XXII - Il dormitorio dei monaci - ... Nel dormitorio rimanga sempre accesa una lampada fino al mattino. Dormano vestiti, con ai fianchi semplici cinture o corde, senza portare coltelli appesi al lato mentre riposano, per non ferirsi nel sonno. Così i monaci siano sempre pronti e, appena dato il segnale, alzandosi senza indugio si affrettino a prevenirsi vicendevolmente per l'Ufficio divino, ma sempre con la massima gravità e modestia.
XLIII - La puntualità nell'Ufficio divino e in refettorio - All'ora dell'Ufficio divino, appena si sente il segnale, lasciato tutto quello che si ha tra le mani, si accorra con la massima sollecitudine, ma nello stesso tempo con gravità, per non dare adito alla leggerezza. In altre parole non si anteponga nulla all'Opera di Dio".
XLVII - Il segnale per l'Ufficio divino - Bisogna che l'abate si assuma personalmente il compito di dare il segnale per l'Ufficio divino, oppure lo affidi a un monaco diligente in modo che tutto avvenga regolarmente nelle ore fissate. L'intonazione dei salmi e delle antifone, secondo l'ordine prestabilito, spetta, dopo l'abate, ai monaci appositamente designati.
XLVIII - Il lavoro quotidiano - L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio.... Tutto però si svolga con discrezione, in considerazione dei più deboli...... Al primo segnale di Nona, ciascuno interrompa il proprio lavoro per essere pronto al suono del secondo segnale. Dopo il pranzo si dedichino alla lettura personale o allo studio dei salmi.
Giancarlo Andenna
Estratto da: "Del fondere campane.
Dall'archeologia alla produzione. Quadri regionali per l'Italia settentrionale.
Atti del Convegno (Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 23-25 febbraio
2006)"
A cura di Silvia Lusuardi Siena, Elisabetta Neri
Ed. All'Insegna del Giglio, 2007
Nella Regola di Benedetto
da Norcia il termine “campana" non compare, ma in due punti si fa riferimento ad
un signum, ad un segnale, che dal contesto appare come un suono, che
indicava ai monaci l'inizio di uno specifico momento della giornata liturgica.
Ma osserviamo i due brani in cui la parola signum è utilizzata: il primo
si pone entro il capitolo XXII, Quomodo dormiant monachi. In esso, dopo
aver ricordato che i monaci debbono dormire sempre vestiti, con le tonache
strette da cinture o da corde, Benedetto lega tale norma al fatto che essi
debbano essere pronti a levarsi senza indugio al segnale (facto signo),
per accorrere in fretta alla celebrazione dell'ufficio divino. Il secondo
contesto appare più ampio e riguarda il capitolo XLVII, De significanda hora
operis Dei: in esso il compito di gestire i signa relativi alla
recita e al canto dell’ufficio divino nelle diverse ore del giorno e della notte
era riservato all’abate, che avrebbe potuto poi affidare l'incarico a un monaco
di sua piena fiducia. In altre parole la comunicazione delle frazioni di tempo
nelle quali i monaci attuavano una delle funzioni fondamentali del cenobio era
riservata a colui a cui era affidato il monastero. Nei commenti antichi alla
Regola era ovviamente specificato che l’abate non si trasformava in campanaro
(pulsatorem campanarum), ma che egli poteva direttamente ordinare ai
sacristi, anche per l’interposta persona del priore claustrale, di suonare le
ore canoniche (pulsandi horas canonicas). Insomma il signum in
questione era un segnale sonoro, molto probabilmente un suono di campane
[1].
