LA BIBBIA LACERATA
L'interpretazione delle Scritture cammino di unione tra i cristiani
a cura
di Mario Degli Innocenti
ANCORA
Introduzione
«Ringraziamo continuamente il Signore, perché, avendo
ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l'avete accolta non
come parola di uomini, ma, come
è
veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che
credete» (l Ts 2, 13). Questo testo, che appartiene al più antico degli
scritti del Nuovo Testamento, rimane come un messaggio costantemente rivolto
alla fede dei cristiani: alle Scritture che essi ricevono
è
consegnata la parola di Dio con la quale essi sono
chiamati sempre a confrontarsi e alla quale devono obbedienza. Interrogarsi
su come le chiese hanno vissuto e vivono la relazione con la Bibbia è perciò
un momento ineludibile della riflessione ecumenica: dal rapporto con la
parola di Dio dipende infatti in larga misura il rapporto dei cristiani fra
loro.
Molta storia del cristianesimo,
passato e presente, potrebbe essere riletta, in un certo senso, alla luce di
questa osservazione. Un esempio: uno sguardo retrospettivo al secolo appena
trascorso consente di cogliere molto bene il nesso Bibbia-ecumenismo, messo
a tema in queste pagine. È
noto, infatti, che fu proprio la
riscoperta della Bibbia (il «rinnovamento biblico»), intorno agli anni
Trenta-Quaranta, a dare un impulso decisivo al dialogo fra le chiese.
Occorre tuttavia essere cauti nel ritenere che la rinnovata attenzione dei
cristiani alla Bibbia possa essere sempre e comunque occasione di apertura
ecumenica e spinta a trovare la via della riconciliazione e dell'unità. Non
raramente oggi (come del resto in passato) la parola di Dio è fatta oggetto
di un tentativo, più o meno consapevole, di appropriazione da parte dei
credenti nella prospettiva di trovarvi conferme o addirittura punti di
appoggio per attribuire una plausibilità forte alla propria
identità
di gruppo, di comunità o
di chiesa. Per questa strada, nonostante la pretesa di rifarsi
all'unico comune fondamento, non si fa ecumenismo (e neanche vita
cristiana), anzi è
più facile dividersi. La sola possibilità di
riconoscersi e di accettarsi reciprocamente è quella di lasciarsi mettere in
discussione dalla parola di Dio: parola che non illumina la
mia
verità, bensì smaschera il mio peccato e il mio
nulla. Un rapporto, questo, con la parola di Dio tutt'altro
che
gratificante: qui essa si rivela veramente
«viva,
efficace e più tagliente di ogni spada a doppio
taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito,
delle giunture e delle midolla
e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,
12).
Da qui nasce il riconoscimento
del proprio peccato, il pentimento, la scoperta della misericordia di Dio,
unico artefice in noi del per
Alla luce di queste considerazioni si comprende
l'intento della
presente raccolta, che non è quello di focalizzare l'attenzione su come il
problema biblico è stato ed è recepito nelle diverse
tradizioni cristiane
(questione ermeneutica, approccio esegetico, metodi
di lettura eccetera), bensì di esaminare, per quanto e fin dove è possibile,
il ruolo occupato dalla Bibbia nella storia passata e presente dei rapporti
fra i cristiani. Una ricerca, dunque, che si muove tutta all'interno del
problema ecumenico e delle sue vicende. In
questa indagine non
poteva essere omesso l'interrogativo sul contributo che può venire oggi al
dialogo ecumenico dalla conoscenza del posto e del significato che ha la
Bibbia nella tradizione
ebraica vivente:
la consapevolezza assunta dalle chiese in tempi recenti
che il rapporto con l'ebraismo non è un'opzione
facoltativa e neppure una semplice relazione
ad extra,
ma fa parte del proprio cammino di fede, chiede anche,
coerentemente, di affrontare i problemi che i cristiani si sono posti e si
pongono nei confronti delle Scritture di Israele.
I contributi qui
raccolti ruotano perciò, grosso modo, intorno
a tre nuclei tematici
principali: il rapporto
del credente e delle chiese con la parola di Dio; il ruolo della Bibbia
nelle relazioni fra
le chiese; l'atteggiamento
dei cristiani nei confronti delle Scritture di Israele.
