Regola di S. BenedettoPrologo: 45 Vogliamo dunque istituire una scuola del servizio del Signore 46 nella quale ci auguriamo di non prescrivere nulla di duro o di gravoso
III - La consultazione della comunità: 1 Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l'abate convochi tutta la comunità … 3 spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore... 13 "Fa' tutto col consiglio e dopo non avrai a pentirtene".
XXXIII - Il "vizio" della proprietà: 1 Nel monastero questo vizio dev'essere assolutamente stroncato fin dalle radici... 6 "Tutto sia comune a tutti", come dice la Scrittura, e "nessuno dica o consideri propria qualsiasi cosa".
XXXIV - La distribuzione del necessario: 1 Si legge nella Scrittura "Si distribuiva a ciascuno proporzionatamente al bisogno."...3 chi ha meno necessità, ringrazi Dio senza amareggiarsi, 4 mentre chi ha maggiori bisogni, si umili per la propria debolezza.”
LXIII - L'ordine della comunità: 1 Nella comunità ognuno conservi il posto che gli spetta secondo la data del suo ingresso o l'esemplarità della sua condotta o la volontà dell'abate.
La fede cristiana è una vita con gli altri
Frère John di Taizé
Convegno sulla vita comune Milano, 21 novembre 2020
Ci ritroviamo per riflettere sull'importanza della vita comune per la nostra
fede cristiana. Forse c'è un po' d'ironia nel parlare di comunità quando, a
causa di questa famosa pandemia, non possiamo neanche stare insieme fisicamente!
D'altra parte, la situazione attuale può farci capire di più in che consiste la
comunità vera e come viverla nei mesi e negli anni che vengono.
Prima di parlare di comunità in quanto tale, voglio cominciare par un'altra
domanda che è più fondamentale: qual è infatti l'essenziale dell'essere
cristiani?
La fede cristiana è una Vita
Se si ponesse questa domanda a persone prese a caso, otterremmo certamente la
risposta seguente: il cristianesimo è una
religione, anzi una delle grandi religioni del mondo. Cioè, lo
vedrebbero come una seria di riti e pratiche particolari che esprimono una
relazione con un Essere Supremo, Dio. Altri invece direbbero che la fede
consiste in alcune dottrine che ci rivelano l'identità di questo Dio, o in certe
leggi morali che indicano un comportamento da seguire. Se tutte queste risposte
contengono una parte di verità, secondo me non indicano la specificità della
nostra fede. Torniamo allora alle origini.
Quasi duemila anni fa, ciò che ha colpito gli abitanti del mondo mediterraneo
quando guardavano i primi discepoli di Gesù era la vita che conducevano. Era in
primo luogo il modo di vivere dei primi cristiani che comunicava un messaggio,
perché la loro accettazione di Gesù come Signore e Messia comportava un
cambiamento nella loro esistenza, una
metanoia, una conversione, concretizzata in uno stile di vita
particolare. Sotto molti aspetti, indubbiamente, questi uomini e queste donne
vivevano come tutti gli altri. Un testo che si chiama la
Lettera a Diogneto, e che è dal II o dal III secolo, dice: «I
cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli
altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si
differenzia, né conducono un genere di vita speciale» (V, 1-2). Tuttavia questa
lettera prosegue: «Vivendo in città greche e barbare ... adeguandosi ai costumi
del luogo ..., testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente
paradossale» (V, 4). La loro maniera di vivere li distingueva dagli altri:
spingendo le possibilità umane quasi al loro limite, questo modo di vivere
attirava tante altre persone. Si potrebbe chiamarla una vita "controcorrente",
che contrastava con numerosi valori della società circostante, pur rispondendo
alle aspirazioni nascoste nel cuore umano. Cerchiamo di capire meglio qual è
questa vita?
