APPUNTI SULLA

REGOLA DI S. BENEDETTO

di

D. Lorenzo Sena, OSB Silv.

Fabriano, Monastero S. Silvestro, Ottobre 1980


2.2) COMMENTO AL TESTO

OPUS DEI (capitoli 8-20; 47; 50; 52)

CAP. 8 - L'Ufficio divino nella notte

CAP. 9 - Quanti salmi debbano dirsi nell'Ufficio notturno

CAP. 10 - Come debba celebrarsi l'Ufficio notturno in estate

CAP. 11 - Come si debba svolgere l'Ufficio notturno nelle domeniche

CAP. 14 - Come debba celebrarsi l'Ufficio notturno nelle feste dei Santi

CAP. 12 - Come si celebra l'Ufficio delle Lodi

CAP. 13 - Come si celebrano le Lodi nei giorni feriali

CAP. 15 - In quali tempi debba dirsi l'Alleluia

CAP. 16 - Quali siano i divini Uffici durante il giorno

CAP. 17 - Quanti salmi debbano dirsi in queste Ore

CAP. 18 - Con quale ordine debbano dirsi i salmi

CAP. 19 - Atteggiamento durante l'Ufficio

CAP. 20 - La riverenza nella preghiera

CAP. 47 - Il segnale per l'Ufficio divino

CAP. 50 - I fratelli che lavorano lontano dall'oratorio o sono in viaggio

CAP. 52 - L'oratorio del monastero

Excursus sulla preghiera monastica e nota bibliografica (Opus Dei)


 

Introduzione alla sezione sull'Opus Dei. - CAPITOLI 8-11

Nei testi piu` antichi, per "OPUS DEI" <Opera di Dio> si intende tutta la vita spirituale del monaco o, semplicemente, la vita monastica. Poi a poco a poco il significato si restrinse a designare la vita di orazione organizzata intorno alla lettura della Parola di Dio, alla salmodia e alla preghiera silenziosa. Questo e' il senso di "Opus Dei" nella RB, con particolare riferimento alla Preghiera liturgica comune, l'Ufficio Divino, o come diciamo oggi, la Liturgia delle Ore.

Tratteremo di seguito in questa sezione i capitoli della RB che riguardano l'ordinamento dell'Ufficio Divino (cc.8-18), il modo di pregare (cc.19-20) e, come appendice, le norme per il segnale dell'ora dell'Ufficio Divino e per la disciplina in coro (c.47) e l'oratorio del monastero (c.52).

 

ORDINAMENTO DELL'UFFICIO DIVINO (cc.8-18)

Importanza dell'Ufficio Divino nella RB

Al gruppo dei capitoli relativi alla dottrina ascetica segue un blocco di capitoli relativi alla preghiera. E' da notarsi la loro posizione, quasi a dire che l'Opus Dei e' l'occupazione principale della vita cenobitica. Nella RM, invece, il direttorio dell'Ufficio si trova nei cc.33-45, dopo l'argomento sul dormitorio e la levata.

E' senza dubbio errato considerare i Benedettini come "fondati per il coro"; ma e` anche certo che nella mente del S.Legislatore, interpretata poi da tutta la tradizione benedettina, la liturgia costituisce l'occupazione conventuale essenziale e primaria a cui nulla deve anteporsi: "Nihil Operi Dei praeponatur" <Nulla si anteponga all'Opera di Dio> (RB.43,3).

Capitoli 8-18: un blocco omogeneo

La sezione sull'Ufficio Divino e` molto omogenea sia dal punto di vista dell'argomento che del vocabolario e dello stile. Vi abbondano, sotto questo aspetto, anormalita` linguistiche, vocaboli e modi di dire del latino volgare, della lingua corrente del sec.VI. E` probabile che tutto il blocco dei cc.8-18 formasse un fascicolo a se` che conteneva il "corpus liturgico" dei monaci prima della redazione della RB; fu poi inserito da SB nel corpo della sua Regola con alcune modifiche.

Prescindiamo dalla divisione e dal titolo dei singoli capitoli, cose che sembrano abbastanza fittizie, e rileviamo l'importanza di questa sezione che risulta dal fatto stesso della quantita`, della minuziosita` con cui viene stabilita ogni parte dell'Ufficio Divino e dal posto preminente che occupa nella Regola, subito dopo la sezione dottrinale e prima della parte legislativa propriamente detta.

Origine del "cursus" benedettino

Si era parlato e si era scritto per molto tempo sull'influsso dell'Ufficio benedettino su quello romano. In seguito, dopo una notevole serie di studi, si e` dimostrato (e oggi e` pacifico) tutto il contrario, cioe` che l'ufficio benedettino segue passo passo l'ufficio romano classico. La Regola, in un punto preciso (RB.13,10) a proposito dei cantici, fa riferimento alla salmodia della chiesa romana; pero` questo influsso si rivela altrove, sopratutto per le ore principali, Lodi e Vespri, e talvolta l'ufficio della vigilia; per il resto la RB si ispira al "cursus" dei monasteri romani, quindi con struttura tipicamente monastica. Inoltre e` facile scoprire contatti innegabili con altre tradizioni liturgiche, come l'ufficio bizantino, milanese, spagnolo, e piu` particolarmente l'ufficio dell'ambiente di Lerins - Arles e quello descritto nelle Istituzioni di Cassiano.

Quindi l'Ufficio Divino di SB e` eclettico, cioe` prende di qua e di la`, come del resto tutta la Regola. RB 8-18 ha come fonti principali RM e l'ufficio romano classico; come fonti secondarie le tradizioni liturgiche citate sopra; in un quadro molto stabile accoglie una grande varieta` di suggeriemnti di origine diversa.

Caratteristiche e varianti rispetto alle fonti

Una prima caratteristica che si nota nel cursus benedettino e` l'interesse per la precisione, per la massima regolamentazione di tutti i particolari. Se in SB appare sempre il senso, quasi il pallino, dell'ordine, cio` e` molto piu` evidente nel caso dell'Ufficio Divino. Altra caratteristica: rispetto alle due fonti principali (RM e ufficio romano classico), SB abbrevia nettamente. Nel caso delle vigilie, SB abbrevia per dare ai monaci un tempo piu` lungo di sonno continuo, nel caso delle ore diurne abbrevia in favore del lavoro: cio` sembra dovuto al fatto che il monastero previsto da SB sta in campagna e ci si trova in un periodo di difficolta` economiche dovute alla guerra tra Goti e Bizantini. Si deve dire anche che SB mitiga la durata dell'Opus Dei in virtu` di tendenze gia` presenti nelle sue fonti. RB e` piu` mitigata anche nei raduni e nelle sanzioni per i ritardatari.

In compenso SB aggiunge alcune particolarita` molto espressive e di grande valore teologico. Cosi' il "Deus in adiutorium" all'inizio delle ore diurne (RB.18,1) con cui si invoca l'aiuto di Dio (probabilemnte SB l'ha preso sotto l'influsso di Cassiano, Coll.10,10, che ne fa grande elogio come formula per mantenere sempre vivo il ricordo, la presenza di Dio); il salmo 3 di attesa alle vigilie (RB.9,2) e il salmo 66 di attesa alle lodi (RB.12,1); gli inni a tutte le ore (RB.12,4; 13,11; 17,8); il "Te Deum" (RB.11,8); il "Te decet laus" (RB.11,10), inno trinitario greco preso dalle "Costituzioni Apostoliche". Cosi` RB ha meno salmi di RM e dell'ufficio romano classico, ma piu` elementi accessori; cio` dona al suo cursus maggiore ricchezza e varieta`.

Un'altra nota caratteristica di SB e` una maggiore flessibilita`; egli sente un'infinita venerazione per l'Opera di Dio ma, sempre "uomo pratico come Gesu` Cristo", non esita a togliere e modificare qualcosa secondo le circostanze e le necessita` contingenti: le altre attivita` del monaco hanno pure il loro peso, il lavoro e` necessario per il sostentamento, la lectio divina rappresenta un elemento insostituibile per il monaco. Percio` non si puo` tendere l'arco fino a spezzarlo. Lodare Dio continuamente in diversi tempi della giornata e` un dovere e un onore per i cenobiti; pero` mentre per RM l'osservanza liturgica e` piu` stretta ed esigente come comunita` (e intanto abbondano le dispense individuali), SB mitiga la norma comune, e` piu` flessibile, pero` esige la sua osservanza e concede meno facilmente dispense individuali.

Tre principi intangibili

Tre principi sono posti in grande rilievo e come intangibili da SB:

1) La recita del salterio intero in una settimana. C'era negli ambienti monastici della regione la tendenza ad accorciare e SB e` su questa linea e prevede anche che si possano distribuire i salmi diversamente (RB.18,23), purche` pero` si mantenga la recita integrale del salterio in una settimana secondo la tradizione romana e probabilmente anche bizantina che SB giustifica ricorrendo alle "Vitae Patrum" egiziane (RB.18,24).

2) Le ore dell'Ufficio diurno debbono essere sette, senza cioe` contare le Vigilie (l'Ufficio notturno), e per far questo SB aggiunge l'ora di Prima e giustifica il tutto con due citazioni del salmo 118: "Nel cuore della notte mi alzavo a renderti lode", v.62, e questo vale per l'ufficio notturno; e "Sette volte al giorno io ti do lode", v.164, e questo vale per le ore diurne, cioe`: lodi. prima, terza, sesta, nona, vespro e compieta (RB.16,1-2). Con questa ingegnosa esegesi SB giustifica il cursus liturgico. In mancanza di argomenti migliori...!

3) All'Ufficio notturno si debbono recitare dodici salmi, sia d'estate che d'inverno, sia di domenica che nei giorni feriali. Questa usanza si appoggiava a una tradizione monastica antica che si credeva di origine soprannaturale: la famosa "regola dell'angelo", la cui diffusione e` dovuta sopratutto a Palladio (Storia Lausiaca 32) trasmessa ai monaci occidentali da Cassiano (Inst. 2,5): secondo essa fu un angelo a rivelare ai monaci la volonta` divina che si cantassero dodici salmi, ne' uno piu` ne` uno meno, all'ufficio divino della notte.

Con questi tre principi fondamentali, SB si mostra fortemente collegato alla tradizione del monachesimo romano. Eclettico e innovatore sotto certi aspetti, SB e` tuttavia solidamente radicato in un preciso ambiente geografico e storico: "e` innovatore, ma e` anzitutto l'uomo della tradizione" (A. de Vogüé).

Modo di dire l'Ufficio Divino

L'ufficio monastico antico era fondamentalmente composto dagli stessi elementi di oggi, ma aveva un aspetto abbastanza diverso. La Parola di Dio - canto dei salmi e lettura dei brani da altri libri della Sacra Scrittura - era, allora come oggi, la base principale. Ma il modo di salmodiare era diverso da oggi. Per esempio, i cenobiti di Pacomio celebravano cosi` la preghiera comunitaria: un solista recitava la Scrittura - non necessariamente il salterio - e quando aveva terminato una parte, i fratelli che avevano ascoltato in silenzio, si alzavano, facevano il segno della croce e, a braccia levate, recitavano il Padre Nostro, poi si prostravano a "piangere in silenzio" i loro peccati; quindi, a un nuovo segnale, si alzavano di nuovo e pregavano in silenzio, finche` un ultimo segnale li invitava a sedere ancora e ad ascoltare altri brani della Parola di Dio da un solista. Ugualmente in Cassiano (Inst.2).

Doppio elemento costante

Questo modo di preghiera comunitaria si ando` evolvendo, com'era naturale, ma certamente si mantenne questo doppio elemento importante, cioe` l'alternarsi tra:

- la recita della Parola di Dio e

- l'orazione silenziosa.

Al tempo di SB la recita dei salmi da parte di tutta la comunita` divisa in due cori era sconosciuta o praticata molto raramente. Cantavano i salmi uno o due solisti con la partecipazione degli altri monaci quando la salmodia fosse responsoriale. I salmi interrotti ripetutamente da un'antifona costituivano la maggior parte dell'Ufficio Divino; grazie al ritornello cantato da tutti, l'attenzione si manteneva viva. Dopo ogni salmo si faceva un periodo di orazione silenziosa. Si deve tener presente questo se si vuole rettamente giudicare il cursus di SB.

Dato che SB faceva recitare i salmi secondo un criterio di ordine continuo (per esempio alle vigilie dal 20 al 108, ai vespri dal 109 al 147), si puo` obiettare che si succedevano salmi di temi completamente diversi. L'obiezione si risolve pensando appunto alla preghiera silenziosa dopo ogni salmo e alla colletta salmica. A proposito di questa, che cosa si deduce dalla RB? SB conosceva o no l'orazione salmica? C'e` un indizio contrario in RB.43,4.10: "Chi non giunge al gloria del primo salmo..." sembra indicare la mancanza di colletta salmica. Pero` ci sono anche indizi positivi: RB.20,5 "L'orazione che si fa in comune" e` un richiamo a Cassiano (Inst.2,7) che parla appunto dell'orazione salmica; RB.50,3 "celebrino l'Opera di Dio dove lavorano inginocchiandosi con santo timore" corrisponde a RM.55,4.18 la quale prevede la genuflessione dopo il salmo per l'orazione salmica; RB.67,2 "l'ultima orazione dell'Ufficio Divino...", essendo l'ultima, suppone una serie di orazioni scaglionate lungo l'intero ufficio. Pare quindi giusto dedurre l'uso della colletta salmica in RB, anche se RM e` piu` esplicita in proposito.