Il primo, che può ritenersi, in
un certo senso, suggerito dal passo della Prima lettera ai Tessalonicesi
posto in testa a queste note introduttive, mette a fuoco in particolare, sia
pure nella diversità e varietà delle tradizioni, un problema fondamentale
riguardante
il credente nel suo rapporto con la Scrittura: come cioè essa sia «parola di
uomini», ma, al tempo stesso, «parola di Dio». E'
questo infatti uno dei
punti chiave dell'intervento di Enzo Bianchi
(La Bibbia nella fede
e nella
vita
delle
chiese cristiane).
La Bibbia, dice Bianchi, «è un insieme di libri
umani, è parola umana, pienamente umana»: è infatti un insieme di libri «che
si corrompono, che i copisti tramandano non sempre fedelmente». La Scrittura
perciò «è un segno di parole umane», ma in queste
parole
umane Israele e la Chiesa riconoscono la parola di Dio: la Scrittura dunque
è «il luogo dell'incontro tra Dio e l'uomo nell'atto dell'interpretazione».
Interessanti, suggestive analogie si possono cogliere,
a questo proposito, nel contributo di Benedetto Carucci Viterbi
(La Bibbia nella
tradizione ebraica vivente), focalizzato in
gran parte sul rapporto fra Torah scritta e Torah orale nelle Scritture
ebraiche. «Senza lettura non c'è il senso del testo egli dice e la
"tradizione ebraica vivente"
è
il continuo tentativo di leggerlo e di conseguenza di
interpretarlo: l'ebraismo vivente rende il testo vivente in quanto lo legge
e leggendolo lo interpreta».
L'accostamento di queste due osservazioni
significativamente consonanti, sebbene appartenenti a due itinerari di
ricerca diversi
e fra loro lontani, richiama in modo eloquente la centralità del rapporto
dei credenti con la Scrittura e, di qui, la necessità in prospettiva
ecumenica di comprendere a fondo (e accettare) la
diversità dei modi
di vivere tale rapporto. Una comprensione, secondo
Bianchi, a tutt'oggi ancora da scoprire in
larga misura da parte delle chiese. Basti pensare, a titolo d'esempio, al
sostanziale fraintendimento
con cui i cristiani d'Occidente giudicano il rapporto dell'ortodossia con la
Bibbia: si corre il rischio, frequentemente,
di ritenere che la
Scrittura non sia al cuore della chiesa ortodossa; ma ciò dipende, in
realtà, dal non aver capito che nell'ortodossia la parola di Dio
è «strettamente legata alla
liturgia, alla potenza sacramentale», per cui parola e sacramento, a
differenza di quanto sperimentiamo nella nostra tradizione, costituiscono
non due momenti, ma un tutt'unico inscindibile.
Il problema cruciale delle chiese, in conclusione,
è
quello di riportare la parola di Dio al centro della
loro vita. Al termine della sua riflessione Bianchi osserva che siamo
tuttora lontani «da quel porre la parola di Dio come la centralità nella
vita della chiesa», dove «centralità nella vita della chiesa» significa che
la parola di Dio non solo «ispira la vita del credente, ma dovrebbe anche
essere il criterio su cui si misurano le azioni della chiesa,
l'atteggiamento della chiesa nello stare nella compagnia degli uomini, il
fare della chiesa».
Al secondo nucleo tematico cui si accennava è dedicata
la sezione centrale e più ampia del libro. Il ruolo avuto dalla Bibbia nei
rapporti fra le chiese viene esaminato all'interno di alcuni momenti
cruciali del problema ecumenico: dall'esperienza della conflittualità
alla scoperta di nuove possibilità di dialogo attraverso il rinnovamento
biblico, all'avventura, inimmaginabile prima del concilio Vaticano II, di un
lavoro linguistico ed esegetico sulla Bibbia intrapreso insieme da cristiani
di confessioni diverse.