A questo proposito è interessante esaminare come i discepoli di Gesù si
definirono. Secondo gli Atti degli Apostoli, il nome "cristiani" è stato dato a
loro dagli altri (vedi Atti 11,26). Loro stessi si descrivevano in un altro
modo. Negli Atti degli Apostoli, san Luca racconta che Saulo voleva arrestare
«uomini e donne, appartenenti a questa Via» (Atti 9,2). In questo libro,
troviamo le espressioni "la Via del Signore" (18,25), "la Via della salvezza"
(16,17) e soprattutto "la Via", senza qualificarla ulteriormente (9,2; 18,26;
19,9.23; 22,4; 24, 14.22) per descrivere il fatto di essere cristiani.
Questo modo di parlare trova le sue radici nelle Scritture ebraiche. La metafora
della "via" si applica spesso alla maniera di essere e di agire di qualcuno.
Nella Bibbia ebraica, i comandamenti divini sono chiamati "le vie del Signore"
(per esempio Salmo 25,4 "Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi
sentieri"; 119,3) non soltanto perché sono comandati da Dio, ma perché
descrivono il comportamento stesso di Dio, che gli esseri umani devono imitare
per entrare nella vera vita. E per i cristiani, questo cammino di vita non era
definito da parole, leggi, scritte su tavoli di pietra o in un libro ma da
un'esistenza vissuta nel mondo, quella di Gesù. Descrivendo la loro fede come
"la Via", i primi cristiani esprimevano la loro convinzione che la loro vita
vissuta sulle tracce di Cristo era una traduzione in questo mondo della vita
stessa di Dio.
Quest'anno il priore di Taizé, frère Alois, ha scelto come tema per la
riflessione negli incontri giovanili parole che descrivono la vita di una
religiosa polacca fondatrice di una comunità di suore: "Sempre in cammino, mai
sradicati". Ci dice bene la qualità di questa esistenza alla quale Cristo ci
chiama: è innanzi tutto una vita vissuta, una vita in cammino.
Ma com'è possibile per gli uomini e donne normali di vivere in questa maniera
nuova? Non sono gli sforzi umani che la rendono possibile ma il dono di Dio.
Nella sua prima lettera ai Tessalonicesi, san Paolo scrive:
rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi
vi abbiamo fatto udire, l'avete accolta non come parola di uomini ma, qual è
veramente, come parola di Dio, che opera in voi... (2,13)
L'apostolo non trasmette solo parole umane fatte da suoni arbitrari e da seguire
con un atto della volontà, per lui si tratta della Parola divina all'opera in
coloro che credono, cioè che la prendono sul serio. Egli utilizza il verbo
energeitai: la Parola di Dio è una forza o un'energia, identica a
quella con la quale Dio ha creato l'universo (cfr. Genesi 1). Oggi diremmo che
questa Parola è performativa: essa compie ciò che annuncia.
Altrove, Paolo parla del Vangelo come di qualcosa che «in tutto il mondo porta
frutto e si sviluppa» (Colossesi 1,6), una potenza straordinaria in noi, la
stessa che ha resuscitato Gesù dai morti (vedi Efesini 1,19-20), dunque
un'irresistibile energia di vita. Ancor più sovente, nella Bibbia, questa
energia è identificata con lo Spirito Santo, il Soffio stesso di Dio che ispira
e trasforma la vita dei credenti. Per descrivere in sintesi la vita cristiana,
Paolo utilizza talvolta l'espressione «vivere secondo lo Spirito» (Romani 8,4-5)
ed incoraggia i suoi lettori a «camminare secondo lo Spirito» (Galati 5,16).
Torniamo alla nostra domanda di base. Possiamo dire che la fede cristiana è una
vita in due sensi connessi. Da un lato è un modo di comportarsi, dall'altro il
dono di un dinamismo interiore. Essa è la Vita stessa di Dio, il suo Spirito,
all'opera nel cuore umano ed espresso attraverso una presenza nel mondo. Per il
Vangelo, inoltre, questi due significati sono intimamente legati fra di loro. Il
dono di una vita interiore rende possibile il comportamento esteriore e questo,
a sua volta, concretizza l'altro.
