LE ISTITUZIONI CENOBITICHE
di GIOVANNI CASSIANO
LIBRO SETTIMO
LO SPIRITO D'AVARIZIA
"Libera traduzione"
Link al testo latino con traduzione a fronte
CAPITOLO 1
Il nostro terzo combattimento è contro l'avarizia (o filargiria), che possiamo
chiamare l'amore del denaro. Guerra esterna, guerra estranea alla nostra natura.
Presso il monaco, essa prende origine soltanto da un cuore corrotto ed
intorpidito dall’ignavia; più spesso deriva da un cattivo inizio della rinuncia
al mondo, che non è stata abbracciata con le disposizioni adatte e che si
fondava su un tiepido amore verso Dio.
Gli altri vizi hanno la loro semente nella natura dell'uomo ed i loro principi
sembrano innati in noi; in un certo qual modo si trovano dentro le viscere del
nostro essere e, quasi contemporanei della nascita, impediscono il discernimento
del bene e del male. Inoltre, pur essendo i primi ad attaccarci, li superiamo
soltanto dopo lunghi sforzi.
CAPITOLO 2. Quanto sia pericolosa la malattia dell'avarizia.
Questa malattia, al contrario, sopravviene soltanto più tardi ed è dall'esterno
che arriva all’anima. Ma, più è facile evitarla o respingerla e più, se la si
trascura o se la si lascia introdurre nel cuore, essa diventa più pericolosa di
tutte le altre a causa degli effetti disastrosi che scatena e della difficoltà a
liberarsene. Essa diventa “la radice di tutti i mali„ (1 Tim 6,10) e su di essa
fruttificano i molteplici incitamenti dei vizi.
CAPITOLO 3. I vizi che ci sono naturali possono esserci utili.
Non vediamo forse che i primi moti della carne si manifestano nei bambini, che
non solo non conoscono ancora il bene ed il male, ma che sono ancora dei
lattanti? Questi innocenti provano già le primizie della concupiscenza e
mostrano che queste eccitazioni sono inerenti alla loro natura. Non vediamo
anche la collera agitare i fanciulli prima che possano sapere cosa sia la
pazienza? Non sono forse turbati dalle ingiurie e troppo sensibili alle parole
che diciamo loro ed ai rimproveri che indirizziamo loro, anche solo per scherzo?
E talvolta, benché manchino loro le forze, non vorrebbero vendicarsi e
soddisfare la loro ira?
Non dico ciò per accusare la natura, ma per mostrare che, fra i moti che
procedono dal nostro interno, ve ne sono alcuni che la Provvidenza vi ha
inserito per una ragione d'utilità, ed altri che si introducono dall'esterno a
causa della nostra negligenza e della nostra cattiva volontà. Poiché i moti
della carne, di cui ho parlato, sono stati messi in noi dalla Provvidenza del
Creatore per servire alla propagazione del genere umano, ma non per commettere i
crimini e gli adulteri, che la legge di Dio condanna.
I moti della collera possono anche esserci utili, se li rivoltiamo contro i
nostri vizi ed i nostri errori, per applicarci meglio in seguito alla pratica
delle virtù ed agli esercizi spirituali, dimostrando più amore verso Dio e più
pazienza verso i nostri fratelli. La tristezza ha anche la sua utilità, sebbene
sia computata fra i vizi, quando si trasforma in uno stato d’animo opposto. La
tristezza che viene dal timore di Dio è tanto necessaria quanto è nociva quella
che viene dal mondo. L'Apostolo ce l'insegna: “La tristezza secondo Dio produce
un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del
mondo produce la morte„ (2 Cor 7, 10).
CAPITOLO 4. Noi diciamo di avere dentro di noi le passioni viziose, ma non per
questo intendiamo accusare Dio.
Possiamo rimproverare al Creatore di avere messo in noi questi moti, se ne
abusiamo e ce ne serviamo per il male; se vogliamo rattristarci per cose inutili
e momentanee, anziché farlo come penitenza e per correggere i nostri vizi; se,
nonostante il divieto divino, siamo irritati contro i nostri fratelli, anziché
esserlo utilmente contro noi stessi? Il ferro che è stato preparato per un buon
impiego può servire a commettere un crimine. Accuseremo chi lo ha forgiato, se
qualcuno usa per un fine malvagio lo strumento che era destinato agli impieghi
ed alle necessità della vita?
CAPITOLO 5. Ci sono vizi che sono estranei alla nostra natura, ma che contraiamo
per nostra colpa.
Diciamo tuttavia che ci sono vizi che si formano in noi senza che la natura vi
abbia dato occasione, ma che provengono soltanto da una volontà malvagia e
corrotta: l’invidia, ad esempio, e l'avarizia, che non trovano alcun germe nella
nostra natura, ma che vengono a noi da una causa esterna. Quanto questi vizi
siano facili da evitare e da distruggere fin dall'origine, altrettanto l’anima
fatica a liberarsene quando ne è posseduta, ed è quasi impossibile trovare
rimedi per guarirne. E ciò perché non meritano di essere curati con affrettati
medicamenti coloro che si sono lasciati ferire da parte di nemici che avrebbero
potuto così facilmente ignorare o evitare o superare facilmente. Quando si
trascurano così le fondamenta, si è indegni di costruire l’edificio delle virtù
ed arrivare al vertice della perfezione.
