offeso un anziano e vede che la sua
mente è stata turbata per questo motivo:
Se si accorge
semplicemente che un anziano è sdegnato o anche leggermente alterato nei suoi
riguardi, si inginocchi subito dinanzi a lui, senza la minima esitazione, e
rimanga così per riparare
(71,7-8).
Infine, il monaco deve sempre rimanere
alla presenza di Dio e meditare sulle realtà escatologiche nella sua mente:
Dunque il primo grado dell'umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo
timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione, si tengono
costantemente presenti i divini comandamenti e si pensa di continuo all'inferno,
in cui gli empi sono puniti per i loro peccati, e alla vita eterna preparata
invece per i giusti (7,10-11).
Questo elemento
antropologico è stato ripreso anche da Benedetto. Ciò, tuttavia, non sembra
designare nella
RB
una facoltà umana distinta dalle altre, ma piuttosto una dimensione esistenziale
di tutta la persona, che indica la vita cosciente, anche se non necessariamente
razionale, della persona.
In corrispondenza,
inoltre, a quella che era l'"anima concupiscibile" in Platone, troviamo nella
RB
una terminologia relativa alla
concupiscentia. Uno degli strumenti
delle opere buone, infatti, è:
Non concupiscere (4,6); e nel capitolo
sull'umiltà Benedetto esorta: Quanto poi alle passioni della nostra natura
decaduta, bisogna credere ugualmente che Dio è sempre presente, secondo il detto
del profeta: "Ogni mio desiderio sta davanti a te" (Sal 37,10).
Dobbiamo quindi guardarci dalle passioni malsane, perché la morte è annidata
sulla soglia del piacere. Per questa ragione la Scrittura prescrive: "Non
seguire le tue voglie" (Sir 18,30;
RB 7,23-25).
Entrambi i testi, in cui i termini relativi alla concupiscenza appaiono in senso
negativo, sono tratti dalla
RM (3,6 e 10,36).
C'è, d'altra parte, un
altro testo della
RB in cui troviamo il termine
concupiscentia
e in cui Benedetto apporta una modifica significativa rispetto alla
RM:
uno degli strumenti delle opere buone, infatti, è
desiderare la vita eterna con ogni
concupiscenza spirituale
(4,46), dove l’espressione
“con ogni la concupiscenza spirituale” (omni concupiscentia spiritali),
sostituisce nella
RB il testo “e la santa Gerusalemme”
di
RM
3,52 (desiderare la vita eterna e la santa Gerusalemme). Benedetto usa
così il termine
concupiscentia,
che nell'antropologia platonica indicava la sfera inferiore dell'anima e nella
letteratura patristica e monastica, con una connotazione negativa, le passioni
dell'uomo [9], per esprimere invece l'ardore del desiderio di vita eterna,
dandogli così un significato positivo[10].
In Benedetto, dunque, l'elemento della passione non appare come negativo e non
deve, quindi, essere eliminato dalla vita del monaco; deve, invece, essere
positivamente assunta e orientata verso il Signore e il suo Regno. Anche questo
testo, dunque, rivela l'apprezzamento di Benedetto per la realtà umana, la luce
positiva in cui la concepisce e la assume, orientandola verso Colui che l'ha
creata e che la chiama a rivolgersi a Lui.
Infine, come per Platone
c'era un'"anima razionale", così anche nella
RB c'è una terminologia
relativa al regno del pensiero. Il vocabolario in questione è piuttosto
articolato: troviamo, infatti, i sostantivi "mente"
(mens), "Pensieri"
(cogitationes
e cogitatus),
"intelletto" (intellectus),
"intelligenza"
(intellegentia);
i verbi "pensare, riflettere"
(cogitare), e "capire"
(intellegere);
e due aggettivi che significano entrambi "capace di capire"
(intellegens
e
intellegibilis).
Infine, concludiamo con una riflessione a parte sul significato del termine
ratio.
Innanzitutto,
mens
appare nella
RB
solo due volte (e anche quella scarsa frequenza mi sembra significativa): una
volta, dove si dice, a proposito dell'abate, che
anzi il suo comando e il suo insegnamento
devono infondere nelle anime ("in mentibus") dei
discepoli il fermento della santità
(2,5); e un'altra in cui, riferendosi all'atteggiamento dei monaci nei confronti
della salmodia, Benedetto dice:
che l'intima disposizione dell'animo ("mens") si armonizzi con la
nostra voce (19,7)
[11].