Ma nel corso dei secoli, per vari motivi, fra l'altro a causa delle divisioni
nella Chiesa, la priorità della vita è stato meno sentito. I dogmi proclamati
hanno preso il posto del vissuto come misura dell'ortodossia. Alla fine, si
sarebbe potuto definirsi cristiani perché si sapeva ciò che conveniva sapere su
Dio e si compivano i riti che da ciò scaturivano, anche se, quasi sotto ogni
aspetto, si svolgeva una vita del tutto simile a quella di ciascuna persona. Non
è forse questa una delle ragioni per le quali il Vangelo non è riuscito ad
essere una forza efficace di speranza e di pace per il nostro mondo? Una
riscoperta della priorità della vita sembrerebbe essere così un passo necessario
per superare le divisioni fra i cristiani e offrire una testimonianza autentica
ad un mondo in ricerca. È da questa riscoperta che comincia l'evangelizzazione.
La fede cristiana è una vita con gli altri
In che cosa consiste questa vita che siamo chiamati a svolgere? La
Lettera a Diogneto dice che, pur vivendo in mezzo alla società
come tutti gli altri, i cristiani «manifestano le leggi straordinarie e davvero
paradossali della loro repubblica spirituale». La parola "repubblica", che evoca
il modo di vivere dei discepoli di Cristo, traduce il vocabolo greco
politeia, da cui deriva la nostra parola "politica". La fede
cristiana è dunque essenzialmente una vita con gli altri, una vita comune. La
vita interiore che ci offre conduce necessariamente ad un nuovo modo di stare
insieme - con l'altro che mi sta a fianco e con tutti gli altri che abitano il
nostro pianeta.
Questo era già evidente all'inizio della vita pubblica di Gesù. Lungi dall'avere
rapporti individuali con ciascuno dei suoi discepoli, egli ha fatto di loro un
gruppo, una comunità. E quasi fin dall'inizio, questa comunità aveva una certa
struttura, informale ma visibile. Consisteva in una serie di cerchi concentrici:
tutti gli ascoltatori; i discepoli; i Dodici; Pietro, Giacomo e Giovanni;
Pietro. Poi, dopo la morte e la resurrezione di Gesù, i primi cristiani si
radunano a Gerusalemme e, poco più tardi, in piccole comunità diffuse nelle
città all'est del bacino del Mediterraneo. Queste comunità erano formate da
donne e uomini di origini linguistiche, sociali ed etniche differenti, che fra
loro si chiamavano fratelli e sorelle. Questa pratica può sembrarci un po'
banale, tanto vi siamo abituati. Tuttavia, se potessimo tornare indietro al
primo secolo della nostra era, forse riusciremmo a cogliere a che punto era
"straordinario" e "paradossale", come dice la Lettera a Diogneto, appartenere ad
una famiglia multiculturale e multietnica definita unicamente dalla fede in Gesù
come Messia.
E questo era infatti la novità del Vangelo. I discepoli hanno a poco a poco
capito che dovevano vivere insieme non soltanto perché è più facile credere
quando non siamo soli, ma perché questo stile di vita rispecchia la vita stessa
di Dio. Nella introduzione della sua prima Lettera, san Giovanni lo dice
esplicitamente:
Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo
veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani
toccarono del Verbo della vita - la vita infatti si manifestò, noi l'abbiamo
veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era
presso il Padre e che si manifestò a noi (1 Giovanni 1,1-2)
Se la fede cristiana è una Vita, allora i primi discepoli hanno scoperto questa
Vita che è sostanzialmente la vita di Dio stesso (Giovanni la chiama "la vita
eterna"), resa manifesta nell'esistenza del loro Maestro Gesù. E l'hanno
scoperta non come un'idea astratta, bensì - attraverso l'udito, la vista, il
tatto - come la più concreta delle realtà. Poi hanno voluto condividerla con
altri. Perché?
Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche
voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il
Figlio suo, Gesù Cristo. (1 Giovanni 1,3)
Questa Vita viene comunicata per creare una "comunione", in greco
koinonia, una vita condivisa, una vita insieme. E Giovanni dice
che questa vita condivisa è in realtà una condivisione della Vita fra il Padre e
il Figlio. La nozione di
koinonia viene così situata all'interno della divinità. Qui
affrontiamo il vero significato di quella essenziale dottrina cristiana, la
Trinità, che ci sembra spesso molto astratta, complicata, e forse anche inutile.
Dio è comunione e, se i credenti in questo Dio si sforzano di condividere la
loro vita con gli altri, iniziando a farlo con chi ha la stessa fede, riflettono
con questo la vita divina al cuore dell'universo creato.
E Giovanni conclude:
Queste cose vi scriviamo, perché la vostra gioia sia piena. (1 Giovanni 1,4)
In definitiva, che cos'è la gioia? È la presa di coscienza di una vita vissuta
in pienezza. Quando siamo pienamente viventi, interamente gli esseri che siamo
fatti per essere, sperimentiamo la gioia. Giovanni ci dice, allora, che questa
esperienza di vita condivisa fra esseri umani e con Dio è una rivelazione del
vero senso dell'esistenza e quindi fonte di gioia.
San Paolo, da parte sua, parla spesso dell'importanza della comunità cristiana
di vivere nell'unità. "È forse diviso il Cristo?" chiede ai Corinzi che si
stanno separando in diverse tendenze (1 Corinzi 1,13). Altrove, Paolo definisce
un cristiano come qualcuno che non si appartiene più (cfr. 2 Corinzi 5,15;
Romani 14,7-9). Lasciandosi dietro il loro io isolato, sono trasformati in
"esseri per gli altri", uomini e donne di comunione ad immagine e somiglianza di
Cristo. A poco a poco, la vita di Dio dentro di noi supera le resistenze interne
ed esterne, trasformandoci in quello che la Lettera agli Efesini chiama
"un'umanità nuova", dove tutte le divisioni sono annullate (vedi Efesini 2,
11-22). E questa nuova maniera di essere umano si esprime nell'esistenza di
comunità aperte a tutti, dove i discepoli di Gesù vivono come fratelli e
sorelle; queste comunità sono il segno e le primizie del desiderio di Dio per
tutta la sua creazione. Esse sono dunque allo stesso tempo locali ed universali.
La situazione odierna
Non è ovvio che questa prospettiva forma un contrasto radicale con la nostra
situazione attuale? Perlomeno in Occidente, l'individualismo è molto
all'avanguardia, sebbene generalmente in maniera subdola piuttosto che
aggressiva, conformemente ad una società consumistica. Ai giorni nostri ci
sembra evidente che l'identità individuale prevalga sul rapporto con gli altri.
È così sorprendente allora che, senza basi solide sulle quali costruirsi, i
rapporti umani nel mondo d'oggi siano estremamente fragili? Che cosa può
cementare l'unione di individui indipendenti, soprattutto quando sorgono
inevitabili problemi ed incomprensioni?
Di più, la tecnologia attuale e i mezzi di comunicazione sociale cambiano
profondamente il contesto della nostra esistenza. Nel suo ultimo enciclica
Fratelli tutti, papa Francesco sofferma molto su che egli chiama
"l'illusione della comunicazione" (§ 42-43). Chi può negare che, da una parte,
Internet e le cose collegate rendono possibili contatti senza precedenti
attraverso il mondo. In questo momento noi possiamo riflettere insieme grazie a
Zoom. Ma ciò che il papa afferma è anche molto vero:
i media digitali possono esporre al rischio di dipendenza, di isolamento e di
progressiva perdita di contatto con la realtà concreta, ostacolando lo sviluppo
di relazioni interpersonali autentiche. C'è bisogno di gesti fisici, di
espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo,
tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della
comunicazione umana. I rapporti digitali, che dispensano dalla fatica di
coltivare un'amicizia, una reciprocità stabile e anche un consenso che matura
con il tempo, hanno un'apparenza di socievolezza. Non costruiscono veramente un
"noi", ma solitamente dissimulano e amplificano lo stesso individualismo che si
esprime nella xenofobia e nel disprezzo dei deboli. La connessione digitale non
basta per gettare ponti, non è in grado di unire l'umanità.
