Anselmo d’Aosta
PROSLOGION
Introduzione
Stefano Oliva
Pontificia Università della Santa Croce
Dal sito "Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede" (DISF.org) (21 aprile 2022)
L’autore
Guardando alla vita di Anselmo d’Aosta, si può osservare uno scorcio esemplare
della vita religiosa, culturale e politica dell’XI secolo. Anselmo infatti, come
molti clerici vagantes dell’epoca, viaggia e cambia più volte località
fino a stabilirsi presso l’abbazia benedettina del Bec, in Normandia, dove si fa
monaco, diviene rapidamente priore e, successivamente, abate. È in questo
contesto che nascono il Monologion e il Proslogion, opere di
capitale importanza per lo sviluppo del pensiero non soltanto medievale, che
recano traccia della vivacità intellettuale dell’ambiente monastico. Filosofo e
teologo (tra le sue numerose opere, particolarmente influenti sono l’Epistola
de Incarnatione Verbi, il De Grammatico e il Cur Deus homo),
impegnato in dibattiti con le voci più significative della sua epoca, da
Gaunilone a Roscellino di Compiègne, non limiterà il suo impegno all’attività
intellettuale ma, nominato arcivescovo di Canterbury (1093), si ritroverà
coinvolto anche sul fronte politico, nel contesto della cosiddetta lotta per le
investiture, affrontando per due volte l’esilio a motivo dei suoi contrasti con
la monarchia inglese. La sua partecipazione al Concilio di Bari (1098) e al
Concilio di Roma (1099), in cui prende posizione rispettivamente sulla
definizione della dottrina cattolica del Filioque e sulla illegittimità
delle investiture laiche di cariche ecclesiastiche, ne fa una delle figure più
rilevanti della vita religiosa del suo tempo.
Fede e ragione
Il Monologion, richiesto ad Anselmo da alcuni confratelli desiderosi di
poter rileggere il contenuto di alcune meditazioni originariamente presentate
oralmente, si muoveva nella direzione di una riflessione sulla razionalità della
fede, condotta attraverso la sola argomentazione logica, senza il sostegno
dell’autorità delle Scritture, ed era scritto in forma di soliloquio. Il
Proslogion, frutto dell’aspirazione di Anselmo a una presentazione delle
riflessioni del Monologion nella forma di un argomento unitario, si
sviluppa invece in un’altra direzione, andando a cercare la comprensione
intellettuale di quanto la fede già crede (fides quaerens intellectum) e
svolgendo il discorso nella forma di un colloquio con Dio. La differenza
stilistica tra le due opere si avverte fin dall’introduzione, in forma di
invocazione e preghiera:
Orsù dunque, omuncolo, sfuggi un poco alle tue occupazioni, sottraiti discreto
ai tuoi tumultuosi pensieri, allontana le tue pesanti preoccupazioni e metti da
parte le tue faticose dispersioni. Renditi per un poco disponibile a Dio e
riposati un po’ in lui. «Entra nella stanza» della tua mente, lascia fuori ogni
cosa tranne Dio e ciò che ti giovi a cercarlo, e «chiusa la porta» cercalo. Di’
ora, o «mio cuore» tutto intero, di’ ora a Dio: «Cerco il tuo volto; il tuo
volto, Signore, io ricerco». Orsù dunque, ora tu, Signore Dio mio, insegna al
mio cuore dove e come ti possa cercare, dove e come ti possa trovare.
La ricerca e la contemplazione del volto di Dio è il compito per cui l’uomo è
stato creato, il compimento verso cui esso tende, ma al tempo stesso è ciò a cui
l’autore confessa di non essere ancora riuscito ad arrivare. Ed è proprio in
questa ricerca che si inscrive la riflessione anselmiana sul rapporto tra fede e
ragione: «Non tento, Signore, di penetrare la tua altezza, perché in nessun modo
paragono ad essa il mio intelletto, ma desidero comprendere in qualche modo la
tua verità, che il mio cuore crede e ama. Infatti non cerco di comprendere per
credere, ma credo per comprendere. Giacché credo anche questo: che “se non
crederò, non comprenderò”». In questa preghiera speculativa, nei suoi accenti
agostiniani, si può riconoscere il programma di una ricerca che non si
accontenta di una adesione fideistica alle verità rivelate ma che si mette in
moto verso l’intelligenza della fede, vale a dire verso quella comprensione che
è alla portata delle facoltà umane qualora esse siano correttamente disposte
all’incontro con il divino.