Pure un segnale sonoro,
dato da un tintinnabulum o campanella, poteva essere legato all'ordine
con cui l’abate, o il suo delegato, comunicavano al sacrista di suonare la
campana. In effetti la parola e il corrispettivo oggetto, il tintinnabulum,
appaiono nel II libro dei
Dialogi
di Gregorio Magno, nel cap. I, dove si tratta della vita di Benedetto da Norcia,
e sono posti in connessione con un segnale utilizzato dal discepolo Romano,
affinché il santo ricuperasse il cesto contenente il cibo. Comunque a
chiarimento delle due parole che indicavano la campana e il campanello richiamo
l’attenzione su una riflessione di Walafrido Strabone, monaco di Fulda, che nel
libro De ecclesiasticarum rerum exordiis et incrementis, nel V capitolo
affronta la questione de vasis quae simpliciter signa dicuntur. Questi
sono oggetti di per se significanti e tra essi le campane occupano il primo
posto. Secondo l’erudito monaco di Fulda a Campania, quae est Italiae
provincia, eadem vasa maiora quidem campanae dicuntur. Al contrario i
vasa minora vocantur tintinnabula, voce che assume il nome dal suono, cioè
a sono tintinnabula vocantur (PL. 114
[2]).
Il ritorno forte del termine signum associato alla campana, ci permette
di affermare che in ambiente monastico durante l'età carolingia le due parole si
equivalessero.
Chiediamoci ora, insieme
agli antichi commentatori della Regula, quali segnali erano stati usati
nei primi secoli del monachesimo cristiano per convocare i cenobiti alla recita
dell'ufficio divino. Esistevano, se si seguono le fonti, ben quattro modi: il
primo era dato da una tromba, o forse da un corno di toro, piuttosto che di
ottone, testimoniata dal dettato dell’articolo 2 della Regola di San Pacomio.
Quel testo parla esplicitamente di una tuba, utilizzata per chiamare i
confratelli per la preghiera diurna della colletta, ma anche per le orazioni
della notte. Nel secondo capitolo della Regola si dice esplicitamente: Quando
ad collectam tuba insonuerit per diem, qui una oratione tardius venerit,
superioris increpationis ordine increpabitur. Il suono di una tromba doveva
dunque ritmare la vita dei cenobi di Pacomio, che d’altra parte assomigliavano
più a caserme militari che a luoghi di vita religiosa.
La seconda possibilità di
comunicazione sonora era data dalla percussione di una tavola di legno, con la
quale i monaci potevano essere convocati o in comune o individualmente per la
preghiera. Ciò avveniva battendo la tavola nei pressi delle porre dei dormitori.
La terza modalità era data dalla voce umana, che intonava con forza il canto
dell’Alleluia, come ricorda Gerolamo nella lettera 27, parlando del monastero di
Santa Paola: Post alleluia decantatum, quo signo vocabantur ad collectam,
nulli residere licitum erat.. In altre parole il segnale per indicare il
momento della preghiera collettiva era costituito dal canto con voce squillante
dell'alleluia.
L’ultima modalità era
infine data dall’uso della campana, che nell’età di Colombano era ampiamente
utilizzata nei monasteri irlandesi; infatti nella Vita de sancto Columba
dell’abate Adamanno di Iona si possono rintracciare due punti in cui si parla
dello strumento sonoro, indicato con il vocabolo volgare clocca.
Colombano al suono della campana di mezzanotte (media notte pulsata
personante clocca) era pronto ad alzarsi e a recarsi
in chiesa
De vita S. Columbae libri tres,
col. 773AB). Nel secondo
Colombano che in quel tempo risiedeva nelle isole del mare del Nord, nel paese
degli Scoti, un giorno chiamò a sé il fedele amministratore Diormitio e gli
ordinò in modo categorico: Cloccam pulsa (De
vita …
col. 732D).
Ovviamente si trattava di un segnale di adunanza,
poiché l’agiografo sottolinea che a quel suono i
confratelli accorsero in chiesa e l’abate ordinò loro di pregare perché Dio
attribuisse la vittoria al re Aidano.