Anche per l'orazione silenziosa dopo ogni salmo, abbiamo tutta la tradizione monastica: tale orazione silenziosa era conclusa dal sacerdote che presiedeva. Tra il V e il VI secolo, appaiono serie di collette salmiche dette come conclusione della pausa silenziosa. Nella RM la pausa durava almeno un minuto e mezzo, altrove piu', altrove meno. La cosa comincia poi ad entrare in crisi sia perche` il gesto che l'accompagnava, cioe` la genuflessione, e` scomodo, sia perche` spesso non si sa come passare il tempo di silenzio (vedi quanto e` attuale il problema!). "Cosi` l'orazione salmica era presente sia al corpo che all'anima per la fatica fisica della prostrazione e per lo sforzo spirituale dell'orazione silenziosa. A partire da queste due difficolta` bisogna spiegare senza dubbio la sua scomparsa. E` un fatto compiuto gia` nell'ambiente di SB? La poverta` della documentazione sull'Italia non ci permette di affermarlo" (DeVogue`). Pur nell'incertezza e divergenza di opinioni, riteniamo comunque che nella salmodia secondo la RB l'orazione silenziosa dopo ogni salmo e la colletta salmica erano due elementi di grande importanza.

Nota sull'orario in SB

Per capire bene tutte le indicazioni di orario dei capitoli seguenti, si pensi al modo di computare di SB. Ogni ora non consta di 60 minuti, ma varia secondo le stagioni, perche` il giorno, dal sorgere del sole al suo tramonto, e` diviso in dodici parti uguali e cosi` anche la notte; sicche` al solstizio di giugno l'ora del giorno vale 75 minuti, mentre al solstizio di dicembre 45 minuti. L'inverso avviene per la notte. Solo agli equinozi l'ora sia del giorno che della notte e` di 60 minuti.

Inoltre SB divide l'anno in varie tappe segnate da queste date fondamentali:

1) Inizio di Quaresima

2) Pasqua

3) Pentecoste

4) 14 Settembre

5) Principio di Ottobre

6) Principio di Novembre.

Struttura della sezione liturgica della RB

La struttura dei capitoli sull'Ufficio Divino (RB.8-18) e` la seguente:

- cc. 8-11: Ufficio della notte

- c. 14: Ufficio della notte nelle feste dei santi

- cc. 12-13: Ufficio del mattino (lodi)

- c. 15: Uso dell'alleluia

- cc. 16-18: Ufficio del giorno

Si noti che nell'attuale disposizione dell'ufficiatura monastica, il cursus della RB corrisponde allo schema "A" del "Thesaurus Liturgiae Horarum" e quindi si abbia sott'occhio tale schema per capire i cc.8-18 della Regola.


CAPITOLO 8

L'Ufficio Divino della notte.

De officiis divinis in noctibus.

Preliminari ai cc.8-11.14 sull'Ufficio della notte

Passare in veglia buona parte della notte era una pratica molto comune nella Chiesa primitiva, secondo la mistica dell'"attesa dello Sposo" (cf. anche Dante, Paradiso X, 140-141: "Nell'ora che la Sposa di Dio surge a mattinar lo Sposo perche` l'ami"). La vigilia domenicale, iniziata con la grande veglia pasquale, risale ai tempi apostolici. Le altre vigilie notturne cominciarono a celebrarsi in occasione delle maggiori solennita` liturgiche e delle feste dei martiri locali.

Pero`, se i chierici e il popolo cristiano passavano in orazione alcune notti (o parte di esse), i monaci si alzavano tutte le notti sia per recarsi comunitariamente alla salmodia sia per l'orazione privata. Pericio` la giornata del monaco comincia con l'ufficio notturno e da esso logicamente SB inizia le sue prescrizioni. Finora lo si e` chiamato, ma impropriamente, "Mattutino"; dopo la riforma liturgica, "Ufficio delle Letture".

1-2: Levata durante l'inverno

L'Ufficio Divino - e` chiaro - non poteva abbracciare tutta la notte; il corpo e lo spirito hanno necessita` di riposo. E` certo che le prime generazioni di monaci dominarono il sonno fino all'inverosimile. Si pensi, in occidente stesso, a S.Colombano il quale voleva che il monaco "venisse stanco al giaciglio, dormisse gia` mentre camminava e fosse costretto a levarsi prima ancora che cessasse il sonno". Con il suo buon senso e con la sua discrezione, SB vuole che, "secondo una ragionevole valutazione" (v.1), i monaci si alzino riposati e a digestione compiuta. Per cui si alzavano d'inverno all'ottava ora della notte (si ricordi quanto detto sopra sull'orario di SB, cioe` che tutto il tempo diurno e notturno veniva diviso in

dodici parti uguali). Da RB.41,9 risulta che vespro e cena dovevano aver luogo con la luce del giorno: al massimo quindi i monaci andavano a letto circa un'ora dopo il tramonto, cioe' verso la fine della prima ora notturna; e poiche` si alzavano all'ottava ora della notte, il riposo durava sette buone ore notturne; a Natale, quando ogni ora notturna era di circa 75 minuti, il riposo raggiungeva le nostre nove ore, poi man mano si scendeva fino a un minimo di ore 6,15 nostre (quando Pasqua capitava verso il 20 aprile), ma allora forse si regolavano andando a letto un po' prima. Per tutto l'inverno, dunque, la durata del sonno oscillava tra le otto ore e mezzo e le sette ore.

3: Intervallo tra l'Ufficio notturno e quello del mattino

Il sonno piu` che sufficiente gia` concesso esclude che si ritorni a letto dopo l'Ufficio notturno. SB ritarda di quasi due ore la levata rispetto a RM, ma sopprime il "secondo sonno" concesso da RM dopo l'Ufficio notturno in inverno e dopo le lodi mattutine d'estate. In questo SB dipende da Cassiano (Inst.2,13; 3,5) che criticava l'uso del "secondo sonno" allora assai diffuso. Percio` dopo l'Ufficio notturno, i monaci di SB disponevano di un tempo piu' o meno lungo. I fratelli che ne avevano bisogno impiegavano tale tempo nello studio del salterio e delle lezioni (sono le "letture brevi" che si recitavano a memoria come viene detto in RB.9,10 e 12,4.

Nel testo originale c'e` la parola "meditationi" che non si deve intendere nel senso odierno di meditazione, ma nel senso di "esercizio-esercitarsi", che comporta insieme l'imparare a memoria e l'esercitarsi nella salmodia. E i fratelli che gia` sapevano il salterio a memoria, e che quindi non avevano bisogno di tale studio, cosa facevano? Certo non tornavano a letto; avranno impiegato tale tempo nella lettura o nella preghiera personale.

4: Levata d'estate

Per il periodo estivo non e' fissata un'ora precisa per la levata. Essa doveva essere regolata in modo tale che, tra l'Ufficio notturno e quello del mattino, ci fosse solo un piccolo intervallo. Nei mesi aprile-maggio e settembre-ottobre si hanno in media dalle 8 alle 7 ore di sonno continuo; a giugno di meno, fino a un minimo di 5 ore; ma forse si andava un po' piu` tardi all'Ufficio notturno (il quale d'estate e' piu` corto non essendoci le letture come si vedra` al c.10); la siesta prevista da SB (RB.48,5) serviva appunto a compensare il difetto del sonno notturno, specialmente nel periodo centrale.


CAPITOLO 9

Quanti salmi debbano dirsi nell'Ufficio notturno.

Quanti psalmi dicendi sunt nocturnis horis.

 

1-8: Prima parte dell'Ufficio (Primo Notturno)

Questo capitolo parla soltanto dell'Ufficio notturno feriale, del tempo ordinario, nel periodo invernale. Si inizia con il versetto "Signore, apri le mie labbra..." (salmo 50,17), che viene ripetuto tre volte in coro, nel silenzio della notte. SB mostra una certa predilezione per queste formule ternarie sia in onore della SS.ma Trinita`, sia per far penetrare piu` profondamente nel cuore dei monaci i concetti espressi dalle labbra. Il salmo 3 (aggiunto da SB, come detto sopra, forse e` scelto a motivo del v.5: "Io mi corico e mi addormento, mi sveglio perche` il Signore mi sostiene". Il Gloria Patri, breve e popolare dossologia, molto comune al tempo della controversia ariana, e` usato frequentemente da SB nel suo cursus liturgico; qui l'adopera, come alla fine di ogni salmo, secondo l'uso romano. Il salmo 94, "accompagnato dall'antifona, oppure cantato lentamente" (v.3), e` quello chiamato invitatorio, molto adatto al momento sia per l'inizio "Venite, applaudiamo al Signore...", che per il contenuto; era intercalato normalmente da un'antifona, cioe` un versetto con cui il coro si univa al canto del solista o dei solisti.

Per la parola "inno" (v.4), il testo ha ambrosianum, cioe` inni composti o attribuiti a S.Ambrogio. SB li introdusse sotto l'influsso della liturgia lerinese o milanese, mentre la chiesa romana li introdusse solo nel sec.XII.

Seguono i primi sei salmi con le antifone e poi un versetto. Quindi il lettore chiedeva la benedizione all'abate per leggere le letture. Si dice nel v.5 che a questo punto i fratelli si siedono: quindi bisogna dedurre che i salmi erano recitati tutti in piedi; cio` e` confermato dal fatto che SB per il Gloria dei salmi non ordina, come per i responsori (v.7), di alzarsi. E possiamo da qui notare la discrezione di SB che colloca le letture con i responsori dopo i primi sei salmi, mentre nell'Ufficio romano e in Cassiano (Inst.2,4-6) erano alla fine dei dodici salmi: percio` le letture, durante le quali i fratelli stavano seduti, costituivano un vero riposo fisico e spirituale, a meta` di un Ufficio lungo e pesante.

I responsori erano una forma di salmodia, responsoriale appunto, una specie di dialogo tra solista e coro. Si tratta qui del responsorio prolisso, abbastanza sviluppato nel testo e nella melodia (si vedano ad esempio i responsori della Settimana Santa), come si deduce dalla prescrizione di abbreviarli, insieme alle lezioni, qualora i monaci si fossero alzati tardi (RB.11,12); esistono poi anche i responsori brevi, a lodi e a vespro.

9-11: Seconda parte dell'Ufficio (Secondo Notturno)

Si parla ora del secondo notturno, con altri sei salmi; essi hanno per antifona l'alleluia per ricordare che la vita del monaco e` una vita pasquale in unione con Cristo risorto. Si intercalava l'alleluia, ma non sappiamo come e quante volte. Seguiva una lettura breve sia all'Ufficio notturno che a quello diurno.

La litania conclusiva e` la "supplicatio" di origine greca introdotta a Roma sotto Gelasio I (fine del sec.V): era una serie di invocazioni a cui il popolo rispondeva sempre "Kyrie eleison": corrispondono oggi alle invocazioni mattutine e intercessioni vespertine introdotte nella Liturgia delle Ore. Alcuni pensano che SB riservi la forma lunga con le intenzioni alle lodi e al vespro ("litania" RB,12,4; 13,11; 17,8), mentre alle Ore Minori e all'Ufficio notturno la riducesse solo all'elemento popolare Kyrie eleison.


CAPITOLO 10

Come debba celebrarsi l'Ufficio notturno in estate.

Qualiter aestatis tempore agatur nocturna laus.

1-3: D'estate Ufficio notturno piu` breve

Il capitolo precedente parlava della preghiera notturna d'inverno. Nel semestre estivo - da Pasqua a novembre - le notti sono corte; per poter celebrare le lodi mattutine all'alba, si deve anticipare la sveglia e sopprimere il tempo per lo studio dopo l'Ufficio notturno (RB.8,4). Il sonno e` accorciato di parecchio; per non restringerlo troppo, si abbrevia un po` anche l'Ufficio notturno; ma si deve mantenere il sacrosanto numero di dodici salmi: allora si sopprimono le lezioni, riducendole a una sola. a memoria, quindi breve, e seguita da un responsorio breve.


CAPITOLO 11

Come si debba svolgere l'Ufficio notturno nelle domeniche.

Qualiter diebus dominicis vigiliae agantur.

1: Ora della levata di domenica

L'insieme del monachesimo occidentale nel V e VI secolo ha praticato la vera vigilia (le grandi "vigiliae" con salmi e letture che duravano quasi tutta la notte ) ogni settimana. In RB e nell'ufficio romano questa vigilia lunga e` scomparsa e al suo posto rimane l'ufficio notturno allungato. Si puo` vedere in questo fatto una mitigazione della RB, ma anche la soluzione di alcune difficolta` di orario incontrate da altre regole che ritenevano le vigilie complete (in Francia il sabato e la domenica, in Italia solo la domenica); infatti molte regole parlano di espedienti contro i sonnolenti, S.Cesario, ad esempio, obbliga i monaci a rimanere in piedi o a fare qualche lavoro durante le letture per vincere il sonno, ecc. Allora, la riforma radicale di SB (l'abolizione della veglia completa) non e` un rilassamento ma un modo pratico per risolvere il problema: e` meglio, cioe`, dormire e riposare la prima parte della notte e vegliare poi nella preghiera e nella meditazione della Parola di Dio; si perde quindi di durata, ma si guadagna di intensita`; e anche la lectio divina del giorno di domenica a cui SB da` molto piu` tempo (RB.48,22) ne risultera` avvantaggiata. Abbiamo qui un esempio in piu` del primato spirituale sopra l'ascesi solo materiale.

Nonostante sia stata abolita la pratica della vigilia nel senso originale, il nome e` restato (25 volte in RB, come nel titolo di questo capitolo), ma ormai solo nel senso di Ufficio notturno, come appunto quello di "notturno".

2-10: Composizione dei tre "notturni" dell'Ufficio domenicale

L'Ufficio notturno domenicale e` un ampliamento di quello feriale; rimane invariato il numero dei dodici salmi, ma ci sono dodici lezioni con altrettanti responsori prolissi; il terzo notturno ha una struttura particolare, essendo composto di tre cantici dell'AT con alcuni elementi nuovi: "Te Deum", "Amen" dopo il Vangelo, "Te decet laus". De Vogue` pensa , non senza fondamento, che il vangelo proclamato dall'abate alla vigilia domenicale era sempre uno riguardante la risurrezione del Signore.

Un Ufficio cosi` ricco e vario occupava evidentemente buona parte della notte e comportava non poca fatica. Per celebrarlo con dignita` la comunita` doveva alzarsi molto prima degli altri giorni e d'estate il sono era ridotto veramente a poco. Quindi, nonostante l'abolizione della vigilia in quanto tale, abbiamo un ufficio notturno con una ampiezza e una solennita` degne della commemorazione settimanale della risurrezione del Signore.