La prova ontologica
Delle tre parti di cui è composta l’opera, la prima – la più breve – è dedicata
a quella che da Kant in poi verrà chiamata “prova ontologica” (Cfr. R. Timossi
Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel. Storia
critica degli argomenti ontologici, Marietti 1820, Genova 2005.), ovvero l’unum
argumentum a favore dell’esistenza di Dio cui è associata la notorietà e la
fortuna del Proslogion. L’autore si propone di comprendere quanto già
crede, vale a dire l’esistenza di Dio e i suoi attributi (oggetto della seconda
parte), e a tal proposito fornisce una prima definizione della divinità: «E
davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di
più grande (aliquid quo nihil maius cogitari possit)». L’attributo della
grandezza (se inteso, correttamente, in senso qualitativo, ossia come
pienezza di perfezioni) implica immediatamente anche l’esistenza, dal
momento che questa è una perfezione, e deve dunque essere inclusa nell’idea di
Dio. Infatti, se ciò di cui non si può pensare nulla di più grande non esistesse
realmente, ma solamente nell’intelletto, mancherebbe di qualcosa, ossia proprio
dell’esistenza reale, e dunque sarebbe in contraddizione con la sua stessa
definizione: non sarebbe il più grande (il più perfetto). «Tutto ciò – prosegue
Anselmo – è talmente vero, che non si può neppure pensare che Dio non esista»:
l’esistenza di Dio è necessaria e il fatto che si possa pensare «che vi sia
qualcosa di cui non si possa pensare che non esiste» porta a concludere che
questo sia proprio Dio («Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste
così veramente che non si può neppure pensare non esistente. E questo sei tu,
Signore Dio nostro». Di contro, chi nega l’esistenza di Dio – come l’insipiens
dei Salmi 13 e 52 – dice qualcosa che non “pensa realmente”, cioè pronuncia
delle parole di cui non comprende in profondità il senso: «Perciò nessuno, il
quale comprenda ciò che Dio è, può pensare che Dio non esista, sebbene dica in
cuor suo queste parole, non dando loro alcun significato o dandogliene uno
estraneo».
La natura divina e la beatitudine
Una volta stabilita l’esistenza di Dio, nella seconda parte l’autore si dedica a
una riflessione circa gli attributi divini: «Tu sei pertanto giusto, verace,
beato e tutto ciò che è meglio essere che non essere». Sensibile sebbene non sia
un corpo; onnipotente benché non possa fare molte cose; misericordioso ma allo
stesso tempo immune dalle passioni; sommamente giusto eppure benigno verso i
malvagi; illimitato ed eterno in modo singolare rispetto agli altri spiriti:
tutte le riflessioni sui diversi attributi di Dio sono condotte alla luce
dell’argomento presentato nella prima parte, mettendo dunque a frutto la
definizione di Dio come ciò di cui non si può pensare niente di maggiore. La
riflessione sugli attributi divini, condotta sempre nel colloquio con Dio,
giunge però a un punto critico: Anselmo si domanda infatti come mai, pur avendo
trovato ciò che cerca, non riesca a sentire ciò che ha trovato. La
risposta sta nella dismisura tra il modo in cui Dio è la limitatezza dell’uomo
che cerca il suo volto. È proprio tematizzando questa dismisura tra Creatore e
creatura che avviene una svolta, segnalata da una nuova formulazione, dedotta
dalla prima definizione: «Dunque, Signore, non solo sei ciò di cui non si può
pensare il maggiore, ma sei anche qualcosa di maggiore di quanto si possa
pensare». In questa nuova definizione si coglie una sfumatura ulteriore,
connessa alla trascendenza di Dio, alla sua profondità insondabile («la luce
inaccessibile, nella quale tu abiti») e alla limitatezza dell’intelletto umano.
La ricerca di Anselmo prosegue toccando i temi dell’eternità e della semplicità
divine, fino a una tematizzazione dell’unità delle tre persone della Trinità in
una vertiginosa ascesa che scopre Dio come «quell’unico necessario in cui si
trova ogni bene, che è anzi ogni bene, l’unico e totale e solo bene».
La terza parte dell’opera infine è dedicata alla gioia dell’anima che è giunta a
contemplare il sommo bene. Ancora una volta, è la dismisura divina il perno
attorno al quale si sviluppa il ragionamento: se si pongono i singoli beni a
confronto di quel bene, che li supera tutti e tutti li contiene, si comprende
che la gioia che attende la creatura è inimmaginabile e ricapitola in sé tutti i
singoli desideri che animano il cuore dell’uomo. È questa la beatitudine cui
aspira l’umanità, quella «gioia piena» promessa dal Vangelo che supera ogni
misura. Eccedente e sovrabbondante, la beatitudine non solo riempie il cuore
dell’uomo ma coinvolge la moltitudine dei santi fino a riversarsi al di fuori e
ad esteriorizzarsi: «Non tutta intera quella gioia, dunque, entrerà nei beati,
ma tutti i beati entreranno in quella gioia». Così come si era aperta, l’opera
si conclude con una preghiera a Dio affinché un giorno si possa accedere
pienamente a quella gioia piena che in questa vita è oggetto soltanto del
pensiero, della parola e del desiderio.
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24 aprile 2022 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net