Regola di S. Benedetto
IV - Gli strumenti
delle buone opere
20 Rendersi estraneo alla mentalità del mondo; 21 non
anteporre nulla all'amore di Cristo. 22 Non dare sfogo all'ira, 23 non
serbare rancore, 24 non covare inganni nel cuore, 25 non dare un falso saluto di
pace, 26 non abbandonare la carità.
VII - L'umiltà
67 Una volta ascesi tutti questi gradi dell'umiltà,
il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il
timore; 68 per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno
sforzo e quasi naturalmente, grazie all'abitudine, tutto quello che prima
osservava con una certa paura; 69 in altre parole non più per timore
dell'inferno, ma per amore di Cristo, per la
stessa buona abitudine e per il gusto della virtù. 70
Sono questi i frutti che, per opera dello Spirito Santo, il Signore si
degnerà di rendere manifesti nel suo servo, purificato ormai dai vizi e dai
peccati.
LIII - L'accoglienza degli
ospiti
1 Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano
ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: "Sono stato ospite e mi
avete accolto" 2 e a tutti si renda il debito onore, ma in modo particolare ai
nostri confratelli e ai pellegrini. 3 Quindi, appena viene annunciato l'arrivo
di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro,
manifestandogli in tutti i modi il loro amore;
4 per prima cosa preghino insieme e poi entrino in comunione con lui,
scambiandosi la pace.
LXVI - I portinai del
monastero
1 Alla porta del monastero sia destinato un monaco anziano e assennato, che
sappia ricevere e riportare le commissioni e sia abbastanza maturo da non
disperdersi, andando in giro a destra e a sinistra. 2 Questo portinaio deve
avere la sua residenza presso la porta, in modo che le persone che arrivano
trovino sempre un monaco pronto a rispondere.
3 Quindi, appena qualcuno bussa o un povero chiede la carità, risponda: "Deo
gratias!" Oppure: "Benedicite!" 4 e con tutta la delicatezza che ispira il timor
di Dio venga incontro alle richieste del nuovo arrivato,
dimostrando una grande premura e un'ardente carità.
LXXI - L'obbedienza
fraterna
1 La virtù dell'obbedienza non dev'essere solo esercitata da tutti nei confronti
dell'abate, ma bisogna anche che i fratelli si
obbediscano tra loro, 2 nella piena consapevolezza che
è proprio per questa via dell'obbedienza che andranno
a Dio. 3 Dunque, dopo aver dato l'assoluta precedenza al comando
dell'abate o dei superiori da lui designati, a cui non permettiamo che si
preferiscano ordini privati, 4 per il resto i più giovani obbediscano ai
confratelli più anziani con la massima carità e
premura.
LXXII - Il buon zelo dei
monaci
1 Come c'è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta
all'inferno, 2 così ce n'è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio
e alla vita eterna. 3 Ed è proprio in quest'ultimo che
i monaci devono esercitarsi con la più ardente carità
4 e cioè: si prevengano l'un l'altro nel rendersi onore; 5 sopportino con
grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e morali; 6 gareggino
nell'obbedirsi scambievolmente; 7 nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma
piuttosto ciò che giudica utile per gli altri; 8 si
portino a vicenda un amore fraterno e scevro da ogni egoismo; 9 temano
filialmente Dio; 10 amino il loro abate con sincera e
umile carità; 11 non antepongano assolutamente
nulla a Cristo, 12 che ci conduca tutti insieme alla vita eterna.
LETTERA ENCICLICA
DEUS CARITAS EST
DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XVI
AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
E A TUTTI I FEDELI LAICI
SULL'AMORE CRISTIANO
INTRODUZIONE
1. « Dio è amore; chi
sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (1 Gv 4, 16). Queste
parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza
il centro della fede cristiana: l'immagine cristiana di Dio e anche la
conseguente immagine dell'uomo e del suo cammino. Inoltre, in questo stesso
versetto, Giovanni ci offre per così dire una formula sintetica dell'esistenza
cristiana: « Noi abbiamo riconosciuto l'amore che Dio ha per noi e vi abbiamo
creduto ».
Abbiamo creduto
all'amore di Dio — così il cristiano
può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All'inizio dell'essere
cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un
avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la
direzione decisiva. Nel suo Vangelo Giovanni aveva espresso quest'avvenimento
con le seguenti parole: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
unigenito, perché chiunque crede in lui ... abbia la vita eterna » (3, 16). Con
la centralità dell'amore, la fede cristiana ha accolto quello che era il nucleo
della fede d'Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità
e ampiezza. L'Israelita credente, infatti, prega ogni giorno con le parole del Libro
del Deuteronomio, nelle quali egli sa che è racchiuso il centro della sua
esistenza: « Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno
solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con
tutte le forze » (6, 4-5). Gesù ha unito, facendone un unico precetto, il
comandamento dell'amore di Dio con quello dell'amore del prossimo, contenuto
nel Libro del Levitico: « Amerai il tuo prossimo come te stesso » (19,
18; cfr Mc 12, 29-31). Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,
10), l'amore adesso non è più solo un « comandamento », ma è la risposta al dono
dell'amore, col quale Dio ci viene incontro.
In un mondo in cui al
nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell'odio e
della violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto
concreto. Per questo nella mia prima Enciclica desidero parlare dell'amore, del
quale Dio ci ricolma e che da noi deve essere comunicato agli altri. Ecco così
indicate le due grandi parti di questa Lettera, tra loro profondamente connesse.
La prima avrà un'indole più speculativa, visto che in essa vorrei precisare —
all'inizio del mio Pontificato — alcuni dati essenziali sull'amore che Dio, in
modo misterioso e gratuito, offre all'uomo, insieme all'intrinseco legame di
quell'Amore con la realtà dell'amore umano. La seconda parte avrà un carattere
più concreto, poiché tratterà dell'esercizio ecclesiale del comandamento
dell'amore per il prossimo. L'argomento si presenta assai vasto; una lunga
trattazione, tuttavia, eccede lo scopo della presente Enciclica. È mio desiderio
insistere su alcuni elementi fondamentali, così da suscitare nel mondo un
rinnovato dinamismo di impegno nella risposta umana all'amore divino.
PRIMA PARTE
L'UNITÀ DELL'AMORE
NELLA CREAZIONE
E NELLA STORIA DELLA SALVEZZA
Un problema di
linguaggio
2. L'amore di Dio per
noi è questione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e
chi siamo noi. Al riguardo, ci ostacola innanzitutto un problema di linguaggio.
Il termine « amore » è oggi diventato una delle parole più usate ed anche
abusate, alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti. Anche se il tema
di questa Enciclica si concentra sulla questione della comprensione e della
prassi dell'amore nella Sacra Scrittura e nella Tradizione della Chiesa, non
possiamo semplicemente prescindere dal significato che questa parola possiede
nelle varie culture e nel linguaggio odierno.
Ricordiamo in primo
luogo il vasto campo semantico della parola « amore »: si parla di amor di
patria, di amore per la professione, di amore tra amici, di amore per il lavoro,
di amore tra genitori e figli, tra fratelli e familiari, dell'amore per il
prossimo e dell'amore per Dio. In tutta questa molteplicità di significati,
però, l'amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono
inscindibilmente e all'essere umano si schiude una promessa di felicità che
sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui
confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono. Sorge
allora la domanda: tutte queste forme di amore alla fine si unificano e l'amore,
pur in tutta la diversità delle sue manifestazioni, in ultima istanza è uno
solo, o invece utilizziamo una medesima parola per indicare realtà totalmente
diverse?
« Eros » e « agape » –
differenza e unità
3. All'amore tra uomo
e donna, che non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s'impone
all'essere umano, l'antica Grecia ha dato il nome di eros. Diciamo già in
anticipo che l'Antico Testamento greco usa solo due volte la parola eros,
mentre il Nuovo Testamento non la usa mai: delle tre parole greche relative
all'amore — eros, philia (amore di amicizia) e agape — gli
scritti neotestamentari privilegiano l'ultima, che nel linguaggio greco era
piuttosto messa ai margini. Quanto all'amore di amicizia (philia), esso
viene ripreso e approfondito nel Vangelo di Giovanni per esprimere il
rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La messa in disparte della parola eros,
insieme alla nuova visione dell'amore che si esprime attraverso la parola agape,
denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale,
proprio a riguardo della comprensione dell'amore. Nella critica al cristianesimo
che si è sviluppata con crescente radicalità a partire dall'illuminismo, questa
novità è stata valutata in modo assolutamente negativo. Il cristianesimo,
secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all'eros,
che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio [1].
Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa
con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella
della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia,
predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare
qualcosa del Divino?
4. Ma è veramente
così? Il cristianesimo ha davvero distrutto l'eros? Guardiamo al mondo
pre-cristiano. I greci — senz'altro in analogia con altre culture — hanno visto
nell'eros innanzitutto l'ebbrezza, la sopraffazione della ragione da
parte di una « pazzia divina » che strappa l'uomo alla limitatezza della sua
esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa
sperimentare la più alta beatitudine. Tutte le altre potenze tra il cielo e la
terra appaiono, così, d'importanza secondaria: « Omnia vincit amor »,
afferma Virgilio nelle Bucoliche — l'amore vince tutto — e aggiunge: « et
nos cedamus amori » — cediamo anche noi all'amore [2].
Nelle religioni questo atteggiamento si è tradotto nei culti della fertilità, ai
quali appartiene la prostituzione « sacra » che fioriva in molti templi. L'eros venne
quindi celebrato come forza divina, come comunione col Divino.
A questa forma di
religione, che contrasta come potentissima tentazione con la fede nell'unico
Dio, l'Antico Testamento si è opposto con massima fermezza, combattendola come
perversione della religiosità. Con ciò però non ha per nulla rifiutato l'eros
come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché
la falsa divinizzazione dell'eros, che qui avviene, lo priva della sua
dignità, lo disumanizza. Infatti, nel tempio, le prostitute, che devono donare
l'ebbrezza del Divino, non vengono trattate come esseri umani e persone, ma
servono soltanto come strumenti per suscitare la « pazzia divina »: in realtà,
esse non sono dee, ma persone umane di cui si abusa. Per questo l'eros ebbro
ed indisciplinato non è ascesa, « estasi » verso il Divino, ma caduta,
degradazione dell'uomo. Così diventa evidente che l'eros ha bisogno di
disciplina, di purificazione per donare all'uomo non il piacere di un istante,
ma un certo pregustamento del vertice dell'esistenza, di quella beatitudine a
cui tutto il nostro essere tende.
5. Due cose emergono
chiaramente da questo rapido sguardo alla concezione dell'eros nella
storia e nel presente. Innanzitutto che tra l'amore e il Divino esiste una
qualche relazione: l'amore promette infinità, eternità — una realtà più grande e
totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo
è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi
sopraffare dall'istinto. Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che
passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto dell'eros,
non è il suo « avvelenamento », ma la sua guarigione in vista della sua vera
grandezza.
Ciò dipende
innanzitutto dalla costituzione dell'essere umano, che è composto di corpo e di
anima. L'uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in
intima unità; la sfida dell'eros può dirsi veramente superata, quando
questa unificazione è riuscita. Se l'uomo ambisce di essere solamente spirito e
vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e
corpo perdono la loro dignità. E se, d'altra parte, egli rinnega lo spirito e
quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente
la sua grandezza. L'epicureo Gassendi, scherzando, si rivolgeva a Cartesio col
saluto: « O Anima! ». E Cartesio replicava dicendo: « O Carne! » [3].
Ma non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l'uomo, la persona,
che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima. Solo quando
ambedue si fondono veramente in unità, l'uomo diventa pienamente se stesso. Solo
in questo modo l'amore — l'eros — può maturare fino alla sua vera
grandezza.
