LE ISTITUZIONI CENOBITICHE
di GIOVANNI CASSIANO
LIBRO DECIMO
LO SPIRITO DELL'ACCIDIA
Estratto da “Giovanni Cassiano - Le istituzioni cenobitiche" - EDIZIONI QIQAJON 2007
e da “Giovanni Cassiano - Le istituzioni cenobitiche" - EDIZIONI SCRITTI MONASTICI - ABBAZIA DI PRAGLIA
Link al testo latino con traduzione a fronte
1. LA NATURA DELL'ACEDIA
La nostra sesta lotta è contro il vizio che i greci chiamano akédia e che noi possiamo definire tedio o ansietà del cuore. Affine alla tristezza, esso mette alla prova soprattutto i solitari ed è un nemico che attacca più spesso coloro che dimorano nel deserto. Disturba il monaco soprattutto verso l'ora sesta, assalendo la sua anima malata con le ardentissime fiamme dei suoi accessi sempre alle stesse ore, proprio come una febbre che ritorna a intervalli regolari. Appunto per questo alcuni anziani lo identificano con il «demone di mezzogiorno» di cui si parla nel salmo novanta (cf. Volgata, Sal 90 [91], 5-6).
2. DESCRIZIONE DELL'ACEDIA:
IN CHE MODO ESSA S'INSINUA NEL CUORE DEL MONACO E QUALI DANNI PROCURA ALLA SUA
MENTE
1. Quando questo demone si è
impadronito della mente di qualche miserabile, genera in lui l'avversione per il
luogo, il disgusto della cella e addirittura lo sdegno e il disprezzo per i
fratelli che vivono con lui o a una certa distanza, presentandoglieli come
persone negligenti e assai poco spirituali. Lo rende ozioso e inerte per
qualunque lavoro che egli debba svolgere nel chiuso della sua cella,
impedendogli di dimorare in essa e di applicarsi alla lettura. Assai spesso egli
si lamenta che tutto quel tempo passato in cella non gli procura il minimo
profitto; sospira e brontola che non otterrà alcun frutto spirituale finché
rimarrà unito a quella comunità, e si rammarica di vedersi privo di qualunque
guadagno spirituale e di dover rimanere in quel luogo a far nulla: proprio lui,
che avrebbe le capacità di guidare anche altri e di essere utile a così tante
persone, non ha potuto edificare nessuno, né far progredire qualcuno con la sua
regola di vita e i suoi insegnamenti.
2. Si profonde in lodi
sperticate di monasteri lontani e molto distanti, ne descrive anche i luoghi
come più favorevoli al progresso spirituale e più adatti alla salvezza, e
perfino le comunità che vi abitano le dipinge come amabili e piene di autentica
vita spirituale; al contrario, tutto ciò che ha a portata di mano è per lui
sgradevole, e dice non solo che tra i fratelli che vivono in quel luogo non c’è
alcun esempio edificante, ma che si fa grande fatica persino a trovare il cibo
necessario per sostentare il corpo. Finisce così per convincersi che non può
salvarsi restando in quel luogo, se non se ne va quanto prima lasciando la
propria cella, con la quale - pensa - si dannerebbe, se vi dimorasse ancora un
po’.
3. Poi, alla quinta o alla
sesta ora, si sente così fiacco e così affamato, che gli sembra di essere stanco
e spossato come dopo un lungo viaggio e un lavoro pesantissimo, o come se avesse
passato due o tre giorni senza mangiare. Allora si guarda ansiosamente in giro,
di qua e di là, e si lamenta che nessuno dei fratelli venga a trovarlo. Esce e
rientra spesso nella sua cella, e guarda in continuazione il sole, come se fosse
troppo lento a tramontare. La sua mente è in preda alla confusione senza
ragione, come avvolta da una tenebrosa caligine, ed egli diventa talmente ozioso
e incapace di qualunque attività spirituale, da credere di non poter trovare
altro rimedio a questo suo tormento che nella visita di qualche fratello o nel
sollievo del sonno.
4. Poi questa malattia, con il pretesto della cortesia o di qualche necessità, gli suggerisce di andare a salutare i fratelli e visitare gli infermi, anche se abitano molto lontano. Gli consiglia anche qualche pietosa opera di carità, come per esempio di cercare notizie di questo o di quella tra i suoi familiari e di affrettarsi ad andarli a salutare continuamente. Gli mette in mente che sarebbe una grande opera di misericordia andare a visitare spesso questa o quella donna devota e consacrata a Dio, specialmente se priva di qualunque sostegno da parte dei parenti, e che sarebbe un dovere sacrosanto procurarle qualunque cosa le sia necessaria, dal momento che è trascurata e disprezzata dai suoi: non è forse molto più necessario spendersi in queste opere di misericordia che rimanere inutilmente in cella senza alcun profitto?
3. IN
QUANTI MODI L’ACCIDIA VINCE IL MONACO
Tutti
gli effetti dannosi di questo male furono opportunamente indicati dal beato
profeta Davide in un solo versetto, allorché dichiarò: «La mia anima prese sonno
a causa del tedio» (Sal 118 [119], 28) ed è quanto dire «a causa dell’accidia».
Con adattata proprietà egli non dichiarò che era stato il corpo ad
addormentarsi, ma l’anima. Ed è veramente l’anima quella che si addormenta,
quando viene ferita dai colpi di queste alterazioni e si distoglie da ogni
contemplazione delle virtù e dalla visione dei sensi spirituali.
Pertanto
il vero atleta di Cristo, se intende intraprendere lealmente la prova della
perfezione, s’affretti a espellere dai recessi più intimi della propria anima
questo male e si prepari pure a combattere questo perverso spirito dell’accidia
su l’uno e l’altro fronte in modo da non soccombere una volta oppresso dal sonno
e anche per non indursi ad abbandonare, come un fuggiasco, il recinto del
monastero sotto un pretesto qualunque piamente colorito.