Nel primo caso,
riguardante l'abate,
mens
è impiegato con riferimento a comandi e
insegnamenti,
entrambi visti come "fermento" da seminare e sparso in vista della crescita del
seme e dei frutti che deve produrre. Tenendo presente, quindi, ciò che abbiamo
visto sopra circa l'ascolto o il non ascolto della parola del Signore che, per
Benedetto, avviene nel cuore, mi sembra che in questo testo il senso di
mens
non sta tanto ad indicare la facoltà propria della razionalità umana, quanto
piuttosto, più estesamente, l’animo,
chiamato ad essere concorde con la parola che la voce proclama, ad accettare
quella parola e a prestarle attenzione.
Per quanto riguarda il
secondo versetto, considerando il contesto di tutto il capitolo 19 (sulla
partecipazione interiore all'Ufficio divino), dove, da una parte,
l'atteggiamento a cui Benedetto esorta il monaco durante la preghiera liturgica
è quello della fede, (vv. 1-2), del timore di Dio (v. 3), della sapienza (v. 4),
e dove, dall'altro lato, tale versetto si trova alla fine del capitolo ed è
retto da un "quindi"
(ergo),
sembra che con queste parole Benedetto abbia voluto invitare il monaco non solo
ad una comprensione intellettuale del testo, ma ad assumere tutti quegli
atteggiamenti sopra indicati, designando con il termine mens non la
facoltà intellettuale del monaco ma la sede della sua vita interiore. Il senso
di mens, dunque, anche in questo testo sembra essere quello di stato
d'animo o di spirito[12].
Se, quindi, potrebbe
sembrare che, almeno a livello terminologico, l'uso di mens nella
RB
denota un'influenza della cultura greca, tale termine, che riflette anche una
terminologia di ispirazione platonica, non sembra avere nella
RB il senso di una
comprensione intellettuale, né si tratta di una "discorsività" razionale, ma
piuttosto di un "animo" o di uno "spirito" nel senso della facoltà della vita
interiore e cosciente.
Per quanto riguarda i termini
intellectus (30,1; 42,2),
intellegentia (2,32),
intellegere (7,7.16; 23,4;
30,2; 63,12),
intellegens (7,27) e intellegibilis (2,27;
63,19), Benedetto afferma, parlando delle misure disciplinari, che
ogni età e intelligenza (intellectus) dev'essere trattata in modo adeguato
(30,1). Così anche
l'abate,
riprenda, ammonendoli una prima e una seconda volta, i monaci più
docili e assennati, ma castighi duramente ("verberum vel corporis castigatio") i
riottosi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti, appena tentano di
trasgredire (2,27-28). Se un monaco, dopo essere
stato rimproverato davanti a tutti non si è corretto,
sia scomunicato,
purché sia in grado di valutare la portata di una tale punizione
(23,4); Perciò
i bambini e gli adolescenti e quelli che non sono in grado di comprendere la
gravità della scomunica, quando commettono qualche colpa siano puniti con gravi
digiuni o repressi con castighi corporali, perché si correggano (30,2-3).
I ragazzi più piccoli e i giovanetti ... fuori di lì siano sorvegliati e tenuti
dappertutto sotto la disciplina, finché non avranno raggiunto un età più matura
(63,18-19).
La «ragione» sembra consistere non tanto nella mera cognizione
intellettuale, quanto nel possesso di una piena e matura consapevolezza del
senso profondo degli avvenimenti.
Benedetto, poi, raccomanda che di notte non leggano i
primi sette libri della Bibbia e neppure quelli dei Re, perché ai temperamenti
impressionabili non fa bene ascoltare a quell'ora i suddetti testi
scritturistici
(42,4), dove
"intellectus" sembra avere il
senso ampio di "animo", di una facoltà dell'inconscio, secondo il senso del
verbo corrispondente nel Salmo 13,2, citato in
RB 7,27:
"il Signore esamina attentamente i figli degli uomini per vedere se vi sia chi
abbia intelletto (intellegens) e cerchi Dio”, e anche nel Salmo
138,3 citato nella
RB 7,16:
tu hai intuito (intellexisti) da
lontano i miei pensieri. Nello stesso senso, forse, possiamo interpretare anche il passo in
cui Benedetto dice che l'abate ha il compito di
dirigere le anime e porsi al servizio dei vari temperamenti, adattandosi
a tutti, secondo la rispettiva indole e intelligenza (2,31-32).
