Regola di S. Benedetto

Capitolo IX - I salmi dell'Ufficio notturno: 4 Quindi segua l'inno e poi sei salmi con le antifone, 5 finiti i quali e detto il versetto, l'abate dia la benedizione...

Capitolo XI - L'Ufficio notturno nelle Domeniche: 7 Detto quindi il versetto, con la benedizione dell'abate si leggano altre quattro lezioni del nuovo Testamento nel modo già indicato.

Capitolo XXXV - Il servizio della cucina: 16 Chi ha finito il proprio turno reciti il versetto: "Sii benedetto, Signore Dio, che mi hai aiutato e mi hai consolato".17 E quando lo avrà ripetuto tre volte e avrà ricevuto la benedizione, continui il fratello che gli succede nel servizio, dicendo...

Capitolo XXXVIII - La lettura in refettorio: 1 Alla mensa dei monaci non deve mai mancare la lettura,... 4 il lettore, dopo aver ricevuta così la benedizione, potrà iniziare il proprio turno.

Capitolo XLIX - La Quaresima dei monaci: 8 Ma anche ciò che ciascuno vuole offrire personalmente a Dio dev'essere prima sottoposto umilmente all'abate e poi compiuto con la sua benedizione e approvazione

Capitolo LX - I sacerdoti aspiranti alla vita monastica: 4 Gli si conceda tuttavia di prender posto dopo l'abate, di dare la benedizione e di recitare le preci finali, purché l'abate disponga così.

Capitolo LXIII - L'ordine della comunità: 15 Dovunque i fratelli si incontrano, il più giovane chieda la benedizione al più anziano; quando passa un monaco anziano, il più giovane si alzi e gli ceda il posto...

 


«Benedetto il Signore la cui parola

 dà vita a tutto ciò che esiste»

Paolo De Benedetti

Estratto da "Se così si può dire... Variazioni sull’ebraismo vivente" - EDB - Edizioni Dehoniane Bologna 2014


 

Concetto e storia della benedizione

Partiamo dal termine «benedetto» e fermiamoci sul concetto e sulla storia della benedizione. La radice ebraica b-r-k, che si trova nel verbo barakh, berakh, «benedire», nel sostantivo berakhah, «benedizione», nel participio passato barukh, «benedetto», si collega forse a berekh, «ginocchio». In tal caso si potrebbe vedere un nesso tra la benedizione e l’inginocchiarsi in atto di adorazione o di omaggio alla divinità, ricordando anche l’espressione della liturgia ebraica e di Fil 2,10: «Ogni ginocchio si pieghi». Limitandoci alla Bibbia, possiamo dividere le benedizioni in ascendenti e discendenti. Le benedizioni discendenti sono ancora suddivisibili in dirette e indirette. Analizziamo qualche esempio. Nel libro deuterocanonico di Tobia, il c. 13 contiene una lunga benedizione ascendente: «Allora Tobia scrisse questa preghiera di esultanza e disse: benedetto Dio che vive in eterno, il suo regno dura per tutti i secoli...» (13,1-18). In questa grande benedizione - che potremmo chiamare «composta» per la concatenazione, di tipo salmico, di benedizioni più brevi - sono inserite anche alcune benedizioni discendenti: «Maledetti coloro che ti malediranno» (v. 14), «ma benedetti sempre quelli che ti ricostruiranno» (ivi), e ancora «Beati coloro che ti amano...» (v. 15), ecc.

Che cosa vuol dire dunque «benedizioni ascendenti»? I cattolici o gli ortodossi sono abituati in genere alla benedizione in cui il ministro benedice cose o persone con parole e con gesti, di solito con la formula introduttiva «Ti benedica»; la struttura è di invocare la benedizione, di far discendere la benedizione su qualcosa o qualcuno. Nella Bibbia, e nella tradizione liturgica ebraica, prevalgono invece le benedizioni ascendenti, che «salgono» a Dio, cioè si benedice Dio per qualcosa.