(Fratelli tutti, §43)
Precisamente perché è così affascinante, il mondo della tecnologia può
facilmente farci deviare verso un'esistenza inumana.
In questo contesto, le nostre Chiese offrono forse uno stile di vita
"straordinario e veramente paradossale", una vera alternativa ad una società
basata sulla competizione e sui consumi? Dobbiamo stupirci che sia diventato più
difficile per molti vedere nella Chiesa cristiana la novità del Vangelo?
Piuttosto che offrire un'alternativa chiara, i cristiani sembrano spesso aver
semplicemente riprodotto le divisioni del mondo circostante. È quindi urgente
riscoprire la Chiesa come un solo corpo, la famiglia universale di Dio, il segno
che anticipa, per l'umanità, un nuovo modo di vivere insieme. Già nel quarto
secolo, e senza beneficiare di Internet, san Giovanni Crisostomo affermava che
"di tutti Cristo fa un solo corpo. Così, colui che dimora a Roma considera gli
Indiani come le sue membra" (Omelia 65). Bisogna reimmaginare l'amore cristiano
come una forza che riconcilia le opposizioni e crea una comunità a partire da
donne e uomini i più diversi, affinché la vita di questa comunità possa
irradiare una potenza di attrazione capace di trasformare i cuori e favorire un
avvenire di pace sul nostro pianeta.
Ovviamente, noi non possiamo cambiare ad un tratto la maniera in cui i cristiani
capiscono e vivono la loro fede. Ma come diceva il nostro fondatore, frère
Roger, bisogna mettere in pratica, senza aspettare, il poco che abbiamo capito
del Vangelo. Questo primo passo porterà ad altri. È quindi urgente che facciamo
tutto il possibile, in un mondo d'isolamento e di concorrenza, per elaborare uno
stile di vita fondata nello scambio, nella condivisione. Ognuno farà questo alla
sua maniera. Alcuni lo faranno di maniera radicale. Ci sono sempre stati, nella
Chiesa, degli uomini e delle donne che hanno scelto una vita di comunità,
rinunciando a creare le proprie famiglie e vivendo insieme con altri una vita di
preghiera e di servizio. Nella mia comunità, a Taizé, ci sentiamo in profonda
continuità con questa vecchia tradizione monastica. Ma bisogna insistere sul
fatto che i fratelli e le suore non hanno scelto questa forma di vita soltanto
per loro stessi, per la santificazione personale, come si diceva. Questa vita
voleva essere un segno dell'essenziale del Vangelo indirizzato a tutto il popolo
di Dio. Questa esigenza spiega in parte la tradizione dell'ospitalità che le
comunità monastiche hanno sempre praticato. A Taizé, abbiamo dall'inizio accolto
altre persone, prima i rifugiati di guerra e i migranti, poi persone che
venivano per qualche giorno per condividere la preghiera e la vita comune dei
fratelli. Da cinquant'anni, sono in maggioranza i giovani che vengono sulla
nostra collina per una settimana di vita comunitaria e per incontrare altri
giovani di tanti paesi nel mondo. Una certa parte di quelli che vengono non
conoscono bene la fede cristiana, ma quasi tutti sono colpiti da uno stile di
vita radicato nella comunione con Dio e la comunione con gli altri, talmente
diverso dalla loro esperienza quotidiana.
Questo apre ad una domanda importante, che a Taizé cerchiamo di approfondire con
i giovani che vengono da noi. Come possono continuare, nella loro vita
quotidiana, l'essenziale di ciò che avevano capito qua, senza imitare pratiche
che non corrispondono alle possibilità che hanno? Più concretamente, come vivere
la comunione con Dio e con gli altri in una società che segue un tutt'altro
cammino? Il nostro mondo ci dice, implicitamente, che siamo individui staccati,
autonomi, responsabili solo per noi stessi. Dobbiamo pensare a noi stessi per
prima cosa e acquistare ciò che possiamo ottenere; se rimane qualcosa per gli
altri, va bene, ma non è questa la nostra preoccupazione. (Detto fra parentesi,
colpisce quanto il tema del "bene comune" sia sparito dalla vita pubblica, ogni
gruppo o partito cerca solo di tirare la copertura il più possibile dalla sua
parte.)