Sulla base, quindi, dei
rispettivi contesti in cui i termini menzionati si trovano nella
RB,
sembra che il suo significato nella
Regola sia quello di
indicare una facoltà che non è esclusivamente razionale-discorsiva del monaco,
ma la sua capacità di comprensione globale della realtà, legata più alla
coscienza che alla mera dimensione intellettuale. Quest'ultimo senso non è certo
escluso, come quando
intellegere
indica la necessità di comprendere il significato di una frase della Scrittura
(7,7) o di un termine particolare (63,12), ma questa non sembra essere la
caratteristica predominante della
RB.
Per quanto riguarda la
cogitatio,
presente dieci volte nella
Regola e sempre usata al plurale, sia le
nove volte[13]
in cui è tratta dalla
RM
come nell'unico testo medesimo della
RB
(65,5), indica sempre i «pensieri» malvagi contro i quali il monaco è chiamato a
combattere. Benedetto, dunque, sembra qui porsi sulla stessa linea del Maestro.
Cogitationes,
tuttavia, oltre a
cogitatus (Prol. 28), anche se
generalmente sono tradotti come "pensieri", non indicano esclusivamente nella
RB
l'atto riflessivo cosciente del monaco, ma anche i moti profondi della sua
mente: la
Regola
parla, infatti, di
pensieri cattivi che arrivano al cuore
(4,50; 7,44 e cfr.
Prol. 28), non alla mente. Anche il verbo
cogitare,
d'altra parte, è ripetuto sette volte nella
RB (e sempre in testi
propri), sembra avere, più che il senso stretto di "pensare discorsivamente",
quello di accogliere una verità e meditarla incessantemente, facendola scendere
nelle profondità della sua intimità. L'abate, infatti,
pensi sempre che si è assunto l'impegno di
dirigere delle anime, di cui un giorno dovrà rendere conto (2,34);
in tutte le sue decisioni si ricordi del giudizio di Dio (55,22);
e anche: pensi sempre che dovrà rendere conto a Dio di tutte le sue decisioni
e azioni
(63,3).
E ancora:
l'abate, da parte sua, si ricordi sempre che un giorno dovrà rendere conto a Dio
di tutte le sue decisioni, per evitare che la fiamma dell'invidia e della
gelosia gli divori l'anima
(65,22).
E inoltre: Il
nuovo (abate) eletto, poi, pensi sempre al carico che si è addossato e a chi
dovrà rendere conto del suo governo (64,7). All'abate, inoltre,
sia chiamato "signore" e "abate", non perché si sia arrogato da sé un tale
titolo, ma in onore e per amore di Cristo del quale sappiamo per fede che egli
fa le veci. Da parte sua, però, rifletta sull'onore che gli viene tributato e se
ne dimostri degno (63,13-14).
Anche quando
assegna un lavoro, infine,
proceda con
discernimento e moderazione, tenendo presente la discrezione del santo patriarca
Giacobbe, che diceva: "Se farò incamminare troppo i miei greggi, moriranno tutti
in un giorno" (Gen
33,13;
RB 64,18).
Il significato di
questo cogitare, quindi, sembra
essere quella di una meditazione profonda che impegna sia la mente che la parte
interiore del monaco in piena obbedienza alla parola del Signore.
Infine, per quanto
riguarda il termine
ratio,
nella
RB
non indica la "ragione" nel senso di facoltà razionale, ma soprattutto la
responsabilità verso Dio nel giorno del giudizio,[14] o, in senso lato, i
criteri delle azioni del monaco[15].
Due volte, quindi, può essere interpretato nel semplice senso di "razionalità":
Durante la
stagione invernale, cioè dal principio di novembre sino a Pasqua, secondo un
calcolo “ragionevole”, ("iuxta considerationem rationis") la sveglia sia verso
le due del mattino (8,1). E riguardo alle correzioni dei bambini Benedetto dice:
i ragazzi, però,
rimangano fino a quindici anni sotto la disciplina e l'oculata vigilanza di
tutti, ma sempre con grande moderazione e buon senso. ("omni mensura e ratione";
RB 70,4-5).
