APPUNTI SULLA

REGOLA DI S. BENEDETTO

di

D. Lorenzo Sena, OSB Silv.

Fabriano, Monastero S. Silvestro, Ottobre 1980


2.2) COMMENTO AL TESTO

LA GIORNATA IN MONASTERO (capitoli 48-49)

CAP. 48 - Il lavoro manuale giornaliero

Appendice al capitolo 48: Excursus sul lavoro monastico

CAP. 49 - L'osservanza della quaresima


LA GIORNATA IN MONASTERO

CAPITOLO 48

Il lavoro manuale quotidiano

De opera manuum cotidiana

Preliminari

L'Opus Dei e` l'occupazione principale del monaco, pero` non e` l'unica. Il rimanente tempo va distribuito tra lavoro manuale e lectio divina. Quindi il titolo non abbraccia tutto il contenuto del capitolo. In realta` in queste pagine abbiamo tutto l'orario della giornata, con la saggia distribuzione del tempo tra OPUS DEI, LECTIO DIVINA, LAVORO MANUALE, i tre grandi cardini della vita monastica.

RB.48 corrisponde a RM.50. In quest'ultima l'orario e` visto soprattutto alla luce dell'Ufficio divino: si tratta di occupare il tempo tra un ufficio e l'altro; nella RB ha uno scopo eminentemente pratico: interessandogli l'ordinamento delle occupazioni dei monaci tra lavoro e lectio, SB non teme neanche di spostare alcune ore dell'Ufficio divino (terza, sesta e nona), cosa che altrove era soltanto eccezionale. RB considera piuttosto il ritmo della vita umana con le sue alternanze di sforzo e di riposo, di lavoro spirituale e di lavoro materiale.

Schema

La struttura del capitolo e` logica:

- un principio generale (v.1);

- orario da Pasqua a ottobre (vv.2-6) e norme in caso di lavori eccezionali (vv.7-9);

- orario da ottobre a quaresima (vv.10-13);

- orario di quaresima )vv.14-16);

- la lectio quaresimale, che riveste particolare importanza, fa aggiungere a

SB delle norme per la scrupolosa osservanza del tempo ad essa dedicato

(vv.17-21);

- chiudono il capitolo alcune direttive sul lavoro e la lettura in casi speciali:

uno temporale (la domenica, vv.22-23), l'altro personale (infermi vv.24-25).

1: Principio generale: necessita` del lavoro;

Apre il capitolo un assioma fondamentale: la necessita` e l'obbligo del lavoro. La sentenza "l'ozio e` nemico dell'anima" si trova nella Regola di S.Basilio stampata nella versione latina di Rufino (Reg.192) e viene citata come un detto di Salomone, ma non si trova nella Scrittura e non si legge nell'opera originale in greco di S.Basilio (Reg.37). La Bibbia ha frasi simili: "l'ozio insegna molte cattiverie" (Sir.32,21; cf. Prov.26,13-14; Sir.22,1-2). Si noti che nel testo della RB, per "ozio" c'e` la parola latina otiositas e non otium, perche` l'"otium" latino non corrisponde al nostro "ozio", ma significa "essere libero per dedicarsi ad attivita` di carattere spirituale" (quali lo studio, la contemplazione, ecc.; da qui l'espressione "otia monastica" <ozi monastici> come tempo per la lectio divina, la riflessione, ecc.). Attenzione quindi a non equivocare.

"Percio` i fratelli in determinate ore...": la frase richiama un passo di Agostino (De opere monachorum, 37). SB vuole distribuire bene il tempo: tutte le ore non impiegate nell'Ufficio divino devono avere un ben determinato uso: o lavoro manuale o lectio divina. Senza parlare qui di queste due componenti dell'orario monastico, rimandiamo alle riflessioni in: Appendice I: "Excursus sulla lectio divina" e Appendice II: "Excursus sul lavoro monastico". Ambedue questi excursus si trovano alla fine di questi appunti, con numerazione propria.

2-6: Orario estivo : da Pasqua a Ottobre.

Scendendo al concreto, SB stabilisce l'orario per i vari tempi dell'anno. Nei mesi di primavera estate, dopo Pasqua (verso le 5) i monaci andavano al lavoro. Non si fa menzione dell'Ufficio di Terza, che probabilmente veniva celebrato sul luogo stesso del lavoro (cf.RB.50), oppure si celebrava al termine del lavoro verso le 10. (Sara` bene ricordare, a proposito di ore e di orario, che si tratta di computo romano, con l'ora variabile secondo le stagioni in funzione della luce solare (cf. Introduzione generale alla sezione sull'Opus Dei, posta prima dei cc.8-11).

Dall'ora quarta (verso le 10) fino a sesta (verso mezzogiorno) i monaci si dedicavano alla lectio. Si noti la discrezione di SB che d'estate fa lavorare i monaci nelle prime ore del giorno quando non e` troppo caldo. Dopo sesta, i monaci mangiavano e poi avevano la siesta, per compensare qualcosa alle meno ore di sonno durante le brevi notti dell'estate (cf. commento al c.8). SB non tiene conto qui del mercoledi` e venerdi`, in cui non si mangiava fino a nona (RB.41,2-4) per ragione del digiuno; sembra pero` che la siesta nel periodo estivo ci fosse tutti i giorni, digiuno o non digiuno, come appare dal parallelo RM.50,56-60. Quelli a cui non piaceva dormire o che amavano astenersene per ascetismo, erano autorizzati a leggere presso il proprio letto, ma non a voce alta: la raccomandazione non e` superflua, perche` gli antichi erano soliti leggere, anche privatamente, pronunziando le parole. Da questo testo deduciamo che tutti i monaci, dormissero o leggessero, dovevano rimanere nel dormitorio comune (come appare anche da RM.44,12-19). La siesta durava fino a nona, ma detta ora canonica si anticipava un po` e poi i monaci tornavano al lavoro fino a vespro.

7-9: Norme in caso di lavori eccezionali

SB aggiounge una parentesi di singolare importanza: contempla il caso di lavoro eccezionale, come la raccolta delle messi e dei frutti. I monaci di quel tempo non si occupavano direttamente dei lavori dei campi, che invece affidavano ad operai prezzolati (i monaci si limitavano al lavoro dell'orto, del giardino, ...). Ora, le circostanze in cui si trovava l'Italia - la guerra tra Goti e Bizantini, la poverta`, la mancanza di mano d'opera o l'impossibilita` di pagarla - potevano costringere i monaci a fare da se stessi la mietitura, la trebbiatura, la vendemmia, ecc. Quindi, malgrado le riserve dell'ambiente monastico italiano, SB si vede costretto a introdurre il lavoro agricolo (come ha dimostrato DeVogue`), e riscopre nel suo tempo la grande legge del monachesimo primitivo di sostenersi con il proprio lavoro: allora sono veri monaci, quando... (v.8). La necessita` del lavoro inculcata prima come una massima negativa - evitare l'ozio, nemico dell'anima (v.1) - si basa ora su un principio positivo: attendere alla propria sussistenza, conforme all'esempio dei "nostri Padri e degli Apostoli (v.8).

Quindi il lavoro manuale dei monaci non consistera` solo nelle diverse occupazioni domestiche (in cucina, nel forno, nel mulino); o nei diversi incarichi in monastero (ospiti, ammalati); o nella semplice coltivazione dell'orto sufficiente per le verdure per la mensa comune; o ancora nell'esercizio di un'arte: tutti lavori, questi, che non davano un'entrata al monastero (anche gli stessi artigiani, cf.RB.57,4-7); si tratta anche di coprire le necessita` del monastero con il prodotto del proprio lavoro, di provvedere al proprio sostentamento con fatica, secondo la grande legge del lavoro. In tal caso, dice SB, i monaci si dedichino a tali lavori pesanti non soltanto senza mormorare, ma col santo orgoglio di sentirsi veri monaci (vv.7-8); pero` non si ecceda, e si pensi ai meno dotati di vigore fisico o morale (v.9).

10-13: Orario invernale: da ottobre a quaresima

In autunno-inverno si ha un altro ordinamento. I monaci dedicavano le prime ore della mattinata alla lettura, dalle lodi fino alla fine dell'ora seconda, che, calcolando il solstizio invernale con la levata del sole molto piu` tardi, dovrebbe corrispondere alle nostre ore 8,30-9. Poi si celebrava terza e quindi c'era un lungo orario di lavoro fino a nona, verso le 14,30-15.

Si parla solo qui di due segnali per l'Ufficio divino, pero` si puo` supporre che erano sempre due i segnali per chiamare alla preghiera i monaci quando stavano lavorando. Come gia` si e` visto, (RB.41,6), in questo periodo i monaci mangiavano solo dopo nona, e non c'era la siesta; percio` dopo il pasto si riprendeva la lettura o lo studio dei salmi: vacent psalmis significa "mandare a memoria il salterio" a forza di recitarlo (SB a questo scopo ha gia` stabilito il tempo tra l'Ufficio notturno e le lodi in inverno, cf.RB.8,3). La lettura durava certamente fino a vespro; dopo vespro, breve intervallo, quindi riunione dei monaci con la lettura delle Collazioni e compieta (cf.RB.42,5).

14-16: Orario durante la quaresima

Come si vede, l'orario invernale era piu` austero che quello estivo. In quaresima questo carattere severo si accentua: la quaresima e` un tempo penitenziale. La refezione era dopo il vespro, che pero` veniva un po` anticipato (cf.RB.41,7-8). L'orario cosi` e` meno spezzettato: lettura tutta di seguito fin verso le 9; poi lavoro continuo fino alle 16 (interrotto solo dagli Uffici di sesta e nona recitati probabilmente sul posto di lavoro); seguiva il vespro, la refezione, quindi la lettura comune e compieta. Ciascuno dei giorni di penitenza preparatori alla Pasqua (eccettuata la domenica) costituiva una dura giornata di lettura e di lavoro sopportata a digiuno fino a vespro.

Bibliotheca: interpretazione controversa

I vv.15-16 hanno un'interpretazione controversa. "All'inizio della quaresima - dice la RB - ciascuno riceva un libro della biblioteca da leggere di seguito e per intero". Il testo e` perfettamente chiaro. La disputa e` intorno alla parola biblioteca. Si e` interpretato fino a qualche anno fa sul senso originario e comune di biblioteca del monastero. Recenti studi (A.Mundo` "Bibliotheca" Bible et lecture d'apres S.Benoit in "Revue Benedictine" 60 (1950) 65-92; A.Mundo` Las Reglas monasticas latinas del siglo VI y la "lectio divina" in SM 9 (1967) 247-249 (articolo pp.230-255); A.Olivar in Revue de Archiv.Bibl y M. (1949) 513-522) fanno pendere per un'altra interpretazione. Si dice che se la parola "bibliotheca" nella letteratura classica indica la biblioteca nel senso nostro, cioe` deposito di libri, nella letteratura cristiana significa l'insieme dei libri sacri, cioe` la Bibbia. Nei testi cristiani dal VI al IX secolo, cioe` durante il periodo patristico e il primo medio evo, questo significato e` piu` frequente che non l'altro. In tutta la Regola non si parla mai di biblioteca del monastero, quasi sicuramente perche` non esisteva (al tempo do SB i monasteri piu` grandi avevano in genere un centinaio di codici. Si pensi pero` a Cassiodoro e alla sua fondazione). Inoltre i cataloghi medioevale di libri non chiamano quasi mai "bibliotheca" l'insieme dei codici che elencano, mentre usano la parola nel senso di Bibbia e citano difatti Bibliotheca integra <=l'intera Bibbia>, Bibliotheca II <=il secondo volume>, ecc. Si dice ancora che interpretare in questa frase della RB la parola "bibliotheca" come deposito di libri non ha senso, in quanto risulta evidente da tutta la tradizione cenobitica (Pacomio, Agostino, Ordo Monasterii, Isidoro...), che i libri venivano distribuiti tutti i giorni, perche` i monaci leggevano sempre; che significato ha una sola distribuzione all'inizio di quaresima? E negli altri periodo dove leggevano? Invece con la nuova interpretazione di Bibliotheca = Bibbia, tutto apparirebbe piu` logico. Prima e dopo SB, la Scrittura soleva dividersi in nove codici (SB ne cita alcuni: "Eptaticum" = i 7 primi libri; "Regum" = 1Re; cf.RB.42,4, oltre al "Psalterium"). Orbene se ne dava uno a ciascun monaco all'inizio di quaresima, perche` la Scrittura costituiva il suo alimento spirituale piu` che negli altri tempi dell'anno; e cosi` in capo a nove anni si era letta la Bibbia completa, un "codice" per quaresima, seguendo un certo ordine, come e` indicato dalle parole per ordine e per intero del v.16. Anche S.Cesario invitava a leggere la Scrittura specialmente durante la quaresima. Tuttavia l'interpretazione della parola rimane discutibile.

