L'amore di Cristo
dalla Regola di san Benedetto
Capitolo IV - Gli strumenti delle buone opere
10. Rinnegare completamente se stesso, per seguire
Cristo;
21. Non anteporre nulla all'amore di Cristo.
Capitolo V -
L'obbedienza
2. Questa è caratteristica dei monaci che non hanno
niente più caro di Cristo...
Capitolo LXXII -
Il buon zelo dei monaci
11. ...non antepongano assolutamente nulla a Cristo,
che ci conduca tutti insieme alla vita
eterna.
Capitolo LXXIII -
La modesta portata di questa regola
8. Chiunque tu sia, dunque, che con sollecitudine e ardore ti dirigi verso la
patria celeste, metti in pratica con l'aiuto di
Cristo questa modestissima Regola...
La singolarità del Cristianesimo
Non anteporre nulla all'amore di Cristo
di Mark A. Scott, O.C.S.O. Monaco Trappista-Cistercense dell'Abbazia di New
Clairvaux, Vina, California
Estratto e tradotto da "At Home With Saint Benedict: Monastery Talks", Liturgical Press, 2011
"Non anteporre nulla
all'amore di Cristo" (RB 4,21). L'amore non può mai essere generico. Questo
concetto è ciò che conferisce umorismo al classico fumetto dei Peanuts in cui Linus dice a Lucy: "Io amo l'umanità. È la
gente che non sopporto!!".
Non preferire nulla
all'amore di Cristo può riferirsi al nostro amore per Cristo o al suo amore per
noi. Probabilmente si riferisce ad entrambi. Ma, per ora, facciamo una scelta.
San Giovanni, che ne sa molto dell'amore, umano e divino, dice che non siamo noi
che abbiamo amato Dio, ma è stato Dio che per primo ci ha amati. Non preferire
nulla all'amore di Cristo, quindi, significa non preferire nulla all'amore
personale di Cristo per me. Per me, non per la Chiesa, né per gli uomini, ma per
me, come dice san Paolo: "Cristo mi ha
amato e ha consegnato sé stesso per me”, nel senso che ha dato la sua vita,
facendomi suo amico (Cfr. Gal 2,20; Gv 15,13-14). Si avverte la meraviglia di
Paolo nelle sue parole: "Cristo mi ha
amato". Questo è ciò che Benedetto intende in primo luogo quando dice: "non
preferire nulla all'amore di Cristo", cioè al fatto che Cristo ti ama.
Per molti di noi non
si tratta di preferire, ma di credere. Cristo può davvero amarmi? Qualcuno può
amarmi? Amo me stesso? Non è tanto il preferire, ma l’accettare questo fatto
sbalorditivo che Qualcuno mi ama.
Ma questo amore di
Qualcuno per noi è davvero fondamentale. Almeno alcuni medici dell'anima dicono
che non c'è negli esseri umani alcun innato amore di sé. Un sano amore di sé è
l'unico atteggiamento partendo dal quale possiamo davvero amare gli altri e
quindi smettere di essere egoisti ed egocentrici; ma un sano amore di sé non fa
parte dei nostri geni. Dobbiamo apprenderlo. Dobbiamo acquisirlo. Altrimenti il
grande comandamento di amare il prossimo tuo come ami te stesso sarebbe
impossibile ed il tentativo di adempierlo diventerebbe un dovere puramente
fastidioso e noioso.
Senza amore di sé,
non ci può essere amore per gli altri, ma l'amore di sé deve essere appreso.
Impariamo un sano amore per noi stessi attraverso l'esperienza di altre persone
che ci amano. Non preferire nulla all'amore di Cristo nei miei confronti
significa sperimentare di essere amato, accettato, e così anche significa
acquisire un sano amore di sé. È un circolo chiuso, ma il cerchio ha un inizio
necessario: l'amore di Cristo per me.
Benedetto doveva
immaginare che molti uomini arrivano al monastero in cerca di Dio, ma senza
essersi mai rivelati ed accettati veramente. Ma così la ricerca di Dio diventa
un pio ed idealistico sostituto del duro ed angosciante lavoro di acquisire
prima di tutto l'amore di sé. Ecco perché Benedetto deve insistere sull'amore di
Cristo; è per questo che inizia la sua Regola con tutti i generi di reminiscenze
del battesimo 1. Il battesimo è un segno indelebile che siamo stati e siamo
accettati da Dio. Attraverso Cristo, ci dice Benedetto, Dio ha preso
l'iniziativa nell'amore. Ha detto la prima parola. Ha fatto il primo passo.
Pertanto, possiamo amare noi stessi e gli altri. Amiamo perché lui ci ha amati
per primo.
Ma ci sono dei
vincoli e Benedetto non li nasconde. La nascita in noi di un vero amore per noi
stessi attraverso l'accettazione del dono immeritato dell'amore di Cristo per me
è solo l'inizio del duro e difficile lavoro che conduce a Dio. L'amore di Cristo
ci accetta "come siamo", ma non ci fa rimanere come siamo. Il suo amore per noi
è anche il potere, il potere creativo, di trasformarci in ciò che non siamo
ancora.
Probabilmente è vero
che la natura umana non cambia ed anche che i cani vecchi non possono imparare
giochi nuovi. Ma le persone umane non sono cani e la maggior parte di noi ha
sfruttato a malapena il minimo di ciò di cui la natura umana, infusa dalla
grazia, è capace.
L'amore di Dio non
mi libera dal lavorare su me stesso; mi permette di fare quel lavoro. La
difficoltà non sta nel fatto che "Io sono fatto così", ma consiste nel difficile
processo di crescita. Nella sua Teologia
mistica, Dionigi l’Areopagita ha usato l'immagine di uno scultore
che, "modella una statua bella di per sé, elimina da essa tutti gli impedimenti
che potrebbero sovrapporsi alla pura visione della sua nascosta bellezza ed è in
grado di mostrare in tutta la sua purezza questa bellezza occulta solo grazie a
questo processo di eliminazione"
2. Dio è lo scultore. Dio è anche martello e
scalpello. Se amo veramente me stesso, ho bisogno di stare fermo sotto i colpi,
stare fermo per andare avanti. Io voglio cambiare per diventare quello che Dio
desidera che io diventi. E voglio lo stesso per i miei fratelli.
