LE ISTITUZIONI CENOBITICHE
di GIOVANNI CASSIANO
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JOANNIS CASSIANI ABBATIS MASSILIENSIS
DE COENOBIORUM INSTITUTIS LIBRI DUODECIM
LIBER SECUNDUS.
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LIBRO SECONDO LA REGOLA DA SEGUIRE PER LE PREGHIERE ED I SALMI DELLA NOTTE. “Libera traduzione"
Per le note si veda il testo solo italiano |
CAPUT PRIMUM.
Duplici igitur hoc, quod
diximus, cingulo Christi miles accinctus, interim qui modus canonicarum
orationum psalmorumque sit in partibus Orientis a sanctis patribus
antiquitus statutus, agnoscat.
De qualitate vero earum, vel
quemadmodum orare secundum Apostoli sententiam (I Thess. V),
sine intermissione possimus, suis in locis cum seniorum Collationes
coeperimus exponere, quantum Dominus dederit, proferemus (Coll. 9
cap. 3, 6 seq., et Coll. 10 cap. 7).
Multos namque comperimus per
alias regiones pro captu mentis suae, habentes quidem, ut ait Apostolus
(Rom. X), zelum Dei, sed non secundum scientiam, super hac
re diversos typos ac regulas sibimet constituisse.
Quidam enim vicenos, seu
tricenos psalmos, et hos ipsos antiphonarum protelatos melodiis et
adjunctione quarumdam modulationum debere dici singulis noctibus
censuerunt; alii hunc modum etiam excedere tentaverunt; nonnulli decem
et octo; atque in hunc modum diversis in locis diversum canonem
agnovimus institutum, totque propemodum typos ac regulas vidimus
usurpatas, quot etiam monasteria cellasque conspeximus (Vide infra ad
cap. 8 hujus lib.). Sunt quibus in ipsis quoque diurnis orationum
officiis, id est, Tertia, Sexta, Nonaque id visum est, ut secundum
horarum modum in quibus haec Domino redduntur obsequia, psalmorum etiam
et orationum putarent numerum coaequandum: nonnullis placuit senarium
numerum singulis diei conventibus deputari.
Quapropter necessarium reor
antiquissimam patrum proferre in medium constitutionem, quae nunc usque
per totam Aegyptum a Dei famulis custoditur, quo novelli monasterii in
Christo rudis infantia antiquissimorum potius patrum vetustissimis
institutionibus imbuatur.
CAPUT III. De uniformis
regulae per totam Aegyptum custodia, et de electione eorum qui fratribus
praeponuntur.
Itaque per universam Aegyptum
et Thebaidem, ubi monasteria non pro uniuscujusque renuntiantis
instituuntur arbitrio, sed per successiones ac traditiones majorum,
usque in hodiernum diem vel permanent vel mansura fundantur, legitimum
orationum modum in vespertinis conventibus seu nocturnis vigiliis
vidimus retentari.
Non enim quisquam conventiculo
fratrum, sed ne sibi quidem ipsi praeesse conceditur, priusquam non
solum universis facultatibus suis reddatur externus, sed ne sui quidem
ipsius se esse dominum, vel potestatem habere cognoscat. Ita namque
renuntiantem huic mundo quibuslibet facultatibus ac divitiis praeditum
necesse est coenobii commorationem expetere, ut in nullo sibi ex his
quae reliquit, aut intulit monasterio, blandiatur: sic obedire cunctis,
ut redeundum sibi secundum sententiam Domini (Matth. XVIII) ad
infantiam pristinam noverit, nihil sibi consideratione aevi vel annorum
numerositate praesumens, quam in saeculo inaniter consumptam se reputat
perdidisse; sed pro rudimentorum merito et tyrocinii novitate, quam se
gerere in Christi militia recognoscit, subdere se etiam junioribus non
moretur. Operis quoque et sudoris assuetudinem ita subire compellitur,
ut propriis manibus, juxta Apostoli praeceptum, quotidianum victum, vel
suis usibus, vel advenientium necessitatibus praeparans, et fastus vitae
praeteritae possit, et delicias oblivisci, et humilitatem cordis,
contritione laboris acquirere.
Ideoque nullus congregationi
fratrum praefuturus eligitur, priusquam idem qui praeficiendus est, quid
obtemperaturis oporteat imperari, obediendo didicerit, et quid
junioribus tradere debeat, institutis seniorum fuerit assecutus. Bene
enim regere vel regi, sapientis esse pronuntiant, summumque donum et
gratiam sancti Spiritus esse definiunt. Nam neque salutaria praecepta
quempiam posse obtemperantibus praestituere, nisi eum qui prius
universis virtutum disciplinis fuerit instructus, nec obedire quemquam
seniori posse, nisi eum qui consummatus timore Dei et humilitatis fuerit
virtute perfectus.
Ideoque diversitates typorum ac
regularum per caeteras provincias cernimus usurpatas, quod plerumque
seniorum institutionis expertes monasteriis praeesse audemus, et abbates
nos antequam discipulos professi, quod libitum fuerit, statuimus;
promptiores nostrorum inventorum exigere custodiam, quam examinatam
majorum servare doctrinam.
Sed dum orationum modum qui potissimum debeat custodiri, volumus
explicare, institutis patrum avidius provocati, narrationem quam suis
reservabamus locis, propero excessu praevenimus. Nunc itaque ad
propositum revertamur.
CAPUT IV. Quod per universam
Aegyptum et Thebaidem duodenarius psalmorum numerus observetur
Igitur per universam, ut
diximus, Aegyptum et Thebaidem duodenarius psalmorum numerus tam in
vespertinis, quam in nocturnis solemnitatibus custoditur, ita dumtaxat
ut post hunc duae lectiones, veteris scilicet ac novi Testamenti,
singulae subsequantur. Qui modus antiquitus constitutus, idcirco per tot
saecula penes cuncta illarum provinciarum monasteria intemeratus nunc
usque perdurat: quia non humana adinventione statutus a senioribus
affirmatur, sed coelitus angeli magisterio patribus fuisse delatus.
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CAPITOLO PRIMO
Cinto con la doppia cintura che abbiamo descritto, il soldato di Cristo
deve ora apprendere la misura che, fin dall'antichità, i santi padri
hanno determinato nei paesi dell'Oriente per le orazioni canoniche ed i
salmi.
Per quanto riguarda la natura della preghiera stessa e sul come è
possibile per noi continuarla "senza
interruzione", (1 Ts 5,17) secondo la parola dell'Apostolo, è un
argomento che tratterò a tempo debito, secondo il dono di Dio, quando
inizierò ad esporre le Conferenze
degli anziani (Cfr. Conf.
IX e X).
CAPITOLO II. Come varia il numero
di salmi stabilito nelle diverse province.
È un fatto che ho potuto constatare: nelle altre regioni, molti che
avevano "zelo per Dio, ma non
secondo una retta conoscenza", (Rm 10,2) hanno stabilito, su questa
materia, varie leggi e regole adatte proprio a se stessi.
Molti hanno pensato di dire venti o trenta salmi per notte,
prolungandoli di nuovo con melodie antifoniche e l'aggiunta di alcune
modulazioni; altri hanno persino provato a superare questo numero;
alcuni si sono fermati a diciotto salmi. È così che ho visto in vigore
qui un'usanza, là un'altra, a seconda del luogo, e quasi altrettante
leggi e regole di quanti sono i monasteri e le celle. Ci sono alcuni
che, per gli uffici del giorno, cioè Terza, Sesta e Nona, hanno avuto
l'idea che il numero delle orazioni e dei salmi dovesse essere uguale al
numero dell'ora in cui rendiamo questo omaggio a Dio; ad alcuni è
piaciuto assegnare il numero sei a tutti gli uffici del giorno.