In due testi, inoltre, troviamo l'aggettivo
rationabilis ("ragionevole"): [L'Abate]
non anteponga un
monaco proveniente da un ceto elevato a uno di umili origini, a meno che non ci
sia un motivo ragionevole (2,18).
Infine: L'undicesimo grado
dell'umiltà è quello nel quale il monaco, quando parla, si esprime pacatamente e
seriamente, con umiltà e gravità, e pronuncia poche parole assennate, senza
alzare la voce
(7,60).
Per tre volte, infine, è
presente nella
Regola l'avverbio "ragionevolmente"
(rationabiliter):
se capita che un fratello chieda qualcosa al cellerario "irragionevolmente",
non lo mortifichi
sprezzantemente, ma sappia respingere la richiesta inopportuna con
ragionevolezza e umiltà. (31,7).
Se, in seguito, un monaco pellegrino,
rilevi qualche inconveniente o dia qualche suggerimento, l'abate si chieda se il
Signore non lo abbia mandato proprio per questo. (61,4).
Infine, per quanto
riguarda la nomina del superiore: Se le condizioni locali
lo esigono o la comunità lo chiede umilmente e con ragioni fondate e l'abate lo
giudica opportuno, nomini egli stesso priore quel monaco che avrà scelto con il
consiglio di fratelli timorati di Dio. (65,14-15).
I testi esaminati
finora, tutti specifici per la
RB (mentre nella
RM
non troviamo tale terminologia), rivelano chiaramente come nella
RB
non c'è neppure l'idea platonica della ragione umana come facoltà che ha il
compito di dirigere i moti istintivi e passionali dell'anima, ma c'è invece un
forte richiamo alla saggezza, nel significato di una profonda adesione alla
realtà delle cose, delle persone (anche di se stesse) e degli eventi. che
dovrebbe ispirare l'azione concreta del monaco e della comunità. Sapienza,
dunque, come chiamata a cogliere la realtà profonda e globale delle situazioni e
delle persone, in un'obbedienza e un'adesione ad essa che diventa saggezza di
vita.
Se, infatti, nel caso
della
RB
c'è una forza capace di contrastare il male che nasce dal cuore del monaco e di
dirigere e guidare le sue passioni, questa forza non è, come nella prospettiva
platonica, la ragione, ma una forza che viene da Dio e che viene acquisita dal
monaco attraverso la lotta interiore e l'apertura del cuore al padre spirituale:
infatti, può entrare nella dimora di Dio solo chi ha sgominato il diavolo,
che malignamente cercava di sedurlo con le sue suggestioni, respingendolo
dall'intimo del proprio cuore e ha impugnato coraggiosamente le sue insinuazioni
per spezzarle su Cristo al loro primo sorgere (Prol. 28). Perciò, [il
monaco deve]
spezzare subito in Cristo tutti i cattivi pensieri che gli sorgono in cuore e
manifestarli al padre spirituale
(4,50).
Anche per quanto
riguarda l'uso della terminologia relativa alla facoltà dell'intelletto, la
prospettiva di Benedetto si rivela di carattere non primariamente etico, ma
teologico; e la sua riflessione non è di natura filosofica o platonica, ma
biblica.
Monastero di Bose
13887 MAGNANO BI
Italia
[1]
Questo articolo propone, dopo una breve premessa, un capitolo del volume
(pubblicazione della tesi di laurea)
"Monachesimo: un cammino di unificazione. Saggio di antropologia monastica nella
Regola di Benedetto",
Bose 1986, di prossima pubblicazione in edizione riveduta e aggiornata, con il
titolo
Volto del monaco, volto dell' uomo.
Tradotto da Sr. Nice Cicciopastore, ocso. I passaggi tra parentesi quadre sono
aggiunti dal traduttore, per una migliore comprensione in spagnolo.
[2]
Cecilia Falchini è nata nel 1961 e, dopo aver studiato lettere classiche e
filosofia, è entrata nella comunità monastica di Bose nel 1984. Ha realizzato
diverse pubblicazioni riguardanti i Padri medievali, in particolare i
Cistercensi, e il monachesimo dall'antichità al Medioevo.
[3] Di
seguito indicato con
RB.
[4]
C. Tresmontant,
Essai sur la pensée hébraique,
Parigi 1953, p. 109. Qui
faccio a meno dell'interpretazione del fenomeno storico-filosofico
dell'epicureismo, per sfruttare il significato (quello di edonismo) che l'autore
gli attribuisce nell'ambito di una chiarificazione del suo discorso.