17-21: Vigilanza durante la lettura

Dedicarsi per tre ore al giorno (e in quaresima per tre ore di seguito) alla lectio divina implicava un certo sforzo per molti monaci, specialmente in quei tempi in cui la cultura e la lettura non erano alla portata di tutti. SB delega uno o piu` anziani a vigilare perche` i monaci facciano la lectio (forse... bisognerebbe rimettere questa norma nei nostri monasteri!!!). La disposizione - che vale evidentemente per tutto l'anno e non solo per la quaresima - prova che non si leggeva in un luogo comune, ma ciascuno prendeva il suo libro e si ritirava dove voleva. Nei secoli posteriori, poi, si uso` studiare e leggere insieme nel chiostro o in una sala apposita. Al tempo di SB sarebbe stato impossibile, anche perche` si usava in genere pronuncuare a voce alta le parole che si leggevano: ecco perche` era piu` facile che uno approfittasse dell'occasione e si metteva bellamente a chiacchierare.

Il fratello accidioso

SB qualifica un tale fratello come accidioso, cioe` vittima dell'accidia. E` l'unica volta che tale parola appare nella Regola; ed e` strano, dato l'enorme uso della parola e del concetto negli ambienti monastici. La parola "accidia" (<akedia> in greco, <acedia> in latino) letteralmente significa "mancanza di cura", "incuria", e divenne un termine tecnico presso i monaci. Si trova nella famosa classificazione di Evagrio Pontico, trasmessa da Cassiano sotto il titolo "Gli otto vizi principali o capitali", ed ha un posto di molto rilievo: si tratta di una passione o infermita` dello spirito composta di inquietudine, tedio, vuoto interiore, instabilita`, torpore, ecc.; si potrebbe pensare alla moderna "noia" (quando uno non ha voglia di fare nulla, e` arido e vuoto spiritualmente). Evagrio e Cassiano la analizzano con precisione clinica. Per gli antichi era la tentazione per eccellenza degli anacoreti, il cosiddetto "demonio meridiano". Ai cenobiti poteva (e puo`) venire soprattutto durante la lectio, quando essi sono piu` soli con se stessi, piu` simili agli anacoreti. Cassiano ugualmente nota che la "acedia" non permette di dedicarsi alla lettura (Inst.10,2). SB vuole che un tale fratello, "inutile a se stesso e dannoso agli altri" (un "frate-mosca" lo chiamava S.Francesco), sia punito in modo esemplare, si` "da far timore amche agli altri" (v.20); l'espressione ricorda 1Tim.5,20.

21: parlare in ore non competenti

Al v.21 segue un principio generale: che i monaci non comunichino tra di loro in ore non competenti, tanto meno durante il tempo della lettura, che deve essere dedicato a parlare con Dio, ad ascoltare e approfondire la sua parola.

22-25: Lavoro e lettura in casi particolari

Due casi particolari, al termine del capitolo. La domenica e` dedicata interamente al Signore. S.Girolamo scriveva ai monaci d'Egitto: "Nei giorni di domenica attendono solo all'orazione e alla lettura" (Epist.22,35). SB segue questa pratica; naturalmente alcuni dei fratelli dovevano attendere ad uffici necessari: cellerario, infermiere, cuoco, ecc. Pero`, nel caso di qualche fratello molto svogliato o anche poco incline a leggere per disposizione naturale (pensiamo che forse alcuni sapevano appena appena leggere), SB prescrive un lavoretto qualsiasi, anche di domenica, tanta era la paura della "otiositas". Ricordiamo che "meditare" (v.23) non significa tanto meditare nel senso nostro, ma piuttosto "esercitarsi nello studio dei salmi", "ripetere per imparare a memoria". Tale e` il senso del v.23 e probabilmente di RB.58,5 a proposito dei novizi (cf. anche l'excursus sulla lectio divina, in appendice). Quanto agli infermi e ai fratelli di salute fragile, bisogna provvedere un lavoro che mentre fa evitare l'ozio (di nuovo la paura della "otiositas"!), non li opprima o schiacci (v.24). Il capitolo termina con una nota di umanita`: l'abate deve considerare la loro debolezza (v.25).

Conclusione

Se si paragona ad altre Regole monastiche, l'orario di SB appare molto piu` complicato; ma questo non e` un difetto, rivela una grande discrezione nell'autore, che fissa tanti particolari, anche minuziosi, tenendo conto dei tempi e delle circostanze. Per SB vale il principio "Nulla si anteponga all'Opera di Dio" (RB.43,3); pero` non teme di spostare alcune ore dell'Ufficio (terza, sesta, nona e anche vespro) per meglio inquadrare le altre due occupazioni principali del monaco, secondo tutta la tradizione monastica: lectio e lavoro.

RB si preoccupa molto della lectio divina. Ad essa assegna il tempo migliore in durata e qualita`; d'inverno le sono dedicate le prime ore della giornata (senza contare il tempo tra l'Ufficio notturno e le lodi, cf.RB.8,3) e un'altra ora circa tra nona e vespro; d'estate le ultime ore della mattinata e, chi vuole, il tempo della siesta. Complessivamente sono tre ore al giorno (in quaresima di piu` e la domenica tutto il tempo libero). SB vuole evitare una durata eccessiva in continuita` e quindi fa in modo che la lectio sia spezzettata. Sarebbe inutile cercare nella RB una dottrina sulla lectio divina: era una cosa naturale conosciuta da tutti i monaci (e dai cristiani), era la maniera della Chiesa di accostarsi al testo sacro in vista non tanto dell'intelletto, quanto piuttosto della preghiera (cf. in appendice l'Excursus sulla lectio).

RB, poi, si preoccupa che i monaci lavorino: il lavoro dura circa sette ore in inverno e in quaresima, sei ore e mezzo in estate ed e` piu` intervallato a causa del clima estivo. Non si specifica quale era il lavoro manuale che i monaci facevano. SB non ne assegna uno esclusivo: oltre a quello necessario per i servizi del monastero (forno, cucina, ecc.), poteva essere quello dei vari artefici (cf.RB.57) e certamente - in certe occasioni o per circostanze storiche - quello dei campi.; e` considerato comunque eccezionale quello estivo della raccolta. Nel corso dei secoli i monaci hanno intrapreso i piu` vari generi di lavoro manuale e intellettuale (cf. in appendice l'Excursus sul lavoro monastico).

Nell'orario fissato con tanti particolari da SB non figura la messa quotidiana nei giorni feriali, nemmeno in quaresima. Nel monastero al tempo di SB la messa conventuale e solenne si celebrava solo la domenica e le feste. Questo non deve sorprendere. Solo posteriormente a SB si ando` estendendo l'uso della messa quotidiana (cominciando dall'Africa e dalla Spagna). Naturalmente, oggi la messa conventuale e` il centro della giornata monastica.

Nell'orario di SB manca pure ogni accenno ad un tempo per la cosiddetta ricreazione per allentare un po` l'arco teso di preghiera-lectio-lavoro e per aumentare i rapporti fraterni. Certamente non esisteva di orario. Pero` sara` bene ricordare che SB non interdice affatto l'uso della parola, ma ammonisce solo per l'uso saggio, discreto e assennato della parola (cf.RB.6; 4,51-54; 7,56-61 e relativo commento). Inoltre le "ore non competenti" di RB.48,21 fanno spia che dovevano esserci anche delle "ore competenti" in cui i monaci potevano avvicinarsi, parlare, trattare insieme. Con l'andare del tempo, la tradizione monastica ha fissato un particolare "tempo competente" scritto anche nei nostri orari come "tempo libero" o "sollievo", per scaricare un po` la tensione della preghiera e del lavoro e per trascorrere qualche momento in fraterna conversazione.

Per la ricostruzione di una giornata monastica nel monastero benedettino del medioevo, si puo` vedere il libro (molto breve e di facile lettura) di: L.MOULIN, La vita quotidiana secondo S,Benedetto, Jaca Book, Milano 1980.


EXCURSUS sul LAVORO MONASTICO
(Appendice al c.48 di RB)

SOMMARIO:

- Introduzione
- I: Il lavoro nel monachesimo primitivo
- II. Il lavoro nella RB
- III. Evoluzione nel corso dei secoli
- IV. Il lavoro nella Congregazione Silvestrina
- V. Problemi attuali
- Conclusione.


INTRODUZIONE

Il problema del lavoro non e` stato mai risolto facilmente e definitivamente nel monachesimo, per la bipolarita` che esso presenta in se stesso e per la complessita` degli aspetti che contiene. Da una parte, le piu` grandi autorita` spirituali hanno sempre visto nel lavoro serio e faticoso un elemento di perfezione spirituale, basandosi su molti testi biblici; d'altra parte, l'idea di una vita spirituale espressa in termini di vita contemplativa con l'assenza di ogni interesse e di ogni preoccupazione materiale, ha spinto altri a ridurre al minimo il tempo dedicato al lavoro e a combattere i motivi che spingono l'uomo a lavorare, richiamandosi ad altrettanti testi biblici.

D'altronde, una vera teologia del lavoro e` qualcosa di molto recente; certo non possiamo trovarla in epoca patristica; la valorizzazione positiva del lavoro e` una "scoperta" (possiamo dire, ma parlando con riserva) della societa` industriale, in cui il lavoro si e` potuto considerare sotto l'aspetto di creativita`, piu` che come necessita` di sussistenza o come una maledizione. Tracciare una evoluzione della tradizione del lavoro con le sue modalita` e le sue motivazioni, non e` possibile. Tuttavia, per approfondire un po` il complesso argomento, vediamo il lavoro dalla tradizione monastica antica a SB, e poi nel corso dei secoli, per illuminare i problemi attuali del lavoro monastico.