L'ultimo capitolo di
San Benedetto tratta del buon zelo del monaco.
Possiamo intendere il "buon zelo" come l’esercizio dell'amore concreto e personale tra di noi, cioè della fratellanza. Benedetto conclude tutto dicendo: "Non antepongano assolutamente nulla a Cristo, che ci conduca tutti insieme alla vita eterna " (RB 72,11-12).
Note del traduttore
1) Riminiscenze del battesimo nella Regola. Estratte da "Appunti sulla Regola di S. Benedetto" di D. Lorenzo Sena, O.S.B. Silv. Fabriano, Monastero S. Silvestro, Ottobre 1980.
- Prologo della Regola, 2: "..in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell'obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l'ignavia della disobbedienza".
Come per l'obbedienza di Cristo tutta l'umanita' ritorno' a Dio da cui l'aveva staccata la disobbedienza di Adamo (Rom.5,18-19), cosi' tutta la perfezione cristiana, e quindi anche quella monastica che e' un voler vivere piu' radicalmente il proprio battesimo, viene concepita come un ritorno a Dio, da cui ci aveva allontanato il peccato; vedi la parabola del "figliol prodigo" (Lc 15,11-32).
- Prologo della Regola, 3: "Io mi rivolgo personalmente a te, chiunque tu sia, che, avendo deciso di rinunciare alla volontà propria ...".
Nel monastero c'e' posto per tutti, chiunque e' ammesso senza distinzione, purche' sia disposto a questa totale obbedienza e alla rinuncia alle proprie volonta'. Il termine al plurale e' molto significativo: non si tratta della volonta' in senso moderno, nel senso di energia, ne' nel senso di facolta' spirituale (dell'amore, della liberta' o del dono della propria persona). La Regola non vuole trasformare il monaco in un essere abulico, senza volonta' e senza personalita'. Si tratta qui delle volonta' nel senso di velleita', di impulsi peccaminosi, diremmo meglio in italiano "voglie" che impediscono di ricevere la grazia battesimale. Difatti l'espressione "rinunciare alle proprie volonta'" e' propria del linguaggio ecclesiastico e della liturgia del battesimo.
- Prologo della Regola, 4-5: "Prima di tutto chiedi a Dio con costante e intensa preghiera di portare a termine quanto di buono ti proponi di compiere, affinché, dopo averci misericordiosamente accolto tra i suoi figli, egli non debba un giorno adirarsi per la nostra indegna condotta".
Iniziando la sua opera di maestro e di legislatore, S. Benedetto sente il dovere di ammonire il discepolo che nulla di buono si può cominciare ne' portare a termine nell'ordine soprannaturale senza l'aiuto della grazia, grazia che bisogna quindi chiedere al Signore con preghiera fervorosa ed insistente (questo e' il senso del superlativo latino "instantissima").
Senza la grazia divina e la nostra preghiera per procurarcela, l'opera della nostra santificazione iniziata in noi da Dio col battesimo quando ci ha resi suoi figli adottivi, rimarrebbe frustrata e affliggerebbe il cuore del Signore.
Ancor più esplicita è la Regola del Maestro. Nel "Tema" della "Parabola della fonte" tratta appunto della "fonte del battesimo" e nel "Commento al Pater Noster" sottolinea che siamo rinati come figli mediante il battesimo.
2) Estratto da "Pseudo-Dionigi l’Areopagita, Teologia mistica", cap. 2, a cura di Salvatore Lilla, Città Nuova, 1986
Estratto e tradotto da “Seventy-Four Tools for Good Living: Reflections on the Fourth Chapter of
Benedict's Rule (Settantaquattro strumenti per vivere bene: riflessioni sul
quarto capitolo della Regola di Benedetto)”, Liturgical Press, 2014
È proprio non anteponendo
nulla all'amore di Cristo che ci mettiamo sulla strada di diventare estranei ai
comportamenti del mondo. "Non anteporre nulla all'amore di Cristo" (RB 4,21) è
uno dei versetti più frequentemente citati nella Regola, insieme a RB 72,11:
“Non antepongano assolutamente nulla a Cristo". Per molti lettori questa massima
è una chiara affermazione del carattere cristocentrico che pervade la
spiritualità benedettina. La vita monastica è tutta una questione di devozione
personale a Cristo, vivendo in unione con lui attraverso l'imitazione, aprendosi
al suo insegnamento, cercando di vivere consapevolmente alla sua presenza,
servendolo nei bisognosi, cercando l'unione con lui nella preghiera e riponendo
ogni speranza per la futura beatitudine nella sua misericordia. Questo aspetto
della vita benedettina è ben evidenziato dai titoli dei principali libri scritti
dal beato Columba Marmion, abate di Maredsous:
Cristo vita dell'anima, Cristo ideale del
monaco, e Cristo nei suoi misteri.
Alcuni commentatori osservano che l'espressione
“l'amore di Cristo” potrebbe riferirsi all'amore di Cristo per noi oppure al
nostro amore per lui. È probabile che Benedetto pensi all'amore di Cristo per
noi. Ciò è confermato da un passo del trattato di San Cipriano sulla Preghiera
del Signore, che è una probabile fonte per questo passo:
La volontà di Dio è quella che il Cristo ha fatto e insegnato. L’umiltà nel
portamento, la solidità della fede, la modestia nelle parole, la giustizia negli
atti, la misericordia nelle opere, la disciplina nei costumi; non fare il male,
sopportare il male che ci fanno, conservare la pace con i fratelli, amare Dio
con tutto il cuore, amarlo perché Padre, e temerlo perché Dio;
non preferire nulla al Cristo, perché
egli ci ha preferiti a tutto, aderire immancabilmente alla sua carità, tenerci
sotto la croce con coraggio e fiducia (Cipriano,
La preghiera del Signore, 15).