6. I
DANNI PRODOTTI DALL’ACCIDIA
E in
realtà, chiunque e da qualsiasi parte quella passione abbia cominciato a
tiranneggiare, lascerà che lui continui a restare dentro la sua propria cella
senza alcun profitto dello spirito, come un debole arresosi di fronte ai suoi
attacchi, oppure, dopo averlo costretto a uscirne, lo renderà, per l’avvenire,
instabile ed errabondo e così, divenuto inetto a ogni lavoro, lo obbligherà ad
aggirarsi continuamente tra le celle dei confratelli e tra i monasteri con la
sola preoccupazione di assicurarsi dove e con ogni pretesto gli si offra
l’occasione di una prossima refezione. Di fatto la mente dell’uomo ozioso non sa
rivolgersi ad altro se non al nutrimento dello stomaco, finché, trovata la
compagnia di qualche uomo o di qualche donna intorpidita nella stessa
tiepidezza, si lascerà irretire nei loro interessi e nelle loro necessità, e
così a poco a poco rimarrà avviluppato in occupazioni nocive al punto che, come
stretto nelle spire di un serpente, mai più sarà in grado di liberarsene per
ritornare alla perfezione della primitiva professione.
7. LE
TESTIMONIANZE DI PAOLO CONTRO L’ACCIDIA
1. Il
beato apostolo Paolo, alla maniera di un medico autentico e spirituale, sia
perché avvertiva che già allora serpeggiava questo malore, nato dallo spirito
dell’accidia, oppure perché, attraverso l’ispirazione dello Spirito Santo,
prevedeva che avrebbe potuto insinuarsi, si premurò di prevenirlo con i salutari
rimedi dei suoi consigli. Scrivendo ai Tessalonicesi, dapprima, come un medico
espertissimo e perfetto, egli cerca di rinvigorire la debolezza dei suoi
pazienti, presi in cura, con l’intervento blando e leggero della sua parola; in
seguito prende motivo dalla carità, per questa stessa ragione, e li copre di
molte lodi in modo che la loro ferita mortale, trattata con un rimedio più
leggero, e dopo aver represso il gonfiore della reazione, possa sopportare più
facilmente medicamenti più gravosi. Quindi egli prende a dire: «Per quanto
riguarda la carità fraterna non avete bisogno che io ve lo scriva, perché avete
imparato da Dio stesso ad amarvi gli uni gli altri. È appunto quello che fate
verso tutti i fratelli dell’intera Macedonia» (1 Ts 4, 9-10).
2.
L’Apostolo volle così premettere il leggero conforto delle lodi, e rese le loro
orecchie serene e disposte al rimedio della sua parola di salvezza. E di nuovo
aggiunge: «Noi vi esortiamo, fratelli, a farlo sempre di più»
(Ibid.). Egli insiste
nell’addolcirli con la blanda leggerezza delle sue parole per non correre il
rischio di trovarli ancora poco disposti all’accoglimento di una cura completa.
Che cosa è mai, o apostolo Paolo, quello che tu chiedi? In che cosa debbono
adoperarsi per fare sempre di più? «Per quanto riguarda la carità fraterna non
avete bisogno che io ve lo scriva»
(Ibid.). Che bisogno c’era mai di
dire ad essi: «Noi vi esortiamo sempre di più», ammesso che su questo argomento
non avevano bisogno che si scrivesse ad essi cosa alcuna? Tanto più, o Paolo,
che tu adduci pure la ragione, per cui non ne avevano bisogno, affermando:
«Avete imparato da Dio stesso ad amarvi gli uni gli altri»
(Ibid.).
In terzo luogo tu aggiungi ancora un’altra ragione, in quanto non solo essi
vengono istruiti da Dio, ma compiono pure, di fatto, quanto venne loro
insegnato: «Infatti, fratelli, è appunto quello che voi fate», egli esclama: non
per uno solo, oppure per due, «ma verso tutti i fratelli», e non soltanto verso
i vostri concittadini o i vostri conoscenti, ma «nell’intera Macedonia»
(Ibid.).
3. E
allora, o Paolo, confessa finalmente per quale motivo hai scritto con tanta
premura una simile premessa! Egli di nuovo insiste, aggiungendo: «Vi esortiamo,
fratelli, a farlo sempre di più», e quasi a stento egli dichiara finalmente
quello che già prima intendeva di affermare: «Cercate con ogni premura di vivere
nella pace» (1 Ts 4, 11). Ha richiamato il primo motivo, ma poi ne enuncia un
secondo: «Occupatevi ciascuno dei propri affari», e poi anche un terzo:
«Lavorate con le vostre mani come vi abbiamo prescritto»
(Ibid.);
quindi un quarto motivo: «Così vi comporterete con decoro di fronte a quelli di
fuori» (1 Ts 4, 12); e ancora un quinto: «E non avrete bisogno delle cose di
nessuno» (Ibid.). Ecco la ragione del
perché egli differiva con tante prudenti premesse quello che ora si vede
scaturire dal suo pensiero: «Cercate con ogni premura di vivere nella pace»,
vale a dire, «restando nelle vostre celle»; e non recate ad altri le vostre
inquietudini, divenuti a vostra volta inquieti per dicerie e maldicenze che
sogliono essere provocate dalle bramosie arbitrarie e insoddisfatte di quanti
vivono nell’ozio.
4.
«Occupatevi ciascuno dei vostri affari» (1 Ts 4, 11): non cercate di indagare,
con la vostra curiosità, la vita del mondo; se andrete a spiare gli usi e i
costumi di quelli che conducono una vita diversa dalla vostra, non vi occuperete
della vostra correzione e dell’acquisto delle virtù; ma piuttosto della
denigrazione dei vostri fratelli. «Lavorate con le vostre mani, come vi abbiamo
prescritto»
(Ibid.). Ad evitare le cose che in
precedenza egli aveva ammonito di non compiere, vale a dire, di non vivere con
inquietudine e di non occuparsi degli affari altrui oppure di comportarsi in
maniera poco dignitosa nei confronti di coloro che vivono fuori o di desiderare
le cose degli altri, egli volle insistere, affermando: «Lavorate con le vostre
mani, come vi abbiamo prescritto» (1 Ts 4, 11).