Oggi non di rado si
rimprovera al cristianesimo del passato di esser stato avversario della
corporeità; di fatto, tendenze in questo senso ci sono sempre state. Ma il modo
di esaltare il corpo, a cui noi oggi assistiamo, è ingannevole. L'eros degradato
a puro « sesso » diventa merce, una semplice « cosa » che si può comprare e
vendere, anzi, l'uomo stesso diventa merce. In realtà, questo non è proprio il
grande sì dell'uomo al suo corpo. Al contrario, egli ora considera il corpo e la
sessualità come la parte soltanto materiale di sé da adoperare e sfruttare con
calcolo. Una parte, peraltro, che egli non vede come un ambito della sua
libertà, bensì come un qualcosa che, a modo suo, tenta di rendere insieme
piacevole ed innocuo. In realtà, ci troviamo di fronte ad una degradazione del
corpo umano, che non è più integrato nel tutto della libertà della nostra
esistenza, non è più espressione viva della totalità del nostro essere, ma viene
come respinto nel campo puramente biologico. L'apparente esaltazione del corpo
può ben presto convertirsi in odio verso la corporeità. La fede cristiana, al
contrario, ha considerato l'uomo sempre come essere uni-duale, nel quale spirito
e materia si compenetrano a vicenda sperimentando proprio così ambedue una nuova
nobiltà. Sì, l'eros vuole sollevarci « in estasi » verso il Divino,
condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di
ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni.
6. Come dobbiamo
configurarci concretamente questo cammino di ascesa e di purificazione? Come
deve essere vissuto l'amore, perché si realizzi pienamente la sua promessa umana
e divina? Una prima indicazione importante la possiamo trovare nel Cantico
dei Cantici, uno dei libri dell'Antico Testamento ben noto ai mistici.
Secondo l'interpretazione oggi prevalente, le poesie contenute in questo libro
sono originariamente canti d'amore, forse previsti per una festa di nozze
israelitica, nella quale dovevano esaltare l'amore coniugale. In tale contesto è
molto istruttivo il fatto che, nel corso del libro, si trovano due parole
diverse per indicare l'« amore ». Dapprima vi è la parola « dodim » — un
plurale che esprime l'amore ancora insicuro, in una situazione di ricerca
indeterminata. Questa parola viene poi sostituita dalla parola « ahabà »,
che nella traduzione greca dell'Antico Testamento è resa col termine di simile
suono « agape » che, come abbiamo visto, diventò l'espressione
caratteristica per la concezione biblica dell'amore. In opposizione all'amore
indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l'esperienza
dell'amore che diventa ora veramente scoperta dell'altro, superando il carattere
egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l'amore diventa cura dell'altro e
per l'altro. Non cerca più se stesso, l'immersione nell'ebbrezza della felicità;
cerca invece il bene dell'amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi
lo cerca.
Fa parte degli
sviluppi dell'amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni,
che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso
dell'esclusività — « solo quest'unica persona » — e nel senso del « per sempre
». L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in
quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira
al definitivo: l'amore mira all'eternità. Sì, amore è « estasi », ma estasi non
nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo
permanente dall'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé,
e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio: « Chi
cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà »
(Lc 17, 33), dice Gesù — una sua affermazione che si ritrova nei Vangeli
in diverse varianti (cfr Mt 10, 39; 16, 25; Mc 8, 35; Lc 9,
24; Gv 12, 25). Gesù con ciò descrive il suo personale cammino, che
attraverso la croce lo conduce alla resurrezione: il cammino del chicco di grano
che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. Partendo dal centro del
suo sacrificio personale e dell'amore che in esso giunge al suo compimento, egli
con queste parole descrive anche l'essenza dell'amore e dell'esistenza umana in
genere.
7. Le nostre
riflessioni, inizialmente piuttosto filosofiche, sull'essenza dell'amore ci
hanno ora condotto per interiore dinamica fino alla fede biblica. All'inizio si
è posta la questione se i diversi, anzi opposti, significati della parola amore
sottintendessero una qualche unità profonda o se invece dovessero restare
slegati, l'uno accanto all'altro. Soprattutto, però, è emersa la questione se il
messaggio sull'amore, a noi annunciato dalla Bibbia e dalla Tradizione della
Chiesa, avesse qualcosa a che fare con la comune esperienza umana dell'amore o
non si opponesse piuttosto ad essa. A tal proposito, ci siamo imbattuti nelle
due parole fondamentali: eros come termine per significare l'amore «
mondano » e agape come espressione per l'amore fondato sulla fede e da
essa plasmato. Le due concezioni vengono spesso contrapposte come amore «
ascendente » e amore « discendente ». Vi sono altre classificazioni affini, come
per esempio la distinzione tra amore possessivo e amore oblativo (amor
concupiscentiae – amor benevolentiae), alla quale a volte viene aggiunto
anche l'amore che mira al proprio tornaconto.
Nel dibattito
filosofico e teologico queste distinzioni spesso sono state radicalizzate fino
al punto di porle tra loro in contrapposizione: tipicamente cristiano sarebbe
l'amore discendente, oblativo, l'agape appunto; la cultura non cristiana,
invece, soprattutto quella greca, sarebbe caratterizzata dall'amore ascendente,
bramoso e possessivo, cioè dall'eros. Se si volesse portare all'estremo
questa antitesi, l'essenza del cristianesimo risulterebbe disarticolata dalle
fondamentali relazioni vitali dell'esistere umano e costituirebbe un mondo a sé,
da ritenere forse ammirevole, ma decisamente tagliato fuori dal complesso
dell'esistenza umana. In realtà eros e agape — amore ascendente e
amore discendente — non si lasciano mai separare completamente l'uno dall'altro.
Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità
nell'unica realtà dell'amore, tanto più si realizza la vera natura dell'amore in
genere. Anche se l'eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente —
fascinazione per la grande promessa di felicità — nell'avvicinarsi poi all'altro
si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità
dell'altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà «
esserci per » l'altro. Così il momento dell'agape si inserisce in esso;
altrimenti l'eros decade e perde anche la sua stessa natura. D'altra
parte, l'uomo non può neanche vivere esclusivamente nell'amore oblativo,
discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol
donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono. Certo, l'uomo può — come ci
dice il Signore — diventare sorgente dalla quale sgorgano fiumi di acqua viva
(cfr Gv 7, 37-38). Ma per divenire una tale sorgente, egli stesso deve
bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria sorgente che è Gesù Cristo,
dal cui cuore trafitto scaturisce l'amore di Dio (cfr Gv 19, 34).
I Padri hanno visto simboleggiata in vari modi, nella
narrazione della scala di Giacobbe, questa connessione inscindibile tra ascesa e
discesa, tra l'eros che cerca Dio e l'agape che trasmette il dono
ricevuto. In quel testo biblico si riferisce che il patriarca Giacobbe in sogno
vide, sopra la pietra che gli serviva da guanciale, una scala che giungeva fino
al cielo, sulla quale salivano e scendevano gli angeli di Dio (cfr Gn 28,
12; Gv 1, 51). Colpisce in modo particolare l'interpretazione che il Papa
Gregorio Magno dà di questa visione nella sua Regola pastorale. Il
pastore buono, egli dice, deve essere radicato nella contemplazione. Soltanto in
questo modo, infatti, gli sarà possibile accogliere le necessità degli altri nel
suo intimo, cosicché diventino sue: « per pietatis viscera in se infirmitatem
caeterorum transferat » [4]. San
Gregorio, in questo contesto, fa riferimento a san Paolo che vien rapito in alto
fin nei più grandi misteri di Dio e proprio così, quando ne discende, è in grado
di farsi tutto a tutti (cfr 2 Cor 12, 2-4; 1 Cor 9, 22). Inoltre
indica l'esempio di Mosè che sempre di nuovo entra nella tenda sacra restando in
dialogo con Dio per poter così, a partire da Dio, essere a disposizione del suo
popolo. « Dentro [la tenda] rapito in alto mediante la contemplazione, si lascia
fuori [della tenda] incalzare dal peso dei sofferenti: intus in
contemplationem rapitur, foris infirmantium negotiis urgetur » [5].
8. Abbiamo così
trovato una prima risposta, ancora piuttosto generica, alle due domande
suesposte: in fondo l'« amore » è un'unica realtà, seppur con diverse
dimensioni; di volta in volta, l'una o l'altra dimensione può emergere
maggiormente. Dove però le due dimensioni si distaccano completamente l'una
dall'altra, si profila una caricatura o in ogni caso una forma riduttiva
dell'amore. E abbiamo anche visto sinteticamente che la fede biblica non
costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a
quell'originario fenomeno umano che è l'amore, ma accetta tutto l'uomo
intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al
contempo nuove dimensioni. Questa novità della fede biblica si manifesta
soprattutto in due punti, che meritano di essere sottolineati: l'immagine di Dio
e l'immagine dell'uomo.
La novità della fede
biblica
9. Vi è anzitutto la nuova immagine di Dio. Nelle
culture che circondano il mondo della Bibbia, l'immagine di dio e degli dei
rimane, alla fin fine, poco chiara e in sé contraddittoria. Nel cammino della
fede biblica diventa invece sempre più chiaro ed univoco ciò che la preghiera
fondamentale di Israele, lo Shema, riassume nelle parole: « Ascolta,
Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo » (Dt 6, 4).
Esiste un solo Dio, che è il Creatore del cielo e della terra e perciò è anche
il Dio di tutti gli uomini. Due fatti in questa precisazione sono singolari: che
veramente tutti gli altri dei non sono Dio e che tutta la realtà nella quale
viviamo risale a Dio, è creata da Lui. Certamente, l'idea di una creazione
esiste anche altrove, ma solo qui risulta assolutamente chiaro che non un dio
qualsiasi, ma l'unico vero Dio, Egli stesso, è l'autore dell'intera realtà; essa
proviene dalla potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua
creatura gli è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui « fatta
». E così appare ora il secondo elemento importante: questo Dio ama l'uomo. La
potenza divina che Aristotele, al culmine della filosofia greca, cercò di
cogliere mediante la riflessione, è sì per ogni essere oggetto del desiderio e
dell'amore — come realtà amata questa divinità muove il mondo
[6] —, ma essa stessa non ha bisogno di
niente e non ama, soltanto viene amata. L'unico Dio in cui Israele crede,
invece, ama personalmente. Il suo amore, inoltre, è un amore elettivo: tra tutti
i popoli Egli sceglie Israele e lo ama — con lo scopo però di guarire, proprio
in tal modo, l'intera umanità. Egli ama, e questo suo amore può essere
qualificato senz'altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape [7].
Soprattutto i profeti
Osea ed Ezechiele hanno descritto questa passione di Dio per il suo popolo con
ardite immagini erotiche. Il rapporto di Dio con Israele viene illustrato
mediante le metafore del fidanzamento e del matrimonio; di conseguenza,
l'idolatria è adulterio e prostituzione. Con ciò si accenna concretamente — come
abbiamo visto — ai culti della fertilità con il loro abuso dell'eros, ma
al contempo viene anche descritto il rapporto di fedeltà tra Israele e il suo
Dio. La storia d'amore di Dio con Israele consiste, in profondità, nel fatto che
Egli dona la Torah, apre cioè gli occhi a Israele sulla vera natura
dell'uomo e gli indica la strada del vero umanesimo. Tale storia consiste nel
fatto che l'uomo, vivendo nella fedeltà all'unico Dio, sperimenta se stesso come
colui che è amato da Dio e scopre la gioia nella verità, nella giustizia — la
gioia in Dio che diventa la sua essenziale felicità: « Chi altri avrò per me in
cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra... Il mio bene è stare vicino a Dio »
(Sal 73 [72], 25. 28).