CAPITOLO 6. Quanto è difficile eliminare il morbo dell'avarizia, una volta che
ne siamo posseduti.
Che nessuno consideri questa malattia dell'avarizia tollerabile e di scarso
valore. Se inizialmente è facile evitarla, una volta che ci colpisce è difficile
guarirne. Diventa il focolaio di tutti i vizi, la radice di tutti i mali, il
lievito di un’incredibile malizia. L'Apostolo dice così: “L’avidità del denaro
infatti è la radice di tutti i mali „ (1 Tm 6,10).
CAPITOLO 7. Come si genera l'avarizia, e quali mali produce.
Quando questa passione si impossessa del cuore di un monaco che è tiepido e
rilassato, lo tenta inizialmente in piccole cose; gli presenta i pretesti,
giusti e apparentemente ragionevoli, che egli ha per conservare o guadagnare un
po' di denaro. Ciò che gli viene dato dal monastero non è sufficiente, e solo un
corpo sano e robusto potrebbe a mala pena accontentarsi. Cosa farebbe, se si
ammalasse e se non si fosse riservato qualche mezzo per sostenersi? L'aiuto
fornito dal monastero è bene poca cosa e si trascurano sempre molto gli
ammalati. Se allora non ha nulla per la propria salute, dovrà dunque morire di
miseria. E anche l'abito che gli viene dato non è sufficiente, a meno di
provvedere il necessario per procurarne un altro?
Potrà infine sempre rimanere nello stesso luogo e nello stesso monastero? E se
non si procura le spese del viaggio e di che pagare il suo posto su un vascello,
non potrà andarsene quando lo vorrà. Sarà forzato, dalla mancanza di denaro, a
condurre una vita laboriosa e miserevole, senza nessun profitto; sarà sempre
povero, mancando di tutto e ricevendo i rimproveri di coloro che lo sosterranno.
Quando l'avarizia l’ha irretito con questi pensieri, egli cerca come poter
guadagnare anche soltanto un denaro. Il suo spirito si mette alla ricerca di un
lavoro lucrativo che possa fare all'insaputa dell'abate. Poi ne vende
segretamente il profitto ed il denaro che ha ricevuto lo stimola a guadagnarne
maggiormente. Si preoccupa del luogo dove lo nasconderà, della persona alla
quale lo affiderà; quindi si tormenta ancor più fortemente lo spirito per sapere
ciò che acquisterà e con quale sistema lo raddoppierà. Quando poi riuscirà ad
esaudire i suoi desideri, la sete dell'oro aumenterà sempre; più guadagnerà, più
vorrà guadagnare. All’aumentare del denaro crescerà la frenesia dell’avidità.
Si ripromette allora una lunga vita; si vede incurvato dalla vecchiaia e
tormentato da ogni tipo di lunghe infermità, e che non potrà mai sopportare se
non avrà accumulato molto durante la sua gioventù. Perciò questa infelice anima
è come prigioniera nelle spire di un serpente e si agita per aumentare questo
tesoro così male acquisito con mezzi più colpevoli ancora; così accenderà lei
stessa un fuoco le cui fiamme la consumeranno più terribilmente. Quest’anima non
pensa più dentro di sé che a guadagnare denaro per sfuggire più in fretta
possibile alla disciplina del monastero, e nulla la ferma non appena può sperare
in qualche profitto.
Perciò la menzogna, lo spergiuro ed il furto non la spaventano; non temerà di
mancare alla sua parola o di andare in collera, se qualcuno le farà perdere la
speranza di un guadagno; non si spaventa di superare i limiti dell’onestà e
dell’umiltà. L’oro e la speranza del guadagno sono il suo dio, così come per
altri è il ventre. Quindi l'Apostolo, vedendo gli effetti perniciosi di questa
malattia, non dichiara soltanto che essa è la radice di tutti i mali, ma che è
una vera idolatria: “Fate morire la cupidigia (che in greco si chiama
φιλαργυρία
= filargiria), che è idolatria„ (Col 3,5).
Vedi dunque a quali mali conduce, per gradi, questa furia di possedere, al punto
che l'Apostolo la chiama un culto di idoli e di simulacri. Colui che doveva
conservare questa immagine di Dio senza macchia nel suo cuore, servendolo con
amore, preferisce le figure che gli uomini fanno con l’oro; le ama e le
contempla al posto di Dio.
CAPITOLO 8. L’avarizia ostacola tutte le virtù.
Dopo tali progressioni nel male, il monaco abbandona l'umiltà, la carità,
l'obbedienza. Non pensa più alla virtù e non cerca neanche di conservarne
l'apparenza. Si indigna di tutto; si lamenta e mormora di tutto ciò che gli
fanno fare; non ha rispetto per nessuno e somiglia al cavallo indomato che non
si riesce a fermare sul bordo dell'abisso. Il vitto e l'abito ordinario non gli
bastano più e dichiara che non sopporterà più a lungo questo stato di cose. Dio
non è soltanto nel monastero e può trovare altrove la sua salvezza; e gemendo
sostiene anche che, se non se ne va subito, la sua rovina sarà immediata.