5. Ad
evitare dunque le cose che egli in precedenza aveva biasimato, ne ricondusse
ovviamente la prima origine all’ozio. Nessuno infatti potrebbe vivere
nell’inquietudine oppure occuparsi dei fatti altrui, se non perché non si
rassegna a darsi con perseveranza al lavoro delle proprie mani. Egli chiamò in
causa anche un quarto malore che spunta fuori da questo stesso oziare, e cioè il
fatto di comportarsi in maniera poco onorevole, e perciò ebbe a dire:
«Comportatevi onestamente verso coloro che sono fuori» (1 Ts 4, 12). Non
riuscirebbe mai a comportarsi esemplarmente, nemmeno con quelli che vivono nel
mondo, uno che non fosse contento di restarsene dentro le pareti della propria
cella e non attendesse al lavoro delle proprie mani. Ne risulterebbe invece
necessariamente, da parte sua, un contegno poco dignitoso, costretto come
sarebbe a cercare il vitto a lui necessario, come pure a offrire adulazioni, a
dare la caccia alle novità del giorno e a non perdere tutti i pretesti dei
litigi e delle dicerie come occasioni buone per introdursi nelle case degli
altri.
6. «Non
desiderate le cose di nessuno»
(Ibid.). Non è possibile non bramare
doni e offerte dagli altri per chi non si accontenta di procurarsi il vitto
necessario ogni giorno con la pia e serena fatica del proprio lavoro. Voi stessi
potete osservare come possono nascere cause così numerose, così gravi e così
poco onorevoli anche per una sola caduta di questo genere. Infine proprio quegli
stessi che nella Epistola precedente egli aveva cercato di blandire con parole
di sollievo, nella seconda Epistola, come se essi non avessero fatto nessun
progresso per effetto di medicamenti troppo leggeri, cerca di risanarli con
alcuni farmaci più energici e incisivi; non promette rimedi a base di parole
dolci o con voce tenera e blanda, come quando scrive: «Vi scongiuriamo,
fratelli» (1 Ts 4, IO), ma piuttosto: «Vi ordiniamo, fratelli, in nome del
Signore nostro Gesù Cristo, di evitare ogni fratello che vive oziosamente» (2 Ts
3, 6).
7. Là
egli chiede, qui egli comanda; nella prima Lettera egli dimostra l’affetto di
chi blandisce, nella seconda la severità di chi chiama Dio come testimone, e
ricorre alle minacce: «Vi ordiniamo, fratelli»
(Ibid.); in precedenza,
quando noi vi pregavamo, avete ricusato di prestarci ascolto; almeno ora, che vi
ordiniamo, dovete obbedire. E questo stesso temibile comando egli non lo
presenta con semplici parole, ma con il richiamo del nome del nostro Signore
Gesù Cristo, proprio perché essi, per avventura, non riprendano a disprezzare
nuovamente quel comando come se fosse espresso da semplice voce umana e
credessero di non doverlo mettere in pratica col medesimo impegno. Così,
sollecitamente, come un medico espertissimo di fronte a membra ulcerose, alle
quali non è possibile arrecare un rimedio con medicamenti leggeri, tenta di
guarirle con l’incisione del ferro dello spirito, ricorrendo a queste voci
persuasive: «... allo scopo di evitare ogni fratello che vive oziosamente e non
secondo l’insegnamento che avete ricevuto da noi» (2 Ts 3, 6).
8. Per
questo dunque l’Apostolo comanda di dissociarsi da coloro che non vogliono
impegnarsi nel lavoro e di tagliarli via come membra infette dalla putredine
dell’ozio, perché il morbo dell’inerzia non corrompa, come un contagio letale,
anche le parti sane delle altre membra attraverso il serpeggiare di quel sangue
corrotto. E mentre si accinge a parlare di coloro i quali non vogliono lavorare
con le loro mani e mangiare in silenzio il loro pane, persone dalle quali, per
di più, egli ingiunge di star lontani, ascoltate quali marchi d’infamia egli
infligga loro fin dall’inizio. Anzitutto egli li definisce dei «disordinati»,
gente che non cammina secondo i suoi dettami; in altre parole li indica come dei
contumaci per il preciso motivo che essi si rifiutano di camminare secondo i
suoi insegnamenti, e li designa come degli uomini spregevoli, proprio perché non
si attengono alle opportunità convenienti e dignitose per quanto si riferisce
alle uscite e alle visite, al parlare e alle esigenze delle varie ore del
giorno. Infatti chiunque vive in modo disordinato finirà fatalmente per cadere
vittima di tutti questi mali.
9. «Non camminano secondo la tradizione da noi ricevuta» (Ibid.) e con tali parole egli li caratterizza, in certo qual modo, come dei ribelli e degli spregiatori, perché si rifiutano di attenersi alla tradizione ricevuta da lui e non vogliono imitare quello che pur dovrebbero ricordare d’aver egli insegnato come maestro, e non solo attraverso le parole vive, infatti dovrebbero tener presente che egli aveva compiuto tutto questo anche con le opere. «Voi sapete bene che è necessario che ci imitiate» (2 Ts 3, 7). Egli porta fino all’estremo la serie dei suoi rimproveri, quando asserisce che essi non adempivano quello che pur restava impresso nel loro ricordo: avrebbero invece dovuto imparare ad imitarlo non solo per effetto delle sue vive istruzioni, ma anche dietro lo stimolo del suo esempio operoso.