Un certo grado di reciprocità è qui indicato. Noi
amiamo Cristo perché Cristo ci ha amati per primo (1 Gv 4,19). Questo è il tema
sviluppato da Sant'Agostino in relazione al verbo
redamare, ricambiare l’amore. Il nostro amore per Dio e per Cristo è
una risposta spontanea all'esperienza di ricevere amore da Dio o da Cristo. La
chiamata ad una vita cristiana più intensa od al monachesimo è fondamentalmente
un'esperienza dell'attrattiva dell'amore di Dio. Siamo attratti verso Dio,
desiderosi di rispondere a quell'effusione d'amore non solo in parole od opere,
ma anche di dire sì con ogni fibra del nostro essere, “con tutto il cuore, con
tutta l'anima, con tutte le forze” (RB 4,1)
Il monachesimo non è semplicemente una scelta
lavorativa o di stile di vita. Non è una religione professionale, come sacerdoti
impegnati nel culto formale del tempio. Non è una specie di lavoro di assistenza
sociale, che ha come scopo principale il servizio dei bisognosi. Ancor meno è
una qualche forma di narcisismo istituzionalizzato in cui gli individui possono
operare sulla propria perfezione senza riferimento a nulla al di fuori di se
stessi. Pensare in questi termini è, in ogni caso, non capirne il senso. C'è al
centro dell'impulso monastico qualcosa di profondamente mistico senza il quale
nient'altro di ciò che accade in un monastero ha senso. Il monastero è la Scuola
di Cristo (schola Christi) in cui i
discepoli imparano per esperienza a rivestirsi del pensiero di Cristo e così
acquisiscono quella che i monaci medievali chiamavano “la filosofia di Cristo” (philosophia
Christi).
Per diventare cristiani, vivere in un monastero non è
sufficiente.
Dobbiamo impegnarci nell’attività spirituale per la
quale la vita monastica è stata istituita, utilizzando tutti gli strumenti che
San Benedetto elenca in questo capitolo. Ma c'è di più. Queste opere buone
devono essere infuse da uno zelo buono che separa dai vizi e conduce a Dio ed
alla vita eterna (RB 72,2). "Buon zelo" è un altro modo di descrivere l'amore.
Le nostre opere sono compiute nell'amore che scaturisce dalla presenza cosciente
di Cristo nella nostra vita “affinché tutta la nostra vita trovi il suo sostegno
in Cristo, affinché in tutte le nostre decisioni, dall'inizio alla fine,
possiamo imitare Cristo Giudice e pensare a Cristo come presente ed attento alle
nostre opere" (Aelredo di Rievaulx, Sermone 106.7). Dando priorità all'amore di Cristo, permettiamo a
quell'amore di informare i nostri pensieri e le nostre scelte, di governare i
nostri rapporti con gli altri e di aiutarci e sostenerci quando incontriamo
situazioni difficili, insostenibili ed ingiuste.
Permettendo alla nostra sensibilità spirituale di
svilupparsi secondo i suoi tempi, Cristo diventa nostro compagno nella vita,
costantemente al nostro fianco, “amico dolce, consigliere prudente, aiuto forte"
(Bernardo, Sermone sul Cantico dei Cantici
20, II.3). All'inizio, il nostro senso
di solidarietà nei suoi confronti richiede da parte nostra un ampio ed attivo
impegno per continuare a tornare alla sua presenza, lasciando da parte le molte
potenziali fonti di distrazione che caratterizzano il nostro cammino quotidiano.
Abbiamo bisogno, per così dire, di continuare a riempire la nostra testa ed il
nostro cuore di pensieri spirituali per evitare che vengano attirati in altre
direzioni. Progressivamente, tuttavia, il lavoro richiede meno energia. Questi
contatti saltuari hanno iniziato a creare in noi il senso di una relazione
duratura. Cristo è sempre vicino a noi, attraverso molti diversi punti di
incontro, e lentamente impariamo a rivolgerci a Lui non solo nei momenti di
difficoltà ma, alla fine, più spesso. Questa relazione Io-Tu si evolve
lentamente in qualcosa come una doppia coscienza; siamo pienamente e attivamente
consapevoli di ciò che sta accadendo intorno a noi e del lavoro in cui siamo
impegnati, ma questa attività viene permeata da questa relazione, facendone
scaturire una consapevolezza che insaporisce ciò che facciamo con un sale
spirituale. Cominciamo a capire cosa intendeva San Giovanni quando parlava del
nostro rimanere in Cristo e del Cristo che rimane in noi. Questa fase
dell'essere spiritualmente consapevoli può durare a lungo.
Con la grazia di Dio possiamo essere chiamati ancora
più in profondità nel mistero in particolari occasioni o talvolta per periodi
più lunghi. Sperimentiamo un'unione così profonda con Cristo che non percepiamo
più il senso di un'esistenza separata: "Non vivo più io, ma Cristo vive in me”
(Gal 2,20). Quando preghiamo, è la voce di Cristo che prega dentro di noi. È
attraverso gli occhi di Cristo che guardiamo verso il Padre e gridiamo: "Abba",
così come è attraverso i suoi occhi che guardiamo la moltitudine e proviamo
compassione. La nostra relazione non è più tra soggetto e oggetto, né è una
relazione intersoggettiva Io-Tu. Siamo stati invitati ad entrare nella
soggettività di Cristo in modo tale che l'autocoscienza e l'autodeterminazione
siano state messe da parte. Ahimè! Questa libertà ontologica dai limiti
dell'esistenza temporale è di per sé solo temporanea.
La progressione attraverso queste fasi non è affatto
agevole. È punteggiata da gravi crisi, il cui esito non è affatto certo – per lo
meno così sembra alla persona che le sperimenta. Anche nel migliore di noi c'è
molto egoismo e stoltezza che devono essere sovvertiti prima che la grazia sia
in grado di produrre quella semplicità ed unicità di cuore in cui è possibile
l'esperienza contemplativa. Queste transizioni dolorose sono squisitamente
adeguate alla persona. A colui che le attraversa, non sembrano delle comuni
crisi che possono essere identificate in un manuale. Possono anche comportare lo
smantellamento di gran parte di ciò che la persona ha di più caro. Nulla è
esente da questo fuoco raffinatore: stile di vita, carriera, relazioni,
filosofia personale, spiritualità, preghiera, reputazione. A questo proposito
possiamo ricordare Santa Maria McKillop, una vera figlia della chiesa, che ha
mantenuto la fede attraverso un periodo di scomunica formale. La nostra fede non
può essere messa alla prova fino a quel punto, ma sarà messa alla prova.