Questa è la ragione per cui ritengo necessario pubblicare l'antica legge
dei padri, osservata finora in tutto l'Egitto dai servitori di Dio,
affinché il tuo così giovane monastero, fin dalla più tenera infanzia,
sia di preferenza modellato in Cristo secondo le antichissime
istituzioni dei primi padri.
CAPITOLO III. L'uniforme regola
osservata in tutto l'Egitto e come è effettuata la scelta di coloro che
presiedono i fratelli.
In tutto l'Egitto e la Tebaide vediamo che si osserva una misura
determinata di preghiere, sia per gli uffici dei vespri che per le
veglie della notte.
Ciò avviene perché i monasteri non si regolano secondo il capriccio di
chiunque abbia rinunciato al mondo, ma vivono di generazione in
generazione, e fino ad oggi, con gli insegnamenti degli anziani, o
vengono fondati sugli stessi principi.
A nessuno è permesso governare una comunità di fratelli, e neanche
governare se stesso, prima di essersi spogliato di tutti i suoi beni e,
meglio ancora, prima di aver riconosciuto di non essere neanche padrone
di se stesso ed ha perso ogni potere sulla sua persona. Chi rinuncia al
mondo, qualunque sia la sua fortuna, è necessario, dato che desidera
vivere tra i cenobiti, che si ponga nella condizione di non avvalersi di
nulla di ciò che ha lasciato nel mondo o portato al monastero; costui
deve obbedire a tutti, con la convinzione che, secondo la dottrina di
Cristo, deve diventare di nuovo bambino (Cfr. Mt 18,3). La
considerazione della sua età ed il numero dei suoi anni non devono
essere un motivo di presunzione, poiché dovrebbe considerare questo
tempo speso inutilmente nel secolo. Ma, al contrario, riconoscendo la
sua qualità di apprendista e di novizio nella milizia di Cristo, egli
non esita a sottomettersi anche ai più giovani. Inoltre, è costretto a
sottomettersi al lavoro ed alla fatica. Egli guadagnerà con le sue
stesse mani, secondo il precetto dell'Apostolo, (Cfr. 1 Ts 4,11) il pane
quotidiano, in modo da soddisfare i suoi bisogni come quelli degli
ospiti: è il mezzo per dimenticare lo splendore e le delizie della sua
vita passata e di acquisire, oberato da un faticoso lavoro, l'umiltà del
cuore.
In breve, non si elegge nessuno a condurre una comunità di fratelli
finché lo stesso non abbia imparato con l'obbedienza ciò che conviene
comandare e non abbia assimilato, nella scuola degli anziani,
l'insegnamento che dovrà trasmettere ai più giovani. Dirigere bene gli
altri e farsi dirigere in modo adeguato è, nel giudizio dei padri, la
caratteristica dell'uomo saggio, il dono, la grazia incomparabile dello
Spirito Santo. Non si può esercitare l'autorità per il bene dei propri
subordinati se prima non ci si è formati in tutte le discipline della
virtù; e nessuno può obbedire al suo anziano, al di fuori di colui che
si è perfezionato nel timore di Dio e si è reso perfetto nella virtù
dell'umiltà.
Questo è il motivo della diversità degli usi e delle regole che noi
vediamo osservate nelle altre province: la maggior parte delle volte noi
non abbiamo paura di assumere la direzione di un monastero senza
conoscere l'insegnamento degli anziani e, dichiarandoci abati prima di
essere stati discepoli, decidiamo secondo la nostra fantasia, più
desiderosi di esigere l'osservanza delle leggi di nostra invenzione,
piuttosto che di custodire la dottrina provata degli anziani.
Ma, mentre volevo solo spiegare la misura da tenere preferibilmente
nelle orazioni, sono stato conquistato con grande avidità dalle
istituzioni dei padri, anticipando così con eccessivo zelo l'esposizione
che ho riservato per il tempo opportuno. Torniamo ora al nostro
argomento.
CAPITOLO IV. Come si osserva il
numero di dodici salmi in tutto l'Egitto e nella Tebaide. In tutto l'Egitto e nella Tebaide, come abbiamo detto, si osserva il numero di dodici salmi, sia per la solennità della sera che per quella della notte; ma questi sono seguiti da due letture, una dell'Antico Testamento ed una del Nuovo. Questa disposizione, anticamente stabilita, persevera inviolata fino ad oggi in tutti i monasteri di queste province perché, dicono gli anziani, non è dovuta ad un'invenzione dell'uomo, ma fu portata giù dal cielo ai nostri padri, grazie al magistero di un angelo. |
CAPUT V. De duodenario
psalmorum numero Angeli traditione suscepto.
Nam cum in primordiis fidei
pauci quidem, sed probatissimi, monachorum nomine censerentur, qui sicut
a beatae memoriae evangelista Marco, qui primus Alexandrinae urbi
pontifex praefuit, normam suscepere vivendi, non solum illa magnifica
retinebant, quae primitus Ecclesiam vel credentium turbas in Actibus
Apostolorum (Cap. IV) legimus celebrasse ( Multitudinis
scilicet credentium erat cor unum, et anima una: nec quisquam eorum quae
possidebat, aliquid suum esse dicebat, sed erant illis omnia communia;
quotquot enim possessores agrorum aut domorum erant, vendentes
afferebant pretia eorum quae vendebant, et ponebant ante pedes
apostolorum: dividebatur autem singulis prout cuique opus erat );
verum etiam his multo sublimiora cumulaverant.
Etenim secedentes in secretiora
suburbiorum loca, agebant vitam tanto abstinentiae rigore districtam, ut
etiam his qui erant religionis externae, stupori esset tam ardua
conversationis eorum professio. Eo enim fervore Scripturarum divinarum
lectionibus, orationique et operi manuum diebus ac noctibus incubabant,
ut nec escarum quidem appetitus vel memoria, nisi alio tertiove die
corporis interpellaret inediam, cibumque ac potum non tam desideratum
quam necessarium sumerent, et ne hunc quidem ante solis occasum, ut
tempus lucis cum spiritualium meditationum studiis, curam vero corporis
cum nocte sociarent, aliaque his multo sublimiora perficerent. De quibus
etiam is qui minus indigenarum relatione cognovit, ecclesiastica
historia poterit edoceri.
Ea igitur tempestate cum
Ecclesiae illius primitivae perfectio penes successores suos adhuc
recenti memoria inviolata duraret, fervensque paucorum fides necdum in
multitudinem dispersa tepuisset; venerabiles patres pervigili cura
posteris consulentes, quinam modus quotidiano cultui per universum
fraternitatis corpus decerni deberet, tractaturi conveniunt, ut
haereditatem pietatis ac pacis etiam successoribus suis absolutam ab
omni dissensionis lite transmitterent: verentes scilicet ne qua in
quotidianis solemnitatibus inter viros ejusdem culturae consortes
dissonantia, vel varietas exorta, quandoque in posterum erroris, vel
aemulationis, seu schismatis noxium germen emitteret.