Un esempio cristiano di benedizione ascendente si ha nella nuova liturgia della messa: le due benedizioni dell’offertorio sono tipiche benedizioni ascendenti ebraiche. Ma ciò non è altro che un ritorno al Nuovo Testamento: «Mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo... Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro dicendo...» (Mt 26,26-27). Qui Gesù pronuncia due benedizioni rituali prescritte dalla normativa ebraica allora come oggi, che il greco esprime rispettivamente con euloghésas e eucharistésas, e che la nuova traduzione ebraica del Nuovo Testamento rende, in entrambi i casi, con berekh. Senza dubbio, Gesù deve aver detto: «Benedetto tu Signore Dio nostro, re del mondo, che fai uscire il pane dalla terra» la prima volta, e «creatore del frutto della vite» la seconda volta.

Un’altra benedizione ascendente si trova in Luca. Come abbiamo visto, le benedizioni ascendenti, più di quelle discendenti, possono variare dalla formula breve all’inno. E appunto un inno è il Benedictus o Cantico di Zaccaria (Lc 1,68-79): «Benedetto il Signore, Dio di Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo...». È un inno modellato sui salmi, che sono ricchissimi di benedizioni ascendenti.

Quanto alle benedizioni discendenti, possiamo partire dal primo racconto della creazione. Dio, che ha fatto l’uomo a sua immagine e lo ha fatto maschio e femmina, «li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo...”» (Gen 1,28). Che cosa vuol dire: «Li benedisse e disse loro»? In italiano si dovrebbe tradurre: «Li benedisse dicendo loro». Cioè: la benedizione consiste qui nell’invito, che poi, in Gen 9,7, secondo l’esegesi rabbinica diventa un comando, a moltiplicarsi, a riempire la terra, a dominare la terra. Quindi è una benedizione che pone l’uomo come fecondo e «dominatore».

Come la storia dell’umanità, anche la storia di Israele comincia con una benedizione. Leggiamo la prima vocazione di Abramo (Gen 12,1-3): «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria, dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Quest’ultima frase si potrebbe anche tradurre con: «saranno benedette», «si considereranno benedette», «prenderanno l’iniziativa di essere benedette». È una benedizione molto importante, e non solo per la storia di Abramo, perché ci fa vedere come, anche quando è Dio che benedice, l’uomo può diventare trasmissione o tramite di benedizione.

Dagli esempi citati di benedizioni discendenti, si nota che, a differenza delle benedizioni ascendenti, esse possono fare coppia con una corrispondente maledizione. Nel caso di Abramo: «Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò».

La benedizione discendente indiretta più famosa, e anche più importante, è la benedizione sacerdotale di Nm 6,24-27, quella che s. Francesco ha scritto per frate Leone e che perciò è spesso chiamata «Benedizione di s. Francesco». È di s. Francesco ma è mutuata dalla Bibbia: «Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda shalôm». Si vede subito che questa è una benedizione discendente indiretta, perché non è Dio che parla, ma il sacerdote, il quale auspica che Dio benedica. Un’altra benedizione discendente è quella di Giacobbe ai nipoti Efraim e Manasse (Gen 48,15-16.20), che si conclude con parole che esprimono un’ulteriore benedizione discendente indiretta: «Di voi si servirà Israele per benedire, dicendo: Dio ti renda come Efraim e come Manasse». Un discorso a parte richiederebbero le benedizioni dello stesso patriarca in Gen 49 e quelle di Mosè in Dt 33, indirizzate alle tribù o ai loro capostipiti: in esse la benedizione, in un certo modo, si nasconde dietro la caratterizzazione dei destinatari.

 

Orientare la realtà a Dio

Le religioni bibliche, sia l’ebraismo che il cristianesimo e, in qualche misura, anche l’islam, hanno recepito il mondo delle benedizioni, seppure in modi quasi opposti, nel senso che, mentre tanto nell’ebraismo quanto nel cristianesimo ci sono benedizioni ascendenti e discendenti, nell’ebraismo prevale il tipo ascendente, nel cristianesimo prevale invece il tipo discendente.

Ma qual è lo scopo della benedizione? Le benedizioni alle persone o riguardanti le persone si spiegano da sé: sono un augurio e anche molto più di un augurio. Perché, ad esempio, Giacobbe teneva tanto alla benedizione connessa alla primogenitura? Perché un padre, Isacco, quando aveva dato la benedizione, non poteva più rimangiarsela, come se avesse compiuto un atto ormai scritto nel cosmo? Perché la benedizione era considerata - non per chi la pronunciava ma per la sanzione divina - cosa che in qualche maniera impegnava il futuro di colui che la riceveva, lo determinava nell’istante stesso del suo essere pronunciata: era un evento. Anche per questa sua arcaica potenza, non cancellata mai del tutto, è improprio assimilare la benedizione a una delle tante formule di preghiera. La benedizione fa parte, genericamente, del mondo della preghiera, ma è molto meno legata a luoghi e tempi, molto più a cose ed eventi: potremmo definirla una modalità - di parola e di atto - mediante la quale si orienta a Dio la realtà.