Questa assidua devozione a Cristo non è la stessa
dell'attaccamento sentimentale ad un immaginario Gesù che potrebbe aver
caratterizzato le prime fasi del nostro cammino spirituale. Questo potrebbe
essere stato un buon punto di partenza, ma in esso c'era molto che aveva bisogno
di essere lasciato alle spalle. San Bernardo, nel suo trattato
De diligendo Deo (Dio deve essere amato), parla della necessità di infondere in questa
devozione una sostanziale conoscenza di sé, in modo che la nostra vita
spirituale sia fondata sulla verità piuttosto che sull'illusione. A questa
auto-onestà deve essere aggiunta la compassione per il prossimo. Solo quando
questo amore disinteressato comincia a penetrare in profondità nello spirito
umano ed inizia la sua opera di trasformazione interiore, nasce l'autentica
contemplazione. Da questo momento il cuore si è spostato molto lontano dal
sentimento e dalle immagini devote; la sua intensità deriva dalla fermezza di
una volontà fissata su Dio. Per questo San Bernardo ed altri Cistercensi del suo
tempo amavano citare 2 Corinzi 5,16: "Se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana,
ora non lo conosciamo più così". Il volto pubblico di Cristo sfuma dalla vista,
per così dire, e la persona viene introdotta in una misteriosa intimità con il
Verbo incarnato, spesso descritta in termini di matrimonio spirituale.
Ecco dove conduce la pratica cristocentrica della Regola e dove sicuramente è stata destinata a condurre, anche se San Benedetto stesso non ha mai esplicitamente sviluppato le sue dimensioni mistiche tanto quanto gli autori successivi. Non anteponendo nulla rispetto alla disponibilità a ricevere l'amore di Cristo, sotto la grazia e per tutta la vita, si giunge ad una profonda esperienza contemplativa ed alla contemporanea trasformazione di tutta la persona, “in quella medesima immagine, di gloria in gloria” (2 Cor 3,18).
La singolarità del Cristianesimo
di Enzo Bianchi
Testo del ritiro su: “La singolarità del Cristianesimo” predicato a
Milano il 27/03/2007 ai presbiteri della città.
Estratto dal sito: www.chiesadimilano.it
Il Signore Gesù ha portato ogni novità portando se stesso.
(Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,34,1)
Dio si è rivelato nella carne di Gesù. Ecco perché il rapporto, il legame
indissolubile con quest’uomo fa parte dell’identità stessa di Dio: questa è la
singolarità del cristianesimo. Ciò che Gesù ha di eccezionale non è di ordine
religioso, ma umano … Siamo condotti a Dio attraverso i cammini di umanità
che Gesù ha tracciato.
(J. Moingt, La figure de Jésus)
Introduzione
È falso sino all’assurdo vedere in una «credenza» il segno distintivo del
cristiano: soltanto la pratica cristiana, una vita come la visse colui che morì
sulla croce, soltanto questo è cristiano... Ancora oggi una tale vita è
possibile, per certi uomini è persino necessaria: l’autentico, originario
cristianesimo sarà possibile in tutti i tempi... Non una credenza, bensì un
fare, soprattutto un non-fare-molte-cose, un diverso essere.
Queste lucide parole di Friedrich Nietzsche, un pensatore non certo tenero nei
confronti del cristianesimo, costituiscono un buon punto di partenza per
interrogarsi su cosa è essenziale alla fede cristiana, ovvero sulla singolarità
del cristianesimo. Ai nostri giorni siamo costantemente raggiunti dal messaggio
che il cristianesimo è un monoteismo, accanto all’ebraismo e all’islam. Se
questa è una verità, tuttavia è importante per noi cristiani comprendere
l’irriducibile differenza della nostra fede rispetto a quella dei credenti ebrei
e, di conseguenza, a quella dei credenti dell’islam.
Ora, è già pericoloso ridurre il cristianesimo è una religione, perché il
cristianesimo è una fede che si differenzia fondamentalmente da tutte le
religioni, secondo la felice formula coniata dal filosofo francese Marcel
Gauchet, che vede in esso «la religion de la sortie de la religion», la
religione dell’uscita dalla religione. Insomma, se il cristianesimo si riveste
degli elementi caratteristici di ogni religione – una professione di fede, un
culto liturgico, alcune indicazioni etiche… –, tuttavia resta vero che
attraverso la sua fede giudica ogni espressione religiosa e, dunque, non può
essere ridotto a religione. In tal modo è anche in grado di denunciare gli
ostacoli frapposti dalla religione a quella ricerca di Dio che, nel
cristianesimo, dovrebbe sempre coincidere con un’istanza di libertà per l’uomo.
Ma c’è di più. Il cristianesimo ha una singolarità anche rispetto ai due
monoteismi, l’ebraismo e l’islam, per cui non è possibile ridurre il
cristianesimo a un monoteismo. E questo lo dice chi appartiene a una generazione
che ha avuto la grazia di riscoprire l’ebraismo e di poter affermare, dopo un
silenzio di venti secoli, l’ebraicità di Gesù. Oggi noi cristiani siamo
consapevoli di essere «fratelli gemelli» degli ebrei, in quanto figli
dell’Antico Testamento al pari di loro: sia l’ebraismo rabbinico – erede della
corrente farisaica – sia il cristianesimo hanno infatti elementi di continuità e
di novità rispetto all’Antico Testamento, loro comune matrice. Siamo cioè figli
di due interpretazioni ugualmente possibili ma fondamentalmente diverse delle
Scritture di Israele: una focalizzatasi sulla Torah, l’altra su Gesù Cristo,
riconosciuto dai suoi primi discepoli, anch’essi ebrei, quale Messia che ha
adempiuto le promesse fatte ai padri.