Cumque pro suo unusquisque
fervore infirmitatis immemor alienae id statui debere censeret, quod
contemplatione fidei ac roboris sui facillimum judicabat, parum
discutiens quid generaliter plenitudini fratrum possibile esset, in qua
necesse est infirmorum quoque partem maximam reperiri, diversoque modo
enormem psalmorum numerum instituere pro animi sui virtute certarent, et
alii quinquagenos, alii sexagenos psalmos, nonnulli vero ne hoc quidem
numero contenti excedi eum debere censerent, essetque inter eos pro
religionis regula piae contentionis sancta diversitas, ita ut tempus
solemnitatis vespertinae sacratissimae succederet quaestioni,
quotidianos orationum ritus volentibus celebrare, unus in medium psalmos
Domino cantaturus exsurgit. Cumque sedentibus cunctis (ut est moris nunc
usque in Aegypti partibus) et in psallentis verba omni cordis intentione
defixis, undecim psalmos orationum interjectione distinctos contiguis
versibus parili pronuntiatione cantasset, duodecimum sub Alleluia
responsione consummans, ab universorum oculis repente subtractus,
quaestioni pariter, et caeremoniis finem imposuit.
CAPUT VI. De consuetudine
duodecim Orationum.
Ex hinc venerabilis patrum
senatus intelligens angeli magisterio congregationibus fratrum generalem
canonem non sine dispensatione Domini constitutum, decrevit hunc numerum
tam in vespertinis, quam in nocturnis conventiculis custodiri, quibus
lectiones geminas adjungentes, id est, unam veteris, et aliam novi
Testamenti, tamquam a se eas traditas et velut extraordinarias,
volentibus tantum, ac divinarum Scripturarum memoriam possidere assidua
meditatione studentibus addiderunt. In die vero sabbati vel Dominico
utrasque de novo recitant Testamento, id est, unam de Apostolo, vel
Actibus apostolorum, et aliam de Evangeliis. Quod etiam totis
Quinquagesimae diebus faciunt hi quibus lectio curae est, seu memoria
Scripturarum.
CAPUT VII. De disciplina
orandi.
Has igitur praedictas orationes
hoc modo incipiunt, atque consummant,
ut finito psalmo, non statim ad
incurvationem genuum corruant, quemadmodum facimus in hac regione
nonnulli, qui necdum bene finito psalmo, in orationem procumbere
festinamus ad celeritatem missae quantocius properantes. Cujus dum
volumus excedere modum qui antiquitus a majoribus statutus est,
supputantes residuorum psalmorum numerum, ad finem tendere perurgemus,
de refectione potius lassi corporis cogitantes, quam orationis
utilitatem et commoda requirentes.
Apud illos ergo non ita est,
sed antequam flectant genua, paulisper orant, et stantes in
supplicatione majorem temporis partem expendunt. Itaque post haec puncto
brevissimo procidentes humi, velut adorantes tantum divinam clementiam,
summa velocitate consurgunt, ac rursus erecti expansis manibus eodem
modo quo prius stantes oraverant, suis precibus intentius immorantur.
Humi namque diutius
procumbentem, non solum cogitationibus aiunt, verum etiam somno gravius
impugnari. Quod etiam nos verum esse utinam non experimentis, et
quotidiana consuetudine nosceremus, qui saepenumero hanc eamdem
incurvationem membrorum, non tam orationis quam refectionis obtentu in
terram prostrati optamus diutius prolongari.
Cum autem is qui orationem
collecturus est, e terra surrexit, omnes pariter eriguntur; ita ut
nullus, nec antequam inclinetur ille, genu flectere, nec cum e terra
surrexerit, remorari praesumat, ne non tam secutus fuisse illius
conclusionem qui precem colligit, quam suam celebrasse credatur.
CAPUT VIII. De subsequente
oratione post psalmum.
Illud etiam quod in hac provincia
vidimus, ut uno cantante in clausula psalmi, omnes astantes concinant
cum clamore, Gloria Patri, et Filio, et Spiritui sancto, nusquam
per omnem Orientem audivimus, sed cum omnium silentio ab eo qui cantat,
finito psalmo orationem succedere.
Hac vero glorificatione
Trinitatis tantummodo solere antiphonam terminari. |
CAPITOLO V. Il numero di dodici
salmi trasmesso dall'insegnamento di un angelo.
Agli inizi della fede solo pochi, ma di eccellente virtù, portavano il
nome di monaci. Essi ricevettero la loro regola di vita dall'evangelista
Marco, di beata memoria, che fu il primo vescovo di Alessandria. (Questi
monaci) osservavano quelle magnifiche pratiche che, come leggiamo negli
Atti degli Apostoli, erano quelle della moltitudine dei credenti
nella Chiesa primitiva, ovvero: "La
moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e
un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli
apparteneva, ma fra loro tutto era comune... perché quanti possedevano
campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato
venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito
a ciascuno secondo il suo bisogno" (At 4,32-35). A queste magnifiche
virtù essi ne aggiunsero di ancor più sublimi.
Ritirati nei luoghi più segreti, nei dintorni delle città, conducevano
una vita così austera e così astinente, che persino gli uomini estranei
alla religione (cristiana) erano colti da stupore davanti a un tale
spettacolo. Essi si dedicavano con così tanto fervore alla lettura delle
divine Scritture, alla preghiera ed al lavoro, notte e giorno, da
dimenticare il gusto e persino il ricordo del cibo. Era solo dopo due o
tre giorni che il loro corpo, affamato, lo ricordava loro. Essi
prendevano allora cibo e bevande, più per la necessità che per il
naturale desiderio, e mai prima del tramonto del sole, per associare il
tempo della luce all'impegno per le meditazioni spirituali e la notte
alla cura del corpo. Avevano ancora altre pratiche molto più sublimi.
Colui che non li conosce dal racconto degli scrittori locali, può
informarsi su di loro nella Storia
ecclesiastica. (Cfr. Eusebio,
Storia Ecclesistica, Libri I e II).
In quei tempi in cui la perfezione della Chiesa primitiva perdurava
intatta presso i suoi successori, essendo ancora recente il suo ricordo,
e la fervente fede del piccolo numero (dei fedeli) non si era ancora
intiepidita diffondendosi tra la moltitudine, i nostri venerabili padri,
nella loro amorevole vigilanza, erano preoccupati per i loro successori.
Così si riunirono per decidere la misura (dei salmi) che doveva essere
osservata da tutto il corpo della fraternità per il culto di ogni
giorno, volendo trasmettere ai loro successori un'eredità di pietà e di
pace, al sicuro da dissensi e da contese. Essi temevano che, venendo
alla luce una dissonanza o una varietà sul tema delle solennità
quotidiane tra uomini che professavano lo stesso culto divino, ne
potessero scaturire in futuro dei germi di errore, di rivalità o di
scisma.
Ma successe che ognuno di loro, ascoltando solo il suo fervore e
dimenticando la debolezza degli altri, desiderava che si stabilisse come
regola ciò che la sua fede ed il suo vigore soprannaturale gli facevano
giudicare facile, senza preoccuparsi abbastanza di ciò che potesse
valere come regola generale per l'insieme dei fratelli, dove i deboli
sono fatalmente una grande parte. Tutti rivaleggiavano per l'adozione di
un numero enorme di salmi, in relazione alla loro forza d'animo. Alcuni
proponevano cinquanta, altri sessanta salmi e molti, non soddisfatti di
questo numero, pensavano di dover andare oltre. E tra di loro vi era una
santa diversità, una pia rivalità per fissare la regola della preghiera.