Questo significato della benedizione è espresso bene da Paolo in l Tm 4,4-5: «tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie, perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera». Questa è veramente la fondazione della benedizione. Del resto Tobia aveva detto a suo figlio: «In ogni circostanza benedici il Signore... perché nessun popolo possiede la saggezza, ma è il Signore che elargisce ogni bene» (Tb 4,19).

A questo punto possiamo introdurre uno sviluppo rabbinico, già attestato, fra l’altro, da Tobia e da Paolo. Il Talmud babilonese dichiara: «I nostri maestri insegnarono: è proibito all’uomo godere di questo mondo senza benedizione» (Berakhôth 35a); «disse Rav Jehudah in nome di Shemuel: Chiunque gode di questo mondo senza benedizione, è come se godesse [illecitamente] delle cose sacre, come è detto (Sal 24,1): del Signore è la terra e ciò che la riempie» (ivi). Perciò è come se «depredasse il Santo, benedetto Egli sia, e la comunità di Israele» (Berakhôth 35b). Questo perché l’uomo ha avuto in dono la realtà: l’ha avuta, non l’ha creata. O meglio, egli ha ricevuto, con l’immagine di Dio, anche la possibilità di creare: ma l’istituzione del sabato sta davanti a lui a ricordargli che tutto questo deve essere riconosciuto a Dio, che il vero creatore non è lui, ma un altro.

 

La mediazione della benedizione

Tornando al principio della benedizione, si potrebbe dire che la differenza fra il pagano e il figlio di Israele, nel rapporto con il mondo, non sta nel fatto che uno lo usi e l’altro no, che uno lo goda e l’altro se ne astenga quasi con un senso di colpa, che uno lo consideri suo e l’altro no: sta nel fatto che il pagano lo usa senza mediazione, mentre l’ebreo lo usa con la mediazione della benedizione. Facciamo l’esempio di un bicchiere di vino: l’uomo pagano, cioè l’uomo che ritiene di non aver nulla sopra di sé, quindi non il pagano Socrate..., beve il bicchiere di vino; l’ebreo, l’uomo biblico, beve anche lui il bicchiere di vino con lo stesso piacere, ma prima benedice il Signore «creatore del frutto della vite», cioè introduce nella natura dei collegamenti. L’uso del mondo da parte dell’uomo biblico, cioè colui che ha alle spalle la Bibbia, è ugualmente pieno, ma mediato dalla benedizione. E allora come conciliare questo con la maledizione del suolo conseguente alla caduta? Nel racconto biblico l’uomo primitivo lavorava e custodiva il giardino e questo lavoro, evidentemente, era piacevole perché faceva parte della sua benedizione e del suo stato benedetto. Invece, dopo il peccato, anche il lavoro viene presentato come una maledizione. Qui si tocca più da vicino il nostro rapporto con il mondo. L’investitura dell’uomo come dominatore era avvenuta all’inizio, in Gen 1,28: l’uomo dominatore è un fatto paradisiaco, primordiale. Ma la Bibbia stessa ci dice che l’uomo cessa presto di dominare: «Maledetto sia il suolo per causa tua. Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra...» (Gen 3,17-19). Questo è ancora dominio? Allora potremmo dire che l’uomo è stato concepito come dominatore e forse un giorno agli occhi di Dio potrà essere ancora dominatore, ma dopo questo evento, descritto in maniera archetipale, dominatore non lo è più.