Mauro Pesce
(La Bibbia come luogo
di
divisione:
un
paradosso
nella storia del
cristianesimo)
prende le mosse da un'osservazione abbastanza
provocatoria, tutt'altro che scontata: a dispetto della convinzione, oggi
largamente diffusa in ambito cattolico, secondo la quale si deve «trovare
nella parola di Dio testimoniata nella Sacra Scrittura la strada dell'unione
fra tutte le chiese», in realtà si rileva proprio nel cattolicesimo
post-conciliare
la presenza di letture
diverse della Bibbia, legate a «una pluralità spesso conflittuale di opzioni
religiose
[...]
praticate in modi che portano alla non
comunicazione e anche spesso all'opposizione tra i gruppi». Dopo
questa premessa, l'autore rivolge la sua attenzione alla Riforma
protestante, l'esempio classico in cui la Bibbia si presenta come
«luogo di conflitto e occasione di divisione» fra i cristiani, e ne illustra
ampiamente le ragioni storiche e teologiche, soffermandosi in particolare
sul principio luterano della sola
Scriptura e
sulla conseguente divaricazione radicale, codificata nel concilio
di Trento, tra la posizione cattolica e quella
protestante in merito all'interpretazione della Scrittura e al
riconoscimento della «tradizione
ecclesiastica come fonte e norma di verità». Divaricazione che, secondo
Pesce, nonostante il Vaticano II, non
è
tuttora venuta meno.
Nella seconda parte del suo
intervento Pesce estende la sua indagine a un orizzonte più vasto: alle
stesse origini della storia del cristianesimo (per esempio, nella formazione
del canone neotestamentario)
la Bibbia si presenta come luogo del conflitto: «Si potrebbe estendere
l'esemplificazione e ricordare che un dibattito aspro sulla interpretazione
della Bibbia sta già nelle parole di Gesù» (vedi, per esempio, il passo di
Mt 19,
8: «Mosé vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli.
Ma da principio non fu così»). Considerazioni queste che conducono Pesce a
sviluppare un tema di grande attualità ecumenica: in quale modo si debba
concepire l'unità
del canone e come questa possa essere mantenuta
prescindendo da una
lettura «armonistica» del Nuovo Testamento (finora esclusiva o prevalente
nell'esegesi cattolica), per approdare invece a una lettura che rispetta le
peculiarità di ogni singolo scritto neotestamentario, «riconosce la
diversità e riconosce perciò anche che fin dalle origini l'ispirazione
divina si è
manifestata attraverso la costruzione di
forme cristiane sostanzialmente diverse e
divergenti fra loro, non armonizzabili a
livello dottrinale e istituzionale».
Sul significato e sul peso
sempre maggiore assunto dalla Bibbia
nel dialogo ecumenico, a partire dagli inizi del XX secolo, si
diffondono in due relazioni complementari
Bruno Corsani e
Giuseppe Ghiberti
(Rinnovamento
biblico
e
movimento ecumenico. L'esperienza
cattolica
e
Rinnovamento biblico
e
movimento ecumenico.
L'esperienza
evangelica).
Bruno Corsani, dopo aver
richiamato per sommi capi il clima nuovo,
formatosi fra gli anni Trenta e Quaranta
in campo protestante, di riscoperta e di ritorno alla Bibbia,
passa a individuare nei documenti e nelle iniziative del Consiglio Ecumenico
delle Chiese i vari momenti chiave della progressiva, accresciuta
attenzione alla Bibbia: dall' «accettazione dei
metodi critici di ricerca» all'apertura al confronto con punti di vista
diversi» e al «comune studio della Bibbia»
(l963),
al lavoro di ricerca e di discussione sull'ermeneutica
biblica (1963-67), al rapporto di Fede e Costituzione sul canone e
l'ispirazione (1971) cui partecipano anche teologi cattolici, fino al
documento di Bangalore
(1980). Corsani osserva, infine, che se il rinnovamento biblico ha favorito
lo sviluppo del movimento ecumenico, questo a sua volta ha avuto un effetto
positivo per lo studio e la diffusione della Bibbia e brevemente ricorda
alcuni passi decisivi che portarono alle traduzioni interconfessionali.