Vi sono dunque elementi che ci uniscono all’ebraismo, così come elementi di
rottura e di differenza, causati dall’«evento Gesù Cristo»: Gesù è colui che, da
ebreo fedele al Dio dei padri, ci lega definitivamente agli ebrei e, nello
stesso tempo, ci divide e separa dall’ebraismo, nella misura in cui confessiamo
che egli ci ha definitivamente raccontato Dio! Se pertanto il cristianesimo è un
monoteismo lo è in maniera molto particolare: è un monoteismo nel quale Dio si è
fatto uomo, e nel quale un uomo concreto e reale, Gesù di Nazaret, ci ha narrato
compiutamente il volto di Dio. In tale prospettiva, senza per questo mancare di
rispetto all’ebraismo o all’islam, si può affermare che il monoteismo sia una
sorta di preparazione del cristianesimo: l’adesione a Gesù quale uomo-Dio e
Dio-uomo. Per favorire la comprensione del mio percorso, probabilmente
abbastanza arduo e per molti aspetti «nuovo», cercherò di articolarlo in alcuni
punti ben precisi:
1. Gesù ci ha raccontato Dio.
2. Gesù, uomo come noi.
3. La resurrezione di Gesù, vittoria dell’amore sulla morte.
1. Gesù ci ha raccontato Dio
Alla fine del prologo del quarto vangelo si legge un’affermazione che
costituisce una vera e propria sintesi della fede cristiana: «Dio nessuno l’ha
mai visto, ma il Figlio unigenito ce lo ha raccontato (exeghésato)» (Gv 1,18).
Exeghésato: verbo che può essere tradotto con «raccontare», «fare l’esegesi»,
«narrare», «spiegare», «rivelare»; parola che racchiude in sé tutto il
cristianesimo… Più in generale, il versetto in cui tale verbo è inserito va
preso estremamente sul serio e inteso in tutta la sua profondità.
Giovanni afferma innanzitutto una verità semplicissima, che appartiene
all’esperienza comune di ogni essere umano: «Dio nessuno l’ha mai visto»,
oppure, come dirà lo stesso autore nella sua Prima lettera, «Dio nessuno l’ha
mai contemplato (tethéatai)» (1Gv 4,12). Finché noi uomini siamo in vita Dio
resta invisibile, inaccessibile (cf. 1Tm 6,16), poiché «chi vede Dio muore» (cf.
Es 33,20), come recita l’adagio biblico. Da sempre – secondo la bella
espressione utilizzata da Paolo nel suo discorso all’Areopago – «gli uomini
hanno cercato Dio, come a tentoni, se mai potessero giungere a trovarlo» (At
17,27): nel cuore dell’uomo vi è un’incessante ricerca di Dio, un quaerere Deum
condotto in culture e tempi diversi, approdato a risultati multiformi. Anzi, Dio
è stato cercato anche in cammini che non è corretto definire religioni, ma che
occorrerebbe chiamare «spiritualità»: mi riferisco al buddhismo, al
confucianesimo, «vie» indifferenti all’esistenza di Dio. Già qui emerge un
problema di non poco conto: bisogna fare molta attenzione ogni volta che si
pronuncia la parola «Dio», perché è connaturale all’uomo un’ansia che lo spinge
a ricercare qualcosa che nelle religioni è definito Dio, mentre all’interno di
altre vie spirituali è tensione verso una liberazione, verso una meta capace di
dare un senso alla vita…
Ebbene, l’uomo cercava Dio a tentoni, ma non poteva conoscerlo pienamente,
restava nell’ignoranza (cf. At 17,30); proprio per questo Dio ha alzato il velo
su di sé, ha scelto di rivelarsi agli uomini da Abramo (cf. Gen 12) in poi,
ponendosi in alleanza con Israele, il popolo disceso da quest’uomo, e
impegnandosi con esso mediante delle promesse. E così «Dio ha parlato per mezzo
dei profeti», da Abramo fino a Giovanni il Battezzatore; infine lo ha fatto
attraverso Gesù, che non solo è stato «profeta potente in azioni e in parole»
(Lc 24,19), non solo è stato riconosciuto quale Cristo, Messia, ma si è rivelato
l’ultima e definitiva Parola di Dio agli uomini, il compimento di «tutte le
promesse fatte ad Abramo e alla sua discendenza per sempre» (cf. Lc 1,55): è
Gesù che ci ha raccontato e spiegato compiutamente Dio. In altri termini, dal
momento in cui Dio si è umanizzato in Gesù, quest’uomo ha aperto un sentiero
unico per andare a Dio, al punto che egli stesso ha potuto affermare nel quarto
vangelo: «Nessuno può andare al Padre se non attraverso di me» (Gv 14,6). Per
conoscere in pienezza Dio si deve conoscere Gesù, per credere in Dio si deve
credere in Gesù.
Con Gesù si è operato di fatto un mutamento, sul quale noi non riflettiamo a
sufficienza: prima di lui occorreva credere in Dio, nel «Dio di Abramo, di
Isacco, di Giacobbe» (Es 3,6; Mc 12,27), e questa fede poteva anche condurre a
credere al Messia, fino a riconoscerlo in un uomo venuto sulla terra; dal giorno
della glorificazione di Gesù, della sua morte e resurrezione, tale cammino non è
più primario. Da quel giorno occorre innanzitutto credere in Gesù, conoscerlo,
amarlo e seguirlo: ed è in questo cammino che può rivelarsi anche Dio, un Dio
ben diverso da come gli uomini lo avevano cercato e immaginato! La fede in Dio
non è dunque condizione di accesso al Vangelo – questo almeno per i gojim, per
le genti, mentre resta un preliminare necessario per gli ebrei –, ma è
conoscendo l’esistenza umana di Gesù che noi possiamo essere condotti a Dio
stesso, accedere al Dio vivente e vero. Si tratta di un capovolgimento
importantissimo, che in questi due millenni di cristianesimo non abbiamo ancora
realmente assunto: basti pensare al fatto che, all’interno della nostra
catechesi, si continua a incominciare il discorso da Dio per giungere a Gesù
solo in un secondo momento. È invece necessario percorrere esattamente
l’itinerario opposto! Possiamo trovare sintetizzato questo cammino nella
testimonianza fornita dal centurione romano che, sotto la croce, «vedendo Gesù
morire in quel modo, disse: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc
15,39). È un pagano che, vedendo tutta la vita di Gesù sintetizzata nell’atto
della sua morte, ha avuto la rivelazione del Dio vivente professato da Israele e
cercato dalle genti…
Dio: parola decisiva e tuttavia parola che ha ricoperto significati molto
diversi, che si è prestata e si presta a utilizzazioni religiose, sociali,
politiche e morali disparate. Sì, per noi cristiani Dio è una parola
insufficiente! Scriveva significativamente già Giustino, un padre della chiesa
del II secolo:
La parola «Dio» non è un nome, ma un’approssimazione naturale all’uomo per
descrivere ciò che non è esprimibile (II Apologia 6).