Tanto che il dibattito era ancora in corso quando arrivò l'ora della
santissima solennità della sera. E mentre si preparavano a celebrare i
riti della preghiera quotidiana, qualcuno si alzò in piedi in mezzo a
loro per cantare i salmi al Signore. Tutti gli altri erano seduti, come
è usanza in Egitto fino ad oggi, ed il loro cuore seguiva con attenzione
le parole del cantore. Costui recitò innanzitutto, con un tono uguale ed
ininterrotto tra i versetti, undici salmi, separati da altrettante
orazioni, poi un dodicesimo con la risposta dell'Alleluia. Poi
improvvisamente scomparve a tutti gli sguardi, mettendo fine allo stesso
tempo al dibattito ed alla cerimonia.
CAPITOLO VI. L'usanza delle dodici
orazioni.
Il venerabile consiglio dei padri capì che un angelo aveva appena
insegnato loro una regola universale per tutte le comunità di fratelli,
avendo così voluto il Signore. Essi decretarono che questo numero doveva
essere mantenuto, sia per la riunione della sera che per quella della
notte. Aggiunsero due letture, una dell'Antico Testamento, l'altra del
Nuovo, ma come un'eredità propria, straordinaria, destinata solo a
coloro che ne avessero sentito il desiderio e che desiderassero incidere
nella loro memoria le divine Scritture, mediante un'assidua meditazione.
Ma il sabato e la domenica entrambe le letture sono prese dal Nuovo
Testamento, la prima dall'Apostolo o dagli Atti degli Apostoli, la
seconda dal Vangelo. La stessa pratica per tutti i cinquanta giorni
prima di Pentecoste, per coloro che hanno sollecitudine nel leggere le
Scritture e nel mantenerne il ricordo.
CAPITOLO VII. Come disciplinare la
preghiera.
Ecco in quale modo (i monaci egiziani) iniziano e concludono le
preghiere di cui si è parlato prima.
Terminato il salmo, essi non si precipitano immediatamente in ginocchio,
come fanno alcuni di noi in questa regione (dell'Occidente). In effetti,
non ancora finita la salmodia, costoro si inginocchiano in fretta per
dire la preghiera, sforzandosi di arrivare il più rapidamente possibile
alla conclusione. Mentre vogliamo superare la misura (dei dodici salmi)
fissata dagli anziani nei tempi antichi, noi abbiamo premura di giungere
alla fine e calcoliamo il numero di salmi rimanenti da dire, più
desiderosi di dare ristoro al nostro corpo affaticato, che di ricercare
l'utilità ed il profitto della preghiera.
Non succede così presso di loro ma, prima di piegare le ginocchia, essi
pregano per qualche istante e passano la maggior parte del tempo in
piedi, pregando umilmente. Dopo di che essi si prostrano a terra per un
momento, come se adorassero solo la divina Bontà, poi si rialzano
rapidamente e di nuovo in posizione eretta e con le mani tese prolungano
le loro preghiere, come già avevano pregato prima stando in piedi.
Prostrarsi a terra troppo a lungo, a loro dire, significa esporsi ad
assalti più violenti, sia da parte delle distrazioni che dal sonno. Da
parte nostra, volesse il cielo che l'esperienza e la vita di tutti i
giorni non ci abbiano insegnato quanto ciò sia vero! Molte volte, mentre
siamo prostrati a terra, noi spesso desideriamo di prolungare il più
possibile questa posizione, non tanto con l'intenzione di pregare quanto
di riposare.
Presso di loro, non appena colui che deve concludere la preghiera si
alza, tutti gli altri si alzano allo stesso tempo. Nessuno oserebbe
piegare il ginocchio prima che costui si inchini, o rimanere a terra
quando si alza, per non dare l'impressione di dedicarsi alla propria
devozione personale, piuttosto che seguire colui che conclude la
preghiera.
CAPITOLO VIII. La preghiera che
segue il salmo.
Un'altra usanza che ho visto in questa provincia (della Gallia): uno
solo canta e quando arriva alla fine del salmo tutti i presenti si
alzano e cantano a piena voce:
Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto. Ma da nessuna parte in
Oriente ho sentito qualcosa del genere. Quando il cantore ha finito il
salmo, tutti rimangono in silenzio e la preghiera segue subito. Sono
solo le antifone che terminano con la glorificazione della Trinità. |
CAPUT IX. De qualitate orationum.
Et quia nos ad orationum canonicarum modum consequenter
institutorum ordo provexit, quarum pleniorem tractatum licet in
collationes seniorum reservemus, ibidem plenius digesturi, cum de earum
qualitate seu jugitate verbis eorum disserere coeperimus:
necessarium tamen reor pro opportunitate loci ac
narrationis ipsius, quoniam ita obtulit sese occasio, etiam in praesenti
pauca perstringere, ut formantes interim exterioris hominis motus, et
velut quaedam nunc orationis fundamenta jacientes, minore post haec
labore cum coeperimus de statu interioris hominis disputare, orationum
quoque ejus fastigia construamus.
Illud ante omnia providentes, ut si nos ab illa
narratione quam cupimus opportune Deo volente digerere, praeveniens
vitae nostrae finis excluserit, vel initia vobis rei praesertim tam
necessariae hoc opere relinquamus, quibus pro ardore desiderii totum
tardum est: ut dum nobis hujus commorationis tribuuntur induciae, saltem
quasdam tantisper orationum vobis lineas praesignemus, quibus hi vel
maxime, qui in coenobiis commorantur, valeant aliquatenus informari.
Simul etiam prospicientes his qui forsitan huic
tantummodo occursuri libro, ad illum pervenire non poterunt, ut
instructione hujus erga orationis qualitatem vel ex parte reperiantur
imbuti, et quemadmodum sunt de habitu et amictu exterioris hominis
instituti, ita etiam qualiter eum ad offerenda spiritalia sacrificia
debeant exhibere non nesciant. Siquidem hi libelli quos in praesenti
cudere Domino adjuvante disponimus, ad exterioris hominis observantiam
et institutionem coenobiorum competentius aptabuntur; illi vero ad
disciplinam interioris ac perfectionem cordis, et anachoretarum vitam
atque doctrinam potius pertinebunt.
Cum igitur praedictas solemnitates, quas illi synaxes
vocant, celebraturi conveniunt, tantum a cunctis silentium praebetur, ut
cum in unum tam innumerosa fratrum multitudo conveniat, praeter illum
qui consurgens psalmum decantat in medio, nullus hominum penitus adesse
credatur:
ac praecipue cum consummatur oratio, in qua non sputum
emittitur, non exscreatio obstrepit, non tussis intersonat, non
oscitatio somnolenta dissutis malis et hiantibus trahitur, nulli
gemitus, nulla suspiria etiam astantes impeditura promuntur, nulla vox,
absque sacerdotis precem concludentis, auditur, nisi forte haec quae per
excessum mentis claustra oris effugerit, quaeque insensibiliter cordi
obrepserit, immoderato scilicet atque intolerabili spiritus fervore
succenso, dum ea quae ignita mens in semetipsa non praevalet continere,
per ineffabilem quemdam gemitum ex intimis pectoris sui conclavibus
evaporare conatur.
Illum vero qui constitutus in tepore mentis cum clamore
supplicat, aut aliquid horum quae praediximus, e faucibus suis emittit,
aut praecipue oscitationibus praevenitur, dupliciter peccare
pronuntiant: primo quod orationis suae reus sit, quod eam videlicet
negligenter offerat Deo; secundo quod indisciplinato strepitu, alterius
quoque, qui forsitan intentius orare potuit, intercipit sensum.