Tutto rivolto al mondo cattolico e, prevalentemente,
all'area italiana il contributo di Giuseppe
Ghiberti. Il quadro
delineato, anche attraverso una rassegna dei documenti pontifici da Leone
XIII a Giovanni Paolo II, rispecchia il tormentato cammino degli studi e,
più in generale, del rinnovamento biblico in Italia dalla crisi modernista
al Vaticano II. Sul versante più propriamente ecumenico, Ghiberti richiama
rapidamente alcune iniziative pionieristiche
fra Torino e Milano negli anni precedenti il Concilio, per soffermarsi poi
sul decreto
Unitatis redintegratio
del Vaticano II, dove la Sacra Scrittura
è
definita come «un eccellente strumento nella potente
mano di Dio per il raggiungimento di quella unità che il Salvatore offre a
tutti gli uomini» (n. 21).
Il saggio di Xavier Léon-Dufour
(L'avventura
della Traduction
œcuménique de la
Bible
[TOB]:
1963-1976)
è
la ricostruzione di prima mano, fatta da uno dei
massimi protagonisti, del lavoro compiuto da esegeti cattolici e protestanti
(agli ortodossi esso fu poi sottoposto nel suo insieme) per l'edizione del
Nuovo Testamento della TOB. Fa da sfondo, per così dire, l'evocazione
dell'atmosfera
di apertura e di dialogo in cui si svolgono, nei primi anni
Sessanta, le relazioni e gli scambi tra
biblisti cattolici e protestanti
e ha origine l'idea
audace di dar vita a una «Bibbia ecumenica».
L'iniziativa prende corpo
intorno al 1964, in un contesto
certamente non privo di aspetti
problematici: se infatti pregiudizi e sospetti
secolari reciproci si vanno dissolvendo, non mancano le resistenze e
soprattutto restano completamente aperte questioni classiche della
controversia cattolico-protestante, come la giustificazione
o il rapporto fra Scrittura e Tradizione. In
questo quadro Léon-Dufour
dà un rilievo tutto particolare alla storia del lavoro di preparazione della
TOB: un crogiuolo di studi, ricerche,
dibattiti (illuminanti i numerosi esempi), che
spaziano dal piano linguistico
a quello esegetico. Il racconto di alcuni momenti cruciali e particolarmente
vivaci delle discussioni e degli scontri, anche aspri, tra i biblisti
consente di rendersi conto del clima di grande libertà e di franchezza in
cui si svolse il lavoro e, nello stesso tempo, di apprezzare il rigore
metodologico e l'onestà intellettuale di esegeti che non esitavano ad
anteporre al proprio punto di vista lo sforzo del confronto e dell'ascolto
reciproco per arrivare a una migliore intelligenza del testo. Qui si coglie
veramente l'alto costo di un dialogo ecumenico autentico, ma pure il suo
grande frutto.
Anche il contributo di Renzo
Bertalot (La
«Traduzione interconfessionale
in lingua corrente
[TILC]»:
un'esperienza ecumenica in
Italia) ha le prerogative del racconto di
un protagonista. L'intento principale
è
di illustrare i problemi che ha comportato la scelta
di una traduzione in «lingua corrente». Si trattava, osserva
Bertalot, di portare non «il lettore al testo
biblico», ma
«il testo biblico al lettore». L'autore perciò non si sofferma
prevalentemente su questioni e discussioni esegetiche, bensì sui criteri
adottati dai
traduttori per individuare correttamente le caratteristiche della lingua
dell'uso corrente. Una traduzione dunque che, pur restando fedele al senso
del testo originale, doveva essere comprensibile,
senza la necessità di mediazioni (come il continuo
ricorso alle note),
al destinatario,
ove per
destinatario è
da intendere «chi non va più in chiesa, il
secolarizzato», chi dunque non ha familiarità alcuna con il linguaggio
biblico. Gli
esempi prodotti, a questo
proposito, danno conto della complessità di un'impresa in cui i protagonisti
hanno «imparato a lavorare insieme». Una collaborazione
ecumenica animata dall'intento di diffondere
la Scrittura,
nella convinzione che «la Bibbia può rappresentare la guarigione delle
nostre culture che si sono troppo facilmente lasciate sbilanciare da guerre
e persecuzioni».