 

I. IL LAVORO NEL MONACHESIMO PRIMITIVO

Il monachesimo primitivo scopri` subito il valore spirituale del lavoro. Per gli antichi monaci si trattava solo di lavoro manuale, non esisteva altra forma di lavoro propriamente detto; erano esclusi positivamente sia il lavoro intellettuale, perche` la maggioranza dei monaci erano incolti, sia il lavoro apostolico o ministeriale, perche` quasi tutti i monaci erano laici e perche` tale attivita` diventava incompatibile con la solitudine e la contemplazione. Quindi, lavoro significava per i monaci solo lavoro manuale, ed esso, grazie ai solitari e ai cenobiti, divento` un valore positivo. Per l'antichita` pagana il fatto di lavorare non fu mai un fatto positivo, era ritenuto una punizione degli dei e compito esclusivo degli schiavi; spiriti elevati come Cicerone consideravano disonorevole il lavoro retribuito e interessato. Perfino tra i cristiani, il lavoro manuale distingueva i monaci dagli uomini liberi del tempo. Cassiano dice: "Gli uomini liberi fanno ricorso alla fatica altrui, mentre i monaci vivono secondo il precetto dell'Apostolo, lavorando con le proprie man i" (Coll.24,12).

Nel monachesimo antico, quindi, il lavoro e` legato al fatto della poverta`: i monaci, come i piu` poveri, gli ultimi della societa`, gli schiavi, vivono del lavoro delle proprie mani. Schematicamente, possiamo presentare cosi` le motivazioni del lavoro nel monachesimo primitivo:

- il lavoro e` un elemento essenziale della vita monastica;

- ha lo scopo di:

* provvedere al proprio sostentamento

* fare l'elemosina ai poveri

* evitare il "tedio" (la famosa 'acedia' o 'accidia')

* mantenere il corpo in soggezione.

Il lavoro manuale e` quindi caratteristico della vita monastica, specialmente in Egitto: abbiamo un'eneorme quantita` di testimonianze nel "Detti" dei Padri. Si diffuse come norma di vita l'esempio di Antonio il Grande, padre di tutte le forme di monachesimo. Nella celebre Vita scritta da Atanasio, si dice che si ritiro` nella solitudine "per arrivare alla perfezione della vita ascetica e lavorare con le sue mani, perche` aveva sentito dire: chi non lavora non mangi (2Tess.3,10). Una parte di quello che guadagnava lo spendeva per comprare il pane, il resto per soccorrere i poveri" (Vita, c.3). Negli Apophtegmata si racconta che egli imparo` da un angelo che la vita di un monaco e` una successione di preghiera e lavoro. Un giorno, preso dall'accidia, supplicava il Signore di mostrargli la via della perfezione. Vede allora un altro Antonio che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega. Era un angelo del Signore mandato per correggere Antonio e dargli forza. E udi` l'angelo che diceva: "Fa` cosi` e sarai salvo" (Detti, Antonio VII,1).

Dall'esempio e dall'insegnamento - trasmesso, questo, da Cassiano (Coll.24,12) - del grande maestro, presero lo spunto tutti gli altri monaci e le Regole monastiche. Gli anacoreti copti solevano dedicare tutto il giorno e parte della notte alla confezione di ceste, corde e stuoie, mentre recitavano o meditavano la Parola di Dio e facevano frequenti orazioni; molti aiutavano i contadini nella raccolta delle messi, facendosi dare come compenso una certa quantita` di grano che bastava loro per tutto l'anno. (avevano bisogno di poco). I monaci di Pacomio erano dei grandi lavoratori: coltivavano i campi, esercitavano dei mestieri; tutti, compresi i superiori, dovevano guadagnare il pane per se` e per i poveri. Anzi, dobbiamo dire che i Pacomiani rischiavano di peccare per eccesso di lavoro.

S.Basilio e` il piu` insistente e profondo legislatore a proposito del lavoro; ritiene piu` adatti alla vita monastica il lavoro di tessitore, di fabbro e altri, senza nascondere la sua preferenza per l'agricoltura che, oltre a garantire la permanenza nei recinti del monastero, copre le necessita` della comunita` monastica e dei poveri. Ma oltre a Basilio, tanti altri Padri e scrittori monastici trattano l'argomento: S.Giovanni Crisostomo, Cassiano, S.Girolamo, S.Agostino, ecc.. Negli Apoftegmi si hanno numerosi accenni al lavoro spesso in forma di fatterelli o aneddoti. Si parte dalla convinzione che il lavoro e` una legge della condizione umana: il monaco, uomo come gli altri, deve lavorare: sarebbe una incongruenza farsi mantenere dai secolari (espressamente lo nota Teodorito di Cipro, Storia religiosa, 10). Ma le argomentazioni piu` forti erano prese dalla Scrittura. Si citava con preferenza il detto di S.Paolo: "Chi non lavora non mangi (2Tess.3,10) e ancora: "Chi e` avvezzo a rubare non rubi piu`, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova nella necessita`" (Efes.4,28). L'esempio poi di Paolo che lavorava con le sue mani (Atti 18,3) e se ne gloriava (Atti 20,34; 1Cor.4,12; 2Tess.3,7-5), era ricordato continuamente e veniva applicato agli Apostoli in generale (come fara` poi S.Benedetto in RB.48,8).

Non mancano pero` tendenze contrarie (soprattutto in Siria e in Medio Oriente) che ritengono il lavoro manuale come indegno dell'uomo spirituale e incompatibile con la vita monastica; vivere della provvidenza, cioe` di elemosine, appare segno di perfezione. E naturalmente anche questi monaci conoscevano altrettanto bene la Scrittura e si appoggiavano ad altri testi: "Non affannatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete..." (Mt.6,25-34); "Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna" (Giov.6,27); "Maria ha scelto la parte migliore" (Lc. 10,42); "Pregate senza interruzione" (1Tess.5,17). Bisogna dire, ad onor del vero, che questi monaci, riducendo al minimo le loro necessita`, sentono appena il bisogno di lavorare; spesso il lavoro per loro e` solo una pura occupazione (fare e disfare i canestri, tanto per tenere occupate le mani); spesso il lavoro appare per se` privo di importanza, fatto solo per obbedienza, senza interesse alcuno per la qualita` dell'opera prodotta. Le diverse tendenze si possono vedere analizzando i "Detti" e le "Collazioni" di Cassiano; appare, ad esempio, che la tradizione che fa capo a Poemen sia contraria al lavoro dei campi perche` svolto all'aria aperta, il che fa distrarre!.

L'ala piu` estrema delle correnti angelistiche e` rappresentata dai Messaliani, i quali insistono anche sull'obbligo dei fedeli di soccorrere i bisogni dei solitari e dei monaci che si dedicano unicamente a pregare notte e giorno per il mondo e per gli uomini. Contro di essi Agostino scrisse il famoso "De opere monachorum <Il lavoro dei monaci>, confutando con ironia e humour le conseguenze dei loro principi, e ribadendo che sacerdoti e chierici hanno diritto a vivere del Vangelo, ma non i monaci che devono lavorare (cf.1,2; 21,24). S.Basilio ha meglio armonizzato , in maniera magistrale, i testi del NT citati in contrapposizione dalle correnti opposte; il nocciolo della sua argomentazione e` questo: 'dobbiamo non affannarci, non preoccuparci del cibo che perisce, ma di quello spirituale che e` fare la volonta` del Padre (Giov.4,34); ma la volonta` del Padre e` soccorrere i deboli e i bisognosi; dobbiamo dunque lavorare, non per noi, ma per i poveri in cui riconosciamo Cristo' (ma si veda tutto il testo, che e` molto bello: Regola,127).

In conclusione, il monachesimo antico insegno` e pratico` la legge del lavoro, fondandola soprattutto sui testi della Scrittura; ma noto` subito anche il pericolo che il lavoro comporta, se non e` inserito nella giusta gerarchia dei valori monastici: deve essere subordinato alla preghiera, in modo da trovare l'equilibrio tra lavoro e preghiera con la preminenza per l'uomo interiore; deve essere visto in rapporto all'obbedienza e alla carita` (altrimenti il rischio dell'attaccamento, dell'eccessiva preoccupazione, del guadagno che si accumula, ecc.).Fin dalle origini, praticamente, il monachesimo ha dovuto guardarsi dai due eccessi:

- troppo lavoro, e quindi grande attivita`, dissipazione, ricchezza...;

- poco lavoro, e quindi vita di rendita, oziosita`...

Questo puo` dire qualcosa al monachesimo di tutti i tempi.

 

II. IL LAVORO NELLA REGOLA DI S. BENEDETTO

Quando S.Benedetto scriveva la Regola, la situazione del lavoro dei monaci era cambiata rispetto al monachesimo primitivo. Non risulta che i primi monaci in Occidente, quelli di Martino, lavorassero; della sua comunita` si dice che "non si esercitava alcun mestiere se non quello di scrivano, a cui inoltre venivano adibiti in piu` giovani; gli anziani si dedicavano all'orazione" (Vita Martini, X.6). Cassiano si lamenta che i monaci in Occidente non lavorino molto (Inst.10,23). Pare che all'origine del monachesimo latino ci siano delle tendenze affini al messalianismo. Tutte le Regole monastiche occidentali sembrano supporre che il lavoro costituiva - se non altro - un problema per i monaci; difatti polemizzano contro l'ozio (si noti come S.Benedetto ha la fobia della "otiositas", tre volte nello stesso RB.48,1. 23. 24). Gli ostacoli sembrano essere stati una certa sicurezza economica, stanchezza prodotta dall'osservanza, specialmente del digiuno, inabilita` risultante da debolezza corporale o da cattive condizioni di salute. Queste ultime, S.Agostino le metteva in relazione con l'estrazione sociale dei monaci: gli ex-ricchi erano incapaci di dedicarsi al lavoro manuale, e quindi ne erano dispensati, ma dovevano comunque fare qualcosa.

L'incapacita` di lavorare per motivi di salute e` presa generalmente in considerazione in tutte le Regole (cosi` S.Benedetto molte volte). La RB e` in linea con la situazione di allora riguardo al lavoro, ma nello stesso tempo sembra dare una svolta. Al suo tempo i monaci non avevano generalmente necessita` stretta di lavorare per sostentarsi: possedevano un'azienda, dei campi avuti al momento della fondazione del monastero o in seguito da altri benefattori, e la cui coltivazione affidavano a dei contadini secolari, vivevano con tali entrate. Questo non vuol dire che non facevano lavoro manuale, ma non erano lavori redditizi: si limitavano cioe` ai lavori di casa, esercitavano qualche "arte", coltivavano l'orto; spesso si trattava solo di tenersi occupati, proprio perche` "l'ozio e` nemico dell'anima" (motivazione negativa). La Regula Magistri (=RM) e` illuminante a questo proposito: vuole il lavoro manuale, sembra per evitare l'ozio (RM.50,1-2), ma non quello dei campi assolutamente, per paura che poi si debba dispensare dalla legge del digiuno; i possedimenti del monastero devono essere affidati ai secolari: "e` meglio conservarli lasciando la preoccupazione ad altri e percepire con sicurezza le rendite annuali, senza pensare ad altro che all'anima. Difatti, se facessimo coltivare i campi ai fratelli spirituali imponendo loro lavori pesanti, essi perderebbero l'abitudine di digiunare...; percio` come lavoro del monastero ci sia solo qualche mestiere e l'orto" (RM.86,24-27). Anzi, per il Maestro, anche l'orto e` un compito ingrato da lasciare a quei fratelli che non hanno potuto o voluto imparare un mestiere (RM.50,72). Tutto il c.86 merita di essere analizzato; rivela la mentalita` monastica dell'epoca: affidare ai secolari la coltivazione dei campi, occuparsi di lavori manuali si`, ma meno pesanti, in modo da non dover lasciare, come buoni monaci, la regola dei digiuni e pensare solo alla propria anima.

