Regola di S. Benedetto
IV - Gli strumenti delle buone opere
20 Rendersi estraneo alla mentalità del mondo; 21 non anteporre nulla all'amore di Cristo. 22 Non dare sfogo all'ira, 23 non serbare rancore, 24 non covare inganni nel cuore, 25 non dare un falso saluto di pace, 26 non abbandonare la carità.
VII - L'umiltà
67 Una volta ascesi tutti questi gradi dell'umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore; 68 per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e quasi naturalmente, grazie all'abitudine, tutto quello che prima osservava con una certa paura; 69 in altre parole non più per timore dell'inferno, ma per amore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù. 70 Sono questi i frutti che, per opera dello Spirito Santo, il Signore si degnerà di rendere manifesti nel suo servo, purificato ormai dai vizi e dai peccati.
LIII - L'accoglienza degli ospiti
1 Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: "Sono stato ospite e mi avete accolto" 2 e a tutti si renda il debito onore, ma in modo particolare ai nostri confratelli e ai pellegrini. 3 Quindi, appena viene annunciato l'arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore; 4 per prima cosa preghino insieme e poi entrino in comunione con lui, scambiandosi la pace.
LXVI - I portinai del monastero
1 Alla porta del monastero sia destinato un monaco anziano e assennato, che sappia ricevere e riportare le commissioni e sia abbastanza maturo da non disperdersi, andando in giro a destra e a sinistra. 2 Questo portinaio deve avere la sua residenza presso la porta, in modo che le persone che arrivano trovino sempre un monaco pronto a rispondere. 3 Quindi, appena qualcuno bussa o un povero chiede la carità, risponda: "Deo gratias!" Oppure: "Benedicite!" 4 e con tutta la delicatezza che ispira il timor di Dio venga incontro alle richieste del nuovo arrivato, dimostrando una grande premura e un'ardente carità.
LXXI - L'obbedienza fraterna
1 La virtù dell'obbedienza non dev'essere solo esercitata da tutti nei confronti dell'abate, ma bisogna anche che i fratelli si obbediscano tra loro, 2 nella piena consapevolezza che è proprio per questa via dell'obbedienza che andranno a Dio. 3 Dunque, dopo aver dato l'assoluta precedenza al comando dell'abate o dei superiori da lui designati, a cui non permettiamo che si preferiscano ordini privati, 4 per il resto i più giovani obbediscano ai confratelli più anziani con la massima carità e premura.
LXXII - Il buon zelo dei monaci
1 Come c'è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta all'inferno, 2 così ce n'è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita eterna. 3 Ed è proprio in quest'ultimo che i monaci devono esercitarsi con la più ardente carità 4 e cioè: si prevengano l'un l'altro nel rendersi onore; 5 sopportino con grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e morali; 6 gareggino nell'obbedirsi scambievolmente; 7 nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma piuttosto ciò che giudica utile per gli altri; 8 si portino a vicenda un amore fraterno e scevro da ogni egoismo; 9 temano filialmente Dio; 10 amino il loro abate con sincera e umile carità; 11 non antepongano assolutamente nulla a Cristo, 12 che ci conduca tutti insieme alla vita eterna.
Carità
Carlo Maria Martini
Estratto da “Dizionario spirituale – Piccola guida per l’anima” - Edizioni Piemme 1997
Lo stile inconfondibile della carità è lo stile che Gesù ha insegnato nella parabola del buon samaritano: stare davanti a ogni uomo con la stessa purezza disinteressata e incondizionata dell’amore di Dio; accogliere ogni uomo semplicemente perché è uomo; diventare prossimo di ogni uomo, al di là di ogni estraneità culturale, razziale, psichica, religiosa; anticipare i desideri; scoprire i bisogni sempre nuovi a cui nessuno ha ancora pensato; dare la preferenza a chi è maggiormente rifiutato; conferire dignità e valore a chi ha meno titoli e capacità.
Il riconoscimento di ogni uomo come figlio di Dio, inondato dai misteriosi doni della grazia, permette di accogliere ogni sofferente come un fratello che dona e riceve, secondo le leggi meravigliose dalla comunione dei santi.
La comunione in Cristo è l’inatteso, trascendente suggello delle varie forme di comunicazione umana; è la fonte inesauribile di sempre nuove forme di comunicazione; è l’esigente paradigma nel quale la comunità cristiana deve misurare il proprio comportamento verso gli handicappati e i malati, quanto ai modi di accoglienza, alla catechesi, alla vita liturgica, alla valorizzazione dei carismi.
La comunione in Cristo è fonte di unità e garanzia di benefica diversità. In forza di essa -non c’è più giudeo o greco, schiavo o libero, uomo o donna, ma un solo uomo in Cristo Gesù»; ma, nel medesimo tempo, «noi che siamo un corpo solo in Cristo... abbiamo carismi diversi, secondo il dono che ci è stato fatto».
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24 settembre 2024 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net