10. L'eros di
Dio per l'uomo — come abbiamo detto — è insieme totalmente agape. Non
soltanto perché viene donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito
precedente, ma anche perché è amore che perdona. Soprattutto Osea ci mostra la
dimensione dell'agape nell'amore di Dio per l'uomo, che supera di gran
lunga l'aspetto della gratuità. Israele ha commesso « adulterio », ha rotto
l'Alleanza; Dio dovrebbe giudicarlo e ripudiarlo. Proprio qui si rivela però che
Dio è Dio e non uomo: « Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad
altri, Israele? ... Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme
di compassione. Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non tornerò a
distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te » (Os 11,
8-9). L'amore appassionato di Dio per il suo popolo — per l'uomo — è nello
stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio
contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia. Il cristiano vede, in
questo, già profilarsi velatamente il mistero della Croce: Dio ama tanto l'uomo
che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo
riconcilia giustizia e amore.
L'aspetto filosofico e
storico-religioso da rilevare in questa visione della Bibbia sta nel fatto che,
da una parte, ci troviamo di fronte ad un'immagine strettamente metafisica di
Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo
principio creativo di tutte le cose — il Logos, la ragione primordiale —
è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore. In questo modo
l'eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da
fondersi con l'agape. Da ciò possiamo comprendere che la ricezione del Cantico
dei Cantici nel canone della Sacra Scrittura sia stata spiegata ben presto
nel senso che quei canti d'amore descrivono, in fondo, il rapporto di Dio con
l'uomo e dell'uomo con Dio. In questo modo il Cantico dei Cantici è
diventato, nella letteratura cristiana come in quella giudaica, una sorgente di
conoscenza e di esperienza mistica, in cui si esprime l'essenza della fede
biblica: sì, esiste una unificazione dell'uomo con Dio — il sogno originario
dell'uomo –, ma questa unificazione non è un fondersi insieme, un affondare
nell'oceano anonimo del Divino; è unità che crea amore, in cui entrambi — Dio e
l'uomo — restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola: « Chi
si unisce al Signore forma con lui un solo spirito », dice san Paolo (1 Cor 6,
17).
11. La prima novità
della fede biblica consiste, come abbiamo visto, nell'immagine di Dio; la
seconda, con essa essenzialmente connessa, la troviamo nell'immagine dell'uomo.
Il racconto biblico della creazione parla della solitudine del primo uomo,
Adamo, al quale Dio vuole affiancare un aiuto. Fra tutte le creature, nessuna
può essere per l'uomo quell'aiuto di cui ha bisogno, sebbene a tutte le bestie
selvatiche e a tutti gli uccelli egli abbia dato un nome, integrandoli così nel
contesto della sua vita. Allora, da una costola dell'uomo, Dio plasma la donna.
Ora Adamo trova l'aiuto di cui ha bisogno: « Questa volta essa è carne dalla mia
carne e osso dalle mie ossa » (Gn 2, 23). È possibile vedere sullo sfondo
di questo racconto concezioni quali appaiono, per esempio, anche nel mito
riferito da Platone, secondo cui l'uomo originariamente era sferico, perché
completo in se stesso ed autosufficiente. Ma, come punizione per la sua
superbia, venne da Zeus dimezzato, così che ora sempre anela all'altra sua metà
ed è in cammino verso di essa per ritrovare la sua interezza.
[8] Nel racconto biblico non si parla di
punizione; l'idea però che l'uomo sia in qualche modo incompleto,
costituzionalmente in cammino per trovare nell'altro la parte integrante per la
sua interezza, l'idea cioè che egli solo nella comunione con l'altro sesso possa
diventare « completo », è senz'altro presente. E così il racconto biblico si
conclude con una profezia su Adamo: « Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e
sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne » (Gn 2,
24).
Due sono qui gli
aspetti importanti: l'eros è come radicato nella natura stessa dell'uomo;
Adamo è in ricerca e « abbandona suo padre e sua madre » per trovare la donna;
solo nel loro insieme rappresentano l'interezza dell'umanità, diventano « una
sola carne ». Non meno importante è il secondo aspetto: in un orientamento
fondato nella creazione, l'eros rimanda l'uomo al matrimonio, a un legame
caratterizzato da unicità e definitività; così, e solo così, si realizza la sua
intima destinazione. All'immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio
monogamico. Il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa
l'icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di
Dio diventa la misura dell'amore umano. Questo stretto nesso tra eros e
matrimonio nella Bibbia quasi non trova paralleli nella letteratura al di fuori
di essa.
Gesù Cristo – l'amore
incarnato di Dio
12. Anche se finora
abbiamo parlato prevalentemente dell'Antico Testamento, tuttavia l'intima
compenetrazione dei due Testamenti come unica Scrittura della fede cristiana si
è già resa visibile. La vera novità del Nuovo Testamento non sta in nuove idee,
ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti — un
realismo inaudito. Già nell'Antico Testamento la novità biblica non consiste
semplicemente in nozioni astratte, ma nell'agire imprevedibile e in certo senso
inaudito di Dio. Questo agire di Dio acquista ora la sua forma drammatica nel
fatto che, in Gesù Cristo, Dio stesso insegue la « pecorella smarrita »,
l'umanità sofferente e perduta. Quando Gesù nelle sue parabole parla del pastore
che va dietro alla pecorella smarrita, della donna che cerca la dracma, del
padre che va incontro al figliol prodigo e lo abbraccia, queste non sono
soltanto parole, ma costituiscono la spiegazione del suo stesso essere ed
operare. Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se
stesso nel quale Egli si dona per rialzare l'uomo e salvarlo — amore, questo,
nella sua forma più radicale. Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo,
di cui parla Giovanni (cfr 19, 37), comprende ciò che è stato il punto di
partenza di questa Lettera enciclica: « Dio è amore » (1 Gv 4, 8). È lì
che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi
che cosa sia l'amore. A partire da questo sguardo il cristiano trova la strada
del suo vivere e del suo amare.
13. A questo atto di
offerta Gesù ha dato una presenza duratura attraverso l'istituzione
dell'Eucaristia, durante l'Ultima Cena. Egli anticipa la sua morte e
resurrezione donando già in quell'ora ai suoi discepoli nel pane e nel vino se
stesso, il suo corpo e il suo sangue come nuova manna (cfr Gv 6, 31-33).
Se il mondo antico aveva sognato che, in fondo, vero cibo dell'uomo — ciò di cui
egli come uomo vive — fosse il Logos, la sapienza eterna, adesso questo Logos è
diventato veramente per noi nutrimento — come amore. L'Eucaristia ci attira
nell'atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato,
ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione. L'immagine del
matrimonio tra Dio e Israele diventa realtà in un modo prima inconcepibile: ciò
che era lo stare di fronte a Dio diventa ora, attraverso la partecipazione alla
donazione di Gesù, partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione.
La « mistica » del Sacramento che si fonda nell'abbassamento di Dio verso di noi
è di ben altra portata e conduce ben più in alto di quanto qualsiasi mistico
innalzamento dell'uomo potrebbe realizzare.
14. Ora però c'è da
far attenzione ad un altro aspetto: la « mistica » del Sacramento ha un
carattere sociale, perché nella comunione sacramentale io vengo unito al Signore
come tutti gli altri comunicanti: « Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo
molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane », dice
san Paolo (1 Cor 10, 17). L'unione con Cristo è allo stesso tempo unione
con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per
me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o
diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così
anche verso l'unità con tutti i cristiani. Diventiamo « un solo corpo », fusi
insieme in un'unica esistenza. Amore per Dio e amore per il prossimo sono ora
veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae tutti a sé. Da ciò si comprende
come agape sia ora diventata anche un nome dell'Eucaristia: in essa l'agape di
Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso
di noi. Solo a partire da questo fondamento cristologico-sacramentale si può
capire correttamente l'insegnamento di Gesù sull'amore. Il passaggio che Egli fa
fare dalla Legge e dai Profeti al duplice comandamento dell'amore verso Dio e
verso il prossimo, la derivazione di tutta l'esistenza di fede dalla centralità
di questo precetto, non è semplice morale che poi possa sussistere autonomamente
accanto alla fede in Cristo e alla sua riattualizzazione nel Sacramento: fede,
culto ed ethos si compenetrano a vicenda come un'unica realtà che si
configura nell'incontro con l'agape di Dio. La consueta contrapposizione
di culto ed etica qui semplicemente cade. Nel « culto » stesso, nella comunione
eucaristica è contenuto l'essere amati e l'amare a propria volta gli altri. Un'
Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa
frammentata. Reciprocamente — come dovremo ancora considerare in modo più
dettagliato — il « comandamento » dell'amore diventa possibile solo perché non è
soltanto esigenza: l'amore può essere « comandato » perché prima è donato.
15. È a partire da
questo principio che devono essere comprese anche le grandi parabole di Gesù. Il
ricco epulone (cfr Lc 16, 19-31) implora dal luogo della dannazione che i
suoi fratelli vengano informati su ciò che succede a colui che ha
disinvoltamente ignorato il povero in necessità. Gesù raccoglie per così dire
tale grido di aiuto e se ne fa eco per metterci in guardia, per riportarci sulla
retta via. La parabola del buon Samaritano (cfr Lc 10, 25-37) conduce
soprattutto a due importanti chiarificazioni. Mentre il concetto di « prossimo »
era riferito, fino ad allora, essenzialmente ai connazionali e agli stranieri
che si erano stanziati nella terra d'Israele e quindi alla comunità solidale di
un paese e di un popolo, adesso questo limite viene abolito. Chiunque ha bisogno
di me e io posso aiutarlo, è il mio prossimo. Il concetto di prossimo viene
universalizzato e rimane tuttavia concreto. Nonostante la sua estensione a tutti
gli uomini, non si riduce all'espressione di un amore generico ed astratto, in
se stesso poco impegnativo, ma richiede il mio impegno pratico qui ed ora.
Rimane compito della Chiesa interpretare sempre di nuovo questo collegamento tra
lontananza e vicinanza in vista della vita pratica dei suoi membri. Infine,
occorre qui rammentare, in modo particolare, la grande parabola del Giudizio
finale (cfr Mt 25, 31-46), in cui l'amore diviene il criterio per la
decisione definitiva sul valore o il disvalore di una vita umana. Gesù si
identifica con i bisognosi: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati,
carcerati. « Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei
fratelli più piccoli, l'avete fatto a me » (Mt 25, 40). Amore di Dio e
amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e
in Gesù incontriamo Dio.
Amore di Dio e amore
del prossimo
16. Dopo aver
riflettuto sull'essenza dell'amore e sul suo significato nella fede biblica,
rimane una duplice domanda circa il nostro atteggiamento: è veramente possibile
amare Dio pur non vedendolo? E: l'amore si può comandare? Contro il duplice
comandamento dell'amore esiste la duplice obiezione, che risuona in queste
domande. Nessuno ha mai visto Dio — come potremmo amarlo? E inoltre: l'amore non
si può comandare; è in definitiva un sentimento che può esserci o non esserci,
ma che non può essere creato dalla volontà. La Scrittura sembra avallare la
prima obiezione quando afferma: « Se uno dicesse: “Io amo Dio” e odiasse il suo
fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non
può amare Dio che non vede » (1 Gv 4, 20). Ma questo testo non esclude
affatto l'amore di Dio come qualcosa di impossibile; al contrario, nell'intero
contesto della Prima Lettera di Giovanni ora citata, tale amore viene
richiesto esplicitamente. Viene sottolineato il collegamento inscindibile tra
amore di Dio e amore del prossimo. Entrambi si richiamano così strettamente che
l'affermazione dell'amore di Dio diventa una menzogna, se l'uomo si chiude al
prossimo o addirittura lo odia. Il versetto giovanneo si deve interpretare
piuttosto nel senso che l'amore per il prossimo è una strada per incontrare
anche Dio e che il chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche
di fronte a Dio.