11-13: Prescrizioni in caso di ritardo

Alzarsi tardi poteva piu` facilmente capitare in quei tempi, perche` mancavano gli orologi a suoneria. Mentre per il giorno avevano la clessidra, la meridiana, l'orologio idraulico e altri strumenti, la difficolta` era grandissima per la notte. Usavano vari espedienti, come per esempio il consumo di una candela, ma piu` spesso dovevano affidarsi al corso delle stelle o al canto del gallo; per tutti era necessaria una speciale attitudine a vegliare. Ma la negligenza, la distrazione, la sonnolenza entravano a volte in causa: SB ribadisce che tale disordine deve assolutamente evitarsi; troppa riverenza merita l'Opera di Dio perche` si debba abbreviare a causa di un ritardo nella sveglia. Si noti che l'abbreviazione, in caso, riguardera` letture e responsori, mai il "sacro" numero dei dodici salmi!


CAPITOLO 14

Come debba celebrarsi l'Ufficio notturno nelle feste dei santi.

In nataliciis sanctorum qualiter agantur vigiliae.

1-2: Nelle solennita`, Ufficio con tre Notturni come la domenica.

Nel titolo si parla solo delle feste dei santi, ma nel corpo del capitolo si tratta di tutte le altre solennita`, ossia le feste dei misteri del Signore: Pasqua, Natale, Epifania, Pentecoste, ecc. Per questo il calendario monastico si era adattato subito alla chiesa romana. Oltre alla B.Vergine Maria, al Battista e ad alcuni Apostoli, a Montecassino si saranno celebrati S.Martino e pochi altri: le feste dei santi erano molto rare.

In questi giorni la struttura dell'Ufficio notturno era quella domenicale, cioe` con il terzo notturno, con dodici lezioni e dodici responsori, soltanto che salmi, lezioni e responsori saranno stati propri di quel giorno festivo.


CAPITOLO 12

Come si celebra l'Ufficio delle Lodi.

Quomodo matutinorum sollemnitas agatur.

Preliminari: LODI, Ufficio del Mattino

L'Ufficio che SB chiama "matutini" o "matutinorum sollemnitas" (la parola "sollemnitas" sta al posto di "sinassi", "riunione liturgica", "Ufficio" come in Cassiano Inst.3,10 ecc.) e` poi rimasto con il nome di LAUDI ("Lodi mattutine" oggi) a causa dei salmi 148, 149 e 150 che conteneva e che la stessa Regola chiama Laudes (RB.12,4). Si dovevano celebrare sempre allo spuntar dell'alba (RB.8,4), era l'Ufficio del nuovo giorno che spuntava.

L'Ufficio delle Lodi e` antichissimo; ai cristiani era particolarmente caro perche` ricordava la risurrezione del Signore Gesu`, il trionfo della luce della grazia sulle tenebre dell'errore. Lo schema di SB dipende dall'Ufficio romano classico, eccetto il responsorio e l'inno. Nel c.12 si parla delle Lodi della domenica; nel c.13 delle Lodi dei giorni feriali.

1-4: Le Lodi domenicali

Il salmo 66 fa da introduzione; si eseguiva lentamente, per i ritardatari, come all'Ufficio notturno l'invitatorio. Poi c'era, con le antifone, il salmo 50 (fisso per tutti i giorni secondo una tradizione gia` antica), affinche` con il "Miserere" ci si purificasse prima di passare a cantare le lodi di Dio. Anche S.Basilio dice che nel far del giorno si soleva cantare "psalmum confessionis" <il salmo di confessione>. Poi veniva il salmo 117, che e` per eccellenza il salmo pasquale, il canto della risurrezione; quindi il salmo 62 che e` il piu` caratteristico come canto del mattino: "O Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco...". Seguono le "Benedictiones", cioe` il "Benedicite", il canto dei tre fanciulli nella fornace, e le "Laudes", cioe` i salmi 148.149.150 che chiudono il salterio e sono tutta una serie di inviti a lodare il Signore (sono considerati da SB un tutt'uno e sono fissi per tutti i giorni).

L'inno, aggiunto da SB, e` quello che piu` evidenzia il tema di Cristo-Luce. Il cantico del Vangelo (Benedictus) sta magnificamente al termine delle lodi mattutine, specialmente per i versetti: "verra` a visitarci dall'alto un sole che sorge, per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte", versetti cosi` appropriati nel momento in cui sta per sorgere il sole.

Nella conclusione la prece litanica probabilmente era completa, cioe` con le varie intenzioni cui si rispondeva: "Kyrie eleison..."

4: e cosi` si finisce... ,

ma vedremo al c.33 che bisognera` concludere con il Padre Nostro.


CAPITOLO 13

Come si celebrano le Lodi nei giorni feriali

Privatis diebus qualiter agantur matutini

 

1-11: Schema delle Lodi feriali

Nei giorni feriali rimangono fissi il salmo 66 come introduzione (recitato lentamente perche` tutti possano giungere), il salmo 50 e le "laudes", cioe` i salmi 148.149.150. Cambiano ogni giorno i due salmi dopo il 50 e il cantico dell'AT (corrispondente al "Benedicite" della domenica), come usa la chiesa romana (v.10).

12-14: L'orazione del Signore

Il Padre Nostro insegnato da Gesu` ebbe fin dagli inizi della chiesa il posto d'onore nella preghiera pubblica e privata. In Spagna si recitava solennemente nell'Ufficio divino e cosi` prescrive SB. In tutte le Ore il Padre Nostro si recitava al termine, ma sottovoce, fino al "E non ci indurre..."; ma per le Lodi e i Vespri, cioe` all'inizio e al termine del giorno, SB vuole che si reciti in maniera solenne, a voce alta, da parte del superiore, perche` i monaci si sentano obbligati dalla pubblica promessa di "rimettere i debiti" e si perdonino a vicenda le scandalorum spinae <le spine degli scandali>, cioe` le piccole ferite di ogni giorno, piccoli screzi o incomprensioni che anche in un'ottima comunita` ci sono sempre. Ricordiamo che nei primi secoli il Pater era considerato il mezzo ordinario per rimettere i peccati veniali: "I peccati - dice S.Agostino - anche se sono quotidiani, almeno non siano mortali; prima di avvicinarvi all'altare, badate a dire: dimitte nobis..." (Discorsi su Giovanni 26,11).

Speriamo che non avvenga dei monaci quello che racconta Cassiano (Coll.9,22) di certi cristiani che, arrivati a quel punto del Pater, passavano sotto silenzio il "dimitte nobis", naturalmente per non credersi obbligati al perdono...!


CAPITOLO 15

In quali tempi debba dirsi l'alleluia

Alleluia quibus temporibus dicatur

L'alleluia

Tra i capitoli sull'Ufficio notturno e mattutinale e quelli sull'Ufficio diurno, SB intercala un breve capitolo sull'uso dell'alleluia, parola ebraica che significa lodate Yahwe, che si trova al principio e alla fine di parecchi salmi ed era diventata una formula di giubilo. L'uso dell'alleluia differiva da chiesa a chiesa. Il rito romano classico riservava l'alleluia al tempo pasquale e, nelle domeniche, dal terzo notturno all'Ora di Nona.

L'uso dell'alleluia nella RM

Per la RM l'alleluia significa la speciale appartenenza dei "servi di Dio" al loro Signore (nell'Apocalisse 19,1ss i Santi sono presentati a cantare eternamente l'alleluia). Secondo la RM il monastero come "casa di Dio" rappresenta il cielo; vivere nel monastero equivale a vivere continuamente "con il Signore" in un eterno tempo pasquale, in una anticipazione della vita eterna (RM.13,72; 88,14; 95,23). Percio` la RM usa l'alleluia con singolare abbondanza rispetto al rito romano e alla tradizione lerinese (Lerins-Arles), assegnandolo a tutte le Ore dell'Ufficio feriale.

1-4: L'uso dell'alleluia nella RB

RB si conforma all'uso romano per le domeniche, cioe` l'alleluia dal terzo Notturno fino a Nona; invece, diversamente dall'Ufficio romano, prescrive l'alleluia nei giorni feriali al secondo Notturno. Naturalmente in Quaresima non si dira` mai l'alleluia, mentre da Pasqua a Pentecoste si dira` sempre, cioe` a tutte le Ore, anche nei responsori.


CAPITOLO 16

Quali siano i divini Uffici durante il giorno

Qualiter divina opera per diem agantur

1-5: Sette volte al giorno e una volta di notte

SB fissa le Ore canoniche per il giorno: sono sette senza contare l'Ufficio notturno e includendo l'Ora di Prima. Il numero sette, gia` considerato sacro nell'AT, lo e` per l'Ufficio divino in forza del citato v.164 del salmo 118 (certo, il salmista intende dire "sette volte" nel senso di "molte volte", ma la tradizione monastica vi ha visto indicato un numero preciso). SB non include l'Ufficio notturno, per il quale trova una giustificazione nell'altro versetto citato, il 62, del salmo 118. Quindi: "sette volte al giorno" (Lodi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro, Compieta) e "una volta la notte" (l'Ufficio vigiliare o notturno).

L'Ora di Prima...

L'Ora di Prima fu istituita, come narra Cassiano (Inst.3,4), nel monastero di Bethlehem, dove i monaci, dopo le Lodi, tornavano a letto; perche` alcuni pigri ne abusavano restandovi fino a Terza, fu introdotto un nuovo Ufficio al levar del sole per dare a tutti lo stimolo di alzarsi e recarsi al lavoro. Poi si diffuse pian piano anche in occidente fin dagli inizi del secolo VI.A Roma era in uso e da qui la derivo` SB (c'e` anche nella RM, manca in Cassiodoro e nell'Italia del Nord). Cassiano parla della resistenza che incontro` la nuova ora, la quale somiglia alle Lodi, ma piu` tardi prese sempre piu` il carattere di preparazione al lavoro. Ad essa SB da` una considerazione speciale, le assegna salmi particolari ogni giorno (mentre per Terza, Sesta e Nona ogni giorno fa ripetere gli stessi salmi).

Nel corso dei secoli l'Ora di Prima era diventata l'Ora di preparazione al lavoro anche nel senso di organizzazione della giornata: si recitava nella sala del

capitolo, si leggeva la Regola, il martirologio del giorno, gli anniversari di morte, l'abate dava gli avvisi o distribuiva incarichi particolari per quel giorno.

... Terza, Sesta e Nona, ...

Terza, Sesta e Nona risalgono a remotissima antichita` nella Chiesa. Ne parlano molti Padri. Furono scelte perche` salisse a Dio la lode nelle tre principali divisioni del giorno, ma fu loro assegnato anche un senso mistico: Terza ricorda la discesa dello Spirito Santo (vedi gli inni); Sesta ricorda la crocifissione di Gesu`; Nona e` l'ora in cui Gesu` discese agli inferi, in cui Pietro e Giovanni salivano al tempio a pregare (Atti 3,1), il centurione Cornelio ebbe la visione (Atti 10,3).

... Vespro, ...

Vespro corrisponde al sacrificio serale dell'AT, come le Lodi corrispondono a quello del mattino. Lodi e Vespro erano considerate le Ore piu` solenni; ad esse SB assegna i cantici evangelici Benedictus e Magnificat e il Pater recitato per intero dall'Abate "propter scandalorum spinas" <per le spine degli scandali> (RB.13,12-14). Il Vespro si celebrava al cominciare della notte. SB ne anticipa un po' l'ora per dar posto alla Compieta. Altri autori coevi e la RM usano anche il termine Lucernaria; SB solo la parola Vespera e non presenta traccia di rito lucernare: vuol dire che si attiene alla piu` pura tradizione romana, l'altro termine rimanda ad influssi liturgici non romani.

... Compieta.

Sulle origini e lo sviluppo di Compieta i liturgisti non sono d'accordo. E` conosciuta gia` da S.Basilio (il quale attesta anche l'uso in essa del salmo 90) e c'e` nell'Ufficio romano classico. Certo, la sua diffusione deve molto all'ordinamento di SB. La parola Completorium significa Ufficio che complet <conclude> l'Opus Dei e la giornata del monaco.


CAPITOLO 17

Quanti salmi debbano dirsi in queste Ore

Quot psalmi per easdem horas canendi sunt

1-10: Il numero dei salmi delle Ore diurne

Il numero di tre salmi per ogni Ora e` tradizionale (dall'oriente, all'Ufficio romano, alla RB) e si raggiunge cosi` il sacro numero di 12 (= 3 salmi x 4 Ore, cioe` 12 al giorno come 12 alla notte!). RM mette l'antifona a tutti e tre i salmi delle Ore minori, RB solo se la comunita` e` grande (v.6). A Compieta sempre i salmi senza antifona.

Cantare i salmi con l'antifona comportava piu` tempo e maggiore solennita`, le piccole comunita` non sempre potevano farlo. Tuttavia SB vuole che i salmi delle Ore minori siano recitati singillatim et non sub una Gloria <distinti e non sotto un solo Gloria> (v.2) forse perche` altrove accadeva che i salmi detti senza antifona perdevano anche il Gloria. SB vuole che le Ore minori possano avere salmi non antifonati, se la comunita` e` piccola, ma sempre ognuno con il proprio Gloria.

Le parole missae, missas (vv.4.5.8.10) significano semplicemente la fine dell'Ufficio, che a Compieta termina con la benedizione, alle altre Ore con il Pater. Non pare quindi che ci fosse la colletta conclusiva; e` certo che al Laterano fino al sec.XII il Pater sostituiva la colletta.


CAPITOLO 18

Con quale ordine debbano dirsi i salmi

Quo ordine ipsi psalmi dicendi sunt

1-21: Distribuzione del salterio

Delineato lo schema di tutte le Ore, SB ne designa i rispettivi salmi; finora li ha assegnati solo per le Lodi (cc.12-13), mettendo salmi particolarmente appropriati a quell'Ora; e cosi` fara` per Compieta (v.19: ogni giorno i salmi 4.90.133).