Ideoque praecipiunt eam celeri fine concludi, ne forte
immorantibus nobis in ea, redundantia quaedam sputi seu phlegmatis
interrumpat nostrae orationis excessum. Et idcirco dum adhuc fervet,
velut e faucibus inimici velociter rapienda est. Qui proculdubio cum sit
nobis semper infestus, tum maxime adsistit infestior, cum contra se
offerre nos preces Domino velle perviderit, cogitationibus, seu diversis
humoribus excitatis, abducere mentem nostram a supplicationis intentione
festinans, et per hoc eam tepefacere a coepto fervore contendens.
Quamobrem utilius censent breves quidem orationes, sed
creberrimas fieri: illud quidem ut frequentius Dominum deprecantes
jugiter eidem cohaerere possimus; hoc vero, ut insidiantis diaboli
jacula, quae infligere nobis tunc praecipue, cum oramus, insistit,
succincta brevitate vitemus.
CAPUT XI. Qua disciplina apud Aegyptios psalmi
dicantur.
Et idcirco ne psalmos quidem ipsos, quos in
congregatione decantant, continuata student pronuntiatione concludere:
sed eos pro numero versuum duabus vel tribus intercisionibus cum
orationum interjectione divisos distinctim, particulatimque consummant.
Non enim multitudine versuum, sed mentis intelligentia delectantur;
illud tota virtute sectantes: Psallam spiritu, psallam et mente (I
Cor. XIV). Ideoque utilius habent decem versus cum rationabili
assignatione cantari, quam totum psalmum cum confusione mentis effundi.
Quae nonnumquam pronuntiantis festinatione generatur,
dum residuorum psalmorum qui decantandi sunt, modum numerumque
considerans, non distinctionem sensuum audientibus studet pandere, sed
ad finem synaxeos properat pervenire.
Denique si quispiam juniorum, vel pro fervore spiritus,
vel pro eo quod necdum institutus est, coeperit modum decantationis
excedere, psallentis progressio senioris interdicitur [ Forte
interciditur] plausu, quem dans manu sua in sedili quo sedet, cunctos
facit ad orationem consurgere, illud omnibus modis providens, ne quod
sedentibus taedium generetur prolixitate psalmorum, qua [ Forte
quo vel ne] is qui decantat, non modo per seipsum intelligentiae
fructum amittat, sed etiam per illos incidat detrimentum, quos fastidium
synaxeos nimietate sua fecit incurrere.
Illud quoque apud eos omni observantia custoditur, ut
in responsione Alleluia nullus dicatur psalmus, nisi is, qui in
titulo suo Alleluia inscriptione praenotatur.
Praedictum vero duodenarium psalmorum numerum ita
dividunt, ut si duo fuerint fratres, senos psallant; si tres, quaternos;
si quatuor, ternos. Quo numero numquam minus in congregatione decantant;
ac proinde quantalibet multitudo convenerit, numquam amplius psallunt in
synaxi, quam quatuor fratres.
CAPUT XII. Cur uno psallente, caeteri in synaxi
sedeant, vel quali post hoc studio per cellulas suas usque ad lucem
vigilias extendant.
Hunc sane canonicum, quem praediximus, duodenarium
psalmorum numerum tali corporis quiete relevant, ut has easdem
congregationum solemnitates ex more celebrantes, absque eo, qui dicturus
in medium psalmos surrexerit, cuncti sedilibus humillimis insidentes, ad
vocem psallentis omni cordis intentione dependeant. Ita namque jejuniis
et operatione totius diei, noctisque lassescunt, ut nisi hujuscemodi
refectione adjuventur, ne hunc quidem numerum stantes implere
praevaleant. Nullum etenim tempus ab operis exercitatione vacuum
transire concedunt; quia non solum ea quae diei splendor admittit, omni
instantia manibus exercere contendunt: sed etiam illa operationum genera
sollicita mente perquirunt, quae ne ipsius quidem noctis densissimae
tenebrae valeant impedire, credentes se tanto sublimiorem spiritualium
contemplationum puritatem mentis intuitu quaesituros, quanto diutius
fuerint erga operis studium ac laboris intenti.
Et idcirco mediocrem canonicarum orationum numerum
judicant divinitus moderatum; ut ardentioribus fide, spatium quo se
virtutis eorum infatigabilis cursus extenderet, servaretur, et
nihilominus fessis aegrisque corporibus minime gigneretur de nimietate
fastidium.
Ideoque cum fuerint orationum canonicarum functiones ex
more finitae, unusquisque ad suam recurrens cellulam (quam aut solus,
aut cum alio tantum inhabitare permittitur, quem scilicet societas
operationis, vel discipulatus, et disciplinae imbutio copulavit, vel
certe quem similitudo virtutum comparem fecit) idem rursus orationum
officium velut peculiare sacrificium studiosius celebrant, nec ulterius
quisquam eorum in requiem somni resolvitur; donec superveniente diei
splendore, nocturno operi, ac meditationi operatio diurna succedat. |
CAPITOLO IX. Natura della
preghiera.
L'ordine delle Istituzioni ci
ha portato logicamente a spiegare la modalità delle preghiere canoniche.
Per quanto riguarda un trattato più completo sulla preghiera, io lo
riservo per le Conferenze degli
anziani, quando comincerò a spiegare in modo più dettagliato con le
loro parole la qualità e l'intensità di queste preghiere.
Mi sembra tuttavia opportuno approfittare di una circostanza così
favorevole e, poiché si presenta l'occasione, dire senza ulteriori
indugi alcune parole sull'argomento. Mentre siamo impegnati a regolare i
comportamenti dell'uomo esteriore, noi poniamo anche le basi
dell'edificio della preghiera e per noi sarà meno difficile condurre in
seguito questo edificio fino alla sommità, quando parleremo delle
disposizioni dell'uomo interiore.
Innanzitutto mi guida questo pensiero: se, a causa della fine prematura
della vita, non potessi comporre a tempo opportuno, con il permesso di
Dio, il trattato che desidero, per lo meno vorrei lasciarvi in questo
libro alcuni elementi di una dottrina così necessaria. Poiché io so che
il vostro desiderio vorrebbe già possederla tutta e ritenete l'intera
spiegazione troppo lenta ad arrivare. Mentre Dio mi concede il tempo su
questa terra, io desidero quindi tracciare almeno delle linee direttrici
di ciò che è la preghiera, che servano a formare in particolare coloro
che vivono nei monasteri di cenobiti.
Infine, io penso anche a coloro che conosceranno questo libro, ma non
riusciranno mai a procurarsi l'altro: bisogna che costoro su questo
(libro) possano essere istruiti, almeno parzialmente, sulla qualità
della preghiera e, mentre sono istruiti sull'abito e sul contegno
dell'uomo esteriore, non ignorino il modo in cui si devono offrire i
sacrifici spirituali. In effetti, i modesti libri, (le
Istituzioni), che ora ho
deciso di scrivere con l'aiuto di Dio, riguardano più l'osservanza
dell'uomo esteriore e la disciplina monastica; gli altri, (le
Conferenze), avranno al
contrario per oggetto il comportamento dell'uomo interiore, la
perfezione del cuore, la vita e la dottrina degli anacoreti.
CAPITOLO X. Le orazioni dei monaci
egiziani includono silenzio e brevità.
Quando, dunque, (in Egitto) i fratelli si radunano per celebrare le
solennità di cui ho detto e che loro chiamano
sinassi, tutti osservano un
tale silenzio che, nonostante sia presente una così grande moltitudine,
si potrebbe pensare che non ci sia assolutamente nessuno, eccetto colui
che canta il salmo stando in piedi nel mezzo.