17. In effetti,
nessuno ha mai visto Dio così come Egli è in se stesso. E tuttavia Dio non è per
noi totalmente invisibile, non è rimasto per noi semplicemente inaccessibile.
Dio ci ha amati per primo, dice la Lettera di Giovanni citata (cfr 4, 10)
e questo amore di Dio è apparso in mezzo a noi, si è fatto visibile in quanto
Egli « ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita
per lui » (1 Gv 4, 9). Dio si è fatto visibile: in Gesù noi possiamo
vedere il Padre (cfr Gv 14, 9). Di fatto esiste una molteplice visibilità
di Dio. Nella storia d'amore che la Bibbia ci racconta, Egli ci viene incontro,
cerca di conquistarci — fino all'Ultima Cena, fino al Cuore trafitto sulla
croce, fino alle apparizioni del Risorto e alle grandi opere mediante le quali
Egli, attraverso l'azione degli Apostoli, ha guidato il cammino della Chiesa
nascente. Anche nella successiva storia della Chiesa il Signore non è rimasto
assente: sempre di nuovo ci viene incontro — attraverso uomini nei quali Egli
traspare; attraverso la sua Parola, nei Sacramenti, specialmente
nell'Eucaristia. Nella liturgia della Chiesa, nella sua preghiera, nella
comunità viva dei credenti, noi sperimentiamo l'amore di Dio, percepiamo la sua
presenza e impariamo in questo modo anche a riconoscerla nel nostro quotidiano.
Egli per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi
possiamo rispondere con l'amore. Dio non ci ordina un sentimento che non
possiamo suscitare in noi stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il
suo amore e, da questo « prima » di Dio, può come risposta spuntare l'amore
anche in noi.
Nello sviluppo di
questo incontro si rivela con chiarezza che l'amore non è soltanto un
sentimento. I sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una
meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell'amore. Abbiamo
all'inizio parlato del processo delle purificazioni e delle maturazioni,
attraverso le quali l'eros diventa pienamente se stesso, diventa amore
nel pieno significato della parola. È proprio della maturità dell'amore
coinvolgere tutte le potenzialità dell'uomo ed includere, per così dire, l'uomo
nella sua interezza. L'incontro con le manifestazioni visibili dell'amore di Dio
può suscitare in noi il sentimento della gioia, che nasce dall'esperienza
dell'essere amati. Ma tale incontro chiama in causa anche la nostra volontà e il
nostro intelletto. Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l'amore, e
il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento
nell'atto totalizzante dell'amore. Questo però è un processo che rimane
continuamente in cammino: l'amore non è mai « concluso » e completato; si
trasforma nel corso della vita, matura e proprio per questo rimane fedele a se
stesso. Idem velle atque idem nolle [9] —
volere la stessa cosa e rifiutare la stessa cosa, è quanto gli antichi hanno
riconosciuto come autentico contenuto dell'amore: il diventare l'uno simile
all'altro, che conduce alla comunanza del volere e del pensare. La storia
d'amore tra Dio e l'uomo consiste appunto nel fatto che questa comunione di
volontà cresce in comunione di pensiero e di sentimento e, così, il nostro
volere e la volontà di Dio coincidono sempre di più: la volontà di Dio non è più
per me una volontà estranea, che i comandamenti mi impongono dall'esterno, ma è
la mia stessa volontà, in base all'esperienza che, di fatto, Dio è più intimo a
me di quanto lo sia io stesso [10].
Allora cresce l'abbandono in Dio e Dio diventa la nostra gioia (cfr Sal 73
[72], 23-28).
18. Si rivela così
possibile l'amore del prossimo nel senso enunciato dalla Bibbia, da Gesù. Esso
consiste appunto nel fatto che io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che
non gradisco o neanche conosco. Questo può realizzarsi solo a partire
dall'intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà
arrivando fino a toccare il sentimento. Allora imparo a guardare quest'altra
persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la
prospettiva di Gesù Cristo. Il suo amico è mio amico. Al di là dell'apparenza
esteriore dell'altro scorgo la sua interiore attesa di un gesto di amore, di
attenzione, che io non faccio arrivare a lui soltanto attraverso le
organizzazioni a ciò deputate, accettandolo magari come necessità politica. Io
vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all'altro ben più che le cose
esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha
bisogno. Qui si mostra l'interazione necessaria tra amore di Dio e amore del
prossimo, di cui la Prima Lettera di Giovanni parla con tanta insistenza.
Se il contatto con Dio manca del tutto nella mia vita, posso vedere nell'altro
sempre soltanto l'altro e non riesco a riconoscere in lui l'immagine divina. Se
però nella mia vita tralascio completamente l'attenzione per l'altro, volendo
essere solamente « pio » e compiere i miei « doveri religiosi », allora
s'inaridisce anche il rapporto con Dio. Allora questo rapporto è soltanto «
corretto », ma senza amore. Solo la mia disponibilità ad andare incontro al
prossimo, a mostrargli amore, mi rende sensibile anche di fronte a Dio. Solo il
servizio al prossimo apre i miei occhi su quello che Dio fa per me e su come
Egli mi ama. I santi — pensiamo ad esempio alla beata Teresa di Calcutta — hanno
attinto la loro capacità di amare il prossimo, in modo sempre nuovo, dal loro
incontro col Signore eucaristico e, reciprocamente questo incontro ha acquisito
il suo realismo e la sua profondità proprio nel loro servizio agli altri. Amore
di Dio e amore del prossimo sono inseparabili, sono un unico comandamento.
Entrambi però vivono dell'amore preveniente di Dio che ci ha amati per primo.
Così non si tratta più di un « comandamento » dall'esterno che ci impone
l'impossibile, bensì di un'esperienza dell'amore donata dall'interno, un amore
che, per sua natura, deve essere ulteriormente partecipato ad altri. L'amore
cresce attraverso l'amore. L'amore è « divino » perché viene da Dio e ci unisce
a Dio e, mediante questo processo unificante, ci trasforma in un Noi che supera
le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a che, alla fine, Dio
sia « tutto in tutti » (1 Cor 15, 28).
SECONDA PARTE
CARITAS
L'ESERCIZIO DELL'AMORE
DA PARTE DELLA CHIESA
QUALE « COMUNITÀ D'AMORE »
La carità della Chiesa
come manifestazione dell'amore trinitario
19. « Se vedi la
carità, vedi la Trinità » scriveva sant'Agostino [11].
Nelle riflessioni che precedono, abbiamo potuto fissare il nostro sguardo sul
Trafitto (cfr Gv 19, 37; Zc 12, 10), riconoscendo il disegno del
Padre che, mosso dall'amore (cfr Gv 3, 16), ha inviato il Figlio
unigenito nel mondo per redimere l'uomo. Morendo sulla croce, Gesù — come
riferisce l'evangelista — « emise lo spirito » (cfr Gv 19, 30), preludio
di quel dono dello Spirito Santo che Egli avrebbe realizzato dopo la
risurrezione (cfr Gv 20, 22). Si sarebbe attuata così la promessa dei «
fiumi di acqua viva » che, grazie all'effusione dello Spirito, sarebbero
sgorgati dal cuore dei credenti (cfr Gv 7, 38-39). Lo Spirito, infatti, è
quella potenza interiore che armonizza il loro cuore col cuore di Cristo e li
muove ad amare i fratelli come li ha amati Lui, quando si è curvato a lavare i
piedi dei discepoli (cfr Gv 13, 1-13) e soprattutto quando ha donato la
sua vita per tutti (cfr Gv 13, 1; 15, 13).
Lo Spirito è anche
forza che trasforma il cuore della Comunità ecclesiale, affinché sia nel mondo
testimone dell'amore del Padre, che vuole fare dell'umanità, nel suo Figlio,
un'unica famiglia. Tutta l'attività della Chiesa è espressione di un amore che
cerca il bene integrale dell'uomo: cerca la sua evangelizzazione mediante la
Parola e i Sacramenti, impresa tante volte eroica nelle sue realizzazioni
storiche; e cerca la sua promozione nei vari ambiti della vita e dell'attività
umana. Amore è pertanto il servizio che la Chiesa svolge per venire
costantemente incontro alle sofferenze e ai bisogni, anche materiali, degli
uomini. È su questo aspetto, su questo servizio della carità, che
desidero soffermarmi in questa seconda parte dell'Enciclica.
La carità come compito
della Chiesa
20. L'amore del
prossimo radicato nell'amore di Dio è anzitutto un compito per ogni singolo
fedele, ma è anche un compito per l'intera comunità ecclesiale, e questo a tutti
i suoi livelli: dalla comunità locale alla Chiesa particolare fino alla Chiesa
universale nella sua globalità. Anche la Chiesa in quanto comunità deve
praticare l'amore. Conseguenza di ciò è che l'amore ha bisogno anche di
organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato. La
coscienza di tale compito ha avuto rilevanza costitutiva nella Chiesa fin dai
suoi inizi: « Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e
tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne
faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno » (At 2, 44-45).
Luca ci racconta questo in connessione con una sorta di definizione della
Chiesa, tra i cui elementi costitutivi egli annovera l'adesione all'«
insegnamento degli Apostoli », alla « comunione » (koinonia), alla «
frazione del pane » e alla « preghiera » (cfr At 2, 42). L'elemento della
« comunione » (koinonia), qui inizialmente non specificato, viene
concretizzato nei versetti sopra citati: essa consiste appunto nel fatto che i
credenti hanno tutto in comune e che, in mezzo a loro, la differenza tra ricchi
e poveri non sussiste più (cfr anche At 4, 32-37). Con il crescere della
Chiesa, questa forma radicale di comunione materiale non ha potuto, per la
verità, essere mantenuta. Il nucleo essenziale è però rimasto: all'interno della
comunità dei credenti non deve esservi una forma di povertà tale che a qualcuno
siano negati i beni necessari per una vita dignitosa.
21. Un passo decisivo
nella difficile ricerca di soluzioni per realizzare questo fondamentale
principio ecclesiale diventa visibile in quella scelta di sette uomini che fu
l'inizio dell'ufficio diaconale (cfr At 6, 5-6). Nella Chiesa delle
origini, infatti, si era creata, nella distribuzione quotidiana alle vedove, una
disparità tra la parte di lingua ebraica e quella di lingua greca. Gli Apostoli,
ai quali erano affidati innanzitutto la « preghiera » (Eucaristia e Liturgia) e
il « servizio della Parola », si sentirono eccessivamente appesantiti dal «
servizio delle mense »; decisero pertanto di riservare a sé il ministero
principale e di creare per l'altro compito, pur necessario nella Chiesa, un
consesso di sette persone. Anche questo gruppo però non doveva svolgere un
servizio semplicemente tecnico di distribuzione: dovevano essere uomini « pieni
di Spirito e di saggezza » (cfr At 6, 1-6). Ciò significa che il servizio
sociale che dovevano effettuare era assolutamente concreto, ma al contempo era
senz'altro anche un servizio spirituale; il loro perciò era un vero ufficio
spirituale, che realizzava un compito essenziale della Chiesa, quello dell'amore
ben ordinato del prossimo. Con la formazione di questo consesso dei Sette, la «
diaconia » — il servizio dell'amore del prossimo esercitato comunitariamente e
in modo ordinato — era ormai instaurata nella struttura fondamentale della
Chiesa stessa.