CAPITOLO 9. Un monaco che possiede denaro non può restare in un monastero.
Di conseguenza questo monaco ha nel denaro il viatico per la sua instabilità.
Guadagnando il denaro necessario per il suo viaggio, gli sembra di avere ali per
volare ed è sempre pronto a partire. Risponde con insolenza a tutto ciò che gli
si comanda; si considera come un forestiero, un estraneo, e trascura e disprezza
tutto ciò che vede in lui bisognoso di correzione.
Sebbene abbia del denaro nascosto, si lamenta di non avere scarpe ed abiti, e si
indigna perché li riceve troppo tardi. Se si accorge che, per ordine di un
anziano, viene fornito prima di lui qualche fratello che manca di tutto, entra
in una rabbia violenta e si immagina che lo si tratti come un estraneo. Non si
accontenta di non prestarsi ad alcun lavoro, ma critica tutto ciò che viene
realizzato nel monastero, anche le cose più utili e più necessarie; ricerca con
cura tutte le occasioni di lagnarsi e di entrare in collera, affinché non sembri
lasciare la disciplina del monastero per un futile motivo. Ma siccome teme, se
parte da solo, che si pensi che è partito solo per una sua colpa, egli prova a
trascinare altri con segrete maldicenze. Se il rigore del tempo, le difficoltà
della strada o della navigazione lo tengono prigioniero, il suo cuore rimane
esitante ed ansioso per tutto il tempo dell’attesa, ma non cessa di seminare e
stimolare il malcontento. È accusando e disonorando il suo monastero che vuole
giustificare la sua partenza e la sua incostanza.
CAPITOLO 10. A quale fatica l’avarizia sottomette il disertore del monastero,
che prima mormorava a causa dei lavori più leggeri.
Il suo denaro lo agita e lo brucia sempre più, poiché un monaco che ne possiede,
non può restare in un monastero o vivere sottoposto alla sua regola. La sua
passione, come una bestia feroce, lo separa dal gregge e, quando è isolato dai
suoi fratelli, è più facile farlo diventare la sua preda. Lui che rifiutava di
fare persino i lavori meno penosi, l'avarizia lo costringe ora a lavorare, notte
e giorno, nella speranza di guadagnare qualcosa. Non gli permette più di pregare
con gli altri, di digiunare, di vegliare regolarmente, e gli proibisce le
occupazioni oneste che potrebbero essergli utili; occorre soddisfare la sua
frenesia di possedere e provvedere a tutti i suoi desideri. Questo monaco attiva
il fuoco della sua avarizia, credendo di estinguerla con maggiori acquisizioni.
CAPITOLO 11. Col pretesto della custodia del denaro, il monaco cerca di
convivere con le donne.
Molti monaci, che già scivolavano verso questo spaventoso abisso, sono stati
trascinati con irrevocabile rovina nell’abisso della morte. Non contenti di
possedere ciò che non avevano mai avuto nel mondo, o ciò che si erano riservati
con una falsa rinuncia, cercano di convivere con donne che debbano custodire
questo denaro che hanno ammassato o conservato in modo illecito. Si fanno
trascinare in così tante preoccupazioni nocive e perniciose, che sembrano già
caduti nel profondo degli inferi, anziché seguire i consigli dell'Apostolo che
ha detto: “Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci,
accontentiamoci” (1 Tm 6,8) di ciò che offre la frugalità del monastero. Essi
invece: “vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti
desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella
perdizione” (1 Tm 6,9); L'amore del denaro, cioè l’avarizia o filargiria, è
infatti la radice di tutti i mali; “presi da questo desiderio, alcuni hanno
deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti” (1 Tm 6,10).
CAPITOLO 12. Esempio di un monaco tiepido che era vincolato dai lacci
dell’avarizia.
Conosco qualcuno che si ritiene monaco e che, ciò che è più triste ancora, si
compiace di essere perfetto. Costui è stato accolto in un monastero ed il suo
abate lo ammoniva di non pensare più alle cose che aveva abbandonato e di
fuggire dai vincoli mondani e dall'avarizia, che è la radice di tutti i mali.
Gli diceva inoltre che, se avesse voluto purificarsi delle sue vecchie passioni,
che sembravano tormentarlo ancora crudelmente e continuamente, doveva cessare di
amare ciò che non possedeva neanche prima, perché i suoi desideri gli avrebbero
impedito certamente di correggersi dei suoi difetti. E lui, con atteggiamento
insolente, non esitò a rispondere: “Se tu hai di che nutrire tante persone,
perché mi proibisci di possedere allo stesso modo? „
CAPITOLO 13. Gli anziani devono rendersi utili ai giovani nella correzione dei
vizi.