Questo è ancora più notevole durante la preghiera finale. Non sentiamo
nessuno sputare, espettorare, tossire o sbadigliare con la bocca aperta
e spalancata. Non un gemito, nemmeno un sospiro che possa infastidire i
vicini, non una voce tranne quella del sacerdote che conclude la
preghiera. Solo i suoni attutiti che sfuggono dalle labbra nel trasporto
della preghiera o che si elevano impercettibilmente in un cuore
infiammato da un eccessivo ed incontenibile fervore di spirito, quando,
impotente a contenere in sé gli ardori che lo divorano, cerca un
sollievo in una sorta di ineffabile gemito proveniente dal profondo
dell'essere.
Ma riguardo a colui che, in uno stato di tiepidezza, emette dei clamori
di supplica o fa uscire dalla bocca uno di quei suoni di cui abbiamo
parlato, in particolare degli sbadigli, essi lo dichiarano doppiamente
in colpa: in primo luogo perché si rende colpevole della sua preghiera
che offre a Dio con negligenza; in secondo luogo, perché egli distrae
con questo rumore indisciplinato il suo vicino che senza dubbio avrebbe
potuto pregare con più ardore.
Ecco perché raccomandano di concludere con celerità la preghiera, per il
timore che, se tardiamo troppo, la sovrabbondanza di saliva o di catarro
possa interrompere il fervore della nostra preghiera. Dobbiamo, per così
dire, strapparla in modo rapido dalle fauci del nemico mentre è ancora
tutta fervente. Perché, benché ci sia sempre ostile, non c'è dubbio che
egli ci faccia particolarmente guerra, quando vede che vogliamo offrire
al Signore le nostre preghiere contro di lui. Esso suscita diversi
pensieri e stati d'animo, al fine di rimuovere la nostra anima dalla sua
ardente supplica e quindi di intiepidire il suo fervore iniziale.
È per questo che i padri reputano preferibile fare brevi preghiere ma
frequenti: molto frequenti per poter aderire costantemente a Dio con
queste ripetute invocazioni; brevi per evitare, con la loro brevità, le
insidie del diavolo che si sforza di trafiggerci soprattutto nel tempo
della preghiera.
CAPITOLO XI. Con quale metodo i
monaci egiziani recitano i salmi.
Per lo stesso motivo, essi non cercano di recitare i salmi che cantano
in comunità tutti in una volta, ma li recitano in parti e ne fanno,
secondo il numero dei versetti, due o tre sezioni, separate da orazioni.
Infatti, non si soddisfanno della moltitudine dei versetti, ma
dell'intelligenza spirituale e con tutte le loro forze cercano di
realizzare il precetto (dell'Apostolo): "Canterò
con lo spirito, ma canterò anche con l'intelligenza" (1 Cor 14,15).
Essi ritengono più utile cantare dieci versetti e capirli, piuttosto che
un intero salmo nella confusione della mente.
A volte questa confusione è dovuta alla fretta del corista. Considerando
la lunghezza ed il numero dei salmi che rimangono da cantare, invece di
cercare di rendere chiari agli ascoltatori i significati espressi (nelle
parole che canta), egli si affretta a raggiungere la fine della sinassi.
Inoltre, quando qualcuno dei giovani, o per fervore di spirito, o per
formazione insufficiente, supera la misura abituale (dei versetti) da
cantare, l'anziano lo interrompe colpendo con la mano sul sedile dove è
seduto, facendo così alzare in piedi tutti per la preghiera. L'anziano
veglia attentamente affinché un'eccessiva lunghezza dei salmi non generi
fastidio ai presenti. Con questa dismisura, non solo il cantore perde
lui stesso l'intelligenza fruttuosa del salmo, ma causa anche un danno
agli altri, ispirando loro il disgusto della sinassi.
Un principio che osservano anche con la massima fedeltà è questo: quando
la risposta (all'ultimo salmo) prevede l'Alleluia,
si dicono solo (come salmi conclusivi) i salmi che hanno l'Alleluia scritto nel titolo.
Ecco quale è il loro modo di dividere i dodici salmi. Se ci sono due
fratelli, ciascuno ne canta sei; se sono tre, ognuno ne canta quattro e
se sono quattro, ognuno tre. Nelle assemblee (ogni cantore) non canta
mai un numero di salmi inferiore a questo; in questo modo, per quanto
grande sia il numero dei presenti, non ci saranno mai più di quattro
fratelli incaricati del canto durante la
sinassi.
CAPITOLO XII. Perché (gli
egiziani) rimangono seduti durante la sinassi mentre un solista
salmeggia e con quale cura prolungano le veglie fino all'alba, una volta
tornati nelle loro celle.
Essi rendono leggero questo numero canonico di dodici salmi, di cui
abbiamo parlato, adottando una posizione riposante per il corpo.
L'usanza nel compimento delle celebrazioni comunitarie è questa: ad
eccezione di colui che si alza in piedi per cantare i salmi in mezzo
all'assemblea, tutti rimangono seduti su sedili molto bassi e seguono la
voce del cantore con cuore attento. Affaticati come sono dai digiuni,
dal lavoro del giorno e della notte, non sarebbero in grado, se non si
prendessero questo sollievo, di arrivare fino alla fine di una pur
misurata salmodia stando in piedi. Perché essi non lasciano trascorrere
un solo momento che non sia occupato dal lavoro. Non solo si dedicano
con tutto il loro cuore alle occupazioni manuali compatibili con la luce
del giorno, ma cercano con sollecitudine (quei lavori) che anche la più
spessa oscurità non li possa impedire, persuasi che raggiungeranno una
purezza di cuore ed una contemplazione spirituale tanto più sublimi
quanto più si saranno applicati al lavoro ed alla fatica con devozione.
In questo modo loro pensano che questo piccolo numero di preghiere
canoniche sia divinamente misurato per riservare, a coloro la cui fede è
più ardente, il tempo di proseguire la loro infaticabile corsa verso la
virtù, senza però infastidire quelli che sono stanchi e malati con
un'eccessiva prolissità.
Quindi, quando le funzioni canoniche sono terminate secondo la modalità
abituale, ciascuno torna nella sua cella. Egli vive lì da solo o al
massimo con un altro col quale condivide il lavoro o l'obbedienza ad un
maestro od il genere di formazione o la somiglianza nel grado di virtù
(raggiunto). Qui nella cella ricominciano con più ardore lo stesso
ufficio della preghiera, come sacrificio personale, e nessuno si
abbandona al riposo del sonno fino a quando, all'alba, l'attività del
giorno succede al lavoro ed alla meditazione della notte. |
CAPUT XIII. Quare post missam nocturnam dormire non
oporteat.
Quem laborem, praeter illam rationem, qua tota
industria annitentes sacrificium Deo de fructu manuum suarum offerre se
credunt, duabus ex causis cum omni observatione custodiunt. Quod nos
quoque si perfectioni studemus, eadem diligentia convenit observare.
Prima ne forte purificationem nostram nocturnis psalmis
et orationibus acquisitam, invidus inimicus livens puritati nostrae, cui
maxime insidiatur semper, et indesinenter infestus est, quadam somni
illusione contaminet. Qui post illam satisfactionem, quam pro
negligentiis seu ignorationibus nostris obtulimus, et confessionis
nostrae veniam profusis gemitibus imploratam, sollicitus nos, si tempus
quietis invenerit, maculare festinat, tunc praecipue fiduciam nostram
dejicere atque enervare contendens, cum ferventius nos ad Deum tendere
orationum nostrarum puritate perviderit: ita ut nonnumquam quos per
totum noctis spatium sauciare non potuit, sub illius horae brevissimo
tempore dehonestare conetur (Vide Collat. 22, quae est de nocturnis
illusionibus).