La campana segnava dunque
nei cenobi anche l’accadere di momenti non inseriti nel contesto prevedibile
delle azioni giornaliere e per questo essa era pronta a conquistare la
dimensione del linguaggio simbolico utile in numerosi campi. In ogni caso, e lo
notava già Sicardo di Cremona nel suo Mitrale, i cristiani occidentali
affermavano pro tubis hodie campanas habemus ed esse servivano ad
annunziare al mattino la misericordia del Signore e la sua verità
[3]. Inoltre Onorio di Autun nel De divinis officiis et
antiquo ritu missarum si pose il problema del significato delle campane
(de campanis significatio) e lo risolse affermando che le campane si
identificavano con i profeti; infatti esse col loro suono preannunciavano
l’ingresso dell’abate o del vescovo nel tempio, come i profeti avevano
preannunziato l’avvento di Cristo
[4]. In due altre opere tuttavia le campane sono
paragonate alla bocca dei predicatori del Nuovo Testamento, in quanto le bocche
a detta di Onorio erano con il loro linguaggio più durature delle trombe.
D'altra parte se i prelati erano paragonati alle torri campanarie, appare ovvio
che le campane fossero da intendere come l’espressione della loro attività di
predicazione. Inoltre se la torre per lo stesso Onorio era paragonabile al capo,
alla testa, la campana era senza indugio identificabile con la lingua, con cui
il predicatore chiamava il prossimo alla conversione e al premio eterno
[5]. Una uguale identificazione delle campane con i
predicatori appare anche nel De divinis officiis di Ruperto di Doitz, il
quale usa con chiarezza l’espressione signa ecclesiae, campanas dicimus,
sanctos Christi precones significare
[6].
Ma se ritorniamo per un
istante al rapporto tra gli
strumenti della comunicazione sacra,
ciò che importa qui dire nella comparazione tra trombe e campane è che per
Onorio di Autun il clamore delle trombe durante le antiche processioni di Aronne
era espresso nelle adunate militari cristiane dal suono delle campane. Infatti
nel capitolo LXXIII del De divinis officiis lo stesso autore sottolinea
un elemento importante, che in quegli anni fu alla base della presenza delle
campane nelle lotte entro le città comunali italiane: Cum campanae sonantur
quasi per classica milites ad praelium incitantur
[7].
Insomma, quando suona la campana chi combatte è obbligato a lanciarsi nella
mischia. Questi ragionamenti monastici presenti in autori del XII secolo
anticipano e per certi versi spiegano in modo evidente la successiva e celebre
frase di Pier
Capponi, che d’altra parte aveva anche un precedente
nei Gesta Alberonis archiepiscopi, quando l’agiografo sottolinea che col
suono della campana si accelerava l'eccitazione e il furore del popolo:
inciperent furere et constrepere et sonitu campanae populum civitatis eum
concitare accelerabant
[8]. I cittadini, già infuriati ed urlanti, al suono delle
campane diventavano sempre più eccitati da spirito di lotta.
Chiediamoci ora quale fosse
la grandezza delle campane monastiche. Sembra che nei primi secoli del
monachesimo benedettino le campane fossero piccole, tanto da poter essere
suonate dal solo abate, anche se vecchio. Questa consuetudine di avere campane
di dimensioni ridotte fu ripresa nel XII secolo dai cistercensi con questa
disposizione, poi inserita nella loro legislazione: «Le campane del nostro
ordine saranno fatte in modo tale che possano essere suonate da un solo monaco,
mai da due insieme»
[9].. Tuttavia nei monasteri benedettini
invalse a partire dal X secolo un uso contrario tanto che le campane divennero
sempre più numerose e pesanti. Ad esempio nel
Chronicon Beccensis abbatiae
l'abate Tommaso fece fondere due campane, una che fu chiamata le
timbre, cioè ebbe un nome specifico, come le navi, e la seconda, che non
ebbe nome, ma che era facilmente riconoscibile in quanto era suonata al vespro e
al mattutino. Orbene per sospendere le due campane, ovviamente molto pesanti,
alle due grosse torri della chiesa si impose la necessità di rinnovarle dalle
fondamenta, poiché nimium erant gravatae et commotione campanarum gravabantur
[10]. Il
movimento delle campane avrebbe potuto mettere in serio pericolo le due torri.