22. Con il passare
degli anni e con il progressivo diffondersi della Chiesa, l'esercizio della
carità si confermò come uno dei suoi ambiti essenziali, insieme con
l'amministrazione dei Sacramenti e l'annuncio della Parola: praticare l'amore
verso le vedove e gli orfani, verso i carcerati, i malati e i bisognosi di ogni
genere appartiene alla sua essenza tanto quanto il servizio dei Sacramenti e
l'annuncio del Vangelo. La Chiesa non può trascurare il servizio della carità
così come non può tralasciare i Sacramenti e la Parola. Bastino alcuni
riferimenti per dimostrarlo. Il martire Giustino († ca. 155) descrive, nel
contesto della celebrazione domenicale dei cristiani, anche la loro attività
caritativa, collegata con l'Eucaristia come tale. Gli abbienti fanno la loro
offerta nella misura delle loro possibilità, ognuno quanto vuole; il Vescovo se
ne serve poi per sostenere gli orfani, le vedove e coloro che a causa di
malattia o per altri motivi si trovano in necessità, come anche i carcerati e i
forestieri [12]. Il grande scrittore
cristiano Tertulliano († dopo il 220) racconta come la premura dei cristiani
verso ogni genere di bisognosi suscitasse la meraviglia dei pagani [13].
E quando Ignazio di Antiochia († ca. 117) qualifica la Chiesa di Roma come colei
che « presiede nella carità (agape) » [14],
si può ritenere che egli, con questa definizione, intendesse esprimerne in
qualche modo anche la concreta attività caritativa.
23. In questo contesto
può risultare utile un riferimento alle primitive strutture giuridiche
riguardanti il servizio della carità nella Chiesa. Verso la metà del IV secolo
prende forma in Egitto la cosiddetta « diaconia »; essa è nei singoli
monasteri l'istituzione responsabile per il complesso delle attività
assistenziali, per il servizio della carità appunto. Da questi inizi si sviluppa
in Egitto fino al VI secolo una corporazione con piena capacità giuridica, a cui
le autorità civili affidano addirittura una parte del grano per la distribuzione
pubblica. In Egitto non solo ogni monastero ma anche ogni diocesi finisce per
avere la sua diaconia — una istituzione che si sviluppa poi sia in
oriente sia in occidente. Papa Gregorio Magno († 604) riferisce della diaconia di
Napoli. Per Roma le diaconie sono documentate a partire dal VII e VIII secolo;
ma naturalmente già prima, e fin dagli inizi, l'attività assistenziale per i
poveri e i sofferenti, secondo i principi della vita cristiana esposti negli Atti
degli Apostoli, era parte essenziale della Chiesa di Roma. Questo compito
trova una sua vivace espressione nella figura del diacono Lorenzo († 258). La
descrizione drammatica del suo martirio era nota già a sant'Ambrogio († 397) e
ci mostra, nel suo nucleo, sicuramente l'autentica figura del Santo. A lui,
quale responsabile della cura dei poveri di Roma, era stato concesso qualche
tempo, dopo la cattura dei suoi confratelli e del Papa, per raccogliere i tesori
della Chiesa e consegnarli alle autorità civili. Lorenzo distribuì il denaro
disponibile ai poveri e li presentò poi alle autorità come il vero tesoro della
Chiesa [15]. Comunque si valuti
l'attendibilità storica di tali particolari, Lorenzo è rimasto presente nella
memoria della Chiesa come grande esponente della carità ecclesiale.
24. Un accenno alla
figura dell'imperatore Giuliano l'Apostata († 363) può mostrare ancora una volta
quanto essenziale fosse per la Chiesa dei primi secoli la carità organizzata e
praticata. Bambino di sei anni, Giuliano aveva assistito all'assassinio di suo
padre, di suo fratello e di altri familiari da parte delle guardie del palazzo
imperiale; egli addebitò questa brutalità — a torto o a ragione — all'imperatore
Costanzo, che si spacciava per un grande cristiano. Con ciò la fede cristiana
risultò per lui screditata una volta per tutte. Divenuto imperatore, decise di
restaurare il paganesimo, l'antica religione romana, ma al contempo di
riformarlo, in modo che potesse diventare realmente la forza trainante
dell'impero. In questa prospettiva si ispirò ampiamente al cristianesimo.
Instaurò una gerarchia di metropoliti e sacerdoti. I sacerdoti dovevano curare
l'amore per Dio e per il prossimo. In una delle sue lettere [16]
aveva scritto che l'unico aspetto del cristianesimo che lo colpiva era
l'attività caritativa della Chiesa. Fu quindi un punto determinante, per il suo
nuovo paganesimo, affiancare al sistema di carità della Chiesa un'attività
equivalente della sua religione. I « Galilei » — così egli diceva — avevano
conquistato in questo modo la loro popolarità. Li si doveva emulare ed anche
superare. L'imperatore in questo modo confermava dunque che la carità era una
caratteristica decisiva della comunità cristiana, della Chiesa.
25. Giunti a questo
punto, raccogliamo dalle nostre riflessioni due dati essenziali:
a) L'intima natura della
Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria),
celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia).
Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l'uno
dall'altro. La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza
sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura,
è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza [17].
b) La Chiesa è la famiglia di Dio nel mondo. In questa
famiglia non deve esserci nessuno che soffra per mancanza del necessario. Al
contempo però la caritas-agape travalica le frontiere della Chiesa; la
parabola del buon Samaritano rimane come criterio di misura, impone
l'universalità dell'amore che si volge verso il bisognoso incontrato « per caso
» (cfr Lc 10, 31), chiunque egli sia. Ferma restando questa universalità
del comandamento dell'amore, vi è però anche un'esigenza specificamente
ecclesiale — quella appunto che nella Chiesa stessa, in quanto famiglia, nessun
membro soffra perché nel bisogno. In questo senso vale la parola della Lettera
ai Galati: « Poiché dunque ne abbiamo l'occasione, operiamo il bene verso
tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede » (6, 10).
Giustizia e carità
26. Fin dall'Ottocento
contro l'attività caritativa della Chiesa è stata sollevata un'obiezione,
sviluppata poi con insistenza soprattutto dal pensiero marxista. I poveri, si
dice, non avrebbero bisogno di opere di carità, bensì di giustizia. Le opere di
carità — le elemosine — in realtà sarebbero, per i ricchi, un modo di sottrarsi
all'instaurazione della giustizia e di acquietare la coscienza, conservando le
proprie posizioni e frodando i poveri nei loro diritti. Invece di contribuire
attraverso singole opere di carità al mantenimento delle condizioni esistenti,
occorrerebbe creare un giusto ordine, nel quale tutti ricevano la loro parte dei
beni del mondo e quindi non abbiano più bisogno delle opere di carità. In questa
argomentazione, bisogna riconoscerlo, c'è del vero, ma anche non poco di errato.
È vero che norma fondamentale dello Stato deve essere il perseguimento della
giustizia e che lo scopo di un giusto ordine sociale è di garantire a ciascuno,
nel rispetto del principio di sussidiarietà, la sua parte dei beni comuni. È
quanto la dottrina cristiana sullo Stato e la dottrina sociale della Chiesa
hanno sempre sottolineato. La questione del giusto ordine della collettività, da
un punto di vista storico, è entrata in una nuova situazione con la formazione
della società industriale nell'Ottocento. Il sorgere dell'industria moderna ha
dissolto le vecchie strutture sociali e con la massa dei salariati ha provocato
un cambiamento radicale nella composizione della società, all'interno della
quale il rapporto tra capitale e lavoro è diventato la questione decisiva — una
questione che sotto tale forma era prima sconosciuta. Le strutture di produzione
e il capitale erano ormai il nuovo potere che, posto nelle mani di pochi,
comportava per le masse lavoratrici una privazione di diritti contro la quale
bisognava ribellarsi.
27. È doveroso
ammettere che i rappresentanti della Chiesa hanno percepito solo lentamente che
il problema della giusta struttura della società si poneva in modo nuovo. Non
mancarono pionieri: uno di questi fu, ad esempio, il Vescovo Ketteler di Magonza
(† 1877). Come risposta alle necessità concrete sorsero pure circoli,
associazioni, unioni, federazioni e soprattutto nuove Congregazioni religiose,
che nell'Ottocento scesero in campo contro la povertà, le malattie e le
situazioni di carenza nel settore educativo. Nel 1891, entrò in scena il
magistero pontificio con l'Enciclica Rerum novarum di Leone XIII. Vi fece
seguito, nel 1931, l'Enciclica di Pio XI Quadragesimo anno. Il beato Papa
Giovanni XXIII pubblicò, nel 1961, l'Enciclica Mater et Magistra, mentre
Paolo VI nell'Enciclica Populorum progressio (1967) e nella Lettera
apostolica Octogesima adveniens (1971) affrontò con insistenza la
problematica sociale, che nel frattempo si era acutizzata soprattutto in America
Latina. Il mio grande Predecessore Giovanni Paolo II ci ha lasciato una trilogia
di Encicliche sociali: Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei
socialis (1987) e infine Centesimus annus (1991). Così nel confronto
con situazioni e problemi sempre nuovi è venuta sviluppandosi una dottrina
sociale cattolica, che nel 2004 è stata presentata in modo organico nel Compendio
della dottrina sociale della Chiesa, redatto dal Pontificio Consiglio Iustitia
et Pax. Il marxismo aveva indicato nella rivoluzione mondiale e nella sua
preparazione la panacea per la problematica sociale: attraverso la rivoluzione e
la conseguente collettivizzazione dei mezzi di produzione — si asseriva in tale
dottrina — doveva improvvisamente andare tutto in modo diverso e migliore.
Questo sogno è svanito. Nella situazione difficile nella quale oggi ci troviamo
anche a causa della globalizzazione dell'economia, la dottrina sociale della
Chiesa è diventata un'indicazione fondamentale, che propone orientamenti validi
ben al di là dei confini di essa: questi orientamenti — di fronte al progredire
dello sviluppo — devono essere affrontati nel dialogo con tutti coloro che si
preoccupano seriamente dell'uomo e del suo mondo.
28. Per definire più
accuratamente la relazione tra il necessario impegno per la giustizia e il
servizio della carità, occorre prendere nota di due fondamentali situazioni di
fatto:
a) Il giusto ordine della società e dello Stato è
compito centrale della politica. Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia
si ridurrebbe ad una grande banda di ladri, come disse una volta Agostino: «
Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia? » [18].
Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò
che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22, 21), cioè la distinzione
tra Stato e Chiesa o, come dice il Concilio Vaticano II, l'autonomia delle
realtà temporali [19]. Lo Stato non può
imporre la religione, ma deve garantire la sua libertà e la pace tra gli
aderenti alle diverse religioni; la Chiesa come espressione sociale della fede
cristiana, da parte sua, ha la sua indipendenza e vive sulla base della fede la
sua forma comunitaria, che lo Stato deve rispettare. Le due sfere sono distinte,
ma sempre in relazione reciproca.
La giustizia è lo
scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più
che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua
origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia, e questa è di natura
etica. Così lo Stato si trova di fatto inevitabilmente di fronte
all'interrogativo: come realizzare la giustizia qui ed ora? Ma questa domanda
presuppone l'altra più radicale: che cosa è la giustizia? Questo è un problema
che riguarda la ragione pratica; ma per poter operare rettamente, la ragione
deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico,
derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un
pericolo mai totalmente eliminabile.
In questo punto
politica e fede si toccano. Senz'altro, la fede ha la sua specifica natura di
incontro con il Dio vivente — un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al
di là dell'ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza
purificatrice per la ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la
libera dai suoi accecamenti e perciò l'aiuta ad essere meglio se stessa. La fede
permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere
meglio ciò che le è proprio. È qui che si colloca la dottrina sociale cattolica:
essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole
imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento
che appartengono a questa. Vuole semplicemente contribuire alla purificazione
della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa,
qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato.
La dottrina sociale
della Chiesa argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a
partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano. E sa che non è
compito della Chiesa far essa stessa valere politicamente questa dottrina: essa
vuole servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire
affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la
disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con
situazioni di interesse personale. Questo significa che la costruzione di un
giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato
ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve
nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere
incarico immediato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano
primario, la Chiesa ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della
ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché
le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente
realizzabili.