S.Benedetto risente certamente di questa linea e di questa mentalita`. Il lavoro manuale da lui considerato (prescindendo per ora dai campi), non e` certo sufficiente per il sostentamento dei monaci: l'orto poteva bastare a procurare gli ortaggi per la mensa comune; in quanto ai mestieri, il c.57 ne parla sempre con molte condizioni e con distacco: "se per caso ci sono degli artigiani..., se l'abate lo permette..., se c'e` da vendere qualche prodotto del lavoro degli artigiani..., si venda a prezzo minore di quanto lo vendono i secolari": e` evidente che i monaci non vivevano degli eventuali prodotti dei vari mestieri.

Quindi la RB, da una parte, si trova nella linea del monachesimo del suo tempo; dall'altra, notiamo una certa svolta. E partiamo proprio dalla paura di non poter piu` digiunare, qualora si facessero lavori pesanti, cosa che preoccupa tanto la RM. E' proprio qui che S.Benedetto cambia. Nei capitoli sulla misura del mangiare (RB.39) e del bere (RB.40) e sull'orario dei pasti (RB.41), S.Benedetto parla di concessioni, di eccezioni alla regola generale; di questi eventuali supplementi alla quantita` del vitto ne parla anche la RM, ma mentre qui la motivazione e` un senso di gioia, di festa o la venuta di ospiti, per S.Benedetto l'unica motivazione e` il caso di lavoro eccessivo o piu` faticoso. Vale la pena rileggere i testi. A proposito del cibo si ha: "Se per caso si fosse compiuto un lavoro piu` gravoso del solito, l'abate avra` piena facolta`, se gli sembrera` opportuno, di aggiungere ancora qualche cosa" (RB.39,6; vedi invece RM.26,11-12); a proposito del bere: "Se poi la condizione del luogo o il lavoro speciale o il calore dell'estate richiedesse un supplemento, il superiore abbia la facolta` di darlo (RB.40,5); vedi invece RM.27,43-45); per i digiuni: "Da Pentecoste e per tutta l'estate, se i monaci non hanno forti lavori campestri e l'eccessivo calore non lo impedisce, il mercoledi` e il venerdi` digiunino fino a nona; negli altri giorni pranzino a sesta. Ma se avranno lavori nei campi o se il caldo dell'estate sara` soverchio, anche i quei due giorni il pranzo sara` a sesta..." (RB.41,2-4; invece, per il Maestro, il digiuno si puo` rompere in qualche caso per gli ospiti: RM.72,1-7; S.Benedetto, per gli ospiti, dispensa dal digiuno solo l'abate, che mangia con lo, i fratelli no! RB.53,10-11). Quindi per S.Benedetto si puo` dare il caso che i monaci facciano lavori pesanti e i lavori dei campi.

E arriviamo al famoso passo del c.48 che ci illumina al riguardo. Intanto, tutto il c.48 ha un'impostazione diversa dalla RM; in questa l'orario e` visto alla luce dell'Ufficio divino; in RB l'orario ha uno scopo piu` pratico: ripartire bene lavoro e lectio divina. S.Benedetto considera piuttosto il ritmo della vita umana con l'alternarsi di riposo e di sforzo, di lavoro spirituale e di lavoro manuale; RB si preoccupa molto che i monaci lavorino. Orben, a un certo punto del c.48, abbiamo una parentesi di singolare importanza: "Se poi - in latino "si") le condizioni del luogo o la poverta` richiedessero che gli stessi monaci si occupino nel raccogliere le messi, non ne siano malcontenti, perche` allora sono veri monaci quando (in latino "si") vivono del lavoro delle loro mani, come i nostri Padri e gli Apostoli"(RB.48,7-8).

I monaci del suo tempo non erano abituati al duro lavoro dei campi. Pero` le circostanze (pensiamo alla guerra che c'era allora tra Goti e Bizantini, quindi alla mancanza di mano d'opera o alla impossibilita` di pagarla, pensiamo alla poverta del monastero) potevano costringere i monaci a fare da se stessi tali lavori, il che causava un certo malcontento. Ebbene, S.Benedetto li consola riportandoli a una motivazione soprannaturale: "allora sono veramente monaci, quando...". Notiamo la struttura grammaticale della frase: il primo "si" <se = quando) regge un verbo al condizionale, indica quindi una semplice eventualita`: "Se le circostanze lo richiedessero"; il secondo "si" <se = quando> regge un verbo all'indicativo e non indica una eventualita`, ma un principio generale. Il testo e` stato analizzato alla perfezione da Olivier du Roy: "La prima condizione e` chiaramente accidentale, locale; la seconda e` di ordine essenziale, ideale. La prima riguarda il "lavoro agricolo", la seconda riguarda "il lavoro" (manuale) per vivere (...).Partendo da alcune circostanze particolari, S.Benedetto ha l'occasione di inculcare un principio fondamentale della vita cristiana e, a fortiori, della vita monastica: vive del proprio lavoro manuale" (O.DuROY, Moines aujourd'hui. Une experience de reforme institutionnelle, Paris 1972, p.271).

Malgrado le reticenze degli ambienti monastici italiani del suo tempo (testimoniato dalla RM), S.Benedetto si vede costretto dalle circostanze a introdurre il lavoro agricolo (ecco perche` nella Regola parla piu` volte di lavori pesanti, per cui ammette supplementi alimentari); riscopre cosi` nel suo tempo la grande legge del monachesimo primitivo: mantenersi con il proprio lavoro manuale ("Se la necessita` (...), allora sono veri monaci, quando..." RB.48,7-8). Si e` notato che l'argomento addotto da S.Benedetto convince solo a meta`, perche` il richiamo a "come i nostri Padri e gli Apostoli" non prova nulla a favore del lavoro dei campi, ma solo l'obbligo del lavoro manuale in generale. La tradizione monastica fondata sull'esempio di Paolo prova solo questo, tant'e` vero che la RM, espressamente contraria al lavoro agricolo, non manca di riferirsi ugualmente ai testi paolini. Ma l'obiezione non regge. S.Benedetto vuole provare tanto la necessita` di lavorare nei campi (che puo` dipendere dalle circostanze), quanto piuttosto di guadagnarsi la vita con il proprio lavoro. Se e` vero che S.Paolo non era agricoltore, ma tessitore di lana, se e` vero che i monaci antichi non lavoravano necessariamente nei campi - anzi alcuni, come si e` detto, erano contrari perche` ritenevano che dissipasse lo spirito - e` altrettanto vero che sia l'Apostolo che i primi monaci lavoravano per attendere alle proprie necessita` e, possibilmente, a quelle degli altri, ospiti e poveri.

Questo e` il punto, questo e` l'ideale antico che riscopre e ripropone S.Benedetto: non solo occuparsi nei lavori piu` o meno utili, perche` "l'oziosita` e` nemica dell'anima" (RB.48,1, motivazione negativa), ma vivere veramente del proprio lavoro come i Padri e gli Apostoli (motivazione positiva).Ora, vivere del proprio lavoro nelle circostanze concrete di allora (poverta`, guerre...) equivaleva in pratica ad accettare il lavoro agricolo con quanto esso comportava di pesante. Di fatto, i monasteri si reggevano, grazie ai terreni che possedevano, gli altri introiti non potevano bastare alle varie necessita`. Se dunque si affidava la coltivazione dei campi ai secolari, come vuole la RM, i monaci vivevano di rendita; se invece li coltivavano personalmente, allora - e solo allora - praticavano la legge apostolica e monastica di vivere del proprio lavoro. Inquadrando la famosa frase di RN.48,7-8 nel contesto storico di allora, l'argomentazione di S.Benedetto risulta molto profonda e pienamente convincente. E` la piu` bella dimostrazione: e conferma ci puo` venire da Gregorio Magno quando ci presenta il santo Patriarca nel momento di ritornare dai campi con gli strumenti di lavoro sulle spalle (II.Dial.32).

A questo punto possiamo chiederci se c'e` una spiritualita` del lavoro in S.Benedetto. Posta in maniera cosi` precisa e specifica, la domanda e` anacronistica; il lavoro va inquadrato in tutta la spiritualita` monastica: per S.Benedetto non ci sono "azioni profane", ma nella "casa di Dio" (RB.31,19; 53,22; 64,5), tutto acquista il valore di un'azione sacra, perche` il monaco ha consacrato a Dio non solo tutto cio` che ha, ma anche tutto cio` che e` (RB.33,4). S.Benedetto raccomanda addirittura che gli oggetti del monastero siano trattati "come vasi sacri dell'altare" (RB.31,10).

Considerando il c.48 sul lavoro quotidiano, il c.57 sugli artigiani, il c.66 sull'organizzazione del monastero (a proposito del portinaio), possiamo ricavare dalla Regola tre orientamenti in merito al lavoro (riassumiamo dall'interessantissimo articolo di J.LECLERCQ, Economia monastica occidentale in "Dizionario degli Istituto di Perfezione (1976) 1021-1022):

- (a) - Bisogna lavorare. S.Benedetto fa del lavoro quotidiano uno dei punti principali della sua concezione monastica, ne fissa l'orario, ne indica il senso, ne determina il valore. Certi asceti del deserto si sarebbero certo meravigliati nel vedere attribuiti al lavoro piu` ore che all'Ufficio divino, e nel notare che quest'ultimo sia talora condizionato dalle occupazioni (cf.RB.48, passim). Ma gia` si e` detto che anche il lavoro acquista il carattere di azione sacra nella mente di S.Benedetto; il suo valore e` in rapporto all'ascesi e alla vita mistica: e` un rimedio all'ozio che e` nemico dell'anima (RB.48,1), ma esige anche sforzo e fatica, ed e` quindi per il monaco uno strumento di perfezione, un mezzo per dominarsi; non si lavora soltanto per tenersi occupati, ma per ascesi: si tratta di un atto di obbedienza (cf.RB.48,11.14; RB.57). Il carattere penoso del lavoro provoca la tendenza a non lavorare o a lavorare il meno possibile. Di fatto, al tramonto dell'Impero Romano, il lavoro si era ridotto a un obbligo degli schiavi. Facendone una legge per tutti i monaci, S.Benedetto ne mise in rilievo la dignita`.

Pero` il lavoro monastico deve conciliarsi con un certo "ozio", necessario per dedicarsi in pace alla preghiera e alla contemplazione. Di qui l'insistenza di S.Benedetto sulla tranquillita` che l'animo deve conservare, quindi sulla misura, sulla considerazione delle persone (RB.31,17; 35,3-4; 48,9.24-25). "L'ozio monastico <otium latino) quale e` caratterizzato dalla tradizione, e` dunque qualcosa di intermedio tra l'oziosita` <otiositas> e cio` che e` la negazione stessa dello 'otium', cioe` il 'negotium', ossia il tumulto e il chiasso degli 'affari'".

- (b) - Inoltre il lavoro, secondo S.Benedetto, deve essere disinteressato, esso e` a base di rinuncia. Cio` e` chiarissimo dal c.57 sugli artigiani: non solo notiamo la continua insistenza sull'obbedienza e sull'umilta`, ma S.Benedetto inculca che il monaco deve essere distaccato dall'opera e dal suo risultato. Il risultato ha un suo valore, ma non e` determinante; non si misura da rendimento e dall'arricchimento (si viveva poi cosi` di poco nell'Italia meridionale al tempo di S.Benedetto!). S.Benedetto prescrive che si vendano a minor prezzo gli eventuali prodotti, non per fare concorrenza ai laici (il che sarebbe sleale soprattutto oggi), ma per mettere in risalto che il lavoro non si considera come un mezzo per far soldi.

