Regola di S. Benedetto

 

IX - I salmi dell'Ufficio notturno: 1 Nel suddetto periodo invernale si dica prima di tutto per tre volte il versetto: "Signore, apri le mie labbra e la mia bocca annunzierà la tua lode",

XI - L'Ufficio notturno nelle Domeniche: 8 Dopo il quarto responsorio l'abate intoni l'inno " Te Deum laudamus ", 9 finito il quale lo stesso abate legga la lezione dai Vangeli, ... 10 Al termine di questa lettura tutti rispondano Amen, poi l'abate prosegua immediatamente con l'inno " Te decet laus " e, recitata la preghiera di benedizione, si incomincino le Lodi.

XVI - La celebrazione dei divini Offici durante il giorno: 1 "Sette volte al giorno ti ho lodato", dice il profeta. 2 Questo sacro numero di sette sarà adempiuto da noi, se assolveremo i doveri del nostro servizio alle Lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e Compieta, 3 perché proprio di queste ore diurne il profeta ha detto: "Sette volte al giorno ti ho lodato".

XXXVIII - La lettura in refettorio: 1 Alla mensa dei monaci non deve mai mancare la lettura, ... 2 Dopo la Messa e la comunione, il lettore che entra in funzione si raccomandi nel coro alle preghiere dei fratelli, perché Dio lo tenga lontano da ogni tentazione di vanità; 3 e tutti ripetano per tre volte il versetto: "Signore apri le mie labbra e la mia bocca annunzierà la tua lode", che è stato intonato dal lettore stesso,...


Dalla bellezza alla lode

Fabio Bartoli

Estratto da “Prendimi con te, corriamo! Eros [1] e mistica nel Cantico dei Cantici

Ancora Editrice 2016


 

La bellezza [2] genera l’ammirazione e dall’ammirazione nasce la lode, che è il grido di gioia che erompe dallo stupore, dalla contemplazione del miracolo quotidiano della bellezza, è l’empito di gratitudine che sgorga dal cuore nel momento in cui scopre che, senza averne alcun merito, tutta questa bellezza è per lui. La lode è la prima e più spontanea forma di preghiera, è la preghiera del bimbo che si affaccia alla vita, è il primo istante di stupore, quando comprendiamo che esiste un Dio, ed è un vero paradosso che venga così poco insegnata nei seminari e nei noviziati. Dedichiamo ore e ore a imparare le più complicate tecniche di meditazione e di orazione mentale, eppure, se praticassimo davvero la lode, in essa troveremmo già tutto. Cosa altro è la conversione, sottolinea don Luigi Giussani, se non un grido di gioia: «Ma quanto è bello il mondo, e quanto è bello Dio!».

Eppure la preghiera di lode è anche una via ascetica formidabile. Sono convinto che, se imparassimo davvero a praticarla, la lode avrebbe in sé la potenzialità di insegnarci tutta la spiritualità cristiana. San Bernardo, uno dei pochi che ha parlato a lungo della lode, commentando il Salmo 133 mostra come dalla preghiera di lode discendono la tenerezza e la dolcezza della vita fraterna, che descrive come un unguento da versare sul capo del Signore e dei fratelli. Quindi insegna come preparare l’unguento della lode nell’officina della propria anima: «Questo unguento si prepara con i benefici divini conferiti all’uomo. Felice colui che si procura di raccoglierli per sé e di ricondurli agli occhi della propria mente con un degno ringraziamento! Di sicuro, quando nel mortaio del cuore saranno pestati e triturati dalla frequente meditazione, cotti dal fuoco del desiderio e infine cosparsi con l’olio della letizia, allora produrranno un’unzione eccellente». Dunque la lode, ci dice san Bernardo, è fatta di memoria, meditazione, desiderio e letizia: memoria dei beni ricevuti da Dio, meditazione nel senso di riconsiderarli spesso nella concretezza della vita, desiderio di riceverli ancora e ancora, infine letizia di averli ricevuti e di poterli di nuovo ricevere.

L’inizio della lode quindi sta nel ringraziamento per i benefici ricevuti e di questi il primo è il dono della vita, ovvero innanzitutto la nostra esistenza, perché non è per niente scontato che noi ci siamo: avremmo potuto benissimo non esserci, nulla obbligava il mondo a farci esistere. E poi insieme con l’esistenza va lodato tutto ciò che rende la vita viva e quindi la realtà, il mondo, tutto ciò che esiste intorno a noi, come nella magnifica poesia Pied beauty («Bellezza screziata») di G.M. Hopkins: «Sia gloria a Dio per le cose screziate/ per i cieli di accoppiati colori come vacca pezzata;/ per i nèi rosa in puntini sulla trota che nuota;/ per i crolli di castagne tizzoni ardenti; le ali dei fringuelli;/ il passaggio tracciato e spartito-stazzo, maggese, e aratro;/ e tutti i mestieri, con livrea e attrezzatura e foggia./ Tutte le cose contrarie, originali, impari, strane;/ quel ch’è instabile, lentigginoso (chi sa come?)/ con lesto, lento; dolce, amaro; abbagliante, torbo;/ Egli pro-crea la cui bellezza mai muta;/ lodatelo».