La Chiesa non può e
non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società
più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non
può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve
inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le
forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche
rinunce, non può affermarsi e prosperare. La società giusta non può essere opera
della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l'adoperarsi
per la giustizia lavorando per l'apertura dell'intelligenza e della volontà alle
esigenze del bene la interessa profondamente.
b) L'amore — caritas — sarà sempre necessario,
anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che
possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Chi vuole sbarazzarsi dell'amore
si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che
necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci
saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un
aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo [20].
Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in
definitiva un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui
l'uomo sofferente — ogni uomo — ha bisogno: l'amorevole dedizione personale. Non
uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato
che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di
sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono
spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di
queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell'amore suscitato dallo Spirito
di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma
anche ristoro e cura dell'anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno
materiale. L'affermazione secondo la quale le strutture giuste renderebbero
superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione materialistica
dell'uomo: il pregiudizio secondo cui l'uomo vivrebbe « di solo pane » (Mt 4,
4; cfr Dt 8, 3) — convinzione che umilia l'uomo e disconosce proprio ciò
che è più specificamente umano.
29. Così possiamo ora
determinare più precisamente, nella vita della Chiesa, la relazione tra
l'impegno per un giusto ordinamento dello Stato e della società, da una parte, e
l'attività caritativa organizzata, dall'altra. Si è visto che la formazione di
strutture giuste non è immediatamente compito della Chiesa, ma appartiene alla
sfera della politica, cioè all'ambito della ragione autoresponsabile. In questo,
il compito della Chiesa è mediato, in quanto le spetta di contribuire alla
purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali, senza le quali
non vengono costruite strutture giuste, né queste possono essere operative a
lungo.
Il compito immediato di operare per un giusto ordine
nella società è invece proprio dei fedeli laici. Come cittadini dello Stato,
essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica. Non
possono pertanto abdicare « alla molteplice e svariata azione economica,
sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere
organicamente e istituzionalmente il bene comune » [21].
Missione dei fedeli laici è pertanto di configurare rettamente la vita sociale,
rispettandone la legittima autonomia e cooperando con gli altri cittadini
secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità [22].
Anche se le espressioni specifiche della carità ecclesiale non possono mai
confondersi con l'attività dello Stato, resta tuttavia vero che la carità deve
animare l'intera esistenza dei fedeli laici e quindi anche la loro attività
politica, vissuta come « carità sociale » [23].
Le organizzazioni
caritative della Chiesa costituiscono invece un suo opus proprium, un
compito a lei congeniale, nel quale essa non collabora collateralmente, ma
agisce come soggetto direttamente responsabile, facendo quello che corrisponde
alla sua natura. La Chiesa non può mai essere dispensata dall'esercizio della
carità come attività organizzata dei credenti e, d'altra parte, non ci sarà mai
una situazione nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano,
perché l'uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell'amore.
Le molteplici
strutture di servizio caritativo nell'odierno contesto sociale
30. Prima di tentare
una definizione del profilo specifico delle attività ecclesiali a servizio
dell'uomo, vorrei ora considerare la situazione generale dell'impegno per la
giustizia e per l'amore nel mondo odierno.
a) I mezzi di comunicazione di
massa hanno oggi reso il nostro pianeta più piccolo, avvicinando velocemente
uomini e culture profondamente diversi. Se questo « stare insieme » a volte
suscita incomprensioni e tensioni, tuttavia, il fatto di venire, ora, in modo
molto più immediato a conoscenza delle necessità degli uomini costituisce
soprattutto un appello a condividerne la situazione e le difficoltà. Ogni giorno
siamo resi coscienti di quanto si soffra nel mondo, nonostante i grandi
progressi in campo scientifico e tecnico, a causa di una multiforme miseria, sia
materiale che spirituale. Questo nostro tempo richiede, dunque, una nuova
disponibilità a soccorrere il prossimo bisognoso. Già il Concilio Vaticano II lo
ha sottolineato con parole molto chiare: « Oggi che i mezzi di comunicazione
sono divenuti più rapidi e le distanze fra gli uomini quasi eliminate [...],
l'azione caritativa può e deve abbracciare tutti assolutamente gli uomini e
tutte quante le necessità » [24].
D'altro canto — ed è
questo un aspetto provocatorio e al contempo incoraggiante del processo di
globalizzazione — il presente mette a nostra disposizione innumerevoli strumenti
per prestare aiuto umanitario ai fratelli bisognosi, non ultimi i moderni
sistemi per la distribuzione di cibo e di vestiario, come anche per l'offerta di
alloggio e di accoglienza. Superando i confini delle comunità nazionali, la
sollecitudine per il prossimo tende così ad allargare i suoi orizzonti al mondo
intero. Il Concilio Vaticano II ha giustamente rilevato: « Tra i segni del
nostro tempo è degno di speciale menzione il crescente e inarrestabile senso di
solidarietà di tutti i popoli » [25]. Gli
enti dello Stato e le associazioni umanitarie assecondano iniziative volte a
questo scopo, per lo più attraverso sussidi o sgravi fiscali, gli uni, rendendo
disponibili considerevoli risorse, le altre. In tal modo la solidarietà espressa
dalla società civile supera significativamente quella dei singoli.
b) In questa situazione sono nate e cresciute, tra le
istanze statali ed ecclesiali, numerose forme di collaborazione che si sono
rivelate fruttuose. Le istanze ecclesiali, con la trasparenza del loro operare e
la fedeltà al dovere di testimoniare l'amore, potranno animare cristianamente
anche le istanze civili, favorendo un coordinamento vicendevole che non mancherà
di giovare all'efficacia del servizio caritativo [26].
Si sono pure formate, in questo contesto, molteplici organizzazioni con scopi
caritativi o filantropici, che si impegnano per raggiungere, nei confronti dei
problemi sociali e politici esistenti, soluzioni soddisfacenti sotto l'aspetto
umanitario. Un fenomeno importante del nostro tempo è il sorgere e il
diffondersi di diverse forme di volontariato, che si fanno carico di una
molteplicità di servizi [27]. Vorrei qui
indirizzare una particolare parola di apprezzamento e di ringraziamento a tutti
coloro che partecipano in vario modo a queste attività. Tale impegno diffuso
costituisce per i giovani una scuola di vita che educa alla solidarietà e alla
disponibilità a dare non semplicemente qualcosa, ma se stessi. All'anti-cultura
della morte, che si esprime per esempio nella droga, si contrappone così l'amore
che non cerca se stesso, ma che, proprio nella disponibilità a « perdere se
stesso » per l'altro (cfr Lc 17, 33 e par.), si rivela come cultura della
vita.
Anche nella Chiesa
cattolica e in altre Chiese e Comunità ecclesiali sono sorte nuove forme di
attività caritativa, e ne sono riapparse di antiche con slancio rinnovato. Sono
forme nelle quali si riesce spesso a costituire un felice legame tra
evangelizzazione e opere di carità. Desidero qui confermare esplicitamente
quello che il mio grande Predecessore Giovanni Paolo II ha scritto nella sua
Enciclica Sollicitudo rei socialis [28],
quando ha dichiarato la disponibilità della Chiesa cattolica a collaborare con
le Organizzazioni caritative di queste Chiese e Comunità, poiché noi tutti siamo
mossi dalla medesima motivazione fondamentale e abbiamo davanti agli occhi il
medesimo scopo: un vero umanesimo, che riconosce nell'uomo l'immagine di Dio e
vuole aiutarlo a realizzare una vita conforme a questa dignità. L'Enciclica Ut
unum sint ha poi ancora una volta sottolineato che, per uno sviluppo del
mondo verso il meglio, è necessaria la voce comune dei cristiani, il loro
impegno « per il rispetto dei diritti e dei bisogni di tutti, specie dei poveri,
degli umiliati e degli indifesi » [29].
Vorrei qui esprimere la mia gioia per il fatto che questo desiderio abbia
trovato in tutto il mondo una larga eco in numerose iniziative.
Il profilo specifico
dell'attività caritativa della Chiesa
31. L'aumento di
organizzazioni diversificate, che si impegnano per l'uomo nelle sue svariate
necessità, si spiega in fondo col fatto che l'imperativo dell'amore del prossimo
è iscritto dal Creatore nella stessa natura dell'uomo. Tale crescita, però, è
anche un effetto della presenza nel mondo del cristianesimo, che sempre di nuovo
risveglia e rende efficace questo imperativo, spesso profondamente oscurato nel
corso della storia. La riforma del paganesimo, tentata dall'imperatore Giuliano
l'Apostata, è solo un esempio iniziale di una simile efficacia. In questo senso,
la forza del cristianesimo si espande ben oltre le frontiere della fede
cristiana. È perciò molto importante che l'attività caritativa della Chiesa
mantenga tutto il suo splendore e non si dissolva nella comune organizzazione
assistenziale, diventandone una semplice variante. Ma quali sono, ora, gli
elementi costitutivi che formano l'essenza della carità cristiana ed ecclesiale?
a) Secondo il modello offerto dalla parabola del buon
Samaritano, la carità cristiana è dapprima semplicemente la risposta a ciò che,
in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata: gli affamati
devono essere saziati, i nudi vestiti, i malati curati in vista della
guarigione, i carcerati visitati, ecc. Le Organizzazioni caritative della
Chiesa, a cominciare da quelle della Caritas (diocesana, nazionale,
internazionale), devono fare il possibile, affinché siano disponibili i relativi
mezzi e soprattutto gli uomini e le donne che assumano tali compiti. Per quanto
riguarda il servizio che le persone svolgono per i sofferenti, occorre
innanzitutto la competenza professionale: i soccorritori devono essere formati
in modo da saper fare la cosa giusta nel modo giusto, assumendo poi l'impegno
del proseguimento della cura. La competenza professionale è una prima
fondamentale necessità, ma da sola non basta. Si tratta, infatti, di esseri
umani, e gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo
tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell'attenzione
del cuore. Quanti operano nelle Istituzioni caritative della Chiesa devono
distinguersi per il fatto che non si limitano ad eseguire in modo abile la cosa
conveniente al momento, ma si dedicano all'altro con le attenzioni suggerite dal
cuore, in modo che questi sperimenti la loro ricchezza di umanità. Perciò, oltre
alla preparazione professionale, a tali operatori è necessaria anche, e
soprattutto, la « formazione del cuore »: occorre condurli a quell'incontro con
Dio in Cristo che susciti in loro l'amore e apra il loro animo all'altro, così
che per loro l'amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così
dire dall'esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa
operante nell'amore (cfr Gal 5, 6).
b) L'attività caritativa cristiana deve essere
indipendente da partiti ed ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo in
modo ideologico e non sta al servizio di strategie mondane, ma è attualizzazione
qui ed ora dell'amore di cui l'uomo ha sempre bisogno. Il tempo moderno,
soprattutto a partire dall'Ottocento, è dominato da diverse varianti di una
filosofia del progresso, la cui forma più radicale è il marxismo. Parte della
strategia marxista è la teoria dell'impoverimento: chi in una situazione di
potere ingiusto — essa sostiene — aiuta l'uomo con iniziative di carità, si pone
di fatto a servizio di quel sistema di ingiustizia, facendolo apparire, almeno
fino a un certo punto, sopportabile. Viene così frenato il potenziale
rivoluzionario e quindi bloccato il rivolgimento verso un mondo migliore. Perciò
la carità viene contestata ed attaccata come sistema di conservazione dello status
quo. In realtà, questa è una filosofia disumana. L'uomo che vive nel
presente viene sacrificato al moloch del futuro — un futuro la cui
effettiva realizzazione rimane almeno dubbia. In verità, l'umanizzazione del
mondo non può essere promossa rinunciando, per il momento, a comportarsi in modo
umano. Ad un mondo migliore si contribuisce soltanto facendo il bene adesso ed
in prima persona, con passione e ovunque ce ne sia la possibilità,
indipendentemente da strategie e programmi di partito. Il programma del
cristiano — il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù — è « un
cuore che vede ». Questo cuore vede dove c'è bisogno di amore e agisce in modo
conseguente. Ovviamente alla spontaneità del singolo deve aggiungersi, quando
l'attività caritativa è assunta dalla Chiesa come iniziativa comunitaria, anche
la programmazione, la previdenza, la collaborazione con altre istituzioni
simili.
c) La carità, inoltre, non deve essere un mezzo in
funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L'amore è gratuito;
non viene esercitato per raggiungere altri scopi [30].