Vorrei riprendere ora con
una breve considerazione la questione del nome delle campane per osservare che
tale uso si ritrova originariamente attorno all’anno Mille in ambiente
monastico, come nel Chronicon del cenobio di Hildesheim, la cui campana
era chiamata Cantabona
[11]. Un nome che riprendeva quello del santo del monastero
fu invece dato dai monaci di San Benigno alla loro campana che fu due volte
rifusa per essere più grande e più sonora, e che in ogni caso era sempre
chiamata Benigna
[12].
Risulta ora opportuno
chiedersi quale fosse il linguaggio delle campane in ambiente monastico almeno a
partire dall'età carolingia e per quali contesti di comunicazione lo stesso
linguaggio, o meglio il sistema di signa, fosse utilizzato. Il primo e
naturale ambito era quello liturgico, relativo alle ore del divino ufficio. La
domanda risulta allora così concepita: Quot signa pulsanda sint? Seguo il
commento alla Regola di Ildemaro: il monaco franco
sottolinea che per annunciare la preghiera notturna (ad vigilias) erano
necessari tre suoni (tria signa); al contrario per segnalare la preghiera
del mattutino e dell'ora prima bastava un unico tocco di campana. E ancora per
la recita dell'ufficio a terza, sesta e nona i rintocchi dovevano essere due; al
vespro di nuovo tre segni sonori convocavano i monaci. Infine un solo suono
annunciava l’ora del completorio e l'inizio della notte
[13].
In effetti, a suffragio delle affermazioni di Ildemaro, il canone 539 del
celebre concilio di Aquisgrana dell'817 impose la seguente norma: duo tantum
signa ad tertiam, sextam nonamque pulsentur. Ma anche il suono del
completorio aveva una sua importanza, in quanto avvisava i
famuli del cenobio sulla necessità di illuminare con lampade il
chiostro, il capitolo e i gabinetti, in un perfetto accordo tra il suono che
lentamente si dissolveva nella notte e la luce artificiale che di nuovo
illuminava gli spazi monastici
[14].
Tuttavia questi strumenti di comunicazione
sonora, signa, nell’età carolingia e post carolingia erano posti sia
fuori dallo spazio di vita monastico, cioè sulle torri o sulla chiesa, in questo
caso pendenti da campanili a vela, sia entro lo spazio monastico più intimo. Si
legga ad esempio la Vita di Benedetto di Aniane, scritta dal discepolo
Ardone: nel capitolo 52 l'agiografo narra che l’abate di Inda volle porre per la
prima volta nel dormitorio dei monaci una skilla da suonare con forza
prima che la campana della chiesa annunciasse con i tre suoni l’ora della
preghiera notturna. In questo modo essi al terzo rintocco della campana potevano
già essere pronti nei loro stalli del coro per le preghiere, così che,
spalancate successivamente le porte della chiesa, si facessero entrare gli
ospiti
[15].
Una uguale testimonianza, ma con annotazioni di natura spirituale, appare
nell'Historia miraculorum sancii Willelmi, il duca e conte d’Aquitania
divenuto monaco nel Gellonensi monasterio e morto tra l'812 e
l'813. Nel narrare la liberazione di un indemoniato l’agiografo si soffermò a
descrivere il demone che scacciato da Guglielmo aveva deciso di procurare un
danno al cenobio. Uscito dall'indemoniato lo spirito maligno si scagliò contro
una bella e decorata finestra di vetro (finestram vitream satis decoram
satisque speciosam) riducendola in minuti frammenti, poi con la stessa forza
rivolse il suo spirito verso la skillam argenteam che pendeva dal
soffitto della chiesa e con ugual violenza
la
percosse e la ruppe. Quella piccola campana era stata donata al cenobio con
molti altri oggetti preziosi dallo stesso duca Guglielmo; e l’agiografo sostenne
che l’offerta avrebbe dovuto esaltare la gloria e la lode di Dio, poiché la
skilla annunciava ai monaci per prima le diverse ore dell’ufficio divino.
Poiché era d’argento con la melodia della sua voce chiara e squillante rendeva
vigili le orecchie e addolciva le menti dei monaci che l’udivano
[16]. La differenza di metallo rendeva non solo precisi, ma
anche gradevoli i linguaggi della comunicazione.