Per il resto, divide il salterio in vari gruppi, disposti sommariamente cosi`:

- salmi 1-19 a Prima (vv.2-6)

- salmi 20-108 all'Ufficio notturno (vv.20-21)

- salmi 109-117 e 128-147 a Vespro (vv.12-18)

- salmi 118-127 alle Ore minori (vv.7-11).

A differenza degli orientali, presso i quali il salterio era recitato solo nelle vigilie e nei vespri (i salmi erano raggruppati in sezioni stabili e inseparabili - carismi - che si seguivano senza interruzione), RB e il rito romano includono nella ripartizione settimanale tutte le Ore. Tuttavia anche in SB (e nel rito romano) abbiamo una lectio continua dei salmi (vedi schema sopra). La linea evolutiva della distribuzione del salterio e`: Bisanzio-Roma-RB. RB e` meno semplice, meno coerente, meno omogenea. Si pensi al caso di Prima che inizia il salterio dal lunedi` (v.3), mentre nel rito bizantino e romano il salterio comincia la domenica. Tutto fa ritenere che il salterio benedettino e` un'opera secondaria, su rimaneggiamenti del romano. Con questo, SB ha ottenuto due risultati: l'abbreviazione e la varieta`.

Avendo meno salmi da assegnare alle Opre primitive (Vigilie e Vespri), ha dovuto dividere quelli piu` lunghi, ridurre da cinque a quattro quelli del Vespro; ugualmente, tre strofe del salmo 118 (invece di sei come nel rito romano) alle Ore

minori. SB abbrevia anzitutto a causa del lavoro. L'Ufficio romano era per comunita` urbane; adattandolo a monasteri rurali ha dovuto abbreviare specialmente le Ore minori che interrompevano il lavoro giornaliero. Come gia` si e` detto, lo schema della RB corrisponde allo schema "A" del "Thesaurus" della Liturgia delle Ore nel rito monastico.

22-25: L'intero salterio in una settimana

Terminata l'esposizione del suo cursus liturgico, SB avverte che non intende imporre categoricamente la sua disposizione. Possiamo qui notare la liberta` lasciata dal santo all'iniziativa di altri, o anche la sua umilta` che non pretende di aver creato una struttura perfetta. Lascia quindi liberta`, ma a una condizione: che si salvaguardi la recita settimanale dell'intero salterio. E lo fa appellandosi ai Padri della vita monastica, evidenziando il contrasto tra "i nostri santi padri... alacremente... in un sol giorno" e "noi tiepidi... in una settimana". Pare che si alluda all'episodio delle Viate Patrum (3,6; 5,4.57): un egiziano ando` a visitare un altro, che lo volle ossequiare con una buona cena - un piatto di lenticchie! - ma prima lo invito` a pregare dicendo: Facciamo l'Opera di Dio (Opus Dei), e poi mangeremo". Ambedue erano tanto fervorosi che uno recito` l'intero salterio e l'altro (sempre a memoria, s’intende) due Profeti maggiori!

Insomma SB vuole stimolare l'ardore dei monaci (vedi fine cap.73), far vincere la tiepidezza e la negligenza, incitarli alla corsa continua, al fervore nella via della preghiera, per arrivare a quella preghiera senza interruzione ("Pregate incessantemente" 1Tess.5,17; Ef.6,18; cf.Rom.12,12; Fil.4,6; Col.4,2) di cui la preghiera a ore fisse in comune e` solo un mezzo e una tappa.


CAPITOLO 19

Atteggiamento durante l'Ufficio divino

De disciplina psallendi

Preliminari a RB.19-20: lo spirito dell'OPUS DEI

La sezione liturgica di SB si chiude con due brevi capitoli di contenuto diverso dai precedenti. RB.8-18 ha un aspetto - possiamo dire - piu` tecnico: si tratta di organizzare i vari uffici, precisarne le rubriche ecc...; RB.19-20 ha un aspetto piu` spirituale, precisa sopratutto le disposizioni interiori della preghiera.

I due capitoli: "Modo di celebrare il divino Ufficio" (RB.19) e "Riverenza nella preghiera" (RB.20) sono strettamente collegati, perche` salmodia e orazione silenziosa non sono altro che due aspetti di una medesima realta`, due momenti dell'aspirazione dell'anima verso Dio. La distinzione netta e rigorosa tra orazione comunitaria e orazione privata, tra orazione mentale e orazione vocale e` una cosa relativamente moderna. Il problema della relazione tra liturgia e contemplazione non si poneva affatto per la mentalita` degli antichi cristiani. Per gli antichi monaci, come per tutti i cristiani, non esisteva che una sola orazione, camminando o lavorando, nei campi o in monastero: colloquio personale con il Signore, colloquio fondamentalmente basato e mantenuto nella Scrittura e attraverso la Scrittura.

Quindi tutto l'ordinamento scrupoloso sull'Ufficio divino di RB.8-18 non deve trarre in inganno, quasi si vogliano escludere altre forme di orazione, quella che oggi siamo soliti chiamare personale o privata. Non e` cosi`:

Primo, perche` - come abbiamo visto - l'orazione segreta e interna costituiva una parte dell'Ufficio divino da intercalarsi, secondo l'uso monastico, alla recita dei salmi (orazione silenziosa dopo ogni salmo).

Secondo, perche` secondo la RB si chiama orazione tanto l'Ufficio divino, quanto l'orazione privata dentro o fuori del medesimo Ufficio; ambedue, cosi`, non sono che due aspetti di una medesima realta`.

Terzo, perche` per SB, come per tutto il monachesimo primitivo, tutta la vita del monaco senza eccezione era, alla fine dei conti, "Opus Dei" <Opera di Dio>. Tutta la vita del monaco era concepita come strettamente legata alla sua preghiera.

I capitoli 19-20 della RB dipendono da RM.47-48 che presuppongono una fonte comune che non e` facile determinare, con evidenti allusioni a Cassiano (Coll.23,6; Inst.2,10).

1-5: Citazioni scritturistiche

Il c.19, in cui si dice al monaco quale atteggiamento interiore deve avere durante la celebrazione dell'Ufficio divino, e` pieno del concetto della memoria Dei <ricordo di Dio>. La prima citazione, da Prov.15,3, l'abbiamo gia` incontrata in RB.7,26 nel primo gradino dell'umilta` che qui viene in pratica richiamato: e` la coscienza permanente della presenza di Dio, l'atteggiamento radicale di fede in cui Dio e` continuamente presente alla sua creatura. Ebbene, questa "memoria Dei" non deve abbandonare un istante il monaco sopratutto quando compie l'Opera di Dio per eccellenza, la preghiera comunitaria. Seguono tre citazioni dai salmi, frasi che tante volte ripetiamo all'Ufficio divino.

La prima, (v,3 - salmo 2,11) inculca il "timore di Dio", e` il rispetto profondissimo, unico, che costituisce il fondo di tutto l'atteggiamento religioso, che qui SB applica allo speciale servizio d'onore prestato a Dio nella lode pubblica.

La seconda citazione (v.4 - salmo 46,8) si riferisce alla "sapientia" con cui si deve salmodiare. "Psallite sapienter - cantate inni con arte": che cosa significa precisamente? Scienza, abilita`, arte, perfezione, accuratezza, precisione, attenzione? E` difficile precisarlo. Tutte queste cose insieme. Comunque, non c'e` dubbio che "sapienter" si riferisce anzitutto alle disposizioni spirituali dei monaci che celebrano l'Ufficio; non si tratta qui di rubriche o di cerimoniale (che pure hanno la loro importanza), qui si parla della disciplina dell'"uomo interiore".

La terza citazione (v.5 - salmo 137,1) ci trasferisce in una prospettiva molto ampia. Qui c'e` tutta la tradizione monastica sugli angeli e sulla relazione tra vita monastica e vita angelica, in ultima analisi tutta la prospettiva escatologica della vita monastica (e della vita cristiana in quanto tale). La RB vuol dire probabilmente che l'Ufficio divino dei monaci non e` solo anticipazione della liturgia celeste, ma anche una partecipazione del culto che gli angeli tributano a Dio. SB, cioe`, sente vivamente l'unione del cielo con la terra durante la celebrazione dell'Ufficio divino. Inoltre per lui l'Opus Dei non e` soltanto imitare cio` che gli angeli fanno in cielo; ma questi si rendono realmente presenti nella liturgia monastica e i monaci realizzano il servizio divino anche alla loro presenza, come dice espressamente il v.6.

6-9: Conclusione

Dopo le citazioni della S.Scrittura, SB tira le conclusioni: "Ergo - dunque...", e riassume tutta la spiritualita` dell'Ufficio divino con una brevissima ma scultorea frase: Mens nostra concordet voci nostrae <il nostro spirito concordi con la nostra voce>. SB ha presente l'insegnamento dei Padri; si veda sopratutto S.Agostino: "Quando pregate il Signore con salmi e inni, si volga nel cuore cio` che si esprime con le parole" (Epistola 211,7); o quest'altro bellissimo brano: "Se il salmo prega, pregate; se sospira, sospirate; se gioisce, gioite; se spera, sperate; se teme, temete" (Commento ai salmi, II sul salmo 30, discorso 3). La RM espone con molta prolissita` la stessa idea (RM.47,9-20), La brevissima frase di SB e` ancora piu` efficace.


CAPITOLO 20

La riverenza nella preghiera

De reverentia orationis

1-5: Qualita` dell'orazione

SB non definisce la preghiera; da` per scontato che i monaci per cui scrive sappiano bene che cosa sia. Il titolo stesso del capitolo risulta estremamente sobrio. "Riverenza" denota un atteggiamento generale della presenza di Dio, di timore nel senso biblico, che include umilta` e amore.

SB inizia con un argomento "a fortiori": "Se con i potenti..., tanto piu` con Dio..." (vv.1-2). Se la parola "rispetto" <reverentia, come nel titolo> richiama sopratutto l'atteggiamento dell'inferiore nei confronti del superiore, le parole "umilta`" e "purezza di devozione" del v.2 completano la disposizione dell'animo nella preghiera. "Devozione" ha il senso proprio di "dono di se` medesimo", abbandono, adesione piena e senza condizioni.

3: sobrieta` delle parole, purezza del cuore, compunzione:

Sono altre due qualita` che fanno parte della saggezza tradizionale del monachesimo. Alla "riverenza" formata di umilta` e di puro abbandono (= purezza di devozione, dei vv.1-2), si aggiungono ora la "sobrieta' delle parole", la "purezza del cuore" (cioe` quella coscienza monda dai vizi e dai peccati cui SB ha accennato sopratutto nel capitolo sull'umilta`, RB.7,12.18.29.70; vedi piu` sotto il significato della "puritas cordis") e la "compunzione" (anche negli strumenti delle buone opere (RB.4,57) e riguardo all'oratorio (RB.52,4) SB parla delle lacrime che accompagnano la preghiera). Poi SB conclude dicendo che la preghiera sia "breve" e "pura" (di nuovo!), a meno che non si prolunghi per ispirazione di Dio (v.4) e che comunque in comunita` sia breve (v.5).

Due problemi riguardo al c.20

A questo punto vediamo due problemi che sorgono spontaneamente da questo breve testo della Regola.

Primo problema. Che il c.20 parli della preghiera personale e` evidente; ma SB si riferisce si riferisce all'orazione privata fuori dell'Ufficio divino o anche - e forse in primo luogo - all'orazione salmica, cioe` alla preghiera silenziosa che i fratelli facevano prostrati a terra, dopo ogni salmo? Una risposta precisa non e` facile, perche` il testo non e` abbastanza chiaro. Tuttavia ci sono ragioni piu` valide per ritenere che SB in questo capitolo si riferisca anzitutto alla preghiera personale nell'ambito dell'Ufficio divino. La posizione stessa del capitolo, come termine finale della sezione dell'Ufficio divino e dopo il capitolo 19 sul modo di salmodiare, induce a credere che SB, mentre redigeva il testo, stesse pensando all'orazione silenziosa dopo i salmi in coro; poi all'improvviso, nel v.4, annoto` un'osservazione che gli venne in mente riguardo alla preghiera privata fuori dell'Ufficio (quando la si puo` protrarre per ispirazione divina); e difatti con la frase successiva posta in contrapposizione "ma in comune" del v.5, ritorna al tema originale, cioe` alla preghiera privata dopo ogni salmo, che doveva durare fino a quando il superiore dava il segnale (v.5) e tutti si levavano per cominciare la salmodia. La frase riecheggia le espressioni di Cassiano e di Pacomio sull'argomento (vedi quanto detto sopra sul modo di salmodiare degli antichi nell'introduzione a tutta la sezione liturgica). Si noti ancora che i passi paralleli della RM si riferiscono alla preghiera silenziosa dopo ogni salmo (RM.48,10-11). Tuttavia - ripetiamo - la questione non e` chiara. E forse e` meglio superarla pensando all'unita` della preghiera (comune e personale) presso i monaci (cf.sopra, preliminare al c.19)

Secondo problema. L'altra questione importante e` il significato preciso di certi termini con i quali SB descrive le qualita` della preghiera.

Balza agli occhi in questo c.20 la mancanza di citazioni bibliche, in contrasto con il c.19 che ne e` pieno (Tuttavia c'e` nel v.3 chiara l'allusione alle parole di Gesu` sulla preghiera in Matteo 6,7 e a tutto l'insegnamento della parabola del fariseo e del pubblicano in Luca 18,9-14).