[5]
Numerosi sono i passaggi sull'argomento. Diamo un'occhiata ai seguenti esempi:
Prol. 3; 3,8; 4,60; 5,7.13; 7,12.19.31-32.
[6] Per
una trattazione più approfondita del tema dell'anima nella cultura occidentale,
si veda G. FAGGIN,
L'anima nel pensiero classico antico, L'anima,
di M. F. SCIACCA, Brescia 1954, pp. 9-27 e 29-69; C. FABRO,
L'anima nell'età patristica e medioevale,
in
Ibid. pp. 71-105;
E. L. FORTIN
Christianisme et culture philosophique.
Le problème de l’âme humaine en Occident,
Parigi, 1959; y C. TRESMONTANT,
Le problème de l’âme,
Parigi 1971.
[7]
Riferendosi a questo versetto, G. AULINGER osserva che lì
anima designa,
come nella Scrittura, l'intera persona. Cfr. G. AULINGER,
Das humanum, p.
86 e n. 157-158, riferendosi nella Scrittura
Gn 17,14;
46,15.18.22;
Es 1,5; 12,15
ss.;
Dt 10,22;
Sal 3,3; 11,1;
35,7; 88,15; 120,6; 142,5;
Pr 11,17;
Is 3,9;
Ger 3,11 ; 52,29;
Ez 4,14.
[8]
Così si esprimeva a volte Agostino, per il quale
il termine "cuore" è
l'equivalente lirico del termine "anima".
e ciò appare
spontaneo quando il linguaggio filosofico viene sostituito dallo stile poetico e
biblico
(A. GUILLAUMONT,
Les sens des noms du coeur dans l’Antiquité,
in Le coeur,
Parigi 1950 [Studi Carmelitani 29], p. 73).
[9]
Cf. Cassiano Inst. Cap. V, 14, 1:
gulae... concupiscentia,
e Cap. V, 14, 2:
oestus carnalis concupiscenti
[10] In
particolare, sul tema del desiderio nella
RB si verifichi
A. de VOGÜÉ,
La conversion du désir dans le chapitre de saint Benoît sur la Carême
(RB
49), in particolare
Collectanea Cisterciensia
56 (1994), pp. 134-138.
[11] In
questo versetto, e in particolare in relazione all'unione tra
vox e
mens W. Cramer
vede una corrispondenza con il pensiero stoico e una probabile dipendenza da
esso ("Mens concordet voci.
Zum Fortleben einer stichen Gebetsmaxime in der Regula Benedicti", in
Pietas. Festschriftn für Bernhard Kötting,
a cura di E. DASSMANN e K. SUSO FRANK, Münster 1980, pp. 447-457).
Per una riflessione su questo
versetto si veda anche V. WARNACH, "Mens concordet voci.
Zur Lehre des hl. Benedikt über die geistige Haltung beim Chorgebet nach dem 19.
Kap.
seiner Klosterregel”, en Liturgisches Leben 5 (1938), pp. 89-110.
[12]
D'altra parte, la posizione di Cassiano era stata diversa a questo riguardo, in
quanto aveva affermato l'identificazione di
mens con il greco
nous e con la
parola latina
ratio
attribuendole un carattere intellettuale, chiaramente ispirato a Platone:
Vel certe secundum tropicum sensum mens, id est nous sive ratio...
(Inst.
Cap. VIII, 10). Sulla necessità, per Cassiano, che la
mens si liberi
dal peso della carne per poter esercitare meglio la propria facoltà
intellettuale e percepire la realtà più alta, si veda
Conlationes. Cap.
I,14.
[13]
RB 1,5; 4,50;
7,12; 7,14; 7,15.16.17.18.44.
[14]
Cfr.
RB 2,34.37.38;
3,11; 31,9; 63,3; 64,1.7; 65,22.
[15]
Cfr. RB Prol.
47: Ma se, per la
correzione dei difetti o per una ragione ("ratione") di equità, dovrà introdursi
una certa austerità...;
e 24.4: Il
trattamento inflitto a chi viene escluso dalla mensa seguirà il criterio
("ratio")seguente.
|
Ora, lege et labora |
San Benedetto |
Santa Regola |
Attualità di San Benedetto
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9 dicembre 2023 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net