Qui entrano in gioco due parole ebraiche che indicano tutte e due lavoro, ma in senso diverso. Una è melakhah, che designa un’opera produttiva, creativa come quella dei sei giorni (Gen 2,3). Le opere vietate di sabato sono appunto melakhah, cioè le opere creative positive, quelle in cui l’uomo imita il Dio creatore. L’altra parola è avodah, ossia il lavoro dello ‘ebed, cioè del servo e, per estensione, colui che opera agli ordini di un altro, come può essere lo schiavo, il servo, il ministro del re: quindi ‘avodah è il lavoro alienante e anche la schiavitù mentre un senso collaterale speciale è quello di culto. Con il peccato, Adamo passa dalla melakhah alla ‘avodah. Non c’è sicuramente nessuno che possa dominare facendo avodah: ormai lavorare non è più dominare. Questo non vuol dire che l’uomo storico, cioè nella condizione storica di nascere, lavorare e morire (Adamo non era in questa situazione), possa avere con il mondo soltanto un rapporto di avodah; poiché l’immagine divina non è in lui cancellata, può avere anche un rapporto di melakhah: è una possibilità da recuperare insieme a quell’immagine.

 

Trasformare il dominio in culto

Vediamo come nella storia primordiale biblica, cioè nei primi undici capitoli della Genesi, vi siano due grandissimi lavori, due modelli: uno di melakhah e uno di ‘avodah. Il modello di melakhah è la costruzione dell’arca di Noè (Gen 6), un lavoro a scopo di salvezza. Sarà stato anche faticoso, ma mirava a produrre qualche cosa che nel piano divino serviva a salvare la creazione. Proprio per questo possiamo chiamarlo melakhah. Il modello di avodah è la torre di Babele (Gen 11). Gli uomini la costruivano con entusiasmo, ma si trattava pur sempre di ‘avodah, una fatica senza esito, mossa da orgoglio e finita nella confusione. Il racconto ha certamente anche un intento eziologico, visto che gli uomini parlano tante lingue ma, secondo il narratore jahvista, il fallimento è provocato da Dio: non era un lavoro voluto da lui e non gli piaceva.

Questi due modelli, melakhah e ‘avodah, sono le categorie sotto cui noi vediamo attraverso la Bibbia il rapporto con il mondo. La benedizione in sé non media la ‘avodah, ma media la melakhah, oppure media qualcosa che non è lavoro ma è semplicemente godimento. Che cos’è la benedizione sul vino se non benedizione su quel prodotto di melakhah che è il vino e, insieme, sul godere del vino? Proprio al godimento dei prodotti della terra, quindi di melakhah, si riferisce il prototipo, la fondazione biblica di tutte le benedizioni, ossia la birkath ha-mazôn, la benedizione del pasto. «Il Signore tuo Dio sta per farti entrare in una terra buona... mangerai e ti sazierai e benedirai il Signore tuo Dio per la buona terra che ti ha dato» (Dt 8,7.10). In essa è ben chiaro il rapporto che abbiamo già accennato, un rapporto che poggia su tre elementi: la bontà dell’ambiente vitale, il suo uso positivo, la benedizione che li congiunge trasformando l’uso in culto, pur senza, per questo, togliere il vantaggio o il piacere.

La differenza tra il simposio greco-romano e la cena pasquale ebraica, tra un banchetto qualsiasi e il pasto ebraico è questa: nell’uno si mangia senza benedizione, nell’altro si mangia con benedizione. Questo è estremamente importante perché la tavola apparecchiata è considerata dai maestri la sostituzione, valida ed efficace, dell’altare: del resto che cosa dovrebbe essere l’altare cristiano se non, come dice il nome, una mensa o tavola? «Rabbi Jochanan e Rabbi Eleazar dissero entrambi: Finché rimase in piedi il Santuario, l’altare espiava per Israele; e ora, la tavola di un uomo espia per lui» (Berakhôth 55a). E il rabbi chassidico Hanoch: «Quando verrà il Messia si vedrà quanto hanno fatto le tavole» (M. Buber, I racconti dei Chassidim, 650). La tavola è infatti occasione di carità per i poveri, di parole di Tôrah e di benedizioni.

 

L’eccellenza delle realtà terrestri

Che cosa fa l’uomo quando gode benedicendo? Fa un’opera di orientamento: è come se prendesse la realtà del mondo e la dirigesse, la riorientasse verso la sua stella polare. La berakhah, in rapporto al godimento del mondo, è la trasformazione del dominio in culto: la benedizione mostra da un lato che il benedicente sa da dove provengono i suoi godimenti, ma dall’altro mette in evidenza come, in quest’occasione, l’uomo torni a essere quello che doveva essere all’inizio, immagine e somiglianza divina, cioè continuatore della creazione. Qui si arriva ad affermazioni molto ardite.