In compenso, il capitolo intero e` pieno delle idee del monachesimo precedente sulla preghiera, e non solo le idee, ma il linguaggio, lo stile, i termini sono caratteristici della scuola sopratutto di Evagrio Pontico e di Cassiano. Cosi` la parola purezza appare in tre versetti consecutivi: "purezza di devozione" (v.2), "purezza del cuore" (v.3), "preghiera breve e pura" (v.4): ebbene, si tratta di espressioni tecniche di Cassiano e della sua spiritualita`.

puritas cordis, oratio pura

"Puritas" o piu` spesso "puritas cordis" indica la cima dell'itinerario ascetico-spirituale, cioe` la totale liberazione dalle passioni, la carita`, la perfetta armonia dell'uomo paradisiaco (Coll.10,7). Alla "puritas cordis" corrisponde la "oratio pura". Ci troviamo proprio alle vette della vita spirituale. i fatto, per Evagrio e per Cassiano "oratio pura" e` l'espressione tecnica per indicare l'orazione perfetta, la contemplazione suprema (Coll.9,8).

Che cosa rimane di tutto cio` in RB.20? Cioe`, come intende SB questa "puritas cordis", questa "oratio pura"? Certamente, SB e` influenzato da Cassiano; i termini che usa: devozione, compunzione, lacrime, si trovano tali e quali in Cassiano (Inst.5,17; Coll.3,71; 19,1 ecc...), come anche per la brevita' (Inst.2,10; Coll.9,36). Quindi si puo` dire che SB, con i vocaboli che utilizza, suggerisce l'ideale dell'orazione pura nel suo grado piu` elevato.

Pero`, ... suggerisce soltanto! Uomo pratico secondo Gesu` Cristo, non puo` con poche qualita` esposte sulla preghiera, proporre a semplici principianti le vette dell'orazione. La Regola, in effetti, non parla delle cime dell'orazione come le insegnano Evagrio e Cassiano, ma dell'orazione di tutti i giorni. Che SB voglia lanciare anche i suoi discepoli verso le "cime" e che lo desideri, non c'e` dubbio. Pero` le sue istruzioni, i suoi principi fondamentali si riferiscono all'immediato:

ora e qui la preghiera deve essere riverente, umile, piena di abbandono, breve e pura (cioe` intensa, senza distrazioni) e deve sgorgare da un cuore puro (cioe` sincero, senza macchia di peccato) e contrito. Tutto cio` SB lo ha espresso con quattro coppie consecutive di vocaboli:

- con umilta` e rispetto (v.1),

- con tutta umilta` e purezza di devozione (v.2),

- nella purezza del cuore e la compunzione delle lacrime (v.3),

- breve e pura (v.4)

Questo e` il senso del c.20 della Regola.


CAPITOLO 47

Il segnale per l'Ufficio divino

De significanda hora Operis Dei

Preliminari:
complementi alla sezione liturgica (RB.47; 50; 52)

Fuori della sezione propriamente liturgica, SB parla altre volte dell'Opus Dei, per esempio a proposito delle scomuniche (RB,23-30), dei ritardatari (RB.43-46), a proposito del dormitorio e del silenzio notturno (RB.22 e 42), a proposito dell'orario (RB.48) e altrove parlando della giornata e della vita del monaco, perche` l'Opus Dei e` nel monastero la cosa piu` importante a cui nulla si deve anteporre <nihil Operi Dei praeponatur, RB.43,3>.

Trattiamo cominque subito, in questa sezione, il capitolo sul segnale dell'Ufficio divino e le norme di recitazione (RB.47), sull'Ufficio divino fuori dell'oratorio (RB.50), sull'oratorio del monastero (RB.52).

1: Il segnale per l'Ufficio divino

Il titolo si riferisce solo alla prima parte del testo (v.1). SB aggiunge poi altre precisazioni che riguardano la disciplina in coro durante la celebrazione. Si dice anzitutto che la responsabilita` della puntuale celebrazione liturgica, di notte e di giorno, ricade sopratutto sull'abate, il quale o prende l'incarico lui stesso o lo affida a qualche fratello "molto attento". In un'epoca in cui le ore variavano da un giorno all'altro e in cui i procedimenti per calcolare il tempo erano piuttosto rudimentali, tale incarico era piu' difficile di quanto sembri a prima vista.

Il modo di dare il segnale era vario presso gli antichi monaci. Nei monasteri pacomiani si chiamava con la voce o si batteva uno strumento qualsiasi; le vergini di Santa Paola erano chiamate al canto dell'alleluia (S.Girolamo, Eistola 108,19); Cassiano riferisce che si bussava alle porte (Inst.4,12). Puo` darsi che SB pensi alla percussione di lamine di metallo o di tavolette. Il fascetto di verghe posto da qualche pittore in mano al santo, piu` che uno strumento penale, indica forse uno strumento destinato alla sveglia; nel caso, sarebbe stato il patriarca stesso - come dice qui il testo - a svegliare i monaci.

2-4: Disciplina del coro

Spetta ugualmente all'abate designare chi deve cantare o leggere. Il buon ordine della celebrazione e l'edificazione dell'assemblea esigono che facciano i solisti solo coloro che sono in grado di farlo, e cio` si riferisce tanto alla precisione materiale quanto alle disposizioni spirituali: umilta`, gravita` e grande riverenza (v.4).

Notiamo che il verbo imponere (v.2), piu` che "intonare" un salmo, significa qui recitarlo integralmente. Tuttavia cio` risulta piu` facile che "leggere" (v.3) per il fatto che i salmi si recitavano a memoria, mentre leggere nei manoscritti dell'epoca era un'impresa piu` complicata e certamente non erano molti i monaci che potevano farlo con competenza e soddisfazione di tutti.


CAPITOLO 50

Dei fratelli che lavorano lontano dall'oratorio o sono in viaggio

De fratribus qui longe ab oratorio laborant aut in via sunt

La veritas horarum delle celebrazioni liturgiche

L'Ufficio divino si celebrava normalmente nell'oratorio e alle ore stabilite, aderendo al senso storico e mistico che ogni ora possiede (quello che dopo la riforma liturgica si chiama la "verita' delle ore liturgiche"). Ora, poteva succedere a volte - o forse con frequenza - che alcuni monaci non potevano per lontananza trovarsi in coro tutte le volte che la comunita` si radunava.

1-3: I fratelli che lavorano lontano

Il primo caso che la RB contempla e` quello del lavoro. E` vero che SB vuole che abitualmente i lavori dei monaci si svolgano dentro la cinta del monastero (RB.66,6-7), ma a volte per vari motivi - sopratutto si pensi al lavoro dei campi - si poteva essere abbastanza distanti per accorrere alle varie Ore canoniche. Secondo la RM bastavano 50 passi di distanza per essere dispensati dall'andare in coro (RM.55,2), il che pare un po` ridicolo. SB lascia all'abate di giudicare se i monaci possono o no venire in coro.

In caso negativo, questi "celebrino l'Opera di Dio dove lavorano, inginocchiandosi con santo timore" (v.3). Che cosa significa quest'ultima frase? Vuole forse dire che il fatto di celebrare l'Ufficio fuori dell'oratorio non dispensa dal prostrarsi per l'orazione silenziosa che c'era dopo il canto di ogni salmo? Il luogo parallelo della RM.55,4 potrebbe far propendere per tale interpretazione. Oppure significa semplicemente di seguire le stesse rubriche che si seguono in coro; o ancora un avvertimento ai monaci di non prendersela alla leggera e alla sbrigativa, ma fare tutto con precisione e riverenza? Notiamo che SB da` per scontato che ogni monaco - non esisteva la distinzione tra chierico e non-chierico, tra professo semplice e professo solenne - ha l'obbligo dell'Ufficio divino.

4: I monaci in viaggio

Il secondo caso di assenza riguarda i fratelli in viaggio. Per questi SB dimostra un'assennata mitigazione e riserva: quando si viaggia, non sempre le circostanze permettono di seguire il completo cerimoniale o il perfetto orario; percio` i fratelli facciano come meglio possono.

Nell'ultima frase c'e` l'espressione servitutis pensum <debito del loro servizio, v.4.> per indicare la preghiera liturgica; in RB.49,5 la stessa espressione indica le varie osservanze del monaco. E` la stessa idea di tutta la vita del monaco come "servizio", "milizia di servizio" (RB.2,20) e di questo servizio l'espressione piu` alta e` appunto la lode di Dio. Ne` deve meravigliare l'idea di "debito": a volte la preghiera comune puo` essere pesante e costituire un vero sacrificio!

Notiamo che oggi, nelle odierne condizioni del lavoro monastico puo` essere piu` frequente l'assenza di qualcuno. E in piu` si permette (nello spirito anche di mitigazione che SB mette in questo capitolo: "come meglio possono", v.4) la congiunzione di alcune Ore canoniche. Dobbiamo pero` tendere con ogni sforzo alla "verita` delle Ore" e al ritmo della lode di Dio nei vari momenti della giornata.


CAPITOLO 52

L'oratorio del monastero

De oratorio monasterii

Questo capitoletto apporta un prezioso completamento alla sezione liturgica, perche` lascia intravedere dei prolungamenti alla preghiera comune nel corso della giornata. RB.52 corrisponde a RM 68, che pero` tratta soltanto del silenzio da osservarsi uscendo dall'oratorio: i monaci non debbono seguitare a canticchiare i salmi.

1: L'oratorio del monastero

Per comprendere la prima frase di SB (v.1), bisogna tener presente che era abbastanza normale per gli antichi fare qualche piccolo lavoro manuale mentre ascoltavano la salmodia del solista o le letture. Cosi` per i monaci egiziani, probabilmente anche nelle comunita` pacomiane. S.Cesario di Arles proibisce alle monache di lavorare durante l'Ufficio (Regula virginum, 10), pero` vuole qualche lavoretto durante l'Ufficio notturno per vincere il sonno (Ibid.15). In questo contesto si comprende la concisa ed energica frase di SB: "L'oratorio deve essere cio' che il suo nome significa" (v.1): la casa della preghiera non sara` mai per SB un laboratorio, ne` servira` talvolta a consumare i cibi, ne` fungera` mai da parlatorio, ne` diventera` un luogo, anche provvisorio, per deporre strumenti di lavoro o altri oggetti non destinati al culto.

2-3: Silenzio terminato l'Ufficio divino

Che nell'oratorio si celebra l'Opus Dei, si sa. SB ricorda qui (vv.2-3) che, terminato l'Ufficio divino, "tutti escano in silenzio"; e passa poi al tema che gli interessa particolarmente: l'orazione privata di ciascun monaco. Si deve mantenere nell'oratorio il massimo silenzio, perche` chi vuole possa continuare a pregare;

nell'oratorio in particolare Dio da` udienza ininterrottamente, la porta e` sempre aperta. SB vuole invitare velatamente a pregare con frequenza, come si deduce anche dal seguente v.4.

4-5: Preghiera privata anche in altri momenti

Non solo dopo l'Opus Dei, ma anche in altri momenti un fratello puo` sentirsi spinto alla preghiera. Cosi` veniamo a conoscere che durante la giornata ogni monaco puo` trovare l'opportunita` di qualche momento libero da dedicare alla sua preghiera privata, probabilmente durante il periodo della lettura. SB poi aggiunge delle condizioni sulla maniera di pregare : entri semplicemente e preghi, espressione nuda e semplice che non include alcun particolare metodo o schema di orazione; preghi e basta, cioe` massima liberta` e semplicita` nel procedimento secondo l'ispirazione di Dio.

Non a voce alta, cioe` senza alzare la voce, senza emettere gemiti e sospiri sonori, come si usava a volte presso gli antichi, ma con lacrime e fervore di cuore; richiama la "purezza di cuore" e la "compunzione delle lacrime" di RB 20,3 (Per preghiera e lacrime, cf. anche RB.4,57, uno strumento delle buone opere).

Lacrime e cuore sono come indizi dell'autenticita` della preghiera del monaco. Chi non vuole pregare in questo modo, non e` autorizzato a rimanere nell'oratorio (v.5), perche` l'oratorio deve essere solo luogo di preghiera e di incontro con Dio.


EXCURSUS SULLA PREGHIERA MONASTICA

Appendice alla sezione liturgica della RB

Abbiamo gia` avuto modo nel commento a questa sezione della RB di notare le caratteristiche e lo spirito della preghiera del monaco (vedi sopratutto l'introduzione a tutta la sezione cc.8-11 sull'Opus Dei e "lo spirito dell'Opera di Dio", sezione cc.19-20 nel Preliminare al c.19).

Vogliamo ora riflettere in maniera un po' piu` sistematica sulla preghiera, sul monaco come uomo di preghiera, su alcune caratteristiche della preghiera monastica.

SOMMARIO: Introduzione - I: Il monaco uomo di preghiera. II: Condizioni della preghiera. III: Alcune dimensioni della preghiera monastica 1) Si fonda sull'evento-Cristo; 2)Preghiera come memoria-presenza-attesa; 3) Preghiera liturgica (dimensione dell'ascolto; 4) Unione con la lectio divina; 5)Aspetto conoscitivo e comunionale; 6) Preghiera umile; 7) Accento sulla preghiera di lode e di ringraziamento. IV: Elementi classici della tecnica cristiana della preghiera 1) Celibato; 2) Solitudine e silenzio; 3) Veglia; 4) Digiuno. - Conclusione.

 

INTRODUZIONE

Parlare della Preghiera ("la" Preghiera, con la "P" maiuscola) e` una cosa estremamente difficile, anche se non mancano trattati eccellenti e studi teologici al riguardo, perche` si rimane sempre in superficie, in quanto la preghiera e` esperienza e nessuno la puo` comprendere se non la riceve, se non l'ha provata, se non la vive. E` stato detto, e giustamente, che per se` la preghiera non si puo` insegnare: primo, per un motivo psicologico, perche` la preghiera e` un rapporto d'amore con Dio e chi ama veramente sa come esprimerlo; e poi sopratutto per un motivo teologico, perche` la preghiera cristiana e` data dallo Spirito che prega in noi. Questa convinzione e` il primo passo verso la preghiera, altrimenti essa diventa un vuoto moltiplicarsi di parole (Mt.6,7). E` lo Spirito che scende nel nostro cuore per spingerci verso Dio e farci pregare; la preghiera del cristiano e` il gemito inesprimibile (Rom.8,26) dello Spirito Santo che abita in noi, e qui non esistono formule, ne` orari, ne` tecniche, ne` tempi, ne` luoghi: lo Spirito viene quando e come vuole (Giov.3,8), nella tempesta (Sofonia 1,15) come nella brezza leggera (1Re 19,12). E` chiaro che in questo senso la preghiera non si puo` insegnare.