Secunda vero, quod tametsi nulla talis verenda diaboli
emergat illusio, intercedens etiam purus sopor inertiam monacho mox
evigilaturo parturiat, segnemque torporem inferens menti, per totum diei
spatium vigorem ejus obtundat, illamque hebetet perspicaciam sensus, et
pinguedinem cordis exhauriat, quae nos possit per totum diem adversus
omnes insidias inimici cautiores robustioresque servare.
Quamobrem canonicis vigiliis privatae ab eis
subjunguntur excubiae, ac majore illis observatione succedunt, ut et
illa purificatio quae psalmis et orationibus est acquisita, non pereat;
et intentior sollicitudo diligentius nos per diem custoditura,
praeparetur meditatione nocturna.
CAPUT XIV. Quemadmodum in
cellulis suis opus manuum et orationes pariter exerceant.
Et idcirco eas cum adjectione
operis exsequuntur, ne velut otiosis valeat somnus irrepere. Sicut enim
nullum ferme ab eis otii tempus excipitur, ita nec meditationi quidem
spiritali finis imponitur. Nam pariter exercentes corporis animaeque
virtutes, exterioris hominis stipendia cum emolumentis interioris
exaequant, lubricis motibus cordis et fluctuationi cogitationum
instabili, operum pondera, velut quamdam tenacem, atque immobilem
anchoram praefigentes, cui volubilitas ac pervagatio cordis innexa intra
cellae claustra, velut in portu fidissimo valeat contineri; atque ita
spiritali meditationi tantum, et custodiae cogitationum intenta, non
modo ad consensum pravae cujusque suggestionis pervigilem mentem
corruere non sinat, verum etiam ab omni superflua, otiosaque cogitatione
custodiat; ita ut quid ex quo pendeat, haud facile possit a quoquam
discerni, id est, utrum propter meditationem spiritalem incessabile
manuum opus exerceant, an propter operis jugitatem tam praeclarum
spiritus profectum, scientiaeque lumen acquirant.
Finitis itaque psalmis, et
quotidiana congregatione, sicut superius commemoravimus, absoluta,
nullus eorum vel ad modicum subsistere, aut sermocinari audet cum
altero: sed ne quidem per totum diei spatium e cella sua progredi, aut
deserere opus quod in ea solitus est exercere, praesumit, nisi forte cum
fuerint ad officium necessarii cujusque operis evocati. Quod ita explent
fores egressi, ut nulla inter eos sermocinatio penitus conseratur. Sed
sic unusquisque opus exsequitur injunctum, ut psalmum vel scripturam
quamlibet memoriter recensendo, non solum conspirationi noxiae, vel
consiliis pravis, sed nec otiosis quidem colloquiis, ullam copiam vel
tempus impartiat, oris pariter et cordis officio in meditatione
spiritali jugiter occupato.
Summa namque observantia
custoditur, ne quisquam cum alio, ac praecipue juniores [ Al.
juniore], vel ad punctum temporis pariter substitisse, aut uspiam
secessisse, vel manus suas invicem tenuisse deprehendantur. Si qui vero
contra hujus regulae disciplinam, reperti fuerint aliquid ex his quae
interdicta sunt, admisisse, ut contumaces, ac praevaricatores
mandatorum, non levis culpae rei pronuntiati, suspicione etiam
conjurationis, pravique consilii carere non poterunt. Quam culpam nisi
in unum cunctis fratribus congregatis publica diluerint poenitentia,
orationi fratrum nullus eorum interesse permittitur.
CAPUT XVI. Quod nulli orare cum
illo, qui fuerit ab oratione suspensus, liceat.
Sane si quis pro admisso quolibet
delicto fuerit ab oratione suspensus, nullus cum eo prorsus orandi habet
licentiam, antequam submissa in terram poenitentia, reconciliatio ejus,
et admissi venia coram fratribus cunctis, publice fuerit ab abbate
concessa.
Ob hoc namque tali observantia
semetipsos ab orationis ejus consortio segregant, atque secernunt, quod
credunt eum qui ab oratione suspenditur, secundum Apostoli sententiam
tradi Satanae: et si quis orationi ejus, antequam recipiatur a seniore,
inconsiderata pietate permotus, communicare praesumpserit, complicem se
damnationis ejus efficiat, tradens scilicet semetipsum voluntarie
Satanae, cui ille pro sui reatus emendatione fuerat deputatus, in eo vel
maxime gravius crimen incurrens, quod cum illo se vel confabulationis,
vel orationis communione miscendo, majorem illi generet insolentiae
formitem, et cotumaciam delinquentis in pejus enutriat. Perniciosum
namque solatium tribuens, cor ejus magis ac magis faciet indurari, nec
humiliari eum sinet ob quod fuerat segregatus; et per hoc, vel
increpationem senioris non magni pendere, vel dissimulanter de
satisfactione et venia cogitare. |
CAPITOLO XIII. Perché non è
opportuno dormire dopo l'ufficio della notte.
Affannandosi in tal modo senza sosta essi sono convinti di offrire un
sacrificio a Dio col frutto del loro lavoro. Inoltre, altri due motivi
li spingono ad essere scrupolosamente fedeli a questo lavoro (notturno).
Se noi abbiamo lo zelo della perfezione, dovremmo seguire la loro
pratica con la stessa diligenza.
Innanzitutto bisogna temere che il nemico geloso, invidioso della nostra
purezza, contro la quale egli rivolge delle insidie e cerca senza sosta
di corrompere, non contamini con qualche illusione del sogno la
purificazione che noi abbiamo acquisito con i salmi e le preghiere
notturne. Dopo questa soddisfazione che abbiamo appena offerto (a Dio)
per le nostre negligenze e le nostre ignoranze, dopo il perdono che le
nostre confessioni e le nostre lacrime hanno implorato, (il nemico)
mette ancor più entusiasmo a combatterci se trova nel tempo del riposo
un'opportunità favorevole. Poiché lui si sforza in particolare di
abbattere e di indebolire la nostra fiducia quando ci vede tendere verso
Dio con più fervore con la purezza delle nostre preghiere e, non avendo
potuto farci del male tutta la notte, cerca di farlo in questo breve
momento.
In secondo luogo, anche senza alcuna illusione diabolica, il sonno, in
quest'ora, genera uno stato di inerzia nel monaco che è prossimo al
risveglio. Esso immerge la mente in un pigro torpore e smorza il suo
vigore per l'intera giornata; inoltre indebolisce quell'acutezza dei
sensi e prosciuga quell'abbondanza del cuore che ci avrebbero conservati
più prudenti e più forti, durante tutto il giorno, contro tutte le
astuzie del nemico.
Ecco perché essi uniscono alle vigilie canoniche delle veglie private e
vi si applicano con ancor più impegno: è al fine di non perdere la
purificazione acquisita coi salmi e con le preghiere e perché la
meditazione della notte ci prepari a meglio conservare durante il giorno
un'attenzione più intensa.
CAPITOLO XIV. Come (i monaci
egiziani) praticano nello stesso tempo il lavoro e la preghiera nelle
loro celle.
Essi uniscono il lavoro a queste veglie per il timore che, col favore
dell'ozio, il sonno non li sorprenda. Neanche un momento, per così dire,
viene riservato al tempo libero e tanto meno impongono un limite alla
meditazione spirituale. Praticando sia le virtù del corpo che quelle
dell'anima, essi fanno in modo che l'uomo esteriore ne tragga lo stesso
profitto dell'uomo interiore. Inoltre, per loro il lavoro è come un peso
che essi gettano sulla fugace mobilità del cuore e sulla incerta
fluttuazione dei pensieri, come un'ancora tenace ed immutabile. In
questo modo diventa possibile trattenere l'incostanza del cuore e la sua
volubilità dentro i muri della cella, come in un porto molto sicuro.