1. «Noi
non fummo mai inquieti in mezzo a voi» (2 Ts 3, 7). Volendo dimostrare di non
essere mai stato inquieto in mezzo a loro, proprio in merito alla sua operosità,
egli pone in evidenza che coloro i quali ricusano di lavorare, vivono in una
continua inquietudine a causa della loro oziosità. «E nemmeno abbiamo mangiato
gratuitamente il pane di nessuno» (2 Ts 3, 8). Attraverso ogni sua parola il
Dottore delle genti aumenta il tono del suo rimprovero. Quel predicatore del
Vangelo afferma di non aver mai mangiato il pane di nessuno gratuitamente,
proprio lui che pur conosceva come il Signore avesse ordinato «a coloro che
annunciano il Vangelo di vivere del Vangelo» (1 Cor 9, 14), e ancora: «L’operaio
ha diritto al suo nutrimento» (Mt 10, 10).
2.
Mentre dunque quel predicatore del Vangelo, anche nel pieno svolgimento di una
missione così sublime e così spirituale, non presumeva di poter pretendere per
sé il nutrimento gratuito, pur potendosi valere del suggerimento del Signore,
che cosa potremo fare noi, ai quali non solo non è stato affidato alcun incarico
di predicazione, ma neppure alcun impegno al di fuori della sola cura dell’anima
nostra? Con quale fiducia oseremo, con le mani inerti, mangiare gratuitamente
quel pane che Paolo, il vaso di elezione, pur fortemente vincolato alla
sollecitudine e alla predicazione del Vangelo, non presumeva di mangiare senza
il lavoro delle sue mani, mentre invece «notte e giorno, con fatica e con pena,
lavorammo per non essere a carico di alcuno di voi» (2 Ts 3, 8)?
3. E
così egli aggiunge ulteriori motivi alla sua severità. Non affermò
semplicemente: «Noi non abbiamo mangiato gratuitamente il pane di nessuno»
(Ibid.),
senza aggiungere altro. Così infatti avrebbe potuto sembrare che egli si fosse
giovato, per sostentarsi, di qualche provento suo proprio al di fuori d’ogni
lavoro, come pure di denaro messo a parte o procuratogli da altri. Tutt’al
contrario, egli insiste nel dire: «Notte e giorno, lavorando con fatica e con
pena» (Ibid.), ed è quanto dire,
sostenuti unicamente dal nostro lavoro. E noi, aggiunge, abbiamo affrontato
quest’impegno, non per una scelta della nostra volontà, e nemmeno per nostro
diletto, come se ci invitasse il desiderio del riposo e il bisogno di
un’attività fisica, ma quando ci costringeva a farlo la necessità e la mancanza
del vitto, e non senza un forte affaticamento del corpo. E infatti non soltanto
per tutta la durata del giorno, ma anche della notte, in quel tempo che sembra
destinato al riposo del corpo io dovevo affrontare continuamente questo lavoro
manuale, premuto dall’esigenza del vitto.
E
nondimeno egli non affermò di essersi comportato tra di loro, lui solo, in quel
modo, proprio perché un tale comportamento, qualora fosse apparso confermato
unicamente dal suo esempio, non sembrasse né decisivo né generale; al contrario,
anche tutti coloro che erano insieme a lui con lo stesso incarico della
predicazione del Vangelo, e cioè Silvano e Timoteo, i quali insieme a Paolo
scrivono queste stesse cose, ebbene, anche costoro, com’egli asserisce, si erano
adoperati nei medesimi lavori. Per il fatto stesso che egli aggiunge: «...
affinché non fossimo a carico di alcuno di voi» (2 Ts 3, 8), insinua in loro un
senso di grande vergogna. Se infatti proprio lui, che predicava il Vangelo e lo
confermava con miracoli e prodigi (cf. 2 Cor 12, 12), non osava mangiare
gratuitamente il suo pane per non essere a carico di nessuno, come mai, proprio
loro, non avrebbero dovuto pensare di essere a carico (dei fedeli) nel presumere
di poter mangiare il pane, standosene tutto il giorno inerti ed oziosi?
«E ciò,
non perché non ne avessimo il diritto, ma per offrirvi in noi stessi un esempio
da imitare» (2 Ts 3, 9). Paolo espone la ragione per cui egli si è imposto
fatiche così gravi: «Per offrirvi in noi stessi un esempio da imitare», egli
afferma, appunto perché, se mai aveste a dimenticare gli insegnamenti della mia
predicazione, frequentemente rivolti al vostro orecchio, almeno fosse possibile
conservare nella vostra memoria gli esempi della mia condotta, a voi offerti
sotto la testimonianza dei vostri occhi. E anche in queste parole non è certo
contenuto un rimprovero leggero nei loro confronti, dato che giunge ad asserire
che per nessun’altra ragione, se non per offrire loro un esempio, egli si è
ridotto a sostenere giorno e notte queste laboriose e penose fatiche fisiche.
Ciononostante essi ricusano di accogliere i suoi insegna- menti, proprio loro,
per i quali egli si è ridotto, pur non avendone nessun obbligo, a sopportare
fatiche così pesanti. E pur avendone avuto il diritto, egli aggiunge, ed essendo
a noi accessibili tutti i vostri averi e i vostri beni, e pur essendo
consapevole di avere, da parte di nostro Signore, il permesso di farne uso,
tuttavia non ho approfittato di questo potere per non offrire ad altri, come
esempio di ozio pernicioso, quello che poteva essere fatto da me onestamente e
lecitamente. Per questo motivo, pur dedicandomi alla predicazione del Vangelo,
ho preferito provvedere al mio sostentamento con il lavoro delle mie mani allo
scopo di aprire anche a voi, se desiderate intraprendere il cammino della virtù,
la via della perfezione, e offrirvi così, con la visione delle mie fatiche, il
comportamento da adottare.