Questo ringraziamento deve essere incessante e affettuoso, anche perché questo è un dono che si ripete e si rinnova continuamente, ogni giorno nuovo, eppure sempre eternamente uguale. Ricordo una volta che, scherzando con un’amica, le dicevo: «Ma tu sembra quasi che inizi a ringraziare ancor prima di sapere per cosa stai ringraziando». Lei mi ha guardato seria seria e mi ha detto: «Ma sono così tante le cose per cui ringraziare che non si finisce mai!».

Bisogna educarsi alla lode, imparare cioè a scorgere la bellezza, e quindi il dono, in ogni cosa. Per questo la lode presuppone un’ascesi, anzi, è essa stessa una forma di ascesi: non parliamo forse di sacrificio di lode? Specialmente quando la lode è un atto della volontà e non solo l’assecondare il trasporto naturale dell’emozione, essa è un sacrificio perché porta a metterci a lato, a dimenticarci, a purificare mente e cuore dai pensieri negativi, a eliminare paura e tristezza che sono formidabili armi nelle mani del tentatore. Ci vuole un’anima libera per lodare, servono coraggio e purezza di cuore per elevarsi al di sopra dei turbamenti quotidiani e perfino del proprio stesso peccato, rivolgendosi a Dio con fiducia, sapendo che nel fuoco del suo amore tutto è accolto e perdonato. Chi saprà gettare nel Signore affanno e preoccupazioni, chi saprà lasciarsi alle spalle la propria stessa miseria, chi volgerà lo sguardo non a se stesso, ma alla grandezza di Dio, sarà capace di considerare davvero i doni ricevuti ed esaltarne la magnificenza e la bellezza.

Loda sempre! Loda per il giorno e per la notte, per l’angoscia e per la gioia, per la povertà e per la ricchezza, perché tutto concorre al bene di coloro che amano Dio. Loda la realtà, perché c’è. Loda la vita in tutte le sue sfumature, abbraccia e bacia il mondo intero perché in ogni cosa troverai il tuo Sposo. Lo ripeto: questo non è sentimentalismo, ma l’adesione della volontà alla gioia del Creatore che di ogni cosa creata vede la bellezza, tanto è vero che si può lodare anche nel dolore e nell’angoscia e anzi è questa la lode maggiormente gradita a Dio.

 

I frutti della lode

La prima cosa che ci accade nel lodare è che veniamo purificati dal male. Quanto più spazio ha in noi la lode, tanto meno ne avranno il peccato e la tentazione, perché la lode è ek-statica [3], ci porta fuori da noi stessi. Chi loda non può essere egoista, perché la sua attenzione non è centrata su di sé, ma sulla bellezza dello Sposo.

L’esperienza mi ha insegnato che cercare di combattere il male reprimendolo e quasi tentando di vomitarlo da sé è una via molto faticosa e non sempre produttiva. Preferisco «combattere il male con il bene», preoccupandomi non tanto di reprimerlo quanto di privarlo del suo ambiente vitale, dell’acqua in cui nuota per così dire, facendo crescere in me il bene attraverso la lode. Più lodo, più l’acqua malsana del risentimento e del rancore o quella amara del disgusto per la propria vita o quella avvelenata dell’orgoglio, insomma l’acqua in cui il male vive e prospera, si prosciuga e così pian piano si riduce in me la sua forza e vitalità e diventa sempre meno aggressivo, ha sempre meno presa su di me. È una via di perfezione più lenta, ma più sicura, anche perché ci preserva dall’orgoglio e dalla presunzione di essere noi stessi qualcosa.

La lode infatti ci rende umili. Chi loda si dimentica di se stesso, non tiene più in alcun conto i suoi bisogni e desideri se non quello di godere del Bene amato e del Bello lodato. Chi loda si dimentica perfino dei beni ricevuti, nel senso che alla fin fine ciò che davvero conta in essi non è ciò che sono in sé o il piacere che ci procurano, ma il fatto che ci rimandano al Donatore. Chi loda si mette spontaneamente all’ultimo posto e quasi non c’è più spazio per l’io nella sua coscienza, non alla maniera dei buddisti, che cercano il nulla, ma perché è interamente assorbito dal gigantesco Tu che gli sta di fronte. L’anima della lode è la dimenticanza di sé.