Che nessuno giudichi ciò che dico superfluo o fastidioso. Se non si espongono
inizialmente i vari tipi di malattie, se non si spiega la loro origine e le loro
cause, sarà impossibile applicare ai pazienti i rimedi opportuni e fornire a
coloro che stanno bene i mezzi per conservare perfetta la loro salute. Infatti
gli anziani, che hanno visto tante cadute e rovine, hanno preso l’abitudine di
dire queste cose, ed altre ancora, nelle conferenze per l’istruzione dei
giovani. E spesso, mentre li ascoltavo parlare così e rivelare la loro
esperienza, da uomini soggetti loro stessi all’assalto di tali passioni, io
riconoscevo in me più di un tratto di ciò che dicevano; questa era la guarigione
risparmiandomi la vergogna perché, pur restando in silenzio, avevo appreso nello
stesso momento sia la causa che il rimedio dei vizi che mi tormentavano. Io ho
qui dissimulato o passato sotto silenzio questi insegnamenti, non per timore
della comunità dei fratelli, ma poiché questo libro potrebbe cadere in mano a
persone non ancora istruite alla vita monastica che potrebbero divulgare ad
inesperti quegli insegnamenti che devono essere conosciuti solo da coloro che si
affaticano senza indugio nel loro cammino verso il culmine della perfezione.
CAPITOLO 14. Il morbo dell’avarizia è di tre tipi.
Ci sono tre forme di questa malattia, verso i quali tutti i Padri hanno un
orrore uguale. La prima, di cui abbiamo già prima descritto la devastazione, è
quella che smarrisce quei monaci infelici, persuadendoli ad accumulare dei beni
che non possedevano neanche nel mondo. La seconda è quella che li spinge a
riprendere i beni ai quali avevano rinunciato inizialmente. La terza è quella
che non permette di spogliarsi interamente della loro fortuna, perché la loro
separazione dalle cose di questo mondo non è perfetta fin dal principio, e
questa malattia ispira all’anima avvelenata da questa tiepidezza una sfiducia
piena di timore per il futuro ed il terrore della povertà. Questo denaro o i
beni che si riservano e che dovrebbero abbandonare, impediranno loro sempre di
raggiungere la perfezione evangelica.
Troviamo, nelle sante Scritture, esempi di queste tre cadute che sono state
punite coi più gravi castighi. Giezi volle acquisire beni che non possedeva
prima e non soltanto non meritò di ottenere il dono della profezia che poteva
sperare come un'eredità del suo maestro ma, al contrario, egli fu condannato
dalla maledizione di santo Eliseo ad una lebbra incurabile (cfr. 2 Re 5,20-27 =
4 Re Vulg.). Giuda volle riprendere il denaro che aveva lasciato seguendo Cristo
e non soltanto perse, con il tradimento del suo Signore, la dignità d'apostolo,
ma non meritò neanche una morte naturale, terminando la sua vita con una morte
violenta (cfr. Mt 27,5). Infine Anania e Safira, per avere conservato una parte
dei beni che possedevano, furono puniti di morte per bocca dell’apostolo Pietro
(cfr. At 5,5-10).
CAPITOLO 15. La differenza tra chi rinuncia male e chi non rinuncia.
A coloro che dicono di avere rinunciato al mondo e che, scoraggiati per la
mancanza di fede, temono di spogliarsi delle ricchezze della terra, ecco ciò che
raccomanda in modo mistico il Deuteronomio: "C’è qualcuno che abbia paura e a
cui venga meno il coraggio?" Non parta per la guerra: "Vada, torni a casa,
perché il coraggio dei suoi fratelli non venga a mancare come il suo" (Dt 20,8).
Cosa c’è di più chiaro di questa testimonianza? Non è ovvio, secondo la
Scrittura, che è meglio non abbracciare una professione ed usurpare il nome di
monaco, piuttosto che allontanare in seguito gli altri della perfezione
evangelica, con i cattivi consigli ed esempi, indebolendoli con timori ispirati
dalla mancanza di fede? Viene loro ordinato di allontanarsi del combattimento e
di tornare alla loro casa, perché colui che ha il cuore sdoppiato non è adatto a
combattere le battaglie del Signore: “Un uomo così ... è un indeciso
(Letteralmente “con l’animo duplice”), instabile in tutte le sue azioni „ (Gc
1,8). Pensino anche alla parabola del Vangelo, dove un re che avanza con
diecimila uomini non può lottare contro un altro che ne ha ventimila (cfr. Lc
14,31-32). Chiedano anche loro la pace, intanto che è ancora lontano. Cioè non
si impegnino nella via della rinuncia, per seguirla in seguito con tepore e con
ciò vincolarsi in maggiori pericoli. “È meglio non fare voti, piuttosto che
farne ed essere infedeli” (Sir 5,4 LXX). E’ ben detto che uno viene con
diecimila uomini e l'altro con ventimila, poiché il numero dei vizi che ci
assalgono è più grande di quello delle virtù che ci difendono. “Non potete
servire Dio e la ricchezza” (Mt 6,24). “Nessuno che mette mano all’aratro e poi
si volge indietro è adatto per il regno di Dio„ (Lc 9,62).