11. SAN
PAOLO ESORTÒ AL LAVORO COL SUO ESEMPIO E CON LE SUE AMMONIZIONI
D’altra
parte, per non sembrare che lavorando senza richiamare la loro attenzione e col
solo intento di istruirli attraverso il suo esempio egli avesse rinunciato anche
al vivo suggerimento dei precetti, così conclude: «Perciò, quando eravamo tra di
voi, vi davamo questo precetto: se qualcuno non vuole lavorare, neppure mangi»
(2 Ts 3, 10). Di nuovo egli rimprovera la loro ignavia, perché essi, pur
conoscendolo come buon maestro in vista della loro istruzione e della loro
formazione, non si curava di imitarlo nel dedicarsi al lavoro delle mani; perciò
egli accresce le sue premure e le sue precauzioni, affermando di essersi offerto
ad essi, quand’era presente, non soltanto con un tale esempio, ma di avere, per
di più, raccomandato continuamente con le sue parole che, se qualcuno non voleva
lavorare, nemmeno presumesse di mangiare.
Ormai
l’Apostolo non fa più uso, nei loro riguardi, dei consigli che sono propri di un
maestro o di un medico, ma si rivolge ad essi con il rigore di una decisione
giudiziaria, e ricorrendo al suo potere apostolico pronuncia contro quei
dispregiatori la sua sentenza come da un tribunale, parlo di quel potere che
egli, scrivendo ai Corinzi perfino con il ricorso alle minacce, aveva asserito
d’essergli stato conferito dal Signore, preavvertendo quanti erano venuti a
trovarsi in colpa affinché pensassero a correggersi prima del suo arrivo, e lo
impone con questo comando: «Ve ne prego: che non debba, io presente, mostrarmi
audace contro certuni con quel potere che mi è stato concesso nei vostri
confronti» (2 Cor 10, 2). E ancora: «Anche se mi gloriassi in qualche modo del
potere che il Signore mi ha dato — solo per il vostro avanzamento spirituale, e
non a vostra rovina —, non potrei arrossirne» (2 Cor 10, 8). E io dovrei qui
confermare che è in nome di quella autorità che egli impone anche questo
comando: «Se qualcuno non intende lavorare, nemmeno presuma di mangiare» (2 Ts
3, 10). E così egli non li destina al colpo micidiale di una spada, ma sotto
l’influenza autorevole dello Spirito Santo interdice loro il nutrimento della
vita presente con questo fine preciso: se essi, indifferenti davanti alla
minaccia della morte futura, continueranno a comportarsi ancora da ostinati per
amore dell’ozio, costretti almeno dalle esigenze della natura stessa e dal
timore di una morte imminente, saranno indotti ad accogliere i suoi salutari
consigli.
Dopo
l’enunciazione del severo rigore del comando evangelico, ora l’Apostolo passa ad
esporre i motivi per cui ha dovuto premettere tutte queste sentenze. «Ci viene
riferito (egli scrive) che alcuni tra di voi vivono nell’ozio, senza far nulla e
in balia della loro curiosità» (2 Ts 3, 11). In nessun luogo l’Apostolo si è
limitato a dire che coloro i quali ricusano di dedicarsi al lavoro sono affetti
da un solo male. Infatti nei passi precedenti egli li definisce dei disordinati,
e afferma che essi non camminano secondo gli insegnamenti ricevuti da lui, e
aggiunge pure che sono degli inquieti e mangiano gratuitamente il pane (cf. 2 Ts
3, 6-8). Di nuovo qui afferma: «Ci viene riferito che alcuni tra di voi vivono
nell’ozio» (2 Ts 3, 11). E subito appresso enumera il secondo male come radice
remota di quell’ozio: «Vivono senza far nulla»
(Ibid.); quindi richiama pure
il terzo male che da quello nasce come un rampollo: «Vivono in balia della loro
curiosità»
(Ibid.).
Perciò
egli s’affretta a portare la correzione conveniente all’origine di vizi così
gravi. Messa da parte l’autorità apostolica, a cui poco prima era ricorso,
riprende nuovamente le risorse di un padre pietoso e di un medico
compassionevole, e volgendosi ad essi come a dei figli e a dei pazienti, porge
loro con i suoi salutari consigli i rimedi della salute: «A questi tali
ordiniamo e li scongiuriamo nel Signore Gesù Cristo a guadagnarsi il pane,
lavorando serenamente» (2 Ts 3, 12). Con l’unico salutare precetto della
laboriosità egli ha curato le cause di piaghe così gravi, originate dalla radice
dell’oziosità, al modo di un medico tra i più esperti, ben sapendo che anche le
altre malattie, nate da quella stessa radice, dovranno presto essere distrutte,
una volta estirpata la causa del male più grave.
E
tuttavia, come un medico assai perspicace e previdente, egli non desidera
soltanto curare le ferite dei malati, ma propone egualmente consigli adeguati
anche ai sani, perché sia conservata per sempre la loro salute, e afferma:
«Quanto a voi, fratelli, non desistete dal fare il bene» (2 Ts 3,13). Voi dunque
che, nel seguire noi, vale a dire, le nostre vie, mettete in pratica gli esempi
a voi offerti con l’imitazione della nostra operosità, e non assecondate la loro
pigrizia e la loro inerzia, «non desistete dal fare il bene», ed è quanto dire,
concedete loro, come noi, la vostra indulgenza, se per avventura trascureranno
l’osservanza di quello che abbiamo ordinato. E come egli ha rimproverato coloro
che erano infermi perché, immersi nel loro ozio, non si dessero in preda
all’inquietudine e alla curiosità, così ammonisce coloro che sono sani perché
non ricusino di concedere quella comprensione che il Signore ci comanda di
offrire ai buoni e ai cattivi (cf. Mt 5, 43-45), nel caso che alcuni, radicati
nell’ostinazione, si rifiutassero di convertirsi alla sana dottrina. Egli
consiglia di preferenza a non desistere dal fare il bene e a porgere aiuto ad
essi tanto con parole di conforto e di correzione quanto con i favori abituali e
volenterosi.