Un ulteriore uso liturgico
delle campane era legato, sempre in ambiente monastico, all'annuncio della morte
di un confratello; infatti nel narrare gli ultimi istanti di vita del vescovo
Annone, l’abate Reginardo ricorda che esistevano dei crebra campanarum signa,
suoni delle campane che indicavano l’avvenuta morte del presule (mortem
episcopi significantia). Dunque un preciso linguaggio, ben diverso dal
fragore e dal clamore delle stesse campane, unito al canto dei salmi, che
accompagnava il corpo esanime del presule nell'atrio della chiesa e poi lungo il
percorso del funerale
[17]. E nel tempio durante la cerimonia funebre ancora una
volta le luci delle candele, il luccicare dei metalli degli oggetti sacri e il
fragore (clangor) delle campane permeavano l'intero spazio sacro.
Nel caso del vescovo Annone
i rintocchi della campana, che annunciavano la morte, erano eseguiti dai
campanarii, ma la letteratura agiografica monastica registra al contrario un
considerevole numero di agonie di presuli, di abati, di monaci, di monache o di
eremiti la cui comunicazione avveniva con il suono spontaneo delle campane. Ad
esempio dopo che Leone IX affidò la sua anima a Dio, la campana di San Pietro
iniziò a suonare nullo ministrorum pulsante
[18].
Sembra pertanto
che a partire dall’XI secolo si sia diffusa
nelle agiografie di ambiente monastico l’abitudine di annunciare le morti dei
santi, oppure di comunicare eventi miracolosi o traslazioni gloriose di reliquie
con un lungo e squillante suono di campane senza che mano di uomo traesse le
corde. Si legga ad esempio quanto scrive Orderico Vitale nelle Ecclesiasticae
Historiae a proposito della
morte del duca o conte Guglielmo, divenuto monaco, di cui si è già parlato:
magnus valde et insolitus clangor signorum et campanarum sonitus, longa
pulsatio, mirabilis tinnitus, non hominibus funes trahentibus
[19].
L’immagine non era presente nelle precedenti agiografie del personaggio. La
campana che suona da sola per annunciare la morte del monaco o del religioso
diventa dunque un segno inequivocabile di santità già a partire dall'XI secolo,
ma poi nel corso del basso medioevo si trasforma in un motivo dominante in quasi
tutte le agiografie. Si veda come esempio il passo relativo a Rita da Cascia
nella vita scritta da Agostino Cavallucci: il 22 maggio, nel momento in cui la
santa spirò, audita est monasterii campana, movente nemine, ter pulsari.
Pertanto i presenti e lo stesso agiografo pensarono che la stessa fosse stata
mossa da mani angeliche
[20].
Molto più ricco di accenti mistici risulta invece il brano relativo alla morte
dell'eremita camaldolese Leonardo, poiché i
presenti videro la sua anima in sphaera ignea caeli
secreta penetrare; e proprio in quel momento si sentì suonare la campana
dell'eremo, absque mortalium ope
[21].
Un’ultima annotazione di
natura liturgica si impone: tra i miracoli di Giovanni Gualberto, narrati dal
monaco vallombrosano Gerolamo, si legge della guarigione di una fanciulla,
avvenuta subito dopo il suono dell'Angelus, detto anche vespertinam Angelicam
salutationem, che nei monasteri vallombrosani era ormai di abitudine (de
more) suonare
[22]. Si tratta di un rito liturgico connesso ad una breve
preghiera, ma anche alla conclusione del lavoro diurno nelle campagne, che ebbe
in seguito ampia diffusione e che sembra essere connesso all'uso monastico delle
campane, quelle che segnalano l'ora del vespro, al tramonto del giorno. E che il
successo del rito si sia realizzato nelle campagne europee appare in modo chiaro
da un commentario previo alla vita di san Gualderico agricoltore, vissuto nella
Francia
meridionale attorno al Mille.