Dio è una parola che può contenere tante proiezioni umane, che può essere il
frutto di una riflessione intellettuale, che può essere l’esito di una ricerca
di senso fatta dall’uomo; Dio è affermato dai credenti, è negato dagli a-tei –
etimologicamente i «senza Dio»… Ebbene, ciò che è decisivo per la fede cristiana
non sta in Dio quale premessa, ma si rivela quale meta di un percorso compiuto
dietro a Gesù Cristo e con lui, non caso definito dall’autore della Lettera agli
Ebrei «l’iniziatore della nostra fede» (tês písteos archegós: Eb 12,2).
E qui va detto che occorrerebbe prendere maggiormente sul serio il fenomeno
dell’ateismo, per chiederci: quando un uomo nega Dio, che cosa realmente nega di
Dio? Quale Dio nega? O meglio, quali immagini di Dio, forgiate da noi credenti e
dalle chiese, un ateo contrasta? In questo senso, paradossalmente, la parola Dio
è pericolosa: si pensi solo alle guerre che si sono fatte e si fanno in nome di
Dio, un Dio-con-noi e contro-gli-altri, un Dio vendicativo capace di abbattere i
nemici che noi definiamo tali. Senza dimenticare che gli uomini, soprattutto gli
uomini «religiosi», sono sempre pronti a plasmarsi un vitello d’oro (cf. Es
32,1-6), un Dio manufatto secondo i loro bisogni e desideri… No, noi cristiani
andiamo a Dio attraverso Gesù, «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15):
narrando Dio con la sua vita, Gesù ha giudicato tutte le immagini e i volti di
Dio che gli uomini si fabbricano con le proprie mani, ha giudicato tutte le
proiezioni umane che sovente attribuiscono a Dio il volto di un Dio «perverso».
Ormai ciò che di Dio può essere conosciuto e predicato è ciò che è stato vissuto
e predicato da Gesù.
2. Gesù, uomo come noi
Se è vero che per la fede dei cristiani è decisivo aderire a Gesù, anche in
questo caso bisogna però intendersi sulle parole: quando si dice «Gesù», ci si
riferisce a un uomo, un vero uomo, debole, fragile e mortale come lo siamo noi;
un uomo di carne (sárx: Gv 1,14), che è nato, vissuto e morto come ogni figlio
di Adamo: humanissimus, come amavano definirlo i padri monastici medievali!
Giustamente si parla di «storia di Gesù», perché la sua vita è avvenuta nella
storia, nello spazio di una terra e in un tempo limitato, come avviene per
ciascuno di noi. Gesù è stato un uomo, una realtà che si poteva ascoltare,
vedere, toccare (cf. 1Gv 1,1), un uomo con parole e gesti pienamente umani. Come
la fede di Israele in Dio è stata generata da eventi nella storia, primo tra
tutti l’esodo dall’Egitto, così anche la fede dei cristiani nasce dalla vita
umana di Gesù: Dio ha infatti operato nella storia di un popolo e infine,
compiutamente, nella vita di un uomo. È quanto espresso dossologicamente dal
prologo della Lettera agli Ebrei:
Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai
padri per mezzo dei profeti, negli ultimi tempi ha parlato a noi per mezzo del
Figlio (Eb 1,1-2).
Se dunque c’è un Dio, per noi cristiani è il Dio che deve essere conosciuto,
letto e «visto» nell’esistenza umana di Gesù di Nazaret (cf. Gv 14,9). Per
questo motivo il cristianesimo esige che Gesù sia conosciuto attraverso la sua
vita narrata e testimoniata nei vangeli da parte chi è stato coinvolto nella sua
vicenda, i discepoli, divenuti «servi della Parola» (Lc 1,2); solo attraverso
questa conoscenza potremo anche credere in lui fino ad amarlo, fino a
confessarlo «Signore», «Figlio di Dio», «Salvatore», e così giungere alla fede
in Dio, alla conoscenza del Dio vivente e vero. Ecco perché ritengo sia un grave
rischio per i cristiani quello di «deificare» Gesù prima di conoscerne la
concreta esistenza umana. Se infatti non si conosce l’umanità di Gesù, si
finisce – ancora una volta – per credere in lui come a una realtà da noi
immaginata e costruita. Non è sufficiente riempirsi la bocca di slogan, pur
nobili, come quello preso a prestito da un’opera di Vladimir Soloviev: «Quello
che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Gesù Cristo»; l’importante è
rendersi conto di cosa si cela dietro frasi come questa, ossia di quale Gesù
Cristo si sta parlando. Quante immagini di Gesù Cristo sono state forgiate nelle
diverse epoche della storia, a seconda delle ideologie o dei fenomeni culturali
in voga!