Di nuovo
però, per timore che certuni, indotti da questa sua dolcezza, ricusino di
obbedire ai suoi ordini, riprende il tono del rigore apostolico: «E se qualcuno
non obbedisce alle istruzioni di questa lettera, notatelo e non abbiate
relazioni con lui, onde se ne vergogni» (2 Ts 3, 14). E ricordando loro che cosa
doveva essere praticato per riguardo a lui e per il bene comune, e con quale
precauzione dovevano custodire i comandamenti apostolici, vi aggiunge subito la
mitezza del padre indulgentissimo, e come se si trattasse di propri figli,
insegna loro quale affetto essi debbono nutrire, per carità fraterna, nei
confronti di ognuno di quegli individui: «Non consideratelo però come un nemico,
ma come un fratello da riprendere» (2 Ts 3, 15). Alla severità di un giudizio
egli associò la pietà di un padre e volle temperare con una mansuetudine
clemente una sentenza pronunciata con rigore apostolico. Infatti egli comanda da
una parte di censurare colui che ha ricusato di obbedire ai suoi ordini e di non
avere rapporti con lui; ma, dall’altra, comanda che tutto questo non fosse fatto
per effetto di odio, ma di carità fraterna e in vista della sua correzione. «Non
abbiate, egli insiste a dire, relazioni con lui affinché se ne vergogni» (2 Ts
3, 14), proprio perché, se egli non si è emendato in seguito ai miei ordini,
almeno, mortificato dal vedersi separato dalla comunità di tutti, cominci un
giorno a ritornare sul sentiero della salvezza.
17.
ALTRE TESTIMONIANZE DELL’OPEROSITÀ DELL’APOSTOLO
Anche
nell’Epistola agli Efesini, trattando lo stesso argomento del lavoro, esprime
questo comando:«Chi rubava, non rubi più; anzi fatichi per procurarsi ciò che è
onesto con il lavoro delle proprie mani» (Ef 4, 28). Anche negli Atti degli
Apostoli troviamo che egli non solo insegnò le medesime cose, ma ebbe pure a
compierle. Infatti, giunto a Corinto, non decise di rimanere presso altri, ma
soltanto presso Aquila e Priscilla perché erano operai dello stesso mestiere
esercitato abitualmente da lui. Di fatto così puoi leggervi: «Dopo questo fatto
Paolo partì da Atene e andò a Corinto. Trovò là un ebreo di nome Aquila, nativo
del Ponto, arrivato da poco dall’Italia con sua moglie Priscilla in seguito
all’editto di Claudio che espelleva i Giudei da Roma. Paolo si recò allora da
questi, anzi, essendo della medesima professione, si stabilì in casa loro e
lavorò: erano fabbricatori di tessuti di pelo» (At 18, 1-3).
In
seguito giunse a Mileto e di là mandò a Efeso perché si recassero da lui i
presbiteri della chiesa degli Efesini per comunicare loro le disposizioni, con
cui dovevano reggere la Chiesa di Dio durante la sua assenza: «Per me io non ho
desiderato né l’argento né l’oro né il vestito di nessuno. Voi sapete che alle
necessità mie e dei miei collaboratori hanno provveduto queste mie mani. In ogni
modo vi ho mostrato che così faticando si devono sostenere gli invalidi, e tener
presente quel detto del Signore Gesù: Non è tanto gioioso il prendere quanto il
dare» (At 20, 33-35). Egli ci ha lasciato un grande esempio con il suo
comportamento, poiché egli attesta di essersi procurato con il lavoro non
soltanto quello che occorreva per far fronte alle necessità della propria vita
mortale, ma anche quello che era necessario per quelli che l’accompagnavano, per
coloro cioè, i quali, occupati tutto il giorno nei loro doveri di ministero, non
erano in grado di procurarsi egualmente il nutrimento con le loro proprie mani.
E come, nella Lettera ai Tessalonicesi ebbe a dire d’essersi dedicato al lavoro
per offrire ad essi se stesso come modello da imitare (cf. 2 Ts 3, 9), così
anche qui egli propone qualche cosa di simile, affermando: «In ogni modo vi ho
mostrato che così faticando si devono sostenere gli invalidi» (At 20, 35).
Quelli che sono tali nella loro mente e nel loro corpo, proponendoci questo
fine, di essere solleciti a recare loro conforto preferibilmente col frutto
delle nostre fatiche e con i proventi derivati dal sudore del nostro lavoro, e
non dal sopravanzo dei nostri beni o dal denaro riposto in disparte, e neppure
dalla generosità e ricchezza altrui.
Tale,
afferma l’Apostolo, è il comando del Signore: «Egli stesso, cioè il Signore
Gesù, ebbe a dire: Non è tanto gioioso il prendere quanto il dare» (At 20, 35).
La generosità più gioiosa, propria di colui che largisce, in confronto della
persona di chi riceve, è quella che ha la sua origine, non dal denaro conservato
per mancanza di fiducia o per diffidenza, e nemmeno da ricchezze riposte per
spirito d’avarizia; ma è quella che viene procurata dal frutto del proprio
lavoro e dal sudore che ha per fine la pietà. Per questo «è più gioioso dare che
ricevere»
(Ibid.),
poiché, anche nel caso che il donatore sia in uno stato di povertà come chi
riceve, nondimeno, con il proprio lavoro, non soltanto si preoccupa di
provvedere quanto è sufficiente ai propri bisogni, ma anche di che donare a chi
ne è privo, con pia sollecitudine, decorato così di una duplice grazia, sia
perché, con la rinuncia a tutti i suoi beni, egli raggiunge la perfetta povertà
di Cristo, sia perché egli manifesta la generosità del ricco e la nobiltà dei
suoi sentimenti attraverso il suo lavoro. In realtà il primo onora Dio con il
ricavato delle proprie giuste fatiche (cf. Pr 3, 9; LXX), offrendo a Lui quanto
gli deriva dai frutti della sua giustizia; l’altro invece, demolito dal torpore
dell’ozio e dell’inerzia, si dimostra indegno, secondo la sentenza
dell’Apostolo, perfino del nutrimento del pane (cf. 2 Ts 3, 10): opponendosi
infatti contro il suo divieto, ozioso com’egli è, finirebbe per pretenderlo non
senza una sua colpa di peccato e di ostinazione.