Ma questo non significa che l'azione caritativa debba, per così dire, lasciare
Dio e Cristo da parte. È in gioco sempre tutto l'uomo. Spesso è proprio
l'assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza. Chi esercita la carità
in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della
Chiesa. Egli sa che l'amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la miglior
testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare. Il
cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e
lasciar parlare solamente l'amore. Egli sa che Dio è amore (cfr1 Gv 4, 8)
e si rende presente proprio nei momenti in cui nient'altro viene fatto fuorché
amare. Egli sa — per tornare alle domande di prima —, che il vilipendio
dell'amore è vilipendio di Dio e dell'uomo, è il tentativo di fare a meno di
Dio. Di conseguenza, la miglior difesa di Dio e dell'uomo consiste proprio
nell'amore. È compito delle Organizzazioni caritative della Chiesa rafforzare
questa consapevolezza nei propri membri, in modo che attraverso il loro agire —
come attraverso il loro parlare, il loro tacere, il loro esempio — diventino
testimoni credibili di Cristo.
I responsabili
dell'azione caritativa della Chiesa
32. Infine, dobbiamo rivolgere ancora la nostra
attenzione ai già citati responsabili dell'azione caritativa della Chiesa. Nelle
precedenti riflessioni è ormai risultato chiaro che il vero soggetto delle varie
Organizzazioni cattoliche che svolgono un servizio di carità è la Chiesa stessa
— e ciò a tutti i livelli, iniziando dalle parrocchie, attraverso le Chiese
particolari, fino alla Chiesa universale. Per questo è stato quanto mai
opportuno che il mio venerato Predecessore Paolo VI abbia istituito il
Pontificio Consiglio Cor unum quale istanza della Santa Sede responsabile
per l'orientamento e il coordinamento tra le organizzazioni e le attività
caritative promosse dalla Chiesa cattolica. Alla struttura episcopale della
Chiesa, poi, corrisponde il fatto che, nelle Chiese particolari, i Vescovi quali
successori degli Apostoli portino la prima responsabilità della realizzazione,
anche nel presente, del programma indicato negli Atti degli Apostoli (cfr 2,
42-44): la Chiesa in quanto famiglia di Dio deve essere, oggi come ieri, un
luogo di aiuto vicendevole e al contempo un luogo di disponibilità a servire
anche coloro che, fuori di essa, hanno bisogno di aiuto. Durante il rito
dell'Ordinazione episcopale, il vero e proprio atto di consacrazione è preceduto
da alcune domande al candidato, nelle quali sono espressi gli elementi
essenziali del suo ufficio e gli vengono ricordati i doveri del suo futuro
ministero. In questo contesto l'ordinando promette espressamente di essere, nel
nome del Signore, accogliente e misericordioso verso i poveri e verso tutti i
bisognosi di conforto e di aiuto [31]. Il Codice
di Diritto Canonico, nei canoni riguardanti il ministero episcopale, non
tratta espressamente della carità come di uno specifico ambito dell'attività
episcopale, ma parla solo in modo generale del compito del Vescovo, che è quello
di coordinare le diverse opere di apostolato nel rispetto della loro propria
indole. [32] Recentemente, tuttavia, il Direttorio
per il ministero pastorale dei Vescovi ha approfondito più concretamente il
dovere della carità come compito intrinseco della Chiesa intera e del Vescovo
nella sua Diocesi [33] ed ha sottolineato
che l'esercizio della carità è un atto della Chiesa come tale e che, così come
il servizio della Parola e dei Sacramenti, fa parte anch'essa dell'essenza della
sua missione originaria [34].
33. Per quanto
concerne i collaboratori che svolgono sul piano pratico il lavoro della carità
nella Chiesa, l'essenziale è già stato detto: essi non devono ispirarsi alle
ideologie del miglioramento del mondo, ma farsi guidare dalla fede che
nell'amore diventa operante (cfr Gal 5, 6). Devono essere quindi persone
mosse innanzitutto dall'amore di Cristo, persone il cui cuore Cristo ha
conquistato col suo amore, risvegliandovi l'amore per il prossimo. Il criterio
ispiratore del loro agire dovrebbe essere l'affermazione presente nella Seconda
Lettera ai Corinzi: « L'amore del Cristo ci spinge » (5, 14). La
consapevolezza che in Lui Dio stesso si è donato per noi fino alla morte deve
indurci a non vivere più per noi stessi, ma per Lui, e con Lui per gli altri.
Chi ama Cristo ama la Chiesa e vuole che essa sia sempre più espressione e
strumento dell'amore che da Lui promana. Il collaboratore di ogni Organizzazione
caritativa cattolica vuole lavorare con la Chiesa e quindi col Vescovo, affinché
l'amore di Dio si diffonda nel mondo. Attraverso la sua partecipazione
all'esercizio dell'amore della Chiesa, egli vuole essere testimone di Dio e di
Cristo e proprio per questo vuole fare del bene agli uomini gratuitamente.
34. L'apertura
interiore alla dimensione cattolica della Chiesa non potrà non disporre il
collaboratore a sintonizzarsi con le altre Organizzazioni nel servizio alle
varie forme di bisogno; ciò tuttavia dovrà avvenire nel rispetto del profilo
specifico del servizio richiesto da Cristo ai suoi discepoli. San Paolo nel suo
inno alla carità (cfr 1 Cor 13) ci insegna che la carità è sempre più che
semplice attività: « Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio
corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova » (v. 3).
Questo inno deve essere la Magna Carta dell'intero servizio ecclesiale;
in esso sono riassunte tutte le riflessioni che, nel corso di questa Lettera
enciclica, ho svolto sull'amore.
L'azione pratica resta
insufficiente se in essa non si rende percepibile l'amore per l'uomo, un amore
che si nutre dell'incontro con Cristo. L'intima partecipazione personale al
bisogno e alla sofferenza dell'altro diventa così un partecipargli me stesso:
perché il dono non umilii l'altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma
me stesso, devo essere presente nel dono come persona.
35. Questo giusto modo
di servire rende l'operatore umile. Egli non assume una posizione di superiorità
di fronte all'altro, per quanto misera possa essere sul momento la sua
situazione. Cristo ha preso l'ultimo posto nel mondo — la croce — e proprio con
questa umiltà radicale ci ha redenti e costantemente ci aiuta. Chi è in
condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche
lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare. Questo
compito è grazia. Quanto più uno s'adopera per gli altri, tanto più capirà e
farà sua la parola di Cristo: « Siamo servi inutili » (Lc 17, 10). Egli
riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza
personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte l'eccesso del bisogno e
i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione dello
scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d'aiuto il sapere che, in definitiva,
egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla
presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario
miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in
umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi. Noi
gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce
ne dà la forza. Fare, però, quanto ci è possibile con la forza di cui
disponiamo, questo è il compito che mantiene il buon servo di Gesù Cristo sempre
in movimento: « L'amore del Cristo ci spinge » (2 Cor 5, 14).
36. L'esperienza della
smisuratezza del bisogno può, da un lato, spingerci nell'ideologia che pretende
di fare ora quello che il governo del mondo da parte di Dio, a quanto pare, non
consegue: la soluzione universale di ogni problema. Dall'altro lato, essa può
diventare tentazione all'inerzia sulla base dell'impressione che, comunque,
nulla possa essere realizzato. In questa situazione il contatto vivo con Cristo
è l'aiuto decisivo per restare sulla retta via: né cadere in una superbia che
disprezza l'uomo e non costruisce in realtà nulla, ma piuttosto distrugge, né
abbandonarsi alla rassegnazione che impedirebbe di lasciarsi guidare dall'amore
e così servire l'uomo. La preghiera come mezzo per attingere sempre di nuovo
forza da Cristo, diventa qui un'urgenza del tutto concreta. Chi prega non spreca
il suo tempo, anche se la situazione ha tutte le caratteristiche dell'emergenza
e sembra spingere unicamente all'azione. La pietà non indebolisce la lotta
contro la povertà o addirittura contro la miseria del prossimo. La beata Teresa
di Calcutta è un esempio molto evidente del fatto che il tempo dedicato a Dio
nella preghiera non solo non nuoce all'efficacia ed all'operosità dell'amore
verso il prossimo, ma ne è in realtà l'inesauribile sorgente. Nella sua lettera
per la Quaresima del 1996 la beata scriveva ai suoi collaboratori laici: « Noi
abbiamo bisogno di questo intimo legame con Dio nella nostra vita quotidiana. E
come possiamo ottenerlo? Attraverso la preghiera ».
37. È venuto il
momento di riaffermare l'importanza della preghiera di fronte all'attivismo e
all'incombente secolarismo di molti cristiani impegnati nel lavoro caritativo.
Ovviamente, il cristiano che prega non pretende di cambiare i piani di Dio o di
correggere quanto Dio ha previsto. Egli cerca piuttosto l'incontro con il Padre
di Gesù Cristo, chiedendo che Egli sia presente con il conforto del suo Spirito
in lui e nella sua opera. La familiarità col Dio personale e l'abbandono alla
sua volontà impediscono il degrado dell'uomo, lo salvano dalla prigionia di
dottrine fanatiche e terroristiche. Un atteggiamento autenticamente religioso
evita che l'uomo si eriga a giudice di Dio, accusandolo di permettere la miseria
senza provar compassione per le sue creature. Ma chi pretende di lottare contro
Dio facendo leva sull'interesse dell'uomo, su chi potrà contare quando l'azione
umana si dimostrerà impotente?
38. Certo Giobbe può
lamentarsi di fronte a Dio per la sofferenza incomprensibile, e apparentemente
ingiustificabile, presente nel mondo. Così egli parla nel suo dolore: « Oh,
potessi sapere dove trovarlo, potessi arrivare fino al suo trono! ... Verrei a
sapere le parole che mi risponde e capirei che cosa mi deve dire. Con sfoggio di
potenza discuterebbe con me? ... Per questo davanti a lui sono atterrito, ci
penso ed ho paura di lui. Dio ha fiaccato il mio cuore, l'Onnipotente mi ha
atterrito » (23, 3. 5-6. 15-16). Spesso non ci è dato di conoscere il motivo per
cui Dio trattiene il suo braccio invece di intervenire. Del resto, Egli neppure
ci impedisce di gridare, come Gesù in croce: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato? » (Mt 27, 46). Noi dovremmo rimanere con questa domanda di
fronte al suo volto, in dialogo orante: « Fino a quando esiterai ancora,
Signore, tu che sei santo e verace? » (Ap 6, 10). È sant'Agostino che dà
a questa nostra sofferenza la risposta della fede: « Si comprehendis, non est
Deus » — Se tu lo comprendi, allora non è Dio [35].
La nostra protesta non vuole sfidare Dio, né insinuare la presenza in Lui di
errore, debolezza o indifferenza. Per il credente non è possibile pensare che
Egli sia impotente, oppure che « stia dormendo » (cfr 1 Re 18, 27).
Piuttosto è vero che perfino il nostro gridare è, come sulla bocca di Gesù in
croce, il modo estremo e più profondo per affermare la nostra fede nella sua
sovrana potestà. I cristiani infatti continuano a credere, malgrado tutte le
incomprensioni e confusioni del mondo circostante, nella « bontà di Dio » e nel
« suo amore per gli uomini » (Tt 3, 4). Essi, pur immersi come gli altri
uomini nella drammatica complessità delle vicende della storia, rimangono saldi
nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane
incomprensibile per noi.