Alle Scritture di Israele
e al loro significato per i cristiani, il terzo nucleo tematico del libro,
sono dedicati i due ultimi saggi. Il primo, già sopra citato, di Benedetto
Carucci
Viterbi, introduce ad alcuni concetti propri della tradizione ebraica.
L'autore mette in luce fin dall'inizio che lo stesso termine
Bibbia
«nella
tradizione
ebraica pone dei problemi: la Bibbia è "il libro" , Sacre
Scritture
è il termine con cui
correntemente se ne indica il contenuto. La tradizione ebraica, che pure
passa per essere la "religione del libro",
è invece una tradizione della voce piuttosto che del libro» . Di qui il
ruolo di assoluta rilevanza della cosiddetta «Torah orale» che ha,
nell'ebraismo, la funzione di interpretare il senso della «Torah scritta».
Di qui anche il ruolo dei Maestri: la Torah orale, infatti, a un certo punto
è stata messa per iscritto (Mishnah,
Talmud), ma il
testo uscito da questa operazione è praticamente illeggibile «senza
l'ausilio di un Maestro che ha ricevuto la tradizione
di lettura dal suo Maestro». Il problema dell'interpretazione della Torah,
intesa come somma di parola scritta e parola orale, è dunque al cuore della
tradizione ebraica. «Il modo di difendere la vitalità della Torah - osserva
Carucci
Viterbi - significa per l'ebraismo
porre al centro della relazione con il testo sacro il suo sviluppo
ermeneutico, spostare l'attenzione verso il
lettore-interprete
che [ ... ] porta all'atto, generazione dopo generazione, l'infinita
ricchezza di senso della parola divina». Di qui il significato del
midrash,
vale a dire
della «ricerca»: la ricerca è infatti nella tradizione
ebraica il tipo di approccio di chi studia la Bibbia, «una
ricerca
del senso del testo, di Dio che risuona continuamente nel testo [ ... ] e
una ricerca dell'io nel testo».
Il saggio di Piero
Stefani (I
cristiani di
fronte alle
Scritture di
Israele. Eredità
del passato e
prospettive
nuove) prende
in esame due problemi molto attuali nell'ambito dell'odierno rapporto
cristiano-ebraico: da un lato il fatto che oggi molti cristiani riscoprono
nelle Scritture che essi hanno in comune con Israele l'immensa ricchezza
proveniente dalla lettura ebraica della Bibbia, ricchezza di cui si sono
privati per secoli a causa del pregiudizio antigiudaico e della cosiddetta
«teologia della sostituzione»; dall'altro la questione cruciale per il
credente in Gesù Cristo di poter leggere quelle stesse Scritture in
riferimento a Gesù, in una parola la questione della lettura cristologica
dell'Antico Testamento. Due problemi, oltre tutto, in tensione fra loro: c'è
infatti da chiedersi se sia possibile una lettura cristologica dell'Antico
Testamento che non defraudi
Israele delle sue prerogative (come si verificò spesso nell'interpretazione
dei Padri) e, per converso, se una lettura esclusivamente ebraica delle
Scritture di Israele non finisca per vanificare l'evento Gesù Cristo. Tutta
la riflessione di Stefani si muove entro questi due poli. L'autore non si
propone di scioglierne i nodi problematici, ma reca un contributo decisivo
alla loro comprensione.
Sul
primo problema (l'attuale scoperta, da parte cristiana, della lettura
ebraica della Bibbia), è fondamentale non perdere di vista, osserva Stefani,
il fatto che ciò che è proprio d'Israele deve restare tale. La lettura
ebraica della Scrittura, che è un momento della Torah orale,
«è
parte costitutiva della
elezione d'Israele, essa cioè è espressione della particolarità inimitabile
del popolo ebraico. La si può ascoltare, ma non la si può fare propria. [
... ] La tendenza a sottrarre quello che è proprio d'Israele non avviene
solo per contrapposizione [ ...
],
può
aver luogo anche per simpatia; ma anche per questa via un esproprio resta
tale». Con altre parole si potrebbe dire che occorre oggi guardarsi dalla
sottile tentazione di usare l'ebraismo per aggiornare il cristianesimo.