- (c) - Infine, secondo S.Benedetto, il lavoro monastico tende alla "autarchia", cioe` all'autosufficienza: e` evidente dal c.66,6-7. L'attivita` monastica e` condizionata dalla clausura e dalla stabilita`. Questo fatto, da una parte limita le attivita`, dall'altra e` causa di fecondita` e comporto` grandi vantaggi, anche sociali. Ad esempio, un monastero nel medioevo diventava quasi sempre la cellula madre di un insediamento umano, che a poco a poco dava origine a borgate e villaggi.

Se chiediamo alla storia come nel medioevo siano state messe in pratica le idee contenute nella RB, abbiamo in risposta una serie di paradossi: non si cercava il rendimento, ma lo si otteneva; non si cercava di operare lontano dal monastero, ma lo si faceva; non ci si voleva immischiare nel traffico e nel commercio, ma di fatto con il ruotare di tanti "famuli", ospiti e poveri intorno ai monasteri, si organizzavano trasporti (quindi le vie di comunicazione), si organizzavano le fiere, che erano insieme solennita` religiose e occasioni di scambi economici. Certamente molte ombre e molti errori (a volte cose che per noi oggi sarebbero di grave scandalo), si trovano nell'economia monastica. Ma dobbiamo sottolineare un elemento essenziale: all'origine e nei risultati di tale economia monastica, si trova un fatto religioso; alla base degli stessi benefici materiali c'e` paradossalmente l'ispirazione soprannaturale di distacco, di lavoro fatto per obbedienza e per ascesi.

 

III. EVOLUZIONE NEL CORSO DEI SECOLI

Nella RB e nella tradizione monastica, il lavoro ha dunque un valore spirituale che va sottolineato: da una parte si tratta di evitare l'ozio con tutti i suoi inconvenienti per l'anima; dall'altra, guadagnare di che vivere e anche soccorrere il prossimo con l'elemosina e l'ospitalita`. Oltre a queste due finalita` - ascetica e caritativa - gli storici hanno attribuito con compiacenza agli antichi monaci altre finalita` sociali, culturali, civilizzatrici, che nella Regola, di per se`, non ci sono; se essa ha effettivamente dato un contributo alla civilizzazione europea, cio` si deve alla sua immensa diffusione, che ha portato ovunque lo stile di vita dei monaci, con la giornata ben divisa tra preghiera, lectio e lavoro.

Le circostanze storiche, l'evoluzione dei tempi, la stessa apertura prevista dalla Regola con la considerazione per la persona (lavoro piu` leggero per i piu` deboli, ecc.), hanno portato i monaci ad abbracciare molti generi di attivita` che dobbiamo giudicare per se` pienamente legittime. Da quanto detto prima, non dobbiamo arrivare alla esagerazione di ritenere essenziale ed esclusivo per i monaci il lavoro manuale, sarebbe un forzare il testo della Regola di S.Benedetto. E difatti, la storia ci mostra una gamma vastissima di lavoro monastico. E` impossibile tracciare anche soltanto rapidamente una linea della evoluzione del lavoro monastico lungo i secoli (cf. voce "lavoro" sul Dizionario degli Istituti di Perfezione e, per il lavoro nelle diverse tradizioni monastiche, articoli vari su "Yermo" 13 (1975). Teologo del lavoro puo` essere considerato per il medioevo, il cistercense Isacco della Stella, che ne parla in diversi sermoni (cf. studio su di lui di J.Leclercq, citato nella Bibliogafia).

Ma tutto questo non e` avvenuto senza difficolta`, controversie, polemiche; la storia cioe` ci dimostra come il problema del lavoro dei monaci rimane nella sua sostanziale ambiguita`: quale lavoro? come conciliarlo con le esigenze della clausura, della stabilita`, delle osservanze monastiche? come evitare gli eccessi da una parte e dall'altra?

Nella prospettiva cluniacense, ad esempio, si altero` l'equilibrio tra preghiera e lavoro; si tolse a quest'ultimo il suo valore santificante, per l'idea che la vita del monaco e` quasi esclusivamente consacrata all'Ufficio divino. Cosi` di fatto avveniva a Cluny: il lavoro manuale era ridotto a qualche piccola attivita` interna; Pietro il Venerabile dice espressamente che i monaci hanno altro da fare che non la coltivazione della terra o il lavoro artigianale. Ormai il lavoro della terra era lasciato ai laici.

Uno degli elementi decisivi per l'evoluzione del lavoro monastico fu la clericalizzazione della vita religiosa. Alle origini e nell'alto medioevo, il monachesimo si presentava chiaramente come una forma non clericale di consacrazione a Dio; man mano aumentarono nelle file dei monaci coloro che diventavano sacerdoti, soprattutto - a detta degli storici - per lo sviluppo della liturgia nei monasteri, che esigeva una preparazione culturale, e quindi tempo e studio per l'apprendimento. Nel secolo XI assistiamo alla nascita della categoria dei "conversi" <=convertiti, cioe` fattisi monaci tardi>, i quali, non avendo, ne` volendo, una preparazione culturale, erano meno adatti al servizio del coro; avevano percio` mansioni piu` modeste e si accollavano il lavoro agricolo e l'esercizio dei vari mestieri.

La riforma cisterciense pose al centro il problema del lavoro, per un ritorno a una interpretazione piu` fedele della Regola: ristabilire l'equilibrio tra preghiera e lavoro, riabilitare il lavoro manuale (che era per loro esclusivamente quello agricolo). Citeaux e` l'ultimo rappresentante di un'economia puramente agricola, e cio` spiega la partecipazione cisterciense al progresso economico dell'Europa, anche se l'importanza dei monaci "dissodatori" e` stata un po` esagerata. Con la istituzione dei conversi, appare presso i cisterciensi un nuovo tipo di coltura, la "grangia" <letteralmente: luogo dove si conserva il grano, capannone), cioe` un'azienda agricola dipendente dal monastero e distante da esso, dove i monaci lavoravano senza dover tornare ogni giorno all'abbazia.

Rimane comunque l'ambiguita` del lavoro e la difficolta` di trovare l'equilibrio tra lavoro e contemplazione, tra il mantenersi col lavoro delle proprie mani e la proprieta`. Tutto questo appare in maniera chiara nelle polemiche del secolo XII sulla vita religiosa. Certo, secondo la tradizione, il monastero benedettino ha il diritto di possedere beni mobili e immobili; ma il successo della Regola, le donazioni e le fondazioni, avevano introdotto, insieme alla proprieta`, anche l'agiatezza, e talvolta anche il lusso; i monasteri avevano raggiunto un'opulenza straordinaria. Contro questa eccessiva ricchezza insorsero le nuove tendenze monastiche (S.Guglielmo di Montevergine, S.Pier Damiano, S.Giovanni Gualberto, S.Silvestro Guzzolini...): questi tentativi desideravano testimoniare una poverta` non solo individuale, ma anche collettiva, richiamandosi alle origini della vita monastica, con il rinunciare alle rendite, per puntare tutto sul lavoro manuale dei monaci stessi. Ci fu la polemica del secolo XII, se i monaci avessero o no diritto alle decime (cioe` ad essere mantenuti dai fedeli).

Dobbiamo dire, qualunque sia la direzione delle varie tendenze, che anche i nuovi movimenti - dopo un primo periodo di fervore che rappresento` una bella testimonianza - finirono per accettare decime e rendite varie ("spirituali") di ogni tipo. Anche i cisterciensi ben presto (gia` alla fine del secolo XII), abbandonarono il lavoro manuale per vivere sempre piu` di redditi, con il lavoro dei conversi e dei salariati. Forse il motivo principale va ricercato nella impossibilita` di vivere con una economia naturale basata sul lavoro manuale, in un'epoca in cui l'economia monetaria stava avendo un grande sviluppo. Inoltre,

l'ideale dei riformatori si spostava verso una forma di vita non piu` fuori del mondo, ma a servizio del popolo cristiano e in varie forme nel mondo (il monachesimo urbano); si tendeva sempre piu` a unire l'ideale monastico e l'ideale clericale.

Aumento` quindi nei monasteri il lavoro intellettuale, i monaci divennero uomini di cultura, fiorirono le scuole monastiche, di cui c'era una tradizione gia` dall'alto medioevo; moltissimi monasteri gestivano non solo una scuola interna ("schola claustri") per l'istruzione e la formazione dei futuri monaci, ma anche una scuola esterna ("schola canonica" o "externa") separata dalla prima. Dobbiamo dire che le scuole monastiche portarono il maggior peso della pubblica istruzione. L'amore dei libri e dello studio e` stata una realta` dei monasteri benedettini, tanto che si e` creato il tipo tradizionale del benedettino studioso, e si era formata la concezione che "monasterium sine armario quasi castrum sine armamentario" <un monastero senza libri e` come un castello senza armi>. E a questa organizzazione del cenobio si deve la mole di opere prodotte da questo tipo di lavoro monastico, dalle opere di Beda, Alcuino, Paolo Diacono, S.Pier Damiano, S.Anselmo, S.Bernardo, ecc., fino a quelle moderne dei Maurini (Mabillon, ecc.) e a quelle attuali di centri benedettini di cultura e di studio.

A questo proposito, come non ricordare l'apporto dei monaci nella trasmissione materiale - diciamo cosi` - della cultura? Tra i lavori proposti ai monaci fin dai tempi piu` antichi si trova la trascrizione dei testi. Questa attivita` dei monaci scrivani e` accennata da RM.54,1; sembra supporla S.Benedetta (si deduce da alcuni dettagli in RB.33,3; 55,19); e` riferita dalle monache di S.Cesario di Arles; la nota per inciso anche S.Gregorio Magno (Dial.1,4); assunse grande importanza soprattutto a Vivarium, dove Cassiodoro la raccomandava con insistenza. Lavoro, questo, che divenne man mano passione e "sacro" more dei libri (anche qui non senza polemiche), e che diede vita ai famosi "scriptoria" medioevali, officine di milioni di codici che hanno conservato e trasmesso non solo il pensiero cristiano, ma anche le opere del genio greco e romano. Tra le mansioni di ogni genere che hanno svolto i monaci nel corso dei secoli, poche lasciarono una traccia cosi` duratura come questa produzione manoscritta che si puo` collocare al limite tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, senza dimenticare il grande elemento dell'ascesi (pazienza, assiduita`, meticolosita`) che esso comportava.

 

IV. IL LAVORO NELLA CONGREGAZIONE SILVESTRINA

Una parola per la Congregazione Silvestrina (cf., per gli inizi, G.FATTORINI, La spiritualita` nell'ordine di S.Benedetto di Montefano, pp.237-256; per il sec.XVII, U.PAOLI, L'unione della Congregazione Vallombrosana e Silvestrina, pp.106-108). Nelle primitive Costituzioni della Congregazione, si parla del lavoro nella II "Distinctio", ai cc.5-6-7. Per lavoro all'inizio si intende soprattutto lavoro manuale <opus manuum>. I primi monasteri silvestrini furono fondati da S.Silvestro in luoghi piuttosto isolati, e per la loro fondazione S.Silvestro accettava donazioni e lasciti consistenti soprattutto in appezzamenti di terreno coltivabili o boschivi, in modo che con una adeguata proprieta` terriera, i monaci avessero una certa tranquillita` economica e potessero salvaguardare la solitudine e la preminena del culto divino. I campi venivano coltivati dai monaci stessi, eccetto "quelli ammalati e occupati nelle diverse officine" (c.7). Anche tutte le altre occupazioni manuali erano svolte dai monaci, e tutte dentro l'area del monastero, essendo le proprieta` adiacenti alla casa e non molto estese. Il lavoro in genere veniva svolto in silenzio, ma e` previsto che il superiore "per un po` di sollievo potra dare il permesso di parlare di cose necessarfie e decenti, ma senza schiamazzo" (c.7).