39. Fede, speranza e
carità vanno insieme. La speranza si articola praticamente nella virtù della
pazienza, che non vien meno nel bene neanche di fronte all'apparente insuccesso,
ed in quella dell'umiltà, che accetta il mistero di Dio e si fida di Lui anche
nell'oscurità. La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e
suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! In
questo modo essa trasforma la nostra impazienza e i nostri dubbi nella sicura
speranza che Dio tiene il mondo nelle sue mani e che nonostante ogni oscurità
Egli vince, come mediante le sue immagini sconvolgenti alla fine l'Apocalisse mostra
in modo radioso. La fede, che prende coscienza dell'amore di Dio rivelatosi nel
cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l'amore. Esso è la luce
— in fondo l'unica — che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il
coraggio di vivere e di agire. L'amore è possibile, e noi siamo in grado di
praticarlo perché creati ad immagine di Dio. Vivere l'amore e in questo modo far
entrare la luce di Dio nel mondo, ecco ciò a cui vorrei invitare con la presente
Enciclica.
CONCLUSIONE
40. Guardiamo infine
ai Santi, a coloro che hanno esercitato in modo esemplare la carità. Il pensiero
va, in particolare, a Martino di Tours († 397), prima soldato poi monaco e
vescovo: quasi come un'icona, egli mostra il valore insostituibile della
testimonianza individuale della carità. Alle porte di Amiens, Martino fa a metà
del suo mantello con un povero: Gesù stesso, nella notte, gli appare in sogno
rivestito di quel mantello, a confermare la validità perenne della parola
evangelica: « Ero nudo e mi avete vestito ... Ogni volta che avete fatto queste
cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me » (Mt 25,
36. 40) [36]. Ma nella storia della
Chiesa, quante altre testimonianze di carità possono essere citate! In
particolare tutto il movimento monastico, fin dai suoi inizi con sant'Antonio
abate († 356), esprime un ingente servizio di carità verso il prossimo. Nel
confronto « faccia a faccia » con quel Dio che è Amore, il monaco avverte
l'esigenza impellente di trasformare in servizio del prossimo, oltre che di Dio,
tutta la propria vita. Si spiegano così le grandi strutture di accoglienza, di
ricovero e di cura sorte accanto ai monasteri. Si spiegano pure le ingenti
iniziative di promozione umana e di formazione cristiana, destinate innanzitutto
ai più poveri, di cui si sono fatti carico dapprima gli Ordini monastici e
mendicanti e poi i vari Istituti religiosi maschili e femminili, lungo tutta la
storia della Chiesa. Figure di Santi come Francesco d'Assisi, Ignazio di Loyola,
Giovanni di Dio, Camillo de Lellis, Vincenzo de' Paoli, Luisa de Marillac,
Giuseppe B. Cottolengo, Giovanni Bosco, Luigi Orione, Teresa di Calcutta — per
fare solo alcuni nomi — rimangono modelli insigni di carità sociale per tutti
gli uomini di buona volontà. I santi sono i veri portatori di luce all'interno
della storia, perché sono uomini e donne di fede, di speranza e di amore.
41. Tra i santi
eccelle Maria, Madre del Signore e specchio di ogni santità. Nel Vangelo di
Luca la troviamo impegnata in un servizio di carità alla cugina Elisabetta,
presso la quale resta « circa tre mesi » (1, 56) per assisterla nella fase
terminale della gravidanza. « Magnificat anima mea Dominum », dice in
occasione di questa visita — « L'anima mia rende grande il Signore » — (Lc 1,
46), ed esprime con ciò tutto il programma della sua vita: non mettere se stessa
al centro, ma fare spazio a Dio incontrato sia nella preghiera che nel servizio
al prossimo — solo allora il mondo diventa buono. Maria è grande proprio perché
non vuole rendere grande se stessa, ma Dio. Ella è umile: non vuole essere
nient'altro che l'ancella del Signore (cfr Lc 1, 38. 48). Ella sa di
contribuire alla salvezza del mondo non compiendo una sua opera, ma solo
mettendosi a piena disposizione delle iniziative di Dio. È una donna di
speranza: solo perché crede alle promesse di Dio e attende la salvezza di
Israele, l'angelo può venire da lei e chiamarla al servizio decisivo di queste
promesse. Essa è una donna di fede: « Beata sei tu che hai creduto », le dice
Elisabetta (cfr Lc 1, 45). Il Magnificat — un ritratto, per così
dire, della sua anima — è interamente tessuto di fili della Sacra Scrittura, di
fili tratti dalla Parola di Dio. Così si rivela che lei nella Parola di Dio è
veramente a casa sua, ne esce e vi rientra con naturalezza. Ella parla e pensa
con la Parola di Dio; la Parola di Dio diventa parola sua, e la sua parola nasce
dalla Parola di Dio. Così si rivela, inoltre, che i suoi pensieri sono in
sintonia con i pensieri di Dio, che il suo volere è un volere insieme con Dio.
Essendo intimamente penetrata dalla Parola di Dio, ella può diventare madre
della Parola incarnata. Infine, Maria è una donna che ama. Come potrebbe essere
diversamente? In quanto credente che nella fede pensa con i pensieri di Dio e
vuole con la volontà di Dio, ella non può essere che una donna che ama. Noi lo
intuiamo nei gesti silenziosi, di cui ci riferiscono i racconti evangelici
dell'infanzia. Lo vediamo nella delicatezza, con la quale a Cana percepisce la
necessità in cui versano gli sposi e la presenta a Gesù. Lo vediamo nell'umiltà
con cui accetta di essere trascurata nel periodo della vita pubblica di Gesù,
sapendo che il Figlio deve fondare una nuova famiglia e che l'ora della Madre
arriverà soltanto nel momento della croce, che sarà la vera ora di Gesù (cfr Gv 2,
4; 13, 1). Allora, quando i discepoli saranno fuggiti, lei resterà sotto la
croce (cfr Gv 19, 25-27); più tardi, nell'ora di Pentecoste, saranno loro
a stringersi intorno a lei nell'attesa dello Spirito Santo (cfr At 1,
14).
42. Alla vita dei
Santi non appartiene solo la loro biografia terrena, ma anche il loro vivere ed
operare in Dio dopo la morte. Nei Santi diventa ovvio: chi va verso Dio non si
allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino. In nessuno
lo vediamo meglio che in Maria. La parola del Crocifisso al discepolo — a
Giovanni e attraverso di lui a tutti i discepoli di Gesù: « Ecco tua madre » (Gv 19,
27) — diventa nel corso delle generazioni sempre nuovamente vera. Maria è
diventata, di fatto, Madre di tutti i credenti. Alla sua bontà materna, come
alla sua purezza e bellezza verginale, si rivolgono gli uomini di tutti i tempi
e di tutte le parti del mondo nelle loro necessità e speranze, nelle loro gioie
e sofferenze, nelle loro solitudini come anche nella condivisione comunitaria. E
sempre sperimentano il dono della sua bontà, sperimentano l'amore inesauribile
che ella riversa dal profondo del suo cuore. Le testimonianze di gratitudine, a
lei tributate in tutti i continenti e in tutte le culture, sono il
riconoscimento di quell'amore puro che non cerca se stesso, ma semplicemente
vuole il bene. La devozione dei fedeli mostra, al contempo, l'intuizione
infallibile di come un tale amore sia possibile: lo diventa grazie alla più
intima unione con Dio, in virtù della quale si è totalmente pervasi da Lui — una
condizione che permette a chi ha bevuto alla fonte dell'amore di Dio di
diventare egli stesso una sorgente « da cui sgorgano fiumi di acqua viva » (cfr Gv 7,
38). Maria, la Vergine, la Madre, ci mostra che cos'è l'amore e da dove esso
trae la sua origine, la sua forza sempre rinnovata. A lei affidiamo la Chiesa,
la sua missione a servizio dell'amore:
Santa Maria, Madre di
Dio,
tu hai donato al mondo la vera luce,
Gesù, tuo Figlio – Figlio di Dio.
Ti sei consegnata completamente
alla chiamata di Dio
e sei così diventata sorgente
della bontà che sgorga da Lui.
Mostraci Gesù. Guidaci a Lui.
Insegnaci a conoscerlo e ad amarlo,
perché possiamo anche noi
diventare capaci di vero amore
ed essere sorgenti di acqua viva
in mezzo a un mondo assetato.
Dato a Roma, presso
San Pietro, il 25 dicembre, solennità del Natale del Signore, dell'anno 2005,
primo di Pontificato.
BENEDICTUS PP. XVI
[1] Cfr Jenseits von Gut und Böse,
IV, 168.
[2] X, 69.
[3] Cfr R. Descartes, Œuvres,
a cura di V. Cousin, vol. 12, Parigi 1824, pp. 95ss.
[4] II, 5: SCh 381, 196.
[5] Ibid., 198.
[6] Cfr Metafisica, XII, 7.
[7] Cfr
Pseudo Dionigi Areopagita che, nel suo Sui nomi divini, IV, 12-14: PG 3,
709-713, chiama Dio nello stesso tempo eros eagape.
[8] Cfr Il Convito, XIV-XV,
189c-192d.
[9] Sallustio, De coniuratione
Catilinae, XX, 4.
[10] Cfr sant'Agostino, Confessiones,
III, 6, 11: CCL 27, 32.
[11] De Trinitate, VIII,
8, 12: CCL 50, 287.
[12] Cfr I Apologia,
67: PG 6, 429.
[13] Cfr Apologeticum 39,
7: PL 1, 468.
[14] Ep. ad Rom., Inscr: PG 5,
801.
[15] Cfr sant'Ambrogio, De
officiis ministrorum, II, 28, 140: PL 16, 141.
[16] Cfr Ep. 83: J. Bidez, L'Empereur
Julien. Œuvres complètes, Parigi 19602, t. I, 2a, p.
145.
[17] Cfr Congregazione per
i Vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum
Successores (22 febbraio 2004), 194: Città del Vaticano 2004, 2a,
205-206.
[18] De Civitate Dei,
IV, 4: CCL 47, 102.
[19] Cfr Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 36.
[20] Cfr Congregazione per
i Vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum
Successores (22 febbraio 2004), 197: Città del Vaticano 2004, 2a,
209.
[21] Giovanni Paolo II,
Esort. ap. post sinodale Christifideles laici (30 dicembre 1988), 42: AAS 81
(1989), 472.
[22] Cfr Congregazione per
la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti
l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica (24 novembre
2002), 1: L'Osservatore Romano, 17 gennaio 2003, p. 6.
[23] Catechismo della
Chiesa Cattolica, 1939.
[24] Decr. sull'apostolato
dei laici Apostolicam actuositatem, 8.
[25] Ibid., 14.
[26] Cfr Congregazione per
i Vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum
Successores (22 febbraio 2004), 195: Città del Vaticano 2004, 2a,
206-208.
[27] Cfr Giovanni Paolo
II, Esort. ap. post sinodale Christifideles laici (30 dicembre 1988),
41: AAS 81 (1989), 470-472.
[28] Cfr n. 32: AAS 80
(1988), 556.
[29] N. 43: AAS 87
(1995), 946.
[30] Cfr Congregazione per
i Vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum
Successores (22 febbraio 2004), 196: Città del Vaticano 2004, 2a,
208.
[31] Cfr Pontificale
Romanum, De ordinatione episcopi, 43.
[32] Cfr can. 394; Codice
dei Canoni delle Chiese Orientali, can. 203.
[33] Cfr nn. 193-198,
204-210.
[34] Cfr Ibid.,
194, 205-206.
[35] Sermo 52, 16: PL 38,
360.
[36] Cfr Sulpicio Severo, Vita
Sancti Martini, 3, 1-3: SCh 133, 256-258.
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