L'agiografo, che scriveva in età basso medievale, si chiese se il santo avesse
nei suoi atti quotidiani recitato in ginocchio, dopo aver udito i tre rintocchi
delle campane di mezzogiorno, le tre Ave Marie che il re di Francia, in accordo
con il papa, aveva imposto a tutti i sudditi per conservare la pace nel regno.
Ma si chiese anche se il contadino al vespero si fosse inginocchiato
anche nell'acqua per recitare l'Angelus e per chiedere aiuto a Dio affinché
provvedesse alla salvezza della Francia
[23].
Se dall'ambito liturgico si
passa ora al contesto del potere signorile monastico, la skilla
o il tintinnabulum
offrono con il loro suono un diverso linguaggio di comunicazione, segnano cioè,
come nel celebre brano della Cronaca di Novalesa, di cui ha già detto in
un convegno sui mercati Aldo Settia
[24], il tempo delle contrattazioni commerciali e
mercantili. Il cronista narra che i monaci possedevano un carro di legno
intagliato, detto anche plaustrum domenicalem, con al centro un palo a
cui era appeso un tintinnabulum o skilla, ovviamente squillante
(valde resonantem). Mentre i servi del monastero trasportavano su altri
carri il vino e il frumento, l’apparato serviva a segnalare agli altri signori
della regione che la comitiva apparteneva al
cenobio, in modo
che nessun duca, marchese, conte o vescovo osasse assaltare la spedizione. Era
in altre parole un segno di riconoscimento, ma nel contempo era molto di più, in
quanto nelle fiere che ogni anno si tenevano sui territori circostanti l'abbazia
nessun mercante osava iniziare le contrattazioni prima che fosse giunto il carro
signorile del monastero con la campana squillante
[25].
La campana in questo caso dava inizio al tempo dei mercanti e delle
contrattazioni economiche in quanto esprimeva la voce del dominus e col
carro manifestava la simbolica immagine del potere. Poiché tali atti nella
Cronaca di Novalesa risalgono ad anni precedenti la scrittura dell’opera, in
quanto il monaco narratore afferma di aver ascoltato il racconto dagli anziani
della comunità, ritengo che anche in questo caso i monasteri abbiano preparato
la strada alle successive azioni mercantili della civiltà comunale, dominate dal
suono delle campane.
Per concludere vorrei soffermarmi sul linguaggio
universale che i monaci hanno correlato al suono delle campane nella civiltà
occidentale: il segno delle ore liturgiche è stato nel contempo ascoltato anche
come segno delle ore della giornata umana di lavoro. Preghiera e lavoro si sono
così fuse perfettamente, come appare anche nella sintesi della regola
benedettina: ora et labora. Nel contempo il suono delle campane
monastiche ha avuto anche un valore teofanico, in quanto ha permesso di
innalzare gli animi verso la contemplazione di Dio e della sua divina bellezza e
nel contempo ha garantito un ritorno della mente nelle vicende del mondo per
porre una precisa diacronia nei momenti della vita quotidiana, ritmati dal
ricordo delle immagini celesti recitate con il ripetersi dei salmi e delle
preghiere dell'ufficio divino. Infine le campane e i loro suoni hanno avuto per
i monaci una forte valenza sociale in quanto segnalavano non solo i pericoli,
del fuoco, delle alluvioni, delle scorrerie di predoni, ma anche i momenti di
gioia delle comunità monastiche, a cui erano legate le società rustiche dei
servi e dei coltivatori abitanti nei villaggi e nei castelli circostanti. Per
tutte queste ragioni esse potevano essere ben paragonate ai predicatori
ecclesiastici, infatti come a volte era scritto nella fusione del bronzo, la
campana svolgeva molte azioni: Laudo Deum verum, congrego monacos, plebem
voco; vox vitae, voco vos ad sacra, venite. Defunctos ploro, sacra decoro et
nimbum fugo (Lodo il Dio vero, raduno i monaci, chiamo il popolo; la mia voce è
voce di vita; vi chiamo, venite ai sacri uffici; piango i defunti, rendo belle
le feste e metto in fuga la tempesta). In altre parole valore sacrale e
valore civile si sono fusi nei lunghi secoli del monachesimo e hanno preparato
il terreno alla distinzione dell’uso religioso ed ecclesiastico da quello civile
e politico della successiva età comunale, quando questi concetti, dopo il
concordato di Worms, trovarono una loro lenta e complessa separazione. La
campana con il suo valore simbolico c il suo linguaggio di suoni lieti e mesti,
con il suo rimando a Dio e alla minuta organizzazione del tempo quotidiano ha
incarnato perfettamente la missione del monachesimo occidentale, entro il quale
essa ha trovato un grande successo.