La prima è l’eccellenza delle realtà terrestri, cioè l’eccellenza del mondo, dell’ambiente e l’eccellenza dell’opera (melakhah) umana persino rispetto a quella divina. «Una volta Rav Huna ammonì suo figlio Rabbah: Perché non vai alle conferenze di Rav Chisda? Dicono che parli molto bene. Il figlio rispose: Perché devo andarci? Quando ci vado, Rav Chisda parla sempre e soltanto delle cose di questo mondo. Parla della funzione degli organi, della digestione e di altre faccende puramente fisiche. Ma il padre gli disse: Rav Chisda parla delle cose create da Dio e tu dici che parla di cose di questo mondo. Va’ e ascoltalo!» (Shabbath 82a, citato da J. Petuchowski, I nostri maestri insegnavano, 58).

«Una volta il cattivo governatore romano Tinneio Rufo domandò a Rabbi Akivà: Quali sono le opere più belle, le opere di Dio o le opere degli uomini? Rabbi Akivà rispose: Le opere degli uomini. Naturalmente il governatore non si aspettava questa risposta e replicò: Sei capace di fare delle cose come il cielo e la terra? E Akivà: Non parlarmi di cose che sono al di fuori della potenza umana, ma parliamo di qualcosa che è alla portata dell’uomo. Rabbi Akivà mandò a prendere delle spighe nel campo e dei pani dal fornaio, indicò le spighe e disse: Questa è l’opera di Dio. Poi mostrò i pani e disse: E questa è opera degli uomini. Non è più bella dell’opera di Dio? Poi Akivà fece portare dal campo dei mazzi di lino e dei bei vestiti da Beisan. Di nuovo egli chiamò opera di Dio il prodotto della natura e opera dell’uomo il lavoro fatto a mano. Poi ripeté la domanda: L’opera degli uomini non è forse più bella dell’opera di Dio?» (Tanchûma’, in J. Petuchowski, / nostri maestri insegnavano, 59).

 

L’uomo che non sa benedire

Questi due testi non sono direttamente connessi alla benedizione, ma ci mostrano qual è la posizione dell’uomo che usa le cose che Dio gli ha dato. Le usa mediante benedizione, ma usandole mediante benedizione, in qualche modo, è in grado di ristabilire il proprio dominio sulle cose. Di conseguenza la parola «dominio» si può usare ancora, ma solo quando l’uomo, dominando, è in grado di fare le cose - se così si può dire - meglio di Dio. Dio gli ha dato la materia prima e l’uomo, con la melakhah, riesce a fare la propria opera. Questo è il dominio.

Quando invece l’uomo crede di esercitare il dominio dimenticando la benedizione, in questo caso ascendente, allora subentra la maledizione e ogni melakhah si trasforma in avodah. Se noi leggiamo le maledizioni bibliche, ci accorgiamo che sono quasi un’anticipazione dei disastri ecologici. Un chiaro esempio è il cap. 28 del Deuteronomio (vv. 15-68), che fa seguito a una serie parallela di benedizioni discendenti, introdotte dalla condizione: «Se tu obbedirai fedelmente alla voce del Signore tuo Dio...» (28,1). Allo stesso modo, le maledizioni sono introdotte dalla condizione negativa: «Ma se non obbedirai alla voce del Signore tuo Dio... verranno su di te e ti raggiungeranno tutte queste maledizioni: sarai maledetto nella città e maledetto nella campagna. Maledette saranno la tua cesta e la tua madia. Maledetto sarà il frutto del tuo seno e il frutto del tuo suolo; maledetti i parti delle tue vacche e i nati delle tue pecore. Maledetto sarai quando entri e quando esci. Il Signore lancerà contro di te la maledizione, la costernazione e la minaccia in ogni lavoro a cui metterai mano... Il Signore ti colpirà con la consunzione, con la febbre, con l’infiammazione, con l’arsura, con la siccità, il carbonchio e la ruggine... Il cielo sarà di rame sopra il tuo capo e la terra sotto di te sarà di ferro. Il Signore darà come pioggia al tuo paese sabbia e polvere». È un crescendo terrificante, paragonabile soltanto al day after.