Nel lavoro agricolo era compreso lo sfruttamento dei boschi (i primi monasteri erano "nelle selve" <in silvis> e delle colture spontanee, come ad esempio lo scotano (per la concia delle pelli). Ricordiamo a questo proposito l'apporto dei primi silvestrini all'industria cartaria di Fabriano, avendo essi installato nei loro terreni delle "gualchiere' in proprio.

Dobbiamo pero` credere che il lavoro non fosse uguale per tutti i monaci. I conversi certamente facevano i lavori piu` pesanti, e forse potevano esercitare un'arte specifica (ma non sappiamo con certezza quale; le Costituzioni parlano di diverse officine nel monastero, ma cio` non e` una prova di per se` apodittica, potrebbero essere formule stereotipate). L'attivita` artistica merita comunque di essere ricordata; pensiamo al caso di Fra Bevignate, ideatore della Fontana Maggiore di Perugia, del primo disegno del Duomo di Orvieto e di altre opere; egli nei suoi lavori era coadiuvato da altri confratelli. Alcuni monaci ebbero incarichi delicati dai Comuni, come quelli di economi, sovrintendenti ai lavori pubblici, ecc.

I monaci corali, pero`, si dedicavano di piu` allo studio; anzi pare che il lavoro intellettuale man mano acquisto` sempre piu` importanza, come e` testimoniato dalle prime Costituzioni (c.5 della V "Distinctio"), e in seguito da vari decreti dei Capitoli Generali (in cui non si accenna quasi piu` al lavoro manuale, ma allo studio e al lavoro apostolico). Ci si teneva molto, nella Congregazione, alla formazione intellettuale dei monaci, e per questo non si badava a spese; nei decreti di un capitolo generale (del 1318?), si parla anche di istituire degli scriptoria in determinati monasteri per la traduzione dei libri teologici (sono rimasti, quale testimonianza, alcuni codici nell'archivio di Montefano, contenenti opere teologiche e filosofiche).

Nel corso dei secoli questa linea si e` mantenuta e ci sono stati nella Congregazione uomini di cultura che acquistarono discreta fama come eruditi e scrittori; molti monaci si dedicarono all'insegnamento non solo nelle scuole interne del monastero per i novizi e per i professi, ma anche aprendo scuole pubbliche (all'inizio del sec.XVII presso S.Benedetto di Fabriano e S.Benedetto di Cingoli, cf. U.PAOLI, p.107, nota 63); altri monaci insegnavano nei seminari.

Oltre il lavoro intellettuale e manuale, i monaci silvestrini si orientarono verso l'attivita` apostolica, a partire dalla fine del sec.XVIII, sotto l'influsso delle circostanze che portarono tutti i monaci, in quel secolo, in tale prospettiva. I silvestrini si dedicarono alla predicazione molto presto, cominciando dallo stesso Fondatore; in quanto alla cura d'anime sistematica e vincolante, non pare si possa risalire a S.Silvestro, il quale forse in questo fu molto cauto; una evoluzione lenta e ancora contenuta si registra sotto il B.Bartolo e poi con il Ven. Andrea; la prima parrocchia affidata ai monaci silvestrini sembra essere stata quella di S.Maria Nuova di Perugia (1296), poi S.Marco di Firenze (1300). In seguito, il lavoro parrocchiale diventa normale; ad esempio, nel sec.XVII, dei quindici monasteri silvestrini esistenti, almeno la meta` avevano annessa la parrocchia.

In tale evoluzione del lavoro dei Silvestrini (e di altri Benedettini), i lavori manuali e piu` pesanti rimangono affidati ai conversi, i quali si occupano della cucina, della portineria, del lavoro dei campi, delle pulizie. Le Costituzioni del 1618 parlano, si`, di lavoro manuale per tutti, ma ammettono le eccezioni e in realta` i monaci sacerdoti, compiuti gli studi, si dedicavano alla predicazione, all'insegnamento nelle scuole interne di filosofia e teologia e anche nelle scuole pubbliche, e alla cura d'anime nelle parrocchie. Nel secolo scorso (1845), fu intrapreso dalla Congregazione il lavoro missionario nell'isola di Ceylon (ora Sri Lanka).In Italia, nel secondo dopoguerra, fu iniziata l'attivita` assistenziale dei collegi, attivita` che e` durata fino ai nostri giorni.

Concludendo, la Congregazione Silvestrina, sorta nel sec.XII, prese, ritenendole pienamente attuali, le direttive della Regola benedettina riguardo al lavoro, soprattutto sotto l'influsso di Citeaux, che ne aveva fatto un punto programmatico, nello sforzo di ritornare alle fonti e per una pratica piu` coerente della poverta`. Pero`, proprio in quel secolo, entravano nella prospettiva del lavoro monastico anche altre occupazioni (oltre a quelle manuali); una comunita` a carattere clericale deve rispondere ad esigenze che S.Benedetto non poteva prevedere del tutto; per i monaci del '200-'300, il lavoro intellettuale, lo studio e l'apostolato non erano voci indifferenti, ed essi furono indotti dalle circostanze storiche e dagli orientamenti dei Pontefici ad un piu` esplicito impegno ecclesiale.

Quindi, l'attivita` dei monaci silvestrini si sviluppo` su queste tre linee direttrici: lavoro manuale - lavoro intellettuale - lavoro apostolico. Certamente all'inizio fu privilegiata la dimensione contemplativa e di vita ritirata; e sempre furono messi in primo piano i valori monastici della preghiera comune e delle meditazione, che devono armonizzarsi con il lavoro. Ma questo e` un problema di sempre, di allora e di oggi, e che riguarda tutto il mondo monastico, e di cui trattiamo nel punto seguente.

 

V. PROBLEMI ATTUALI

Gia` si e` detto della complessita` del problema del lavoro per i monaci, gia` all'inizio del monachesimo, e poi lungo i secoli. Lo stesso vale per oggi, e forse in maniera piu` accentuata. Nell'affrontare l'argomento, oggi va tenuto conto anzitutto della mentalita` diversa riguardo alla concezione del lavoro: non si tratta piu` soltanto del lavoro come ascesi o esercizio di penitenza (cioe` aspetto negativo del lavoro, ma anche e soprattutto della sua valorizzazione positiva come creativita`. Una spiritualita` del lavoro secondo una mentalita` nuova l'abbiamo nella "Gaudium et Spes" <GS> nn.33-39, ripresa da Giovanni Paolo II nella enciclica Laborem exercens del 1981, nn.24-27. Gli elementi essenziali di questa spiritualita` si possono cosi` schematizzare:

- l'uomo con il suo lavoro partecipa all'opera del Creatore e realizza se stesso;

- il lavoro trova la sua piena spiegazione alla luce del mistero pasquale di morte e risurrezione: quindi lavoro nella sua parte negativa di sofferenza e fatica e nella sua parte positiva di elevazione, partecipazione creativa, ecc.;

- Cristo e` l'uomo del lavoro, che sperimenta il lavoro e dal mondo del lavoro prende immagini e linguaggio per il suo insegnamento;

- il lavoro ha anche un'altra dimensione: e` un esercizio della carita`; ogni lavoro fatto con rettitudine di intenzione, con serieta` e responsabilita`, va a beneficio del prossimo;

- il cristiano sa che il suo lavoro serve non solo al progresso terreno, ma anche allo sviluppo del Regno di Dio (GS.39; LE.27).

A questa visuale del lavoro aggiungiamo ancora il superamento - almeno in teoria - del dualismo tra lavoro manuale e ogni altro genere di lavoro. Di fatto, per gli antichi, solo il lavoro manuale era considerato lavoro ed era retribuito (lo studio, la cultura, l'arte, appartenevano piuttosto alla categoria degli "otia", a cui si dedicavano gli uomini "liberi"). Oggi, per lavoro, si intende qualsiasi attivita` dell'uomo (cf.LE.5-7, passim) o manuale o intellettuale o nel settore dei servizi o nella ricerca scientifica, pura e applicata.

Tutto questo e` importante per inquadrare il lavoro monastico oggi. Tentiamo ora qualche riflessione, anche sotto forma di questione o di difficolta`.

1. - Il monaco non e` un uomo astorico, e` un uomo del suo tempo, e come tale deve agire. Ebbene, oggi c'e` una nuova coscienza del lavoro e dei lavoratori, i quali, a tutti i livelli, dal tecnico al semplice contadino, sanno che la loro attivita` serve al bene di tutti, e il fatto del lavoro si sente molto di piu` come un titolo di gloria e di autorealizzazione. Di qui la reazione violenta contro i parassiti della societa`; tra questi, spesso sono considerati tutti coloro che si consacrano al Signore, e c'e` nella gente l'idea che la vita religiosa e` una vita comoda e senza problemi sotto l'aspetto economico. Forse questo ha provocato negli ultimi tempi una certa crisi in religiosi e sacerdoti, con il conseguente impegno in compiti assistenziali, culturali e lavorativi a tempo pieno (vedi per esempio i "preti operai").

Anche qui appare subito la doppia faccia del problema. Non si nega che forse alcune accuse sono fondate, non si nega che il monaco deve tener conto di questa realta` sociale e adattarvisi, cercando di offrire una testimonianza di un lavoro (di qualsiasi genere) serio e impegnato. D'altra parte, pero`, il monaco non puo` contentarsi solo di non essere un "parassita" della societa`: deve essere un testimone vivo della presenza di Cristo nel lavoro.

Oggi la societa` corre il rischio di essere vittima delle sue stesse conquiste; il desiderio di possedere sempre di piu`, puo` portare a una idolatria del lavoro, fino a rendere l'uomo schiavo e abbrutito. Il monaco deve dimostrare di saper lavorare seriamente e con impegno, ma nella pace, nella liberta` di spirito, facendo del lavoro non uno strumento di dominio, ma di servizio.

Illuminante potrebbe essere il n.20 dell'esortazione apostolica di Paolo VI sulla vita religiosa Evangelica Testificatio: ""Un aspetto essenziale della vostra poverta` sara` quello di attestare il senso umano del lavoro, svolto in liberta` di spirito, e restituito alla sua natura di mezzo di sostentamento e di servizio. Non ha messo il Concilio, molto a proposito, l'accento sulla vostra necessaria sottomissione alla "legge comune del lavoro"? Guadagnare la vostra vita e quella dei vostri fratelli o delle vostre sorelle, aiutare i poveri con il vostro lavoro: ecco i doveri che incombono su di voi. Ma le vostre attivita` non possono derogare alla vocazione dei vostri diversi istituti, ne` comportare abitualmente lavori che siano tali da sostituirsi ai loro compiti specifici. Esse non dovrebbero neppure trascinarvi in alcuna maniera verso la secolarizzazione, con detrimento della vita religiosa.""