CAPITOLO 16. Quale testimonianza della Scrittura trovano come pretesto coloro
che non vogliono spogliarsi dei loro beni.
Costoro perciò si sforzano di trovare un pretesto alla loro primitiva avarizia
nell’autorità della santa Scrittura; interpretano in modo errato non solo le
parole dell'Apostolo, ma anche quelle di nostro Signore, alterandole e
piegandole ai loro desideri, perché non è la loro vita ed il loro spirito che
vogliono sottoporre ai sensi della Scrittura, ma vogliono forzare la Scrittura
per servire la loro passione ed al fine di trovare un accordo con le loro
opinioni. Allora dicono che sta scritto: “Si è più beati nel dare che nel
ricevere! „ (At 20,35) E, con un'interpretazione completamente falsa, si
immaginano di indebolire questa parola del Signore che dice: “Se vuoi essere
perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel
cielo; e vieni! Seguimi! „ (Mt 19,21). Essi sostengono, sotto questo pretesto,
che non devono abbandonare le loro ricchezze, poiché saranno più felici nel
servirsi dei loro beni per alleviare gli altri con la loro sovrabbondanza.
Intanto arrossiscono nel dover abbracciare con l'Apostolo una gloriosa povertà
per amore di Cristo e non vogliono accontentarsi né del lavoro delle loro mani,
né della vita semplice del monastero. La loro unica possibilità di salvezza è di
riconoscere che ingannano sé stessi e che non hanno rinunciato al mondo, finché
restano attaccati ai loro precedenti beni. Se desiderano realmente e francamente
praticare la vita monastica, devono distribuire e disdegnare tutti i loro beni,
senza nulla riservarsi di ciò che hanno abbandonato, per potersi glorificare,
come l'Apostolo: “nella fame e sete, freddo e nudità” (2 Cor 11,27).
CAPITOLO 17. La rinuncia degli Apostoli e della Chiesa primitiva.
San Paolo non poteva forse vivere dei suoi vecchi beni, dato che egli afferma di
non avere una bassa posizione nel mondo, dichiarando che, con la sua nascita,
aveva l'onore di essere cittadino romano? (cfr. At 22, 27)? Lo avrebbe
certamente fatto, se avesse giudicato questa decisione un mezzo più facile per
arrivare alla perfezione.
Coloro che a Gerusalemme possedevano campi e case, li vendevano e ne portavano
il prezzo ai piedi dei discepoli, senza nulla riservarsi (cfr. At 4,34); non
avrebbero potuto soddisfare i loro bisogni con le proprie risorse, se gli
apostoli avessero giudicato ciò più perfetto o se essi stessi non lo avessero
trovato più utile? Ma essi rinunciarono a tutti i loro beni e vissero soltanto
del loro lavoro e delle elemosine dei Gentili. San Paolo, scrivendo ai Romani,
parla loro di queste elemosine che è incaricato di raccogliere, e provoca
abilmente la loro generosità, dicendo: “Per il momento vado a Gerusalemme, a
rendere un servizio ai santi di quella comunità; la Macedonia e l’Acaia infatti
hanno voluto realizzare una forma di comunione con i poveri tra i santi che sono
a Gerusalemme. L’hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti le genti,
avendo partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere loro un
servizio sacro anche nelle loro necessità materiali „ (Rm 15,25-27).
E quando scrive ai Corinzi l’Apostolo testimonia loro la stessa sollecitudine
per i poveri di Gerusalemme e li informa di preparare, prima del suo arrivo, le
elemosine che desidera inviare in loro aiuto: “Riguardo poi alla colletta in
favore dei santi, fate anche voi come ho ordinato alle Chiese della Galazia.
Ogni primo giorno della settimana ciascuno di voi metta da parte ciò che è
riuscito a risparmiare, perché le collette non si facciano quando verrò. Quando
arriverò, quelli che avrete scelto li manderò io con una mia lettera per portare
il dono della vostra generosità a Gerusalemme„ (1 Cor 16,1-3). E affinché la
raccolta fosse stata più abbondante, aggiunge: “E se converrà che vada anch’io,
essi verranno con me„ (1 Cor 16,4). Cioè se le vostre offerte saranno abbastanza
considerevoli da meritare che li accompagni io stesso. Nella sua epistola ai
Galati, quando divideva con gli apostoli il ministero della predicazione,
dichiara che ha promesso a Giacomo, a Pietro ed a Giovanni che, pur predicando
ai Gentili, non avrebbe abbandonato la cura dei poveri che erano a Gerusalemme e
che avevano rinunciato a tutti i loro beni, a causa di Cristo, per abbracciare
la povertà volontaria. “Riconoscendo la grazia a me data, Giacomo, Cefa e
Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Bàrnaba la destra in segno di
comunione, perché noi andassimo tra le genti e loro tra i circoncisi. Ci
pregarono soltanto di ricordarci dei poveri … „ (Gal 2,9-10). Ciò che egli
testimonia di aver compiuto con ogni sollecitudine: “ … ed è quello che mi sono
preoccupato di fare” (Gal 2,10). Chi sono dunque i più felici? Forse coloro che,
venuti dai Gentili ed ancora incapaci di raggiungere la perfezione evangelica -
sui quali l'Apostolo credeva di avere già molto guadagnato se si “astenevano
dalla contaminazione con gli idoli, dalle unioni illegittime, dagli animali
soffocati e dal sangue” (At 15,20), e se credevano in Cristo - restavano
attaccati ai loro beni conservando le loro ricchezze, o coloro che, per obbedire
al Vangelo, portavano ogni giorno la croce del Signore e non volevano conservare
nulla ciò che possedevano?