Tuttavia l'atto della preghiera ha delle condizioni, delle dimensioni che possono essere oggetto di studio, di formazione e quindi d'insegnamento; in tal senso tentiamo questa esposizione sistematica.

I: IL MONACO UOMO DI PREGHIERA

Il monastero e` una "scuola del servizio divino" (RB.Prol.45) e di questo "servizio santo" (RB.5,3) la preghiera e` il momento centrale assolutamente primario: Nihil Operi Dei praeponatur <Nulla si anteponga all'Opera di Dio> (RB.43,3). SB vuole che i suoi monaci siano uomini di preghiera; non puo` essere altrimenti; il monaco, per definizione, e` un uomo di preghiera; il 'monaco autentico - dice S.Epifanio (Verba seniorum 12,6) - deve avere nel suo cuore continuamente l'orazione e la salmodia".

La RB sopratutto per la preghiera e` impregnata dell'ideale monastico divulgato da Cassiano (cf.commento al c.20); ebbene, nella prima (e fondamentale) delle sue "Collazioni" leggiamo: "Questo deve essere il nostro impegno principale, questo l'orientamento perpetuo del nostro cuore: che la nostra mente rimanga sempre unita a Dio e alle cose divine" (Coll.1,6). E nella nona: "Tutto il fine del monaco e la perfezione del cuore consiste nel perseverare in una orazione continua e ininterrotta e in quanto e` possibile all'umana fragilita`, si sforza di giungere a una immutabile tranquillita` di spirito e a una pureza perpetua"

(Coll.9,2). E ancora: "Il fine del monaco e la sua piu` alta perfezione consiste nell'orazione perfetta" (Coll.9,7).

E Rufino di Aquileia: "Il compito principale del monaco consiste nell'offrire a Dio un'orazione pura" (Per il concetto di "oratio pura", cf. commento al c.20). I monaci quindi, sulla scia di Cassiano, tendono a far si` che "tutta la vita e tutti i movimenti del cuore divengano una unica e ininterrotta preghiera" (Coll.10,7). I testi sono tantissimi; appare proprio che gli antichi monaci erano quasi ossessionati dall'ideale della "preghiera continua".

In questa preghiera continua si arriva man mano sempre piu` al bisogno di semplicita`, come la preghiera dello Spirito in noi che si limita ad un solo grido, ma indefinitamente balbettato : "abba - Padre" (Rom.8,15). E` la preghiera semplice che i Padri chiamavamo "monologia", cioe` costituita da poche parole o addirittura da una sola parola. Questa tradizione e` costante sia in Oriente che in Occidente; cosi` sono nate le cosiddette "giaculatorie". Numerose invocazioni molto brevi che la Bibbia ha conservato possono fornire sempre la nostra preghiera; il Vangelo e i Salmi ne sono una miniera. Per ciascuna situazione si puo` trovare la giaculatoria adatta, ascoltando lo Spirito Santo che ci tocca dal di dentro: "Signore Gesu', io credo; aiuta la mia incredulita`"; "Signore Gesu', che io veda"; "Signore Gesu`, tu lo sai che io ti amo"; "Signore Gesu`, non la mia ma la tua volonta`". La serie e` senza fine.

Cio` che la tradizione bizantina conosce sotto il nome di "Preghiera di Gesu`" (vedi ad esempio: "Racconti di un pellegrino russo") non e` che una forma di questa preghiera monologica, semplice, attorno al nome di Gesu` e ad una frase del Vangelo, quella del pubblicano: "Abbi pieta` di me peccatore". L'incessante invocazione del nome di Gesu`, il ricordo dolcissimo del suo nome tengono il posto della presenza stessa di Gesu`.

Tale tradizione la si incontra anche in Occidente; si pensi a S.Bernardo, per cui il nome di Gesu`, secondo il testo del Cantico (1,3), e` un "olio diffuso". Le principali di queste idee sono confluite in forma poetica nel noto inno medioevale "Jesu dulcis memoria" <Il ricordo dolcissimo di Gesu`> (vedi nel salterio, alla festa della Trasfigurazione e del S.Cuore).

Come si vede, tutta questa tradizione interpretava alla lettera i passi del NT "pregare sempre senza stancarsi" (Lc.18,1) e "pregate incessantemente" (1Tess.5,17; Efes.6,18; cf.Rom.12,12; Filip.4,6; Coloss.4,2).

SB e` in questa linea; tutto il suo ordinamento della preghiera intende stimolare l'ardore dei monaci (cf.fine c.18), lanciarli in una corsa continua, nel fervore sulla via della preghiera per arrivare a quella "preghiera senza interruzione" di cui la preghiera a ore fisse in comune e` solo un mezzo e una tappa. (DeVogue`).

Ebbene, noi monaci di oggi ci dobbiamo interrogare seriamente su come incarniamo questo ideale dei nostri Padri. Paolo VI disse una volta all'abate Braso` che spetta ad altri nella Chiesa penetrare nelle masse, proclamare il messaggio evangelico in un mondo secolarizzato; il monaco invece deve sforzarsi di vivere nel monastero la forma piu` elevata del contatto con Dio e della carita` fraterna: sono le due grandi dimensioni della vita monastica. Questo e` il nostro modo di proclamare il Vangelo. Siamo monaci sopratutto per questo: per creare un intimo, personale, profondo contatto con Dio. Tutto dovrebbe essere organizzato in funzione di questo scopo: la vita di preghiera; questa finalizza tutte le nostre attivita`: "siamo totalmente per questo - <in hoc toti positi sumus> - dice un antico commentario cistercense della Regola, e l'accento va messo su quel "toti". Senza di cio` manca la nostra testimonianza piu` specifica.

Naturalmente cio` non significa che dobbiamo stare tutto il giorno in coro a fare delle liturgie solennissime o prolisse; una cosa e` dire che siamo nati per il coro, una cosa e` dire che siamo nati per la preghiera. Bisogna fare cioe` della vita una preghiera e della preghiera una vita, bisogna vivere di preghiera come si vive di aria. E perche` la preghiera diventi una vita, bisogna abbattere quel muro di separazione che spesso c'e` tra il nostro pregare e le nostre attivita`; si tratta di superare in qualche modo la molteplicita` delle cose e attraverso le molte cose che facciamo, farne una sola.

Per chi e` convinto di questo, la preghiera non impedisce di essere attenti alle persone e alle cose; lavoro e preghiera si intrecciano per formare un tutt'uno, perche` lo Spirito prega in lui senza fine, la preghiera in lui non e` piu` legata a un tempo determinato, e` ininterrotta, e` tutta la vita. Notiamo questo bellissimo testo di S.Agostino: "Se ti metti a cantare con la voce, verra` un momento in cui dovrai tacere" <cum voce cantaveris, silebis aliquando>; ma: "vita sic canta, ut numquam sileas" <canta con la tua vita, in modo da non tacere mai> (Esposizione sul salmo 146,2).

Ma questo non si improvvisa, e` frutto di tutta un'esistenza.


II. CONDIZIONI DELLA PREGHIERA

Notiamo qui solo alcune condizioni che sono primordiali per la preghiera. Potremmo esprimerle cosi` schematicamente:

1) Nel mondo della fretta, la preghiera esige tempo e calma.

2) Nel mondo dei rumori, la preghiera domanda silenzio.

3) Nel mondo della distrazione, la preghiera domanda capacita` di raccoglimento.

 

III. ALCUNE DIMENSIONI DELLA PREGHIERA

1. Si fonda sull'evento-Cristo

La preghiera come atmosfera di vita nasce, si fonda e si alimenta continuamente sull'evento-Cristo, cioe` sul fatto di Cristo incarnato, morte e risorto. No si puo' parlare di preghiera al di fuori di questo evento fondamentale. Se pensiamo alla preghiera come un gesto, un "fare" dell'uomo, andiamo fuori strada. La preghiera altro non e` che essere coscientemente, umilmente inseriti nel fatto-Cristo. E questo gia` ci e` stato dato nel battesimo. Si tratta di riscoprirlo: infatti lo Spirito di Gesu` per primo balbetta in noi la nostra preghiera; allora dobbiamo rientrare in noi stessi, tornare al centro vero della nostra persona, liberare il cuore dalle sue scorie, e ascoltare lo Spirito che gia' prega in noi, lui che dal battesimo abita nei nostri cuori. Un monaco del nostro tempo, profondamente riempito e occupato dalla preghiera, ha detto: "Ho l'impressione che gia` da anni portavo la preghiera nel mio cuore senza saperlo. Era come una sorgente ricoperta da una pietra. Allora la sorgente si e` messa a sgorgare e da allora essa continua a sgorgare" (riportato da A.LOUF, Signore, insegnaci a pregare, p.23).

Con questa mentalita` si evita il rischio di pensare la preghiera come un fatto nostro, ma lo si fonda sull'evento-Cristo, sul fatto battesimale, si riconosce che e` lo Spirito che prega in noi con gemiti inesprimibili (Rom.8,26).

 

2. La preghiera come memoria-presenza-attesa

Rifacendosi al pensiero dei Padri, la teologia post-conciliare afferma che la vita cristiana nella sua natura profonda, nell'oggi della Chiesa e del singolo cristiano, e' la continuazione e il compimento della "historia salutis" <storia della salvezza>, dal momento dell'annuncio profetico e tipico dell'AT fino al momento culminante di piena realizzazione del Cristo pasquale.

Ora questo si deve vedere sopratutto nella preghiera. Preghiera come memoria dei "mirabilia Dei" <meraviglie operate da Dio> che per gli ebrei era la liberazione dall'Egitto, ma per noi e` la memoria della vita, morte e risurrezione di Cristo e diventa la trama di tutta la nostra esistenza quotidiana (le meraviglie di Dio in me, nella mia piccola storia della salvezza). Non si tratta di ricordare un fatto passato, "il Sacrificio di Cristo e`, oggettivamente, il significato e la consistenza di tutta la nostra vita, del cosmo e della storia, ieri, oggi e sempre. Percio` la memoria diventa senso della presenza (RB.19-20) di questo "Logos" misteriosamente e realmente presente ed efficace in noi e nelle cose. E allora questa coscienza continuamente rinnovata non puo` non trasformarsi in attesa del suo ritorno, in desiderio della manifestazione definitiva di Cristo. Mi pare che l'essenziale della nostra preghiera sia espresso dall'acclamazione che ripetiamo tutti i giorni durante la Messa: "Annunziamo la tua morte, Signore,, proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua venuta". (M.B.BOGGERO, Appunti sulla Regola di S.Benedetto, capp.4-7, p.136).

 

3. Preghiera liturgica

A questo punto appare evidente l'importanza di vivere la liturgia: la nostra preghiera sia o liturgica o agganciata alla liturgia. La liturgia, essendo proclamazione attualizzante della Parola e sacramento del mistero di Cristo e percio` sacramento della storia della salvezza in atto nella vita della Chiesa, come e` fons et culmen <fonte e culmine> della vita cristiana (SC.10), lo e` anche nella vita monastica. Nella liturgia si trovano unite in una sintesi vivente le varie forme del corpo di Cristo: il "Corpo Mistico" che e` la Chiesa; il "Corpo Verbale" che e` la Bibbia; il "Corpo carnale" che e` l'Eucarestia. Nella liturgia il Corpo Mistico che e` la Chiesa si unisce al Corpo glorioso presente nel sacramento e quindi anche al Corpo Verbale, la Parola di Dio (Magrassi).

In ogni atto liturgico il cristiano - il monaco - per rendere autentica la sua preghiera deve vivere in piena coscienza il suo "essere in Cristo" per mezzo dello Spirito, deve essere convinto che fare liturgia e` esercizio del nostro sacerdozio battesimale. Dovremmo educarci a rendere piu` viva, palpitante la nostra Eucarestia e la nostra preghiera corale, per evitare il rischio della routine, del formalismo, della "recita".

Di qui la necessita` assoluta per noi di approfondire la Parola di Dio (cf. piu` avanti, n.4), in particolare il salterio per la nostra preghiera comunitaria. Nelle scuole monastiche del medioevo l'istruzione cominciava sulle pagine del salterio, sul salterio si imparava a leggere, a cantare: era come la grammatica di tutto; letti, meditati, "ruminati", trascritti come esercizio, i salmi erano il testo su cui si espletava qualsiasi esercizio scolastico. Dobbiamo oggi rieducarci a questo, dobbiamo convincerci dell'importanza dei salmi per la nostra preghiera.

Tutte le meraviglie operate da Dio nella creazione, tutti i suoi comandamenti, tutti i benefici di Dio a Israele, tutto il messaggio profetico sfociano nei salmi come per capillarita` e diventano preghiera: nei salmi confluisce come preghiera tutta la storia della salvezza. Appare in essi il dialogo dell'alleanza tra Dio e il suo popolo, un popolo anche in cammino, in attesa, da cui doveva uscire, come segno massimo della ricerca di Dio e della risposta di Lui, Cristo Gesu`. In Cristo infatti i salmi dovevano adempiersi assieme alla legge e ai profeti (cf.Lc.24,44). E Gesu` prego` i salmi e li assunse come testimonianza della sua missione. E la Chiesa legge i salmi alla luce dell'evento-Cristo; noi usiamo i salmi nella coscienza che il Dio che preghiamo e` il Dio Padre, Padre del Signore Nostro Gesu` Cristo che prega i salmi, Padre per tutti noi in cui lo Spirito grida: "Abba`-Padre" (Gal.4,6). (E.BIANCHI, Il corvo di Elia, pp.53-55).

Ad evitare che la nostra salmodia sia vuota e arida, dobbiamo dedicare molto tempo allo studio e alla conoscenza del salterio.