2. - Ma quale lavoro per i monaci, oggi? I monaci cenobiti, per essere autentici, devono vivere del proprio lavoro. Tale principio e, per il momento storico attuale, di grande importanza. Cio` non significa che il lavoro prettamente monastico sia o debba essere quello "manuale"; ogni volta che si cerca di stabilire lo "specifico" del monaco si rischia di fallire. In teoria il monaco puo` dedicarsi a qualsiasi attivita`; la storia e` molto eloquente riguardo a questo fatto: la vita monastica ci presenta un meraviglioso pluralismo di attivita` e di opere compiute dai monaci.

Il principio di fondo e` che ogni lavoro, per essere autenticamente monastico, deve permettere al monaco di essere sempre fedele alla sua vocazione. Ora, come nel monachesimo antico, si puo` cadere nei due eccessi: da una parte, sotto l'influsso della mentalita` efficientista ed economicista di oggi, si puo` correre il rischio del troppo lavoro, del lavoro affannoso che assorbe completamente le forze dei monaci, cosi` da non lasciare tempo e spazio (psicologico) per la lettura, lo studio, le riunioni di famiglia, l'aggiornamento, ecc...

Non possiamo fare il paragone tra la nostra attivita` e l'orario di fabbrica! Se un monaco fa otto ore di lavoro pesante (di qualsiasi tipo, anche apostolico), non si puo` pretendere che possa dedicarsi poi con impegno alla preghiera comune, alla lettura divina e a un po` di studio per la sua formazione permanente. E' un'illusione! In questo, non dobbiamo essere influenzati dalle pressioni dell'ambiente, dalla mentalita` corrente, dal giudizio - o pregiudizio - della gente: il "mondo" non potra` mai capire che il monaco deve dedicare il tempo migliore della sua giornata alla preghiera comune: difficilmente la gente potra` valutare ore e ore passate in coro.

Non dimentichiamo che chi viene al monastero, come postulante o come ospite, spera di trovarvi un clima di pace, di serenita`, di uomini centrati in Dio, e non un clima da grande azienda piu` o meno prospera o da societa` per azioni. Non si puo` organizzare il monastero partendo dalla efficienza economica, ma, al contrario, dal criterio della schola dominici servitii, luogo dove soprattutto si cerca Dio.

D'altra parte, si puo` correre l'altro rischio - come fu ugualmente nel monachesimo antico - di una mancanza di lavoro, il rischio che l'"otium cum dignitate" per "vacare Deo" si trasformi in un "dolce far niente" di gente che vive di rendita. La pace degli individui e delle comunita` si ottiene quando si giunge all'equilibrio con una armonica combinazione tra Opus Dei, lectio divina e lavoro, come sapientemente aveva previsto S.Benedetto.

Le condizioni di oggi, la societa` attuale, l'ambiente particolare in cui si vive, le istanze della Chiesa locale ai monaci, le suggestioni dello Spirito, l'attenzione ai segni dei tempi, richiederanno dei cambiamenti: ristrutturazione dell'attivita` economica, nuova disposizione dell'orario giornaliero, in considerazione specialmente del "fenomeno urbano"; ma bisogna salvaguardare comunque quell'equilibrio tra i tre cardini della giornata monastica, cosi` come essa e` concepita nella nostra vita benedettina. Allora la comunita` cenobita potra` esprimere in maniera piu` leggibile cio` che il monachesimo e` realmente, e cio` in cui crede con fermezza.

3. - Quando si scende al concreto, e` molto piu` difficile - se non impossibile - stabilire quali lavori siano piu` confacenti allo stato monastico. Il monaco e` un uomo alla ricerca continua dell'incontro con Dio; ora, questo avviene attraverso la preghiera liturgica, comunitaria, la meditazione assidua della Parola di Dio, l'incessante orazione personale, la carita` fraterna nella vita comune e il lavoro. Ebbene, quale lavoro puo` salvaguardare questo ideale? Tralasciamo in questa sede il problema del lavoro apostolico sistematico: "parrocchia si` - parrocchia no", Non credo ci sia una soluzione come stanno oggi le cose. C'e` in questo campo un pluralismo monastico molto vasto. La nuova linea evolutiva del monachesimo, cioe` la storia futura, potra` dire qualche parola in piu`.

Ma consideriamo anche un'attivita` di lavoro manuale o aziendale. Oggi essa richiede, per la complessita` della vita moderna, un contatto frequente con i mezzi di produzione, di commercializzazione, di distribuzione, con grattacapi, preoccupazioni, dispersivita`, dato che entrano in gioco direttamente componenti di tipo economico, la competitivita`, il rendimento, ecc... Non credo sia molto semplice dare una risposta; e tuttavia un ritorno a una linea piu` contemplativa del monachesimo deve necessariamente misurarsi col problema del lavoro nel monastero.

E allora, quali potrebbero essere i lavori piu` appropriati per i monaci? (Riassumiamo l'ultima parte dell'articolo di PASCUAL in "Yermo" 13 (1975) nn.1-2, pp.349-351; il volume raccoglie gli Atti della XII Settimana di studi monastici del 1971 nel monastero di Leyra in Navarra, incentrata tutta sul lavoro monastico).

Il principio generale e` che, salvi i diritti primordiali dell'Opus Dei, della lettura e degli esercizi regolari, il tempo restante si dedichi al lavoro, lavoro compatibile con la vita monastica. Bisogna tener conto che il giovane che entra in monastero oggi, desidera una vita di maggior raccoglimento, di unione con Dio in maggiore silenzio e si mostra piu` perplesso di fronte a cose che forse una volta entravano, come elementi accessori, in molte vocazioni, ad esempio la grandiosita` e la fama del monastero, le investigazioni scientifiche, ecc., e si sente deluso qualora dovesse ritrovarsi nel monastero con lo stesso ritmo agitato, frenetico, con tensioni, ansie, che ha lasciato nel mondo. Non si vuol dire con questo che desidera una vita comoda (la vita in monastero con l'orario e la vita comune, se si segue con impegno, non e` affatto una vita comoda), ma solo che ci sia una gerarchia di valori in persone e in ambiente che si dicono votati al servizio di Dio.

4. - Lavoro intellettuale, o lavoro manuale? L'uno e l'altro possono essere pienamente monastici se sono fatti seriamente e nelle condizioni di un'autentica famiglia monastica; l'uno e l'altro possono essere incompatibili se si praticano come semplice passatempo e hobby, oppure si trasformano in fine. Il lavoro intellettuale, fatto con responsabilita` e serieta`, e` un lavoro duro, sufficiente a realizzare l'aspetto penitenziale del lavoro in una persona normale. In questo senso non e` un lavoro di tutti. Tuttavia e` un tipo di attivita` che non dovrebbe mai mancare in nessun monastero, ne` si deve minimizzare per principio. Sarebbe funesto: il livello culturale, e anche quello spirituale, dei nostri monasteri scadrebbe immediatamente. Una comunita` che non e` capace di dare spazio a coloro che hanno avuto da Dio la vocazione del lavoro intellettuale - e lo stesso si puo` dire dell'arte - dimostrerebbe una carita` molto gretta. Nelle comunita` esiste una specie di osmosi, uno scambio di idee: la cultura dei monaci dedicati allo studio, la vita comune con essi apportera` insensibilmente una elevazione culturale, morale, spirituale di tutta la comunita`.

Il lavoro manuale sara`, senza dubbio, l'occupazione della maggioranza (eccetto, e` ovvio, i monasteri che hanno parrocchie o scuole). In tal caso , quale tipo di lavoro manuale? Il lavoro dei campi ha avuto una certa predilezione nella tradizione monastica. Ora, se si tratta di orti p di campi vicino al monastero che siano redditizi e sufficienti per il monastero senza un'eccessiva meccanizzazione e industrializzazione, lo possono fare agevolmente i monaci da se stessi. Ma nel caso di una grande azienda con investimenti colossali in macchinari e strutture (altrimenti non sarebbe redditizio non essendo competitivo), ci possono essere reali perplessita`; si corre il rischio che i monaci siano assorbiti eccessivamente, e inoltre che ci sia una controtestimonianza della poverta`.

Lo stesso dicasi per i lavori di tipo industriale, a livello di gramde industria. Dice Maritain: "Mi pare che l'industrializzazione dei grandi monasteri, i quali nella vendita dei loro prodotti sul mercato si trasformano in competitori delle grandi ditte moderne, sia una via pericolosa e contraria allo spirito di poverta`. Cio` pone i monasteri sullo stesso piano delle grandi industrie, che sono uno dei maggiori centri di ricchezza e di potere". (In: AA.VV., Visioni attuali sulla vita monastica, Montserrat 1966, p.200).

Diverso e` il caso quando si vendono i prodotti artigianali del monastero. Alcune comunita`, poi, soprattutto femminili, hanno trovato una soluzione facendo dei lavori per conto di alcune ditte: queste forniscono la materia prima e si incaricano di tutto il settore della distribuzione e commercializzazione, la comunita` percepisce uno stipendio per il lavoro svolto (ma anche in questo caso ci sono molti problemi). Si potrebbero fare altre esemplificazioni, ma bastano quelle accennate; del resto ogni comunita` deve vedere concretamente il tipo di lavoro ad essa piu` adatto.

5. - Lavoro e spirito di famiglia. Accenniamo ora ad un altro aspetto molto importante del lavoro monastico: lavoro e spirito di famiglia. Puo` accadere che si stabiliscano anche nelle comunita` monastiche delle divisioni a causa del lavoro; o dualismo (come nella societa`) tra coloro che fanno lavoro manuale e coloro che fanno lavoro intellettuale; o ancora lo spettacolo di monaci sovraccarichi di lavoro da una parte e, dall'altra parte, di monaci che si sentono vuoti e inutili per mancanza di attivita`. Si tratta di peccati contro la carita`. Nella famiglia monastica si deve avere una totale comunione in tutto. Questo non significa livellamento. Ci vuole spirito di famiglia: il lavoro produttivo di alcuni puo` permettere ad altri di dedicarsi a lavori molto importanti, ma non lucrativi. Certi lavori scientifici o di erudizione sono un servizio che i monaci fanno a tutta la chiesa, e contribuiscono anche al buon nome del monastero: ma normalmente non producono benefici economici, anzi gravano sulle finanze della casa.

La forma migliore per lo spirito di famiglia in questo campo, e` la cogestione, nel senso che tutta la comunita` intervenga nello scegliere e programmare il lavoro; se solo i superiori o alcuni monaci organizzano un lavoro, e` facile che la maggior parte si senta non responsabile, quindi si disinteressa e non partecipa a quell'attivita`. La carita` fraterna e lo spirito di famiglia vanno verificati anche in questo fatto del lavoro.


CONCLUSIONE

Non crediamo di aver esaurito in questa esposizione tutti gli aspetti del lavoro in rapporto alla vita monastica. Il problema e` molto complesso e ha mille facce, che vanno tenute presenti. Al di la` delle varie questioni e difficolta`, rimane il fatto per il monaco di inserire la sua attivita` - qualunque essa sia - in una visuale di fede (alla luce del "Vangelo del lavoro" ultimamente messo in risalto dalla enciclica Laborem Exercens, soprattutto nn.24-27), ricondurla al mistero pasquale di morte e risurrezione di Cristo, con l'aspetto di fatica-sacrificio e di creativita`- realizzazione, impegnandosi seriamente, ma sempre proiettato in una dimensione ultraterrena.

Il monaco deve sentire che il lavoro e` una componente essenziale della giornata monastica e diventa lavoro orante, perche` le ore dell'Ufficio divino santificano tutto cio` che il monaco fa: "Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini" (Coloss.3,23) e "In omnibus glorificetur Deus" (1Piet.4,11 citato in RB.57,9).