Ora, nell’antichità molti uomini sono stati «deificati»: imperatori, eroi,
figure carismatiche… Gesù invece non si è mai definito Dio, e la chiesa indivisa
ha impiegato ben tre secoli per giungere a tale articolo di fede, nel Concilio
di Nicea (325): «Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero». Gesù preferiva
chiamarsi «Figlio dell’uomo», titolo enigmatico, ma capace di arginare possibili
derive deiste; egli non voleva neppure essere confessato Messia, per evitare di
essere identificato con un liberatore politico. Occorre dunque grande attenzione
da parte nostra a non «deificare» Gesù troppo velocemente: ciò avviene quando
l’accento è posto sulla sua nascita verginale, sui miracoli da lui compiuti,
sullo straordinario nella sua vita. No, è assolutamente necessario guardare alla
sua esistenza umana quotidiana, trovare in essa la vita stessa di Dio, leggervi
l’espressione compiuta di Dio, e, di conseguenza, cogliere anche gli elementi
«straordinari» della sua vicenda come segni, segnali – semeîa secondo il quarto
vangelo (cf. Gv 2,11.18.23; 3,2; ecc.) – capaci di orientare la nostra fede. È
proprio la sua forma di vita che è Vangelo, buona notizia, mentre se si acclama
Gesù quale Dio senza conoscerne l’umanità si fa un’operazione religiosa, si
finisce per snaturare Gesù Cristo.
Qui sta la singolarità del cristianesimo: Dio si è rivelato in Gesù, si è fatto
conoscere nella sua umanità; Dio si è fatto uomo e l’incarnazione è
l’umanizzazione di Dio. Di conseguenza – ripeto – si deve partire dall’umanità
di Gesù, e alla luce di essa comprendere Dio. Per questo il grande attentato al
cristianesimo è sempre venuto dalla negazione della vera e piena umanità di
Gesù. Già alla fine del I secolo d.C., proprio perché a causa dell’ideologia
religiosa dominante era difficile accettare che Dio avesse preso una forma umana
fino alla sofferenza e alla morte, questo rischio si manifestò sotto la forma
delle correnti gnostiche e docetiche, le quali davano di Gesù un’interpretazione
tesa a negare la sua piena umanità.
È significativo che Ignazio di Antiochia, all’inizio del II secolo, si veda
costretto a denunciare queste derive e a insistere con forza sulla dimensione
umana, storica, carnale di Gesù. Egli scrive:
Chiudete le orecchie di fronte ai discorsi di quelli che non parlano di Gesù
Cristo come discendente della stirpe di David e figlio di Maria; come colui che
è veramente nato, ha mangiato e ha bevuto; che ha veramente sofferto la passione
sotto Ponzio Pilato; che è stato veramente crocifisso ed è morto, di fronte al
cielo, alla terra e agli inferi; che è veramente risuscitato dai morti (Ai
Tralliani 9,1-2).
Nel II secolo tocca poi a Marcione, Basilide e ai loro seguaci «dissolvere Gesù»
(cf. 1Gv 4,3), svuotare cioè la realtà della sua incarnazione, fino a negarne la
morte. Basilide, ad esempio, insegnava che non fu Cristo a soffrire, bensì
Simone il Cireneo (cf. Mc 15,21 e par.):
Costui fu crocifisso per errore, in quanto Cristo l’aveva trasformato in maniera
tale che essi lo scambiarono per Gesù. A sua volta Gesù prese l’aspetto di
Simone e stava lì vicino prendendosi gioco di loro» (Ireneo di Lione, Contro le
eresie I, 24,4).
Insomma, è arduo credere che Dio, il tre volte Santo (cf. Is 6,3), l’Altro
dall’umanità per eccellenza, il Trascendente sia diventato uomo; è difficile
credere che Dio abbia il volto di un uomo: eppure è questo il proprium del
cristianesimo! Era ed è più facile scorgere in Gesù una sorta di apparizione
angelica, un messaggero venuto sulla terra e ritornato al cielo, ma privo di una
vera vita umana. Si noti che posizioni simili hanno attraversato i secoli, fino
alla paradossale affermazione di Friedrich Nietzsche secondo cui, se Dio si è
fatto uomo, è pur vero che il suo amore folle lo ha portato a morire
definitivamente su una croce. E numerosi sono gli odierni sostenitori di
analoghe posizioni docetiche, spesso espresse in modo ben più grossolano… In
breve: è più facile un atteggiamento di deismo rispetto all’autentica fede
cristiana. È forse un caso che il grande Blaise Pascal, trattando della fede,
consideri «il deismo tanto lontano da essa quanto l’ateismo, che le è affatto
contrario» (Pensieri 114)?
In Gesù l’umanità è sempre trasparente: il divino è velato, ma nello spessore
della sua umanità Dio è raccontato. Nell’uomo Gesù – come dirà Paolo due decenni
dopo la sua morte – la condizione di Dio ha subito una kénosis, uno svuotamento:
colui che era in forma di Dio si è spogliato della sua uguaglianza con Dio (cf.
Fil 2,6-7), e questo è avvenuto in modo che nella vita di Gesù non si vedesse
altro che la sua umanità, un’umanità nella condizione di servo «fino alla morte,
anzi alla morte di croce» (Fil 2,8)! La sua condizione di Dio è stata per così
dire «messa tra parentesi», e Gesù è stato uomo, uomo come noi, depotenziato del
divino e soggetto dunque alla nostra limitata condizione mortale.
Sì, Gesù ha vissuto la sua esistenza terrena quale uomo povero e fragile,
esattamente come gli uomini con cui entrava in relazione; il Figlio è entrato
nella storia come uomo, pienamente uomo: un uomo capace di fare della sua vita
un capolavoro d’amore.