Lo stesso beato Apostolo, spesso impedito dalle catene, dalla prigione e dai
viaggi di provvedere alle sue necessità, come ne aveva l'abitudine, con il
lavoro delle sue mani, dichiara che ha ricevuto dai fratelli venuti dalla
Macedonia ciò che gli era necessario: “alle mie necessità hanno provveduto i
fratelli giunti dalla Macedonia„ (2 Cor 11,9). Scrive anche ai Filippesi: “Lo
sapete anche voi, Filippesi, che all’inizio della predicazione del Vangelo,
quando partii dalla Macedonia, nessuna Chiesa mi aprì un conto di dare e avere,
se non voi soli; e anche a Tessalònica mi avete inviato per due volte il
necessario„ (Fil 4,15-16). Secondo il parere di coloro che interpretano le
parole di Cristo con tiepidezza (cfr. cap. 16. Ndt), saranno allora i Filippesi
più felici di san Paolo, perché lo assistevano con i loro beni? Qualcuno sarebbe
così insensato da osarlo dire?
CAPITOLO 18. Se vogliamo imitare gli apostoli, non dobbiamo vivere secondo le
nostre determinazioni, ma seguire il loro esempio.
Vogliamo obbedire al precetto del Vangelo e diventare gli imitatori
dell'Apostolo, dei cristiani della Chiesa primitiva e dei Padri che hanno
raccolto fino ai nostri giorni l’eredità delle loro virtù e della loro
perfezione: non fermiamoci sulle nostre interpretazioni e non promettiamo di
arrivare alla perfezione del Vangelo in uno stato di tepore e di rilassamento,
ma seguiamo le loro tracce, vegliamo su noi stessi ed abbracciamo la regola e lo
spirito del monastero, rinunciando sinceramente a questo mondo. Non conserviamo
nulla, per mancanza di fede, di ciò che abbiamo disprezzato. Non contiamo per il
nostro pane di ogni giorno sul denaro nascosto, ma guadagniamolo col nostro
lavoro.
CAPITOLO 19. Parola di san Basilio vescovo, rivolta a Sinclezio.
Si riporta una parola di san Basilio, vescovo di Cesarea, rivolta ad un certo
Sinclezio, intorpiditosi in quella tiepidezza di cui abbiamo parlato. Costui si
elogiava di avere rinunciato al mondo, ma aveva conservato una parte dei suoi
beni, perché non voleva guadagnare la sua vita lavorando con le proprie mani e
non se la sentiva di acquisire la vera umiltà con la povertà, con la contrizione
di cuore generata dal lavoro e con il sottomettersi ai superiori. “Tu hai
sacrificato il senatore Sinclezio, gli dice san Basilio, ma non hai fatto un
Sinclezio monaco„.
CAPITOLO 20. Che ignominia, farsi sconfiggere dall’avarizia.
Se desideriamo lottare nel combattimento spirituale secondo le regole (cfr. 2 Tm
2,5), occorre cacciare anche questo nemico pericoloso dai nostri cuori. Per
superarlo non occorre una grande virtù, mentre se ci facciamo sconfiggere
veniamo colmati di ignominia e di una grande vergogna. Quando siamo sconfitti da
un nemico potente, soffriamo per la nostra sconfitta e gemiamo per avere perso
la vittoria. Tuttavia, pensando alla forza dell’avversario, colui che è
sconfitto prova una certa consolazione. Ma se il nemico è debole ed il
combattimento poco pericoloso, la vergogna viene ad aggiungersi al dolore della
sconfitta, ed il nostro disonore è più grande della nostra perdita.
CAPITOLO 21. Come si può sconfiggere l'avarizia.
La vittoria suprema su questo vizio, il trionfo definitivo è, come si dice, che
il monaco non sporchi per niente la sua coscienza, neanche con la più piccola
moneta. Chi si lascia vincere anche solo da una moneta ed accoglie nel suo cuore
la radice della cupidigia, è impossibile che non bruci immediatamente di una
passione più forte. Il soldato di Cristo sarà vittorioso, sicuro ed esente da
qualsiasi attacco da parte della cupidigia solo fino a quando questo spirito
infame non seminerà nel suo cuore i germi della concupiscenza.