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[1]
Norme simili sono anche presenti nella
Regula Magistri.
[2]
Walafridi Strabi
fuldensis monachi De ecclesiasticarum rerum, coll. 924 B. 924 C.
[3]
Sicardi Cremonensis Episcopi Mitrale seu de officiis ecclesiastica
summa, I.iber Primus, cap. XIII, De utensilibus eeelesiae,
53C.
[4]
Honorii Augustodunensis Gemma animae sive De diviniis officiis et
antiquo ritu missarum, deque horis canonici et totius annis
solemnitatibus. coll. 544C-545B.
[5]
Honorii Augustodunensis Sacramenrarium seu de causis et significata
mystico rituum divini in ecclesia officii liber, col. 763C; Honorii
Augustoduncnsis Speculum ecclesiae. col. 1105B.
[6]
Ruperti Abbatis
Tuitiensis Ad venerabilem Ecclesiae Ratisponensis episcopum Cunonem
pro libro de divinis officiis, coll. 150 AB.
[7]
Honorii
Augustodunensis Gemma animae sive De diviniis officiis et antiquo
ritu missarum, deque horis canonicis et totius annis solemnitatibus,
coll. 567AB.
[8]
Gesta Alberonis
archiepiscopi auctore Balderico, p. 246.
[9]
Lucet 1964, p.
35.
[10]
Chronicon
Beccensis abbatiae, col. 683B; 687C.
[11]
Chronicon
hildesheimense, p. 853.
[12]
Chronici abbatiae
S. Benigni continuatio, col. 854D.
[13]
Expositio regulae
[of Saint Benedict] ab Hildemaro tradita et nunc primum typis mandata, 1880, commento
al capitolo XLVII della Regola di Benedetto. Si veda anche Benedicti
Regula cum commentariis, 47, coll. 701D-702B.
[14]
Benedicti
Regula cum commentariis, cap. 22, col. 497D. Si tratta di un decreto dell'abate Ingulfo.
[15]
Ardo Smaragdus
Vita sancti Benedicti Anianensis, 52. coll. 378B- 378D; ma anche
Ardo Smaragdus Vita Benedicti abbatis Anianensis et Indiensis, in
particolare cap. 38, p. 216.
[16]
Historia
miraculorum sancti Willelmi monaci Gellonensis, Miracula Crucis, p. 823.
[17]
Reginhardi
Sigebergensis Vita Sancti Annonis, col. 1574A e col. 1575A.
[18]
Historia mortis
et miraculorum sancti Leoni: IX, 531 A.
[19]
Orderici Vitalis
Ecclesiasticae Historiae, col. 454D.
[20]
Augustini
Cavallucci De beata Rita vidua ordinis eremitarum sancti Augustini
vita, p. 226.
[21]
De beato
Peregrino eremita Camalduli in Etruria Commentari historicus, p. 371; si
tratta di un excursus per ricordare l’eremita Leonardo che
avrebbe profetizzato al cardinal Ugolino d’Ostia la sua nomina a
pontefice.
[22]
Miracola sancti
Joannis Gualberti auctore Hieronymo Radiolensi monacho vallumbrosano, coll. 811-960,
in particolare col. 946.
[23]
Sanctus
Gualdericus agricola in Occitania, col. 1107. A colonna 1109 si
afferma che l'Angelus ebbe origine nel Trecento, ma sarà opportuno
riprendere l'argomento.
[24]
Settia
1993, pp.
187-233, in particolare pp. 187-188.
[25]
Cronaca di Novalesa, pp. 100-103.
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26 marzo 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net