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 NOTA BIBLIOGRAFICA

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CAPITOLO 49

L'osservanza della quaresima

De quadragesimae observatione

Preliminari

Nel determinare l'orario, SB ha tenuto conto del particolare carattere della quaresima (RB.48,14-16; 41,6-7). L'importanza data a tale periodo lo induce a scrivere un capitolo a parte sulla quaresima, quale tempo forte dell'anno liturgico per il quale senza dubbio egli aveva particolare devozione e che considerava come molto adatto per il rinnovamento spirituale dei monaci.

Cassiano, da idealista impenitente, applicando la sua esegesi allegorica, dice che la quaresima e` come la "decima", il tributo che i cristiani nel mondo debbono pagare annualmente al Signore; immischiati come sono nelle cose della terra, negli affari e nei piaceri, si fa loro obbligo di consacrare al servizio di Dio almeno questi giorni. I monaci sono esenti dal pagare tale decima, perche` hanno fatto a Dio donazione della loro vita intera con tutto quanto possiedono, e vivono tutto l'anno con il regime che i laici conducono in quaresima, obbligati dalla legge. La quaresima fu istituita solo per gli imperfetti: difatti non esisteva fin quando si mantenne la perfezione della Chiesa primitiva degli Atti. Cosi` Cassiano, in Coll.21,24-30.

Uomo pratico secondo Gesu` Cristo, SB pensa che anche per i monaci - uomini che aspirano alla santita`, ma sempre uomini dalla testa ai piedi! - capita molto a proposito questo periodo di rinnovamento e di intensificazione della vita cristiana che ogni anno prepara i catecumeni al battesimo e tutti i fedeli a una degna celebrazione della Pasqua. E` stato notato che, ad eccezione dei vv.8-10 che sono come una appendice e di carattere chiaramente cenobitico, il capitolo dipende, tanto nelle idee quanto nelle espressioni, dai "Discorsi sulla quaresima" di S.Leone Magno, soprattutto i primi quattro (sono dodici).Cosi` il contrasto iniziale tra la vita da tenersi in quaresima e quella piu` leggera da tenersi nel resto dell'anno; cosi` il "tale virtu` e` di pochi" (v.2) a proposito di una vita sempre a un livello spirituale molto alto; soprattutto l'idea della "purezza di vita", di purificazione, di espiazione in quaresima delle colpe di tutto l'anno sono il 'leit-motiv' della predicazione di S.Leone. Appare chiaro che SB ha assimilato la dottrina quaresimale del vescovo di Roma, e` impregnato del suo vocabolario e ripete spontaneamente le sue espressioni senza che si preoccupi di citarle letteralmente. Quello che S.Leone predicava a tutti i cristiani, SB lo scrive per i monaci; e` una ulteriore prova che la vita monastica e` un modo di realizzare la vita cristiana e che la dottrina della perfezione evangelica predicata dai Padri della Chiesa e` ugualmente valida per il cristiano che vive nel mondo e per quello che, seguendo la sua vocazione, vive in monastero.

SB quindi in questo capitolo e` piu` preoccupato di sottolineare l'importanza della quaresima e lo spirito che deve animare la vita in tale periodo, che di fare precise pratiche penitenziali alla comunita` o determinare in che cosa deve consistere l'intensificarsi della vita di preghiera, come invece fa la RM (cf.RM.51 e 53). Dobbiamo percio` classificare il capitolo 49 della RB piu` tra la parte ascetica e spirituale che tra la parte propriamente legislativa e disciplinare.

1-3: Lo spirito che deve animare la quaresima

"La vita del monaco dovrebbe essere una continua quaresima", quasi a dire: tale sarebbe l'ideale, magari fosse cosi`! Qual'e` il significato esatto di queste parole? Non dobbiamo credere che SB pensi a un carattere eccessivamente severo e melanconico della vita monastica; per lui la quaresima - come appare in seguito - non ha un volto triste, ma significa anzitutto un tempo in cui si vive con purezza (v.2) e integrita` la vita cristiana, o per lo meno si cerca. Uomo pratico e realista, SB sa che sono pochi quelli dotati di tanta virtu` e fortezza di spirito da mantenersi completamente fedeli al Vangelo durante tutto l'anno. Allora durante la quaresima sforziamoci non solo di vivere come monaci autentici, ma anche di fare qualcosa in piu`, quasi a compensare e cancellare le negligenze degli altri periodi. Questo e` insomma l'ideale quaresimale per i monaci: vivere perfettamente come tali e riparare con pratiche supererogatorie alle infedelta` della "quaresima" precedente. (Per i paralleli con S.Leone Magno, cf. "Discorsi sulla quaresima", I,2; IV,1; V,2.6).

2: Custodire la propria vita con somma purezza

"Puritas" qui e` nel senso piu` ampio: la mondezza di mente e di cuore, per cui si e` spogli da ogni attacco che distragga da Dio. La bellissima sentenza richiama il 48.mo strumento delle buone opere: Actus vitae suae omni hora custodire <vigilare continuamente sulle azioni della propria vita>, RB.4,48; e` la vigilanza assidua di chi ama seriamente Dio e vuole che nessuno dei suoi atti possa ostacolare l'unione con Lui; e` praticamente il primo gradino dell'umilta`, con la famosa "memoria Dei" (cf. RB.7,10-30, vedi commento).

4-7: Pratiche quaresimali

SN scende al particolare. Anzitutto astenersi da ogni peccato: e` la prima e piu` necessaria astinenza (cf. S.Leone M., Discorso IV,6); la lotta contro i vizi - estirpandoli dalle radici, se e` possibile - e` uno dei fini dell'ascetismo cristiano. Poi dedicarsi con speciale impegno a certe pratiche. SB ne segnala quattro: tre di carattere spirituale, una di carattere corporale.

- 1) Preghiere con lacrime, si tratta dell'orazione privata, in unione alle lacrime e alla compunzione del cuore, suggerita spesso da SB (cf. RB.4,56-57; 20,3; 52,4);

- 2) Lettura (divina), appunto percio` ha prescritto la consegna di un libro a ciascun monaco all'inizio della quaresima (RB.48,15-16) e ha unificato le ore di "lectio", circa tre ore di seguito: "dal mattino fino a tutta l'ora terza" (RB.48,14).

- 3) compunzione del cuore, e` lo spirito di compunzione, cioe` il chiedere perdono a Dio dei propri peccati con lacrime e gemiti, come ha gia` detto nel 57.mo strumento delle buone opere (RB.4,57), evidentemente con maggiore frequenza e intensita` che negli altri periodi.

- 4) astinenza, e` l'astinenza corporale, come specifichera` meglio nei versetti seguenti:

5: Aggiungiamo qualcosa...

"Aggiungiamo qualcosa al consueto debito del nostro servizio" (v.5). C'e` un debito, una "tassa" stabilita, delle prestazioni normali - diciamo cosi` - nel servizio di Cristo, che e` la vita monastica; durante la quaresima, aggiungiamo qualcosa alla tariffa ordinaria. E abbiamo qui altri due elenchi (oltre a quello del v.4) nel v.5 e nel v.7. L'idea di aggiungere qualcosa e` continua pure in S>Leone Magno (cf. Discorsi, II,1). Tutte le cose elencate si ritrovano negli strumenti delle buone opere (RB.4).

7: Sottraiamo qualcosa...

Nel terzo elenco (v.7) si parla di sottrarre qualcosa alla loquacita` e alla scurrilita` o leggerezza. Ma non aveva SB completamente condannato queste cose nel c.6 sull'amore al silenzio? (RB.6,8, vedi commento). Come mai ora si suggerisce di reprimerle "un poco" <aliquid> durante la quaresima? Una cosa e` la teoria, un'altra e` la pratica. Qui pare affacciarsi sorridente il volto paterno di SB. La vita dovette insegnare al santo - sempre grave e solenne, ma anche molto umano - che ci sono dei tipi per natura leggeri e portati allo scherzo e alla buffoneria, e privarli del tutto di queste cose equivarrebbe a reprimerli. Basta che si moderino un po`, almeno in quaresima!

Due caratteristiche appaiono in questi versetti:

- a) il senso della gioia nell'impegno quaresimale e nell'attesa della Pasqua. "Col gaudio dello Spirito Santo" (v.6): citazione da 1Tess.1,6. Anche a proposito dell'obbedienza SB ha ricordato (RB.5,16) che "Dio ama chi dona con gioia" (2Cor.9,7). Questa nota di letizia, frutto della sincera generosita` ispirata dallo Spirito Santo, rende piu` profumato l'atto di offerta. Si ricordi, poi, a proposito del digiuno, l'insegnamento di Gesu`: "Tu invece, quando digiuni,, profumati..." (Mt.6.17). Al v.7 la frase "con gioia di soprannaturale desiderio aspetti la santa Pasqua" ricorda alcune espressioni liturgiche. L'attesa della Risurrezione di Cristo dona a tutta l'osservanza quaresimale l'abito della gioia; preparato dall'impegno e dalle osservanze della quaresima, il monaco giungera` maturo a godere pienamente la S.Pasqua.

- b) carattere individuale e volontario: e` l'altra caratteristica di questi versetti. Le pratiche quaresimali non sono imposte obbligatoriamente a tutti i monaci dall'autorita` della Regola o dall'abate. A differenza dalla RM, in cui si prescrivono orazioni e astinenze comunitarie, la RB non ha un programma preciso e obbligatorio per la comunita` intera (a parte quanto detto nell'orario, RB.48,14-16). Si tratta di opere supererogatorie che ciascuno <unusquisque> offre a Dio volontariamente <propria voluntate> e col gaudio dello Spirito Santo <cum gaudio Sancti Spiritus>; non sono un peso supplementare imposto dalla legge, ma un segno della generosita` con cui ciascun monaco, con cuore largo e gioioso, intende darsi a Cristo Signore a compensazione delle deficienze nel servizio santo che ha professato.

8-10: Appendice sul ruolo dell'abate

"Cum spiritalis desiderii gaudio sanctum Pascha expectet" <aspetti la santa Pasqua nella gioia del desiderio spirituale> (v.7). Con queste magnifiche parole si chiudeva probabimente il capitolo nella sua prima redazione. SB in seguito vi aggiunse un'appendice. Chissa`, forse alcuni monaci, approfittando della liberta` di scelta, si davano a delle pratiche ascetiche o a penitenze eccessive. (Ricordiamo quello che vide Macario tra i monaci di Tabennisi durante la quaresima, cf. Palladio, Storia Lausiaca, c.18,14-15). La Regola, pur lasciando quella liberta` individuale di cui sopra, guida il monaco per i sentieri dell'obbedienza: le piccole mortificazioni individuali siano sottoposte al permesso e alla benedizione dell'abate (si evita cosi` il pericolo di illusione e di esagerazione) e siano accompagnate dalla sua preghiera. E` questa un'idea propria del monachesimo antico: il discepolo attribuiva alla preghiera del "padre spirituale", richiesta al medesimo prima di iniziare qualche opera, la riuscita dell'opera stessa. SB si mantiene nella linea della tradizione autentica. E termina con un principio di carattere generale: tutto deve compiersi con il consenso dell'abate (v.10; cf. anche RB.67,7).

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Nota: I cc.50 e 52 sono stati trattati nella sezione sull'Opera di Dio.


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21 giugno 2014                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net