Conosciamo un fratello, di cui, se tornasse di maggior profitto istruttivo,
potremmo fare anche il nome. Egli viveva in un monastero dove vigeva l’obbligo
di consegnare ogni giorno all’economo il corrispondente del lavoro stabilito.
Egli fu preso dal timore di dover aumentare la misura del suo impegno qualora
qualcun altro avesse lavorato più di lui, o di uscirne umiliato di fronte a quel
possibile confronto. Fu così che ogni qualvolta gli accadeva di osservare
l’ingresso nel monastero di un fratello che per l’ardore della fede procurava di
consegnare una più larga esecuzione di lavoro, egli s’ingegnava, attraverso
segrete insinuazioni, per convincerlo a desistere da simili impegni; e se poi
questo non gli riusciva, si dava da fare per indurlo, con perversi consigli e
macchinazioni, ad abbandonare il luogo e portarsi altrove. Per poter più
facilmente indurlo ad uscire, gli dichiarava, fingendo, che già da tempo anche
lui coltivava il proposito di andarsene, costrettovi, com’era, da molti motivi:
era questo un proposito che egli avrebbe posto in atto, qualora avesse trovato,
per il viaggio, l’aiuto confortevole di un compagno. Quando poi gli fosse
riuscito di ottenere il suo consenso attraverso occulte denigrazioni a carico
del monastero, s’accordava con lui sull’ora più adatta per uscire dal monastero
e sul luogo dove lui stesso, precedendolo, avrebbe dovuto attenderlo. Egli però,
dopo averlo assicurato che ben presto l’avrebbe raggiunto, rimaneva invece sul
posto, senza muoversi. L’altro perciò, tutto vergognoso ormai per la sua
diserzione, non osava più riaggregarsi al monastero, da cui era fuggito, mentre
l’istigatore della sua fuga se ne rimaneva dentro il monastero. Sarebbe dunque
sufficiente aver richiamato questo solo esempio relativo a un tal genere di
uomini per sollecitare la cautela dei principianti e porre in luce quanti mali,
secondo la parola della Scrittura, possa generare l’oziosità nella mente del
monaco, e fino a qual punto «le cattive conversazioni possono corrompere i buoni
costumi» (1 Cor 15, 33).
1. Anche
il sapientissimo Salomone condanna con molta evidenza e in molti passi questo
vizio dell’oziosità, così scrivendo: «Chi insegue l’ozio abbonderà di miseria»
(Pr 28, 19), in maniera visibile o in maniera non apparente, ma sempre tale che
ogni ozioso finirà per sentirsi avviluppato in diversi vizi ed estraneo alla
contemplazione di Dio e privo delle ricchezze spirituali, di cui parla
l’Apostolo: «In Lui foste arricchiti di tutto: di ogni dono di parola e di ogni
dono di scienza» (1 Cor 1, 5). E di questa indigenza dell’uomo ozioso così è
detto altrove: «Tutti i sonnacchiosi si vestiranno di stracci e di cenci» (Pr
23, 21; LXX).
2. Senza
dubbio l’ozioso non meriterà di essere adornato di quella veste di incorruzione,
di cui l’Apostolo offre un ordine: «Rivestitevi del Signore Gesù Cristo» (Rm 13,
14). E di nuovo: «... rivestitevi della fede e della carità come di una corazza»
(1 Ts 5, 8). Di quella veste parla pure il Signore a Gerusalemme per mezzo del
profeta: «Risorgi, risorgi, Gerusalemme; rivestiti con gli indumenti della tua
gloria» (Is 52, 1). E così chiunque, vinto dal sonno dell’ozio e dell’accidia,
preferirà rivestirsi, non con il provento della sua laboriosità, ma con i panni
della sua inerzia, stralciati via dalla perfetta pienezza del corpo delle
Scritture, finirà per adattare alla sua ignavia, non la veste della gloria e del
decoro, ma la copertura vergognosa delle proprie scuse.
3.
Infatti quelli che si sono lasciati sorprendere da questa indolenza, ricusando
di sostentarsi con i profitti del proprio lavoro, quello che l’Apostolo
incessantemente volle affrontare e che ordinò a noi di esercitare, sono soliti
servirsi di alcuni passi della Scrittura per stendere un velo sulla propria
inerzia, affermando che così è stato scritto: «Procuratevi non il nutrimento che
perisce, ma il nutrimento che resta per la vita eterna (Gv 6, 27); e ancora: «Il
mio cibo è fare la volontà del Padre mio» (Gv 4, 34).
4. Ma
queste testimonianze sono panni presi dalla salda compagine del testo
evangelico, e vengono ricuciti al solo scopo di coprire il rossore della nostra
oziosità e vergogna, e non per riscaldarci e adornarci con la veste preziosa e
perfetta delle virtù, quella veste che nei Proverbi la donna saggia, rivestita
di fortezza e di decoro, si dice che confeziona per sé e per il marito. Di
quella donna perciò è scritto: «Ella è rivestita di fortezza e di decoro, e nei
suoi ultimi giorni essa vive nella gioia» (Pr 31, 25; LXX). Di questo male
dell’ignavia così lo stesso Salomone di nuovo dichiara: «Le vie di coloro che
non lavorano sono seminate di spine» (Pr 15, 19; LXX); vale a dire, di quei
vizi, simili a quelli che l’Apostolo, nei passi citati in precedenza, disse che
germogliano nell’ozio; e di nuovo: «L’uomo ozioso è tutto nei suoi desideri» (Pr
13. 4; LXX). Di tali desideri dice l’Apostolo: «Non desiderate nulla di nessuno»
(1 Ts 4, 11). E in fine: «L’oziosità è maestra di molti vizi» (Eccle = Sir 33,
29).