Un altro mezzo (non si parla qui solo della salmodia, ma di tutta la preghiera liturgica) dobbiamo ricordare per insistervi, mezzo suggerito dalle norme liturgiche: quello delle pause di silenzio conosciute dall'antica tradizione monastica (vedi introduzione alla sezione liturgica), perche` vogliono essere il momento dell'approfondimento personale, della necessaria interiorizzazione di quanto comunitariamente viene celebrato nell'azione liturgica. Forse e` il momento psicologicamente piu` importante in una liturgia che voglia essere autentica preghiera. Infatti la preghiera liturgica, essendo intessuta di Parola di Dio, e` eminentemente dialogica: Dio parla - io anzitutto ascolto.

Per il monaco e` molto importante questa dimensione. La prima parola della RB e` "Ascolta, figlio" (Prol.1): un'anima monastica non puo` essere che un'anima in ascolto; ma ascoltare col desiderio intimo di accogliere la parola e di racchiuderla nel cuore perche` possa portare il suo frutto. Dio parla attraverso i testi, la sua Parola esige un risposta non solo da parte di tutta l'assemblea che e` in ascolto, ma anche da parte di ogni singolo, una risposta quindi strettamente personale, individuale. Le pause di silenzio, appunto, sono il momento di questa silenziosa risposta di ognuno. Inoltre il clima contemplativo della liturgia in genere e di quella monastica in specie, in gran parte, sara` dato proprio da questi silenzi, dal loro spessore di preghiera. A livello di formazione e` importante insistere su questo aspetto, educando a comprendere e a utilizzare questi spazi di silenzio (I.Sutto).

 

4. Unione con la lectio divina

Normalmente i momenti di silenzio nella preghiera sono brevi, come con saggia discrezione vuole la Regola (RB.20,5), proprio perche` momenti comunitari. Ecco perche` l'esigenza di un ulteriore tempo per l'approfondimento e l'assimilazione personale della Parola di Dio che e` stata l'oggetto dell'annuncio, del dialogo e del sacramento durante la celebrazione liturgica. A questo vuole provvedere la lectio divina.

La LECTIO DIVINA e` veramente la dottrina monastica sulla preghiera. Si intuisce la sua importanza nella formazione del monaco. La Parola di Dio scritta nei libri sacri - lo sappiamo - non e` stata detta da Dio soltanto nel momento in cui Egli parlo` al suo "portavoce", ma e` detta, nel senso piu` forte del termine, da Dio stesso ogni volta che il testo sacro viene proclamato in qualunque forma in una celebrazione liturgica (cf.SC.7; DV.21), perche` "la parola di Dio e` viva, efficace e piu` tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra..." (Ebr.4,12).

Dunque Dio parla a me, qui, io lo ascolto e gli rispondo: dialogo, quindi, con una persona viva che mi interpella e mi coinvolge in una comunione di vita (cioe` non e` solo un fatto conoscitivo, o uno studio esegetico). L'attualizzazione della Parola di Dio per me, hic et nunc, e` il perno della lectio divina: "Oggi si compie in voi questa Scrittura" (Lc.4,21): il passaggio del Mar Rosso, come la manna nel deserto, il vino miracoloso a Cana, come la guarigione del sordomuto... "oggi si compie in voi". Questa e` la suprema esegesi.

E' importante questa teologia nella formazione alla lectio e alla preghiera monastica. (Cf. piu` avanti: Excursus sulla Lectio Divina in appendice a RB.48).

 

5. Aspetto conoscitivo e comunionale

Possiamo a questo punto comprendere due caratteristiche tradizionali della preghiera monastica: quella gnostica <conoscitiva> e quella comunionale. "Gnosi" in greco significa "conoscenza" ed e` importante nel NT, sopratutto in Giovanni e Paolo: "... perche` siate in grado di comprendere quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondita` e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza" (Efes.3,17; cf.1,17); "... giungano a penetrare nella pefetta conoscenza del mistero di Dio, cioe` Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza" (Colos.2,2-3). Teologia, gnosi, e` la conoscenza del mistero di Cristo, dentro le cose, nel mondo e nelle persone. Si tratta prima di tutto di un atto di fede: il culmine e` saper vedere le persone e le cose intorno (prima di tutto in monastero!) come parti del mistero di Cristo che vive nella storia (BOGGERO, pp.138-139).

Arriviamo cosi` all'altro punto fondamentale, tradizionale della preghiera monastica: la preghiera come comunione con tutto e con tutti. Pensiamo sopratutto alla nostra preghiera comunitaria. Si capisce come per SB non esista una chiara divisione tra preghiera liturgica comunitaria e preghiera cosiddetta "privata" (cf. quanto detto sopra, nei preliminari ai cc.19-20), proprio perche` quest'ultima (la RB la prevede esplicitamente in 52,4-5) sara` preghiera fatta in privato, ma sempre preghiera comune in quanto inserimento nel mistero di Cristo che, unico, unisce tutti gli uomini.

Si tratta qui di verificarci continuamente. Siamo coscienti che la preghiera e` fattore di comunione? Riesce essa a informare di se` tutta la vita comune, il lavoro, i rapporti, l'aiuto fraterno? La nostra preghiera comunitaria e` liturgia, propria della "ecclesia", popolo di Dio "adunato nell'unita` del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (S.Cipriano), per celebrare i "magnalia Dei".

Per questo non si fa liturgia vera se non si fa "Koinonia", comunione vera; la celebrazione liturgica e` il momento in cui la comunione si crea e si cementa, come anche il momento in cui se ne fa la verifica. Ricordiamo quanta importanza SB (diversamente da Cassiano e da RM) da` al fatto comunitario, seguendo in questo la tradizione di Basilio e di Agostino: la comunita` monastica ad immagine della prima comunita` cristiana di Gerusalemme. E questo si "sente" se esiste in una comunita` orante. Rendiamoci conto che non puo` esserci autentica preghiera, anche "privata", se non arriviamo ad essa impegnati seriamente in uno sforzo di costruzione comunitaria, cioe` vivendo rapporti di vera carita`.

 

6. Preghiera umile

Mettiamo ancora un'altra caratteristica fondamentale della preghiera monastica: l'umilta'. Sappiamo l'importanza che da` SB a tutto il cammino dell'umilta`, vista proprio come itinerario spirituale del monaco (cf.RB.7). La preghiera ci e` donata in Cristo, non viene da noi, in fondo anche quel poco di coscienza che ne abbiamo viene da Dio; quindi sottolineiamo questa gratuita` dal parte del Signore.

Ma la preghiera del monaco e` umile sopratutto perche` siamo poveri, perche` siamo peccatori; nonostante tutta la ricchezza di Parola, di Sacramento, di comunione che ci e` data, continuamente cadiamo in infedelta`, nella incoerenza piu` grossolana, e ci adagiamo in una meschina mediocrita`. Come appare da SB (RB.20,3), la preghiera del monaco ha come modello la preghiera del pubblicano (Lc.18,9-14), cosciente della maesta` e della grandezza del dono di Dio; ma appunto per questo, e tanto piu`, cosciente della propria miseria e indegnita`. Senza coscienza della propria miseria, non puo` esserci approfondimento del mistero di Cristo; e la lode, il ringraziamento non possono scaturire che da una preghiera umile, da un cuore contrito. Ricordiamo che SB parla ripetutamente di compunzione e di lacrime nella preghiera (RB.4,57; 20,2-3; 52,4).

 

7. Accento sulla preghiera di lode e di ringraziamento

Un'attitudine ritengo debba essere posta in evidenza nella nostra preghiera monastica. Si sa che la preghiera e` anche petizione; Gesu` lo ha insegnato chiaramente nel Vangelo (Mt.7,7; Lc.11,5-11; si veda sulla preghiera di domanda un interessantissimo capitolo in E.BIANCI, Il corvo di Elia, pp.105-117).

Pero` dobbiamo porre l'accento maggiormente sulla preghiera di adorazione e di lode, che e` la forma piu` alta della preghiera di amicizia, intessuta di un dialogo di amore. Si sa che per molta gente pregare significa solo chiedere (anzi spesso ci si ricorda di pregare solo nel bisogno).

Ebbene, noi abbiamo conosciuto che Dio ci ha amati per primo. Ed e` qui allora che viene spontanea anzitutto la preghiera di ringraziamento, "eterno e` il suo amore per noi" (salmo 135), grido di stupore, di meraviglia. I cristiani sembrano aver dimenticato questo sentimento di fronte a Dio; invece dovrebbe essere proprio l'inizio del nostro guardare a lui: Meravigliarsi di Dio, 'Egli solo ha compiuto meraviglie" (salmo 135,4). La componente dell'ammirazione era molto presente nella nostra spiritualita` medioevale: "stupor et admiratio" <stupore e meraviglia>, quante volte ricorrono questi termini nei testi monastici!. Questo incontrarsi davanti al panorama meraviglioso della grandezza di Dio e della storia sacra! Ecco perche` cantiamo al Signore: "Perche` sprecate tanto tempo a cantare?" ci dicono a volte. Il canto e` proprio questa esigenza fondamentale della lode, e` dire a Dio tutta la gioia che proviamo davanti alla sua bellezza. E notiamo che e` un passo ancora piu` avanti lodare Iddio non solo per i suoi benefici, ma per se stesso, per la sua grandezza e la sua bellezza: "Ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, <propter magnam gloriam tuam>, diciamo nel Gloria della Messa.

La liturgia e` piena di questa dimensione, sopratutto i salmi e i cantici biblici che usiamo nel nostro Opus Dei; l'atteggiamento prevalente nei salmi e` proprio quello della lode: "Sognore, nostro Dio, quanto e` grande il tuo nome su tutta la terra!" (salmo 8,2); "I cieli narrano la gloria di Dio e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento" (salmo 18,2); "Lodate il Signore con la cetra, con l'arpa a dieci corde a lui cantate; cantate al Signore un canto nuovo, suonate la cetra con arte e acclamate" (salmo 32,2-3); "Cantate al Signore, benedite il suo nome..., in mezzo ai popoli raccontate la sua gloria..., grande e` il Signore e degno di ogni lode" (salmo 95,2.3.4); "Esaltate il Signore nostro Dio, perche` e` santo" (salmo 98,3.5.9); "Grande e` il Signore e degno di ogni lode, la sua grandezza non si puo` misurare... Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli" (salmo 144,3.10). Cosi` tutti i salmi alleluiatici, in particolare il piccolo Hallel, cioe` i salmi 145-150 che iniziano tutti con la parola "Lodate..." ("Lodate il Signore, e` bello cantare al nostro Dio, dolce e` lodarlo come a lui conviene", salmo 146,1), fino al grande inno universale di lode, grandiosa dossologia finale del salterio, il salmo 150, in cui ogni emistichio comincia con la parola "lodate..., lodatelo...". Cosi` ancora in cantico dei tre fanciulli nella fornace: Dan.3,52-90.

Impossibile fare un elenco di tutti i testi della Scrittura. Insomma, questa della lode e` la piu` alta forma di preghiera (anche perche` la piu` disinteressata e gratuita) e su questa dovremmo educarci, in modo da offrire al Signore nei nostri cori monastici sopratutto questo "sacrificium laudis" <sacrificio di lode> (salmo 49,14).

 

 

IV. ELEMENTI CLASSICI DELLA TECNICA CRISTIANA DELLA PREGHIERA

Come utile complemento a questo excursus sulla preghiera, diamo un cenno su alcuni elementi classici della tecnica cristiana della preghiera, riassumendoli dall'opera di A.LOUF, Signore, insegnaci a pregare, pp.83-120. Tali elementi si ritrovano nella maggior parte delle varie esperienza di preghiera, sia nei testo del NT, sia nei mistici moderni; si incontrano anche nella mistica non cristiana. Si potrebbe supporre allora che questi elementi formino una specie di base naturale umana, su cui e` piu` facile che si sviluppi la preghiera. Naturalmente tutte queste "tecniche" sono al servizio e dipendono dall'azione dello Spirito Santo e devono diventare segno ed espressione della nostra morte e della nostra risurrezione con Cristo.

Questi elementi sono: Celibato, solitudine e silenzio, veglia, digiuno, sull'esempio di Gesu` il quale non era sposato, aveva una preferenza per la solitudine, passava molte notti in preghiera, digiuno` per quaranta giorni nel deserto.

 

1. Celibato

Il celibato e la verginita` sono al servizio della preghiera (1Cor.6,17; 7,32-34), cosi` pure l'astinenza periodica dalle relazioni sessuali nel matrimonio "... di comune accordo e temporaneamente per attendere alla preghiera" (1Cor.7,5). Infatti anche nella vita sessuale vi e` una dinamica che deve essere liberata a vantaggio dello spirito e della preghiera.

L'uomo e la donna secondo la Bibbia sono creati ad immagine di Dio (Gen.1,27) e nei loro dati specifici di mascolinita` e femminilita` rappresentano l'amore di Dio; la pienezza dell'amore di Dio e` normalmente resa e vissuta nell'unione dei due: nel Signore - dice S.Paolo - ne` la donna e` senza l'uomo, ne` l'uomo senza la donna (1Cor.11,11). In via generale l'uomo trova equilibrio e pace nel legame con l'altro sesso, che per lui e` la sua seconda "meta`' dell'immagine di Dio. Ora, ogni forma di astinenza sessuale rende disponibili le forze interiori mobilitate in una vita sessuale normale. Allorche` poi uno sceglie volontariamente il celibato per amore di Cristo e della preghiera, avviene qualcosa nel suo corpo e nella sua dinamica sessuale che tende a ristrutturare tutta la sua persona e a favorire la sua preghiera e l'unione con Cristo Gesu`.

Se cosi` non fosse, il celibato avrebbe il grande rischio di una immaturita` affettiva (e puo` succedere in molti); invece anche il celibato fa appello alla dinamica sessuale dell'uomo o della donna: deve essere la prova vissuta che l'amore di Dio appaga tutto. E diviene una vera tecnica di preghiera nella grazia dello Spirito Santo; perche` il rinunciare ad esprimere con il matrimonio l'attrazione verso l'altro polo della propria personalita`, attrazione voluta dal creatore, libera nel piu` profondo del nostro essere il valore spirituale di cui l'altro polo e` il segno. Il celibato puo` aprire cosi` la via verso la preghiera. S.Paolo lo sottolinea vigorosamente in 1Cor.7,35, quando consiglia il celibato perche` da` la possibilita` di (traducendo letteralmente) "intrattenersi lungamente con il Signore senza essere frastornati da Lui". E` forse questa la migliore descrizione di cio` che la preghiera e` chiamata a divenire.