Se dunque, per qualsiasi specie di vizio, occorre sorvegliare la testa del
serpente (cfr. Gen 3,15), per quest'ultimo vizio occorre stare ancor più
attenti. Se dovesse entrare, la sua stessa materia lo farà crescere e susciterà
a sé stesso incendi ancor più veementi. Quindi non basta stare attenti al
possesso dei beni temporali, ma occorre bandire interamente del cuore il
desiderio di possederli. Non è tanto l'effetto dell'avarizia che è da evitare,
occorre invece tagliare alle radici la cattiva inclinazione. Non serve a nulla
essere senza denaro, se abbiamo il desiderio di possederne.
CAPITOLO 22. Si può essere considerati avari, pur non possedendo danaro.
È infatti anche possibile che un monaco non abbia denaro, senza per ciò essere
libero dall’avarizia, e che il beneficio dello spogliamento dai beni non gli sia
di alcun profitto perché non ha saputo sopprimere il vizio della cupidigia. È il
bene materiale della povertà che egli ama, non il merito della virtù, contento
di portare il peso dell'indigenza, ma con struggimento di cuore. Il Vangelo
dichiara che alcuni, che sono rimasti casti di corpo, hanno commesso l'adulterio
nel loro cuore (cfr. Mt 5,28); ugualmente può succedere che dei monaci che non
sono per niente appesantiti dal peso della ricchezza siano avvolti dalla stessa
condanna degli avari, in ragione delle disposizioni interiori che li animano. E’
mancata loro l'occasione di avere, non la volontà. Ma è la volontà che guadagna
la corona davanti a Dio, piuttosto che la necessità. Affrettiamoci, dunque, per
paura che tutto il guadagno delle nostre fatiche vada in fumo. È miserevole
soffrire gli effetti della povertà e dell’indigenza, e perderne il frutto per il
vizio di una volontà sterile e vana.
CAPITOLO 23. Esempio di Giuda.
Si vuole sapere quali rovine, quali disastri genera questo stimolo morboso, se
non si è diligenti ad eliminarlo; come da questo germe crescano da ogni parte
dei polloni e spuntano i ramoscelli di tutti i vizi, per portare alla rovina
colui che l’ha concepito? Si consideri Giuda, che è contato nel numero degli
apostoli, ma non acconsente a schiacciare la testa mortale del serpente (cfr.
Gen 3,15). Allora, vedete come questo lo fa perire col suo veleno; in quale
abisso lo fa precipitare, dopo averlo preso nella rete della cupidigia: poiché
arriva a persuaderlo a vendere per trenta monete d'argento il Redentore del
mondo e l'Autore della salvezza degli uomini. Se il male dell'avarizia non lo
avesse infettato, se non avesse fin da prima preso l’abitudine di saccheggiare
la borsa che gli era affidata (cfr. Gv 12,6), non si sarebbe mai abbassato ad un
tradimento così scellerato e non avrebbe mai commesso il sacrilegio di rinnegare
il suo Signore.
CAPITOLO 24. L'avarizia può essere superata soltanto da un totale spogliamento.
Ecco certamente un esempio meraviglioso ed evidente della tirannia
dell'avarizia. Lo abbiamo detto: una volta imprigionata l’anima, non le permette
più di osservare nessuna regola d'onestà, né di soddisfarsi dei guadagni
accumulati. Non è, infatti, con la ricchezza ma con lo spogliamento che si mette
fine a questa frenesia. Guardate ancora Giuda. Forse aveva ricevuto a sua
disposizione la borsa destinata al sollievo dei poveri affinché, avendo il
denaro in abbondanza, si ritenesse soddisfatto e mettesse una misura alla sua
cupidigia. Ma, fu precisamente quest'abbondanza che incrementò l'incendio della
cupidigia e, ormai non contento di rubare di nascosto dalla borsa comune, si
risolse a vendere il suo Signore. La frenesia della cupidigia è infatti
superiore a tutti i tesori che si possono accumulare.
CAPITOLO 25. La fine di Anania, di Saffira e di Giuda, causata dall'avarizia.
Istruito da quest'esempio, il principe degli apostoli sapeva che colui che
possiede qualcosa, non può mettere un freno alla cupidigia, e che non è affatto
la somma di denaro, piccola o grande, che è capace di porre un limite, ma la
sola virtù dello spogliamento: quindi punisce con morte Anania e Saffira, di cui
abbiamo fatto menzione prima, perché avevano conservato una parte della loro
fortuna (cfr. At 5,5-10). La morte che Giuda si era dato da sé per avere tradito
il Signore, loro la ricevono per una menzogna dovuta alla cupidigia. Anche in
questo caso, quale rassomiglianza tra il crimine ed la pena! Là è il tradimento
che segue immediatamente l'avarizia; qui la falsità. Là si vede il tradimento
della verità; qui si commette il crimine della menzogna. Le loro azioni si
presentano con aspetti diversi; ma arrivano ad una fine identica. Giuda vuole
uscire dalla povertà e desidera riprendere ciò che ha abbandonato; gli altri
temono di cadere nella povertà e tentano di trattenere qualcosa dei loro beni
che avrebbero dovuto offrire onestamente agli apostoli o distribuire interamente
ai fratelli: la pena di morte segue da un lato come dall'altro, perché uno e
l'altro crimine sono spuntati dalle radici dell'avarizia. Ma, se coloro che non
hanno desiderato i beni degli altri, ma hanno soltanto provato a conservare i
loro, che non hanno avuto il desiderio di acquisire, ma soltanto la volontà di
conservare, se costoro si videro colpiti da una sentenza così rigorosa, cosa
occorrerà pensare di quelli che sognano di accumularsi delle ricchezze che non
hanno mai posseduto, e che mostrano povertà davanti agli uomini, tuttavia sono
convinti di essere ricchi davanti a Dio, a causa dell’inclinazione alla
cupidigia?