5.
Questi mali l’Apostolo li commenta con chiarezza nei passi citati in precedenza:
«Vivono senza far nulla e sempre in balia della curiosità» (2 Ts 3, 11). Di
fronte a questo vizio egli aggiunge questo suggerimento: «Cercate con ogni
premura di vivere nella pace» (1 Ts 4, 11), e appresso: «... per occuparvi
ciascuno dei vostri impegni e per comportarvi con decoro di fronte a quei di
fuori; e non desiderate nulla di nessuno» (1 Ts 4, 11-12). Tali individui egli
li designa pure come disordinati e ribelli, e comanda, a quanti vogliono esser
osservanti, di tenersi separati da loro: «Vi ordiniamo di evitare ogni fratello
che vive oziosamente e non secondo l’insegnamento da noi ricevuto» (2 Ts 3, 6).
I padri
dell’Egitto perciò, istruiti da tali esempi, non consentono per nessun motivo
che i monaci, soprattutto i giovani, stiano oziosi, e così, giudicando
l’attività dello spirito e il loro profitto nella pazienza e nell’umiltà
dall'impegno della loro laboriosità, non solo non permettono di accettare
qualsiasi offerta destinata al loro sostentamento, ma, per di più, con i frutti
del loro lavoro provvedono al vitto necessario ai fratelli in arrivo e ai
pellegrini, e non soltanto si preoccupano per questi: essi accumulano una
grandissima quantità di risorse alimentari da inviare alle regioni della Libia
che soffrono la fame per la sterilità del suolo, come pure a quanti, nelle
città, sono detenuti entro le carceri. E così essi con tali offerte ricavate dal
frutto del proprio lavoro pensano di offrire a Dio un vero e spirituale
sacrificio (cf. Rm 12, 1).
Ne
segue, per tali motivi, che in queste (nostre) regioni non ci è dato di
osservare nessun monastero con un gran numero di fratelli, e in effetti essi non
godono dell’appoggio sicuro del loro lavoro al punto da assicurarsi la
continuità e la stabilità nella vita monastica; ma anche nel caso che ad essi,
in qualsiasi modo, venisse assicurata la sufficienza del loro sostentamento per
la generosa liberalità di altri, il piacere dell’ozio tuttavia e la divagazione
dell’animo non permettono loro una lunga perseveranza sul posto. Per questo si è
diffusa in Egitto una santa sentenza dei padri: «Il monaco che si dedica al
lavoro viene tentato da un solo demonio; quello invece che vive nell’ozio
diviene la preda di spiriti senza numero!».
L’abate
Paolo, infine, che, tra i padri, fu uno dei più sperimentati, viveva in un
deserto molto vasto denominato Porfirio, e poteva ricavare un nutrimento
sufficiente e sicuro per il suo sostentamento dai frutti delle palme e da un
piccolo orticello. Non avrebbe avuto alcun bisogno di dedicarsi a qualche lavoro
allo scopo di potersi mantenere, anche perché la sua dimora in quel deserto era
lontana dalle città e dalle terre abitabili per almeno sette giornate di cammino
e anche più, e, del resto, il prezzo che a lui sarebbe stato richiesto per il
trasporto era più grande del compenso del suo lavoro, fosse pure a prezzo di
sudore! E allora egli raccoglieva le foglie delle palme e si obbligava così ogni
giorno a una certa quantità di lavoro, come se soltanto a quel prezzo egli
dovesse sostentarsi. Giunto alla fine dell’intero anno, quando la sua grotta ne
era ormai tutta ripiena, appiccatovi il fuoco, dava alle fiamme tutto quello che
durante ogni anno aveva ammucchiato faticando con grande sollecitudine. E
intanto egli comprovava che un monaco, senza il lavoro delle sue mani, non
poteva restare a lungo al suo posto e neppure giungere, un giorno, al culmine
della perfezione. Perciò, sebbene non lo inducesse a lavorare il bisogno del
nutrimento, tuttavia egli lo faceva per la sola purificazione del cuore, per la
salvaguardia dei suoi pensieri, per la permanenza duratura nella sua cella e per
la sconfitta vittoriosa della stessa accidia.
Ancora
all’inizio della mia vita passata nel deserto, avendo io confessato all’abate
Mosè (Nota:
l’abate Mosè passò la sua vita di monaco nel deserto denominato Calamo
(Egitto)), il maggiore di tutti i santi, d’essermi sentito sorprendere, nel
giorno precedente, da una forma estremamente gravosa di accidia, e di non aver
potuto liberarmene in altro modo se non ricorrendo subito all’abate Paolo, egli
così mi rispose: «Non te ne sei affatto liberato; tutt’al contrario, ti sei
invece arreso ad essa come un soggiogato e un suddito. D’ora innanzi il nemico
ti assalirà con violenza anche più grave, perché sei stato un disertore e un
fuggiasco, ed egli ti ha visto fuggire dalla lotta non appena fosti vinto. In
seguito sarà pure così, a meno che tu non preferisca, una volta iniziato il
conflitto, evitare i suoi attacchi furiosi fin dal principio con l’abbandono
della cella oppure col cedere al sonno, ma ti decida invece a imparare come
affrontarlo e come trionfare su di lui in lotta aperta». L’esperienza infatti
insegna che gli attacchi dell’accidia non devono essere evitati fuggendo, ma
debbono essere superati a forza di resistenza.
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20 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net