Quindi per chi accetta il Vangelo di Gesù Cristo, ci vuole tutta una formazione
ad un altro modo da vivere, che metta in prima fila la comunione. Questo si
riassume nelle prima parole della preghiera che Gesù ci ha trasmesso:
Padre nostro. Entrare in rapporto con Colui che Gesù chiamò Abba,
che vuole per noi la vita in pienezza, significa allo stesso tempo dire "noi" e
non "io". È solo insieme che possiamo capire e vivere il Vangelo. Di
conseguenza, tutte le esperienze che si possono fare dove bisogna tener conto
degli altri - una settimana a Taizé o in un campo di lavoro, una settimana
comunitaria nella parrocchia o nell'oratorio, esperienze di condivisione e di
assistenza a persone bisognose o emarginate, un anno di volontariato o in
comunità - ci insegnano quest'altro stile di vita che a lungo andare deve
diventare abituale, anche in mezzo alla vita di famiglia, di scuola, di lavoro.
È un lavoro di ampio respiro.
La vita di comunità non è sempre facile, perché è allo stesso tempo bello e
esigente. Bello, perché l'essere umano ha bisogno degli altri per respirare e
per vivere pienamente. Momenti di solitudine sono importanti per ritrovare
l'essenziale al di là di tutti i rumori che ci circondano, soprattutto oggi, ma
non sono un'espressione adeguata della condizione umana. La vita è fatta da uno
scambio permanente con gli altri, dove doniamo e riceviamo.
D'altra parte, non è sempre facile condividere la vita di chi è diverso da noi.
Ci fa uscire spesso da ciò che oggi si chiama la zona di comfort, siamo chiamati
ad aprirci ad altri idee e valori, altri modi di capire l'esistenza. Altrimenti
rischiamo di chiuderci in un piccolo mondo individuale o con alcune persone che
pensano esattamente come noi. Stranamente, i mezzi sociali di comunicazione -
Internet, Facebook, WhatsApp e così via - non ci aiutano sempre ad aprirci.
Esperienze di comunità, dove siamo messi a prova attraverso il contatto con
altri, sono allora come una pedagogia per diventare più universali, più capaci
di apprezzare la diversità della famiglia umana. Preparano in un microcosmo la
pace nel mondo. Io rendo grazie a Dio che, attraverso i miei anni nella comunità
di Taizé, ora ho amici di tanti paesi del mondo, di tante chiese e religioni.
E finalmente, come ho già tentato di spiegare, uno stile di vita basato sulla
comunione e sulla solidarietà universale è un'espressione dell'essenziale del
messaggio cristiano. San Paolo chiama la Chiesa cristiana il Corpo di Cristo,
che vuol dire la continuazione della presenza di Cristo risorto nella storia
umana. Per essere membro vivo di questo corpo, dobbiamo imparare a vivere con
gli altri. È Dio che ci riunisce attraverso il suo Spirito, e quando
condividiamo la nostra esistenza con gli altri, permettiamo a questo suo Spirito
di circolare e di toccare altri. Non è per niente che, al centro della nostra
vita di fede, troviamo l'eucaristia. Tutti siamo uniti attorno alla stessa
Tavola e Cristo ci nutrisce con il suo Corpo e il suo Sangue. Sant'Agostino
diceva che, nell'eucaristia, mangiamo ciò che siamo. Il sacramento ci dà la
forza di essere uniti attorno a Cristo come il suo corpo. Ma questa comunione
non è solo un rito, deve informare tutta la nostra esistenza per fare di noi
uomini e donne di comunione. Le esperienze di vita comunitaria che facciamo sono
una maniera privilegiata per concretizzare questa chiamata.
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13 agosto 2024 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net