L'espressione paolina rievoca l'immagine di Maria seduta ai piedi di Gesu` per ascoltare la parola senza lasciarsi distogliere dalle varie faccende domestiche (Lc.10,39). "L'uomo e la donna attraverso il celibato e la preghiera ritrovano cosi` l'altra loro "meta`" in Dio..., finche` Dio sia tutto in tutti (1Cor.15,28) nell'uomo come nella donna; finche` il loro corpo non sia spirito, pur senza mai cessare di essere corpo, ma divenuto ormai tempio dello Spirito e casa di preghiera" (A.LOUF, p.91; ma si legga tutto il paragrafo, che e` bellissimo, su celibato e preghiera, pp.84-92).

 

2. Solitudine e silenzio

Quando Gesu` voleva pregare, spesso si separava dagli altri e si appartava in luoghi solitari, montagna o deserto (Mc.1,35; 1,45; 6,31; Mt.14,13; Lc.4,1; 4,42; 6,12); pare che egli veda un certo nesso tra solitudine e preghiera.

Vediamo oggi che l'uomo di citta` desidera, a fine settimana o almeno una volta l'anno, appartarsi un po` dal mondo, dal quale si sente sempre assediato. Vi sono poi certe categorie di persone o certe situazioni che esigono una particolare solitudine, ad esempio l'artista, il pensatore, gli innamorati. Molto piu` profonda e` la visuale di colui o di colei che cerca la solitudine in vista della preghiera; la solitudine e il silenzio costituiscono l'ambiente in cui la parola di Dio trova la sua piena risonanza. Ci si ritira per attendere a Dio, "vacare Deo". Pensiamo ai termini dei primi eremiti: "anakoresis" = ritiro; "esykia" = quiete (da cui il termine 'esicasmo'); "shelyo" in siriaco = inazione; "quies" = riposo.

Ogni genere di solitudine ci fa riflettere su noi stessi e su Dio, sulla nostra estrema poverta` e sulla misericordia di Dio. E` risaputa tutta la teologia e il simbolismo del deserto presso i Padri e gli antichi monaci (aspetto che oggi si molto riscoprendo). Come il popolo di Dio fu provato e formato nel deserto durante quarant'anni, cosi` anche Gesu` fu condotto nel deserto per esservi tentato e per imparare e insegnare a non vivere solamente di pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Chiunque cerca la solitudine in vista della preghiera partecipa di questa grazia.

Il deserto e` proprio un itinerario spirituale: e` il luogo della tentazione e della prova per eccellenza (vedi per il popolo ebraico, per Antonio il Grande e gli altri anacoreti); il luogo in cui l'uomo esperimenta la propria pochezza e nullita`, la temporaneita` e la provvisorieta` delle cose create e di questo mondo; il luogo in cui l'uomo scopre la propria verita`, in cui e` messo a confronto con la tentazione della noia, della depressione, del desiderio di evasione (la tentazione classica della "acedia" <accidia>; e allora l'uomo si abbandona a Dio: ecco quindi il deserto come luogo di purificazione della fede, e come manifestazione di Dio, (vedi Abramo, Mose`, Elia...), come luogo di incontro particolare e intimo col Signore: "Ecco, la attirero` a me, la condurro` nel deserto e parlero` al suo cuore" (Osea 2,16-17).

La Chiesa fa ancora in molti modi l'esperienza della solitudine nella sua situazione di diaspora in mezzo al mondo; pellegrina sulla terra, deve imparare ad andare avanti solo per fede, a fondarsi solo sulla Parola di Dio, sui suoi segni (i sacramenti). Cosi` ogni cristiano, sopratutto alcuni per una vocazione speciale nella Chiesa, devono lasciar posto nella loro vita spirituale al deserto. In questo senso solitudine e silenzio sono luoghi privilegiati dell'incontro con Dio nella preghiera. (Vedi tutto l'argomento "il deserto come terra spirituale" in E.BIANCHI, Il corvo di Elia, pp.153-171).

3. Veglia

Quando Gesu` si apparta per pregare, lo fa preferibilmente di notte (Lc.6,12; 9,18; 22,45) ed esorta i discepoli a "vegliare e pregare" (Mt.25,41). Il suo

esempio e` stato seguito dai cristiani; la veglia notturna e` un dato universale nel cristianesimo, sia praticata in comune nella liturgia, sia in privato nell'ascesi personale. Qual'e` il significato della veglia per la preghiera?

Prescindiamo da certe risposte che sono pur valide, ma non attingono al mistero cristiano della veglia, per esempio che la notte porta maggiore calma per pregare, che il silenzio notturno della natura aiuta a rientrare in se stessi, che l'oscurita` aiuta a non distrarsi... Ma piu` profondamente bisogna inserire la tecnica della veglia nella dinamica del mistero di Cristo. La Chiesa e` tutta tesa verso il ritorno di Cristo e la venuta del suo Regno; Gesu` viene chiamato "Colui che era, che e` e che viene" (Apoc.1,4), abbraccia i tre momenti del tempo: passato, presente e futuro. Ma poiche` Gesu` e` sempre in procinto di venire, la Chiesa deve vegliare senza interruzione; essa e` vigile per attendere il suo Signore e Sposo: "Vegliate, dunque,..." (Mc.13,35-37). Sappiamo che la sua venuta coincidera` con una grande prova; ecco perche` la preghiera si accompagna alla vigilanza "per non cadere in tentazione" (Mt.26,41).

La preghiera di veglia e` dunque orientata verso la duplice realta` della fine dei tempi: il ritorno di Gesu` e la grande prova che la precede. La forza della veglia risiede nella forza della preghiera che lo Spirito ci insegna e pronuncia in noi "Maranatha" <vieni, Signore Gesu`> (Apoc.22,20): e` la preghiera della sposa che attende lo Sposo (Mt.25,10).

Ogni cristiano ha la vocazione particolare di consacrare alla preghiera una certa parte della notte; per i monaci, poi, cio` e` stato sempre una tradizione e una esigenza. La durata ha poca importanza; anche una veglia brevissima - che consistera` nell'andare a riposo un po` piu` tardi o alzarsi un po` piu` presto - e` opera dello Spirito Santo in noi e puo` produrre frutti di preghiera.

4. Digiuno

L'assenza di Gesu` e la nostra perseveranza nell'attesa della sua venuta si esprimono anche in un altro modo nella nostra vita: il digiuno. "... Lo Sposo verra` loro tolto e allora digiuneranno" (Mt.9,14-15). Il digiuno del cristiano e` il segno che Gesu` viene e che la grande prova e` gia` alle porte.

Anche per Gesu` la grande prova nel deserto e` andata di pari passo col digiuno, e supero` la tentazione solo armato della Parola si Dop (Mt.4,1-11); la solitudine, la veglia, il digiuno furono per lui, uomo di questo mondo, la scuola dove apprese a pregare. Cosi` per il cristiano: il digiuno e` in rapporto con la preghiera; colui che digiuna vuole significare nel suo corpo come l'uomo non viva solamente di pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (Deut.8,3; Mt.4,4); viene il giorno poi in cui lo Spirito fa nascere la fame e la sete del Dio vivente, dominando la nutrizione materiale: "L'anima mia ha sete di te..."(salmo 41,2; 62,2) e solo Gesu` sazia: "Chi ha sete venga a me e beva..." (Giov.7,37-39).

 

Ecco come vanno visti questi elementi classici della tecnica cristiana della preghiera applicati al monaco: il celibato lo rende "libero per il Signore"; nella solitudine e nel silenzio egli esperimenta tutto l'itinerario di fede, dalla sua pochezza e nudita` alla misericordia di Dio che lo chiama a un colloquio intimo con lui, cuore a cuore; con la veglia quasi supera il tempo e assomiglia agli angeli che giorno e notte contemplano il volto di Dio; con il digiuno e` messo in grado di vivere nel suo proprio essere la fame profonda di tutta la creazione in attesa (Rom.8,19), fame che non puo` mai essere appagata in un corpo, fame che lo Spirito solo puo` saziare.


CONCLUSIONE

Gli antichi monaci hanno avuto il continuo pensiero della preghiera, erano quasi "ossessionati" - potremmo dire - dall'ideale della preghiera continua. SB parla di "oratio pura" e di "puritas cordis" (RB.20,1.3.4) e, come gia` detto nel commento, dipende in cio` da Cassiano. Cassiano chiama "pura" l'orazione di chi ha raggiunto la "puritas cordis", cioe` la perfetta purezza del cuore attraverso un cammino di ascesi, di purificazione da ogni peccato. Questa purificazione e` la condizione perche` lo Spirito Santo possa infondere nel cuore la carita` perfetta, come dice anche SB al termine della scala dell'umilta` (RB.7,67-70). E la carita` perfetta si esprime nell'"oratio pura" che ha varie forme, secondo Cassiano, sempre piu` alte fino alla famosa oratio ignita <preghiera di fuoco> (Coll.9,25) o quella ancora piu` perfetta secondo Antonio, del monaco che non ha piu` coscienza di pregare (Coll.9,31). Tale preghiera e` una risposta alla Parola di Dio sperimentata come "propria" perche` attualizzata nella propria vita, come dice espressamente Cassiano in testi molto belli (Coll.14,9-10; 10,11).

Non si tratta quindi di contemplazione di tipo platonico, ma di autentica esperienza di Dio a cui SB vuole condurre il suo monaco "cercato da Dio" tra la folla (Prol.14) e quindi "cercatore di Dio" lui stesso (RB.58,7), come risposta a quella chiamata. Commentando il salmo 14, SB invita il monaco a meritare di entrare nella "tenda del Regno" (Prol.21.23.24.39). Ricordiamo che c'e` l'allusione alla "tenda del convegno" dove Mose` si intratteneva con Dio "bocca a bocca" (Deut,34,10); inoltre in tutta la tradizione patristica il salmo 14 era visto come espressione della vocazione monastica: il monaco quindi e` chiamato ad arrivare a quella esperienza forte di Dio, come Mose`.

Per il NT pero` la "vera" tenda del convegno (di cui quella dell'Esodo era figura) e` l'umanita` assunta dal Verbo nell'Incarnazione perche` egli "ha posto la sua tenda in mezzo a noi" (Giov.1,14). "Nel Verbo fatto carne, cioe`, e` avvenuto l'incontro definitivo dell'uomo con Dio, e il Lui soltanto ormai ogni uomo puo` incontrarlo. Il monaco, chiamato in modo singolare a questo incontro, anzi a fare della ricerca di quest'incontro il suo unico interesse, l'unico scopo della sua vita, e` invitato ad entrare in questa tenda, a "dimorarvi" (Prol.39) per mezzo dell'ascolto orante della Parola, nella sequela dell'obbedienza della fede, sino alla partecipazione piena al mistero della Pasqua (Prol.50), nel momento sacramentale della liturgia e poi nella vita, che in tal modo si va facendo "nuova", "cristiforme" per opera dello Spirito donatogli da Cristo Signore.

Nel vangelo di Giovanni Cristo stesso promette l'esperienza di Dio, quando parla di un suo "manifestarsi" a colui che, traducendo il proprio amore in obbedienza ai suoi precetti, diviene dimora del Padre e del Figlio (Giov.14,21.23); e quando solennemente afferma: "Questa e la vita eterna, che conoscano te, l'unico vero Dio e colui che hai mandato Gesu` Cristo" (Giov.17,3). In quel verbo "conoscere" sappiamo che e` sottesa tutta la ricchezza e la profondita` dell'ebraico "jada", intraducibile nelle nostre lingue: un conoscere, frutto di amore, un penetrare vitale, un mutuo possedersi come quello degli sposi (infatti e` il verbo usato dalla Scrittura anche per il mutuo donarsi sponsale). E` quel conoscere sapienziale di cui parlano tanto spesso le lettere di Paolo (Efes.3,19; Filp.3,10; Coloss.1,10; 2,2-3; 3,10 ecc.), oggetto dell'appassionata preghiera dell'Apostolo per i suoi cristiani, conoscenza che si identifica chiaramente con la fede adulta di ogni fedele, non privilegio di anime di eccezione.

Questa e` la sostanza dell'"oratio pura" additata dalla Regola al monaco come la "sua" preghiera. Questa e` la "contemplatio", ultimo momento della lectio divina (I.Sutto).

* * *


NOTA BIBLIOGRAFICA
(testi usati per questo excursus sulla preghiera monastica)

BIANCHI, E. Il corvo di Elia, Gribaudi, 5.ed., Torino 1977.

BOGGERO, M.B. Appunti sulla Regola di San Benedetto (capitoli 4-7), pro manuscripto, Fabriano 1979, pp.135-143.

CABITZA, I. L'ascolto del monaco Rosano 1979, pp.129-140.

COLOMBAS, G. La Regla de San Benito, Madrid 1979, pp.345-362.

DE VOGUE, A. La Regle de Saint Benoit, vol.II, Parigi 1977, pp.184-189.

LOUF, A. Signore, insegnaci a pregare, Marietti, Casale 1976.

MAGRASSI, M. Preghiera, liturgia, lectio divina, Faenza 1970.

MARMION, C. Cristo ideale del monaco, conferenze XIV-XV-XVI.

PENCO, G. - VAGAGGINI, C. La preghiera...", Ed.Paoline, Roma 1964.

SUTTO, I. La comunita` monastica, scuola di preghiera. Formazione dei suoi membri, Relazione al Convegno monastico di Collevalenza, Luglio 1981, in: AA.VV. Monastero: scuola di preghiera, Parma 1983, pp.25-46.


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21 giugno 2014                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net