Una gran parte di queste maledizioni non sono maledizioni storiche, cioè non annunciano catastrofi belliche, ma si configurano come rivolta dell’ambiente contro l’uomo. Contro l’uomo, diremmo noi, che non sa benedire. È difficile restringere tutto agli effetti di una trasgressione religiosa, perché è difficile usare la parola «religione» a proposito dell’uomo biblico. I comandi della Bibbia non sono precetti esclusivamente religiosi, sono precetti del vivere rettamente nella società creata da Dio, nella famiglia, nella natura. In una fase più evolutiva, in una fase più tarda, noi possiamo dire tutto questo con la parola che abbiamo usato prima, cioè parlare dell’uomo senza benedizione. Abbiamo visto che il nostro uso del mondo è ambivalente, e lo vediamo tutti i giorni. Abbiamo «pulito» la parola «dominio» e sappiamo che un solo dominio è ancora consentito: quando l’uomo dice la benedizione, ossia quando l’uomo ricorda che il mondo non è originato da lui e quindi egli non può comportarsi da divinità.

Ma la benedizione ha un’altra funzione: accrescere il nostro godimento. Scrive il rabbino Riccardo Di Segni (Berakhôth: introduzione alle benedizioni, 9): «... secondo l’ebraismo, il godimento dei beni è lecito ed è un valore positivo: ma non deve diventare lo scopo della vita dell’uomo. Il godimento non deve essere considerato un diritto assoluto: non deve diventare una cosa che porta a dimenticare il vero ruolo dell’uomo che non è quello di padrone assoluto del mondo né, tanto meno, suo creatore».

In qualche modo la benedizione limita, è un confine: ma noi sappiamo che la delimitazione e la distinzione sono elementi fondamentali del creare, del bene. Nella Bibbia il bene è distinzione da male e confusione. Quindi la benedizione in sé comporta certamente una limitazione, se non altro una riflessione preliminare su quello che si sta facendo: ma questo è il godimento.

 

Un’esistenza punteggiata di benedizioni

L’esistenza ebraica è punteggiata da centinaia di benedizioni. Per esempio, se io odoro delle sostanze profumate: «Benedetto tu, o Signore Dio nostro re del mondo, creatore delle varietà di balsami». Se invece io sento il buon profumo dei frutti: «Benedetto... colui che ha dato il profumo buono ai frutti». Se io vedo una stella cadente, se io vedo una grande montagna o un deserto immenso, il sublime kantiano, dico: «Benedetto... colui che fa l’opera della creazione», perché Dio continua a essere creatore. Se io sento dei tuoni: «Benedetto... la cui forza e potenza riempie il mondo». Se vedo l’arcobaleno: «Benedetto... colui che si ricorda dell’alleanza ed è fedele al suo patto e mantiene quello che ha detto». Se si incontra un dotto esperto in scienze profane: «Benedetto... colui che ha dato della sua sapienza alla carne e al sangue». Se invece si vede un dotto in scienze sacre: «Benedetto... colui che ha fatto parte della sua sapienza a quanti lo temono». Altre benedizioni sono recitate da chi vede i fiori in primavera, vede un luogo dove è avvenuto un miracolo, vede qualche cosa di insolito, che potrebbe essere un elefante o un nano, oppure vede una persona che torna dopo tanto tempo o un re: quando Shemuel Yosef Agnon ricevette il premio Nobel e comparve davanti al re di Svezia, disse, appunto, la benedizione per l’incontro con un re.

A percorrere con attenzione la Bibbia, si trova, seppure in forme ancora estemporanee, un numero grandissimo di queste benedizioni, sparse nei salmi, nei testi narrativi, nei profeti. Il germe teologico che le nutre è sempre lo stesso: «Tutto è tuo, ma niente è tuo. Tutto diventa tuo se ti ricordi da dove viene».

Giungo a una conclusione paradossale: se, quando il serpente convinse i progenitori a mangiare quel frutto che era buono a mangiarsi e bello a vedersi, essi avessero detto la relativa benedizione, forse non sarebbe successo tutto quello che è successo. Ma poiché essi vollero diventare come Dio seguendo vie proprie, cioè non realizzando in sé l’immagine e la somiglianza, non dissero la benedizione, travolsero con sé l’ambiente, e l’ambiente si rivoltò contro di loro e li divorò (Gen 3,17-19).

 


Testo della Regola    Temi della Regola


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27 marzo 2023                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net