Un bellissimo esempio di questo è la preghiera di san Francesco, Lodi del Dio altissimo. È una preghiera dove quasi non c’è alcun contenuto concettuale, non sembra esserci né una struttura né un pensiero coerente, ma è solo un lungo elenco di «nomi» di Dio: «Tu sei amore e carità, Tu sei sapienza,/ Tu sei umiltà, Tu sei pazienza,/ Tu sei bellezza, Tu sei sicurezza, Tu sei quiete./ Tu sei gaudio e letizia, Tu sei la nostra speranza...». In che cosa consiste questa preghiera? Che cosa sta facendo san Francesco? Una cosa semplice: si è perso. Come l’innamorato che guarda la sua bella negli occhi e non è capace di pensare altro che il tu che ha davanti. Francesco è sparito in questa contemplazione, non c’è più come io cosciente e consapevole, è tutto intero proiettato in Dio. La lode così ci rende un tutt’uno con la nostra ammirazione, fa dell’ammirazione il centro della persona e questo ovviamente ci purifica da tutti i pensieri negativi di rabbia, di depressione, di possesso...

Così dalla lode scaturisce la gioia. E così la lode ci trasforma: l’uomo infatti diventa ciò che contempla. L’aspirazione alla bellezza è il più potente motore verso la trascendenza, per questo forse questo tempo così volgare sembra essere diventato incapace di Dio, per questo siamo ormai incapaci di produrre un’arte che vada oltre la descrizione del disagio.

Attraverso la lode della bellezza del mondo e della vita impareremo lo stupore e nello stupore incontreremo il Dio che tutto dona, impareremo che tutto è Grazia. Tutto è Grazia! Vorrei ripeterlo mille volte, scriverlo e riscriverlo su ogni foglio, su ogni cuore, fino a inciderlo con stilo di ferro nel piombo. Tutto è Grazia, dunque tutto è bellezza, tutto è lode, tutto è gioia. Come restare indifferenti a questo? Come non esserne attirati ad altezze più grandi? Perfino il mio peccato, perfino la mia debolezza, se li muto in povertà, diventeranno occasione di lode al Dio che risana.

Se tutto è Grazia, tutto è dono di Dio e dunque tutto è occasione di lode. Non c’è realtà, evento, situazione umana per cui non si debba lodare Dio, perché in ogni cosa egli ha manifestato il suo amore. Perfino per il nostro peccato potremmo lodare Dio, perché ci ha meritato un così grande Redentore! La lode così guarisce e libera, perché muove l’opera del Liberatore e del Guaritore. Soprattutto ci libera dall’ansia del possesso: se tutto è predisposto da Dio per il nostro bene, perché preoccuparsi di ciò che abbiamo o non abbiamo? Nella lode facciamo l’esperienza di ciò che dice santa Teresa d’Avila: «Dio solo basta».

La lode fa nascere la gioia e la consapevolezza del perdono. Come si può temere uno Sposo tanto bello? Come si può aver paura del suo giudizio? Scrive san Bernardo: «Affinché esaminando i tuoi peccati tu non ti esponga a un’eccessiva tristezza e disperato tu cada, come un cavallo senza briglie, in un precipizio e muoia, io ti fermerò con il freno della mia indulgenza e ti rianimerò con la mia lode e tu (...) respirerai dei miei beni fino a quando ti accorgerai che io sono più benevolo di quanto tu non sia colpevole».

Questo è importante perché lo scrupolo è il grande nemico della lode. Lo scrupolo ci porta a distogliere lo sguardo da Dio e rivolgerlo di nuovo a noi stessi. In realtà, in forma occulta lo scrupolo nasconde ancora un desiderio di possesso, perché nasce dal dolore di non essere padroni di sé, di non essere all’altezza dell’immagine che abbiamo di noi stessi; alla fine dei conti nasconde una volontà di controllo su di sé e sulla propria vita. E la lode, come dice san Bernardo, ci rianima e ci strappa a tutto questo, ci ricorda che tutto è dono, che nulla dipende dal nostro merito, elevandoci così al di sopra del nostro peccato e insegnandoci a rivolgerci a Dio con fiducia, sapendo che nel fuoco del suo amore tutto è perdonato.

La lode infine crea unità. Non c’è niente come il lodare insieme che favorisce la comunione, perché lodare insieme significa condividere la gioia. Questo è vero anche in campo profano, pensate ai tifosi allo stadio, ad esempio. Quanto di più allora se significa scoprire che la mia sorella, il mio fratello ama il mio stesso Sposo e con il mio stesso trasporto ed emozione? Certo, per imparare a condividere la lode bisogna saper condividere la gioia e questo non è facile come può sembrare. La condivisione della gioia richiede un’umiltà anche maggiore della condivisione del dolore, ma proprio per questo porta con sé doni anche più grandi.