CAPITOLO 26. L'avarizia è una lebbra spirituale per l’anima.
A somiglianza di Giezi (cfr. 2 Re 5,27), che fu contagiato da una lebbra immonda
per avere ambito ai beni caduchi di questo mondo, tali monaci sono lebbrosi di
spirito e di cuore. Con ciò Giezi ci ha lasciato un esempio evidente che ogni
anima infettata dal morbo della cupidigia contrae una lebbra spirituale e appare
immonda agli occhi di Dio, degna della maledizione eterna.
CAPITOLO 27. Testimonianze delle Scrittura che insegnano, a chi desidera la
perfezione, a non riprendere ciò che ha lasciato.
Se, nel desiderio della perfezione, hai lasciato tutto per seguire Cristo che ti
dice:
“va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e
vieni! Seguimi! „ (Mt 19,21), perché, dopo avere messo la mano all'aratro,
guardi indietro
e meriti che lo stesso Signore ti dichiari non adatto al regno dei cieli? (cfr.
Lc 9,62) Oramai stabilito sul tetto della perfezione evangelica, perché scendi a
prendere qualcosa nella tua casa, di ciò che avevi precedentemente disprezzato?
Occupato a lavorare nel campo delle virtù, perché torni indietro, per provare a
rivestirti dei beni di questo mondo di cui ti sei spogliato? Se poi, pervenuto
dalla povertà, non avevi nulla a cui rinunciare, ancor meno devi cercare di
acquisire ciò che prima non possedevi. Questa povertà fu un beneficio del
Signore, che ti preparava a correre verso di lui con un passo spedito, del tutto
libero dai lacci della ricchezza. Del resto, la povertà non deve mai dare motivo
di scoraggiamento; non c'è nessuno che non abbia qualcosa da lasciare. Ha
rinunciato a tutti i beni di questo mondo colui che ha tagliato alla radice il
desiderio di possederli.
CAPITOLO 28. Si conquista la vittoria sull'avarizia soltanto spogliandosi di
tutto.
La vittoria perfetta sull'avarizia consiste nel non ammettere nel nostro cuore
neanche una scintilla del desiderio di guadagno, consapevoli che non avremo più
la facoltà di estinguerla, se le daremo la più piccola occasione di alimentarsi.
CAPITOLO 29. In cosa consiste la spogliazione monastica.
Non abbiamo altro mezzo per conservare questa virtù intatta, del resto, se non
rimanendo nel monastero; come dice l'Apostolo saremo contenti “quando dunque
abbiamo di che mangiare e di che coprirci„. (1 Tim 6,8)
CAPITOLO 30. Rimedi contro la malattia dell'avarizia.
Perciò, nel ricordo della condanna di Anania e di Saffira, fremiamo d'orrore al
pensiero di trattenere qualcosa (cfr. At 5,3) di ciò che abbiamo interamente
abbandonato con la promessa della nostra rinuncia. Temiamo anche l'esempio di
Giezi, punito di una lebbra eterna a causa di un peccato di avarizia (cfr. 2 Re
5,27); e stiamo attenti a non acquisire nulla di ciò che non possedevamo neanche
prima. Anche il crimine di Giuda e la sua fine triste ci riempiano di timore e
ci facciano evitare con tutta la nostra forza di toccare ancora il denaro, dopo
averlo respinto una volta per sempre. Soprattutto consideriamo la condizione
della nostra natura fragile ed incerta e stiamo attenti che il giorno del
Signore, che ci sorprende “come un ladro di notte„ (1 Ts 5,2), non trovi la
nostra coscienza macchiata anche soltanto di una moneta; anche solo questa
basterebbe a distruggere tutti i frutti della nostra rinuncia. Allora
intenderemo anche noi la voce del Signore indirizzarci la stessa parola che fu
detta al ricco del Vangelo. “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la
tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà? „ (Lc 12,20). Non
preoccupiamoci per niente del giorno dopo e non lasciamoci mai sottrarre alla
disciplina del monastero.
CAPITOLO 31. E’ impossibile superare l'avarizia, a meno di perseverare nel
monastero, comportandoci in modo tale da restare fedeli (alla regola).
Ma ci sarà dato di completare questo programma e di perseverare sotto la regola
monastica soltanto se la virtù della pazienza, che non procede da altra fonte se
non dall'umiltà, si è stabilita da noi su basi solide. L'umiltà non ferisce mai
nessuno; la pazienza sa sopportare le ferite ricevute con un cuore magnanimo.
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17 luglio 2016 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net