Sul
secondo problema (la lettura cristologica della Scrittura), Stefani sostiene
che non si tratta, per evitare cortocircuiti antigiudaici,
di leggere l'Antico Testamento prescindendo dal
riferimento a Gesù
Cristo. Le Scritture di Israele, infatti, sono le Scritture di Gesù (in Lc
24, 23-35, Gesù stesso spiega ai discepoli di Emmaus
quelle
Scritture riferendole a sé) e nel Nuovo Testamento l'evento Cristo ha sempre
un riferimento alle Scritture di Israele
(si
pensi alla formula «secondo le Scritture»). Si tratta, invece, di comprendere
che confessare Gesù Cristo «secondo le Scritture»
non toglie nulla
alle prerogative d'Israele; a patto, però, di porsi nella prospettiva degli
scritti neotestamentari nei quali non esiste la contrapposizione
cristiani-ebrei, cui noi siamo abituati da secoli, contrapposizione che
comporta una esclusione: nel cristianesimo
non c'è più posto per l'ebraismo, la Chiesa è il nuovo Israele. Gli
autori del Nuovo Testamento conoscevano, se
mai, un'altra contrapposizione, ereditata dalle Scritture, quella tra ebrei
e gentili: o si apparteneva al popolo d'Israele o si era gentili. Ma in
questo schema una novità si era verificata: essa consisteva nel fatto che i
credenti in Gesù Cristo provenivano sia dall'ebraismo sia dalla gentilità e
che la nuova comunità in cui si trovavano gli uni e gli altri non era
affatto pensata in concorrenza o in sostituzione del popolo d'Israele.
Uno sguardo complessivo alla raccolta suggerisce due brevi
rilievi. In primo luogo ne va segnalato il limite.
La posta in gioco, vale a dire la presa di coscienza del debito che il cammino
ecumenico ha nei confronti della Bibbia, è tale che le riflessioni qui proposte
hanno potuto affrontare (e non sempre in modo esauriente) soltanto alcuni degli
interrogativi concernenti il tema proposto. Altre domande, evidentemente,
restano aperte. Basti citarne qualcuna, a titolo di esempio: quali comportamenti
della comunità primitiva ci presentano gli scritti neotestamentari a proposito
di accettazione o esclusione reciproca, perdono, riconciliazione eccetera?
Ancora, quale idea di unità ci proviene da quegli stessi scritti? E, quanto al
rapporto fra Chiesa e Israele, come leggere oggi il messaggio di Paolo che
professa la fede irrinunciabile in Gesù Cristo e al tempo stesso annuncia che
l'alleanza e le promesse di Dio al suo popolo non sono revocate; in altri
termini: come vivere il paradosso dell'essere contemporaneamente uniti e
separati da Israele nell'attesa escatologica?
Il secondo rilievo. Il libro offre forse una possibile
indicazione sulle responsabilità che attendono oggi le chiese e i singoli
cristiani nei confronti del
cammino
ecumenico. Sarà la ruminatio
della parola di Dio (lo studio, la Lectio, la
preghiera) a far maturare l'atteggiamento di perdono
reciproco e di riconciliazione. Dagli interventi qui raccolti compare un dato a
tutti comune: più si va a fondo nella ricerca sulle Scritture, più si colgono le
possibilità di dialogo, di apertura, di comprensione dell'altro e, soprattutto,
si scopre che le ragioni della divisione, per quanto possano apparire
teologicamente agguerrite, in ultima analisi contraddicono sempre il Vangelo. La
parola di Dio parla sempre, è inesauribile: nell'ascolto senza difese è
possibile cogliere il messaggio che fa cadere i muri e libera i cuori.
La Comunità di via Sambuco
Le relazioni qui raccolte appartengono al ciclo di incontri di carattere ecumenico tenuti a Milano nell'anno 1999-2000 presso la Comunità di via Sambuco (via Sambuco 13, 20122 Milano), una piccola comunità fondata negli anni Cinquanta da Mario Degli Innocenti. Alcuni contributi conservano volutamente il tono colloquiale impresso dall'autore in sede di relazione.
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21 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" bibbia@ora-et-labora.net