È facile scorgere la bellezza di Dio e lodarla: risplende in tutta la creazione e non è forse vero che l’animo umano per sua stessa natura desidera il buono e il vero, così che essi sono l’oggetto proprio di ogni eros? In tutto ciò che desideriamo è Dio in realtà il nostro desiderio: non siamo capaci di amare altro che Dio, di desiderare altro che lui, il metro di ogni bellezza. E se questo non bastasse, è sufficiente pensare alla follia della croce di Cristo, a quell’amore fuori misura con cui siamo stati noi stessi desiderati per gridare insieme a santa Agnese: «Mi avrà chi mi ha amato di più».

Meno ovvia ed evidente, infine, è la bellezza della Sposa. Cosa c’è in me di desiderabile agli occhi di Dio? Come potrò rendermi amabile davanti a lui? È lo stesso Sposo a rendere bella la Sposa, è il suo amore, la sua Grazia immeritata, la sua misericordia infinitamente più grande delle nostre colpe. Questo è generalmente vero di ogni amore, se è vero, come è vero, che è la consapevolezza di essere amati ciò che ci rende veri e forti, ma più che mai è vero nel nostro rapporto con Dio Creatore, che ci ri-crea nel suo sguardo, nel suo chinarsi su di noi. Dio è l’unico a essere bello di per se stesso, tutti noi diventiamo belli nello sguardo di chi ci ama. Anche in questo l’amore naturale è immagine dell’amore divino.

Se è vero che Dio ci ama in modo assolutamente gratuito e che il suo eros per noi è in effetti anche un’agape, visto che non c’è nulla in me che possa aggiungere qualcosa alla sua pienezza, c’è tuttavia qualcosa che fa sì che Dio sia irresistibilmente inclinato verso di noi. Se è il sacrificio della croce a infiammare il cuore della Sposa, è invece l’umiltà di lei, il suo sapersi nulla, incapace di fare qualsiasi cosa senza lo Sposo, a renderla irresistibile per lui. Non c’è merito che noi possiamo acquisire ai suoi occhi se non il confessarci sinceramente e decisamente privi di alcun merito. È quando ci affidiamo interamente, quando ci abbandoniamo senza alcun timore e in piena confidenza nelle sue mani che l’amore dello Sposo si infiamma. È la gratitudine ricolma di stupore, che si fa lode in risposta alla Grazia, a innamorare lo Sposo. Per questo in visione Gesù dice a santa Caterina: «Fatti capacità e io mi farò torrente».

 


 

[1] Nota del redattore del sito (Ndr): Eros, Agapè e Philia

Platone distingueva tre volti o aspetti dell’amore: Eros, Agapè e Philia:

1) Eros è il Dio dell’amore fisico, secondo la concezione platonica, è l’amore carnale, passionale denominato anche amore platonico. È un modo usuale di definire una forma di amore sublimata dalla dimensione sessuale e passionale.

2) Agapè significa amore spirituale ovvero quell’amore disinteressato, fraterno, smisurato, puro e infinito. Con il termine Agapè si intende il dono disinteressato, l’amore che si prova andando oltre se stessi.

3) Philia è l’amore sentimentale, quello che si stabilisce in un rapporto di complice amicizia, di affiatamento e dove si hanno in comune interessi, sogni e opinioni.

(Fonte: Beatrice Cullina (a cura di), Platone, Hachette editore, Milano 2015).

Ma in verità in ebraico (come in italiano del resto) non esiste divisione tra philìa, eros e agape, le tre forme dell’amore note ai Greci, giacché tutte le forme dell’amore rientrano nel lessema hbd. (Si veda a pag. 16 del libro “Prendimi con te, corriamo!”).

[2] Ndr: inserisco queste poche righe sulla bellezza che si trovano nel capitolo precedente. “Dal primo all’ultimo verso il Cantico loda la bellezza: la bellezza dello Sposo e quella della Sposa, ed è in loro e nel loro amore che trova eco e riflesso la bellezza del Creato intero e di tutto ciò che esiste e si può nominare.”

[3] Ndr: Ek-statico indica il muoversi verso l’altro, l’uscire da sé.

Per esempio: “in un movimento ek-statico Cristo sceglie di venire in mezzo a noi: è l’incarnazione, l’umanizzazione di Dio, la sua decisione di diventare uomo.” (Fonte: Monasterodibose.it).

 


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8 maggio 2022                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net