Tutta l'attenzione va ora alla meditazione spirituale ed alla custodia
dei pensieri. L'anima è estremamente vigile e, lungi dal lasciarsi
abbandonare ad una qualsiasi suggestione malvagia, si astiene da ogni
pensiero vano e superfluo, tanto che sarebbe difficile discernere qual è
l'effetto e qual è la causa: se è la meditazione spirituale che permette
loro di dedicarsi incessantemente al lavoro delle mani oppure è proprio
il lavoro continuo che fa loro guadagnare tanto progresso nello spirito
e così tanta luce di conoscenza.
CAPITOLO XV. Con quale regola
disciplinare ciascuno ritorna nella sua cella dopo l'ufficio divino e
come venga rimproverato colui che agisce diversamente.
Di conseguenza, terminati i salmi anche l'assemblea quotidiana si
conclude, come abbiamo detto prima, e nessuno, neanche per poco tempo,
osa indugiare o conversare con un altro. Ma neanche durante la giornata
nessuno ha la presunzione di andare fuori dalla sua cella o di
abbandonare il lavoro che è abituato a fare lì, tranne il caso in cui
sia chiamato per un lavoro indispensabile. Essi allora escono ed
adempiono tale lavoro senza allacciare nessuna conversazione. Ognuno
compie il lavoro che gli è stato ingiunto, ripetendo a memoria o un
salmo o qualche altro passo delle Scritture. In questo modo i malvagi
intrighi ed i perversi disegni, così come le conversazioni inutili, non
trovano né l'occasione, né il tempo per venire alla luce, essendo la
bocca ed il cuore costantemente impegnati nella meditazione spirituale.
Questo è anche (un argomento) che osservano con la massima severità: due
monaci, soprattutto i giovani, non devono mai essere visti stare
insieme, né ritirarsi in disparte o tenersi per mano, fosse anche per un
solo momento. Se poi alcuni vengono riconosciuti come gli autori di una
qualche violazione di questa regola, essi sono considerati dei ribelli,
trasgressori delle leggi stabilite e trovati colpevoli di una grave
mancanza; costoro non potranno nemmeno sfuggire al sospetto di complotto
e di intenzioni malvage. E fintanto che non avranno cancellato il loro
crimine con una penitenza pubblica in presenza di tutti i fratelli
riuniti, non sarà più permesso loro di partecipare alla preghiera comune
dei fratelli.
CAPITOLO XVI. A nessuno è permesso
pregare con colui che è stato sospeso dalla preghiera comune.
Se un (monaco), per qualsiasi reato, è stato sospeso dalla preghiera
comune, nessuno ha il permesso di pregare con lui finché non abbia fatto
penitenza prostrandosi a terra e l'abate, alla presenza di tutti i
fratelli, gli abbia accordato pubblicamente la riconciliazione con il
perdono della sua colpa. Questa stretta osservanza del non partecipare alla preghiera con costui deriva dalla persuasione che colui che viene escluso dalla preghiera sia consegnato a Satana, secondo la parola dell'Apostolo. (Cfr. 1 Cor 5,5). Di conseguenza, colui che si lascia commuovere da una pietà sconsiderata ed osa partecipare alla sua preghiera prima che l'anziano l'abbia (di nuovo) accolto, diventa complice della sua condanna e si consegna volontariamente a Satana, al quale l'altro era stato abbandonato al fine della correzione della sua colpa. Il suo crimine sarebbe ancor più grave perché, parlando o pregando in unione con lui favorisce la sua insolenza e nutre maggiormente il suo spirito di rivolta. Accordandogli una consolazione pericolosa (il colpevole) indurirà sempre più il suo cuore e sarà ormai incapace di umiliarsi per la colpa che gli ha meritato la scomunica. Allora darà poca importanza ai rimproveri dell'anziano oppure farà in modo di fingere di pentirsi e di chiedere perdono. |
CAPUT XVII. Quod is qui ad orationem exsuscitat,
hora solita debeat eos commonere.
Is autem, cui religiosi conventus commonitio, vel
synaxeos cura committitur, non passim, ut libitum est, nec prout nocte
fuerit expergefactus, aut opportunitas eum somni proprii seu insomnii
coarctaverit, fratres etiam ad quotidianas vigilias exsuscitare
praesumit. Sed quamvis eum consuetudo diuturna, hora solita evigilare
compellat, tamen sollicite, frequenterque stellarum cursu praestitutum
congregationis tempus explorans, ad orationum eos invitat officium, ne
in utroque inveniatur incautus, si vel oppressus somno statutam noctis
transgrediatur horam; vel eamdem dormiturus, atque festinus ad somnum
anticipet, et non tam officio spiritali, vel quieti omnium deservisse,
quam requiei suae satisfecisse credatur.
CAPUT XVIII. Quod a vespera Sabbati usque ad
vesperam diei Dominicae genua non flectantur.
Hoc quoque nosse debemus, a vespera sabbati, quae
lucescit in diem dominicum, usque ad vesperam sequentem apud Aegyptios
genua non curvari; sed nec totis quidem Quinquagesimae diebus, nec
custodiri in eis jejuniorum regulam:
Quarum rerum ratio suo loco in Collationibus Seniorum,
cum Dominus jusserit, exponetur. (Collat. 22.). Nunc propositum
est nobis causas tantummodo brevi narratione percurrere, ne statutum
modum volumen excedens, aut fastidio legentem oneret, aut labore. |
CAPITOLO XVII. Colui che sveglia i
fratelli per la preghiera deve farlo alla solita ora.
Chiunque ha l'incarico di avvertire i fratelli per la sinassi non si
prende la libertà di svegliarli per le vigilie quotidiane a qualsiasi
ora della notte, a suo piacimento o a seconda di quando si sveglia lui,
e neppure all'ora che rispetta il proprio ciclo del sonno e della
veglia. Anche se un'abitudine quotidiana lo porta a svegliarsi sempre
alla solita ora, tuttavia egli non tralascia di consultare con
sollecitudine e ripetutamente il corso delle stelle, al fine di leggervi
il tempo fissato per la sinassi. È allora che egli invita i fratelli
all'ufficio della preghiera, in modo da non dare prova di imprudenza nei
due casi: o di lasciar passare l'ora, oppresso dal sonno, o di
anticiparla per poter tornare a dormire più in fretta, dando
l'impressione di preoccuparsi meno dell'ufficio divino o del riposo dei
fratelli che della sua propria comodità.
CAPITOLO XVIII. Dal vespro del
sabato al vespro della domenica non ci si inginocchia.
Dobbiamo sapere anche ciò: presso (i monaci) egiziani dal vespro del
sabato, che precede l'alba della domenica, e fino al vespro del giorno
seguente non ci si inginocchia, così come durante i cinquanta giorni
prima della Pentecoste. In questi periodi non si osserva neanche la
regola del digiuno.
Di questa usanza dirò la ragione a suo tempo nelle Conferenze degli
Anziani (Cfr. Conf. XXI),
quando il Signore lo vorrà. Allo stato attuale il nostro scopo è solo
quello di accennare all'argomento, per il timore che questo volume,
andando oltre la giusta misura, diventi causa di stanchezza e noia per
il lettore. |
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29 dicembre 2018 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net