3. La resurrezione di Gesù, vittoria dell’amore sulla morte
Come ultima tappa del nostro percorso occorre riflettere su quello che è sempre
stato percepito come il proprium per eccellenza del cristianesimo: la
resurrezione dai morti, possibilità inaudita aperta per tutti gli uomini
dall’evento pasquale, dalla resurrezione di Gesù, «il primogenito di molti
fratelli» (Rm 8,29). Anche in questo caso è opportuno porsi con franchezza una
domanda: perché Gesù è risorto da morte? Sarebbe troppo sbrigativo affermare che
egli è risorto perché era Figlio di Dio. Questa risposta non basta, è frutto
dello stesso errore da cui siamo partiti: cominciare dalla fede in Dio, e poi
solo in un secondo momento credere in Gesù. D’altra parte, non è neppure
sufficiente leggere la resurrezione come il miracolo dei miracoli: tale
interpretazione contiene certamente una verità, perché la resurrezione è
l’inaudito per noi uomini, è ciò che contraddice la certezza universale secondo
cui la morte è l’ultima parola sulla vita umana; ma è ancora una spiegazione
insufficiente…
Partendo proprio dalla realtà della morte vorrei qui abbozzare una meditazione
che consenta di comprendere in che senso la resurrezione di Gesù è l’evento
determinante della fede cristiana. Nell’Antico Testamento la morte è il segno
per eccellenza della fragilità umana. Ogni uomo porta dentro di sé «il senso
dell’eterno» (‘olam: Qo 3,11), l’ansia di eternità, e tuttavia è costretto a
constatare l’inesorabile presenza della morte come ciò che contrasta fortemente
la sua vita. Con uno sguardo naturalistico, si può anche ammettere che la
finitezza umana sia in qualche modo una necessità biologica, come lo è per ogni
creatura; ma tale giustificazione non spegne dentro di noi il sentimento che la
morte, proprio perché non permette che qualcosa di noi rimanga per sempre,
minaccia fortemente il senso della nostra vita: la morte è la somma ingiustizia!
Noi troviamo senso nella misura in cui sappiamo vivere dei gesti che restano nel
tempo: ma se tutto passa, se tutto finisce con la morte, che senso ha la nostra
esistenza?
È qui che entra in gioco la riflessione che ogni uomo e ogni donna fanno sotto
il cielo, da sempre e in tutte le culture: vivere è amare. Tutti gli esseri
umani percepiscono che la realtà indegna della morte per eccellenza è l’amore;
quando infatti giungiamo a dire a qualcuno: «Ti amo», ciò equivale ad affermare:
«Io voglio che tu viva per sempre». Può sembrare banale ripeterlo e tuttavia
resta vero: la nostra vita trova senso solo nell’esperienza dell’amare e
dell’essere amati, e tutti siamo alla ricerca di un amore con i tratti di
eternità. Ora, la grazia di un libro come il Cantico dei cantici posto al cuore
della Bibbia consiste proprio nel fatto che in esso si parla di amore
dall’inizio alla fine, dell’amore umano tra un ragazzo e una ragazza che diventa
cifra di ogni amore. A conclusione del Cantico si legge un’affermazione
straordinaria. L’amata dice all’amato:
Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio,
perché forte come la morte è l’amore, tenace come l’inferno è lo slancio
amoroso.
Le sue vampe sono fiamme di fuoco, una fiamma del Signore (Ct 8,6-7).
Qui si raggiunge una consapevolezza presente in numerose culture, che sempre
hanno percepito un legame tra amore e morte (si pensi solo al celebre binomio
greco eros–thanatos). La Scrittura, dal canto suo, ci illustra che amore e morte
sono i due nemici per eccellenza: non la vita e la morte, ma l’amore e la morte!
E la morte, che tutto divora, che vince anche la vita, trova nell’amore un
nemico capace di resisterle, fino a sconfiggerla. Com’è noto, l’Antico
Testamento non ha pagine chiare e nette sulla resurrezione dai morti; ma al suo
cuore sta la consapevolezza che l’amore può combattere la morte, e questo non è
poco…
Tenendo presente questo orizzonte, possiamo ora ritornare alla nostra domanda:
perché Gesù è risorto da morte? Una lettura intelligente dei vangeli e poi di
tutto il Nuovo Testamento ci porta a concludere che egli è risorto perché la sua
vita è stata agape, è stata amore vissuto per gli uomini e per Dio fino
all’estremo: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine
(eis télos)» (Gv 13,1). Gesù è stato risuscitato da Dio in risposta alla vita
che aveva vissuto, al suo modo di vivere nell’amore fino all’estremo: potremmo
dire che è stato il suo amore più forte della morte a causare la decisione del
Padre di richiamarlo dalla morte alla vita piena. In altre parole, se Gesù è
stato l’amore, come poteva essere contenuto nella tomba? È questa la domanda che
si cela dietro le parole pronunciate da Pietro nel giorno di Pentecoste: «Dio ha
resuscitato Gesù, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era
possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,24)… Com’era possibile che
l’amore restasse preda degli inferi? Davvero la resurrezione di Gesù è il
sigillo che Dio ha posto sulla sua vita: resuscitandolo dai morti Dio ha
dichiarato che Gesù era veramente il suo racconto e ha manifestato che
nell’amore vissuto da quell’uomo era stato detto tutto ciò che è essenziale per
conoscere lui.
È in quest’ottica che possiamo comprendere anche il cammino storico compiuto dai
discepoli per giungere alla fede in Gesù Risorto e Signore. Cosa è successo
nell’alba pasquale, nell’alba di quel «primo giorno dopo il sabato» (Mc 16,2)?
Alcune donne e alcuni uomini discepoli di Gesù si sono recati al sepolcro e
l’hanno trovato vuoto: mentre erano ancora turbati da questa inaudita novità
hanno avuto un incontro nella fede con il Risorto, presso la tomba, sulla strada
tra Gerusalemme ed Emmaus, ai bordi del lago di Tiberiade… Ed è significativo
che Gesù non sia apparso loro sfolgorante di luce, ma si sia presentato con
tratti umanissimi: un giardiniere, un viandante, un pescatore. Di più, egli si è
manifestato nella forma con cui lungo la sua esistenza aveva narrato la
possibilità dell’amore. Per questo Maria di Magdala, sentendosi chiamata per
nome con amore, risponde subito: «Rabbunì, mio maestro!» (Gv 20,16); i discepoli
di Emmaus riconoscono Gesù nello spezzare del pane (cf. Lc 24,30-31.35), cioè
nel segno riassuntivo di una vita offerta per tutti; è il discepolo amato che lo
riconosce presente sulla riva del lago di Tiberiade e grida a Pietro: «È il
Signore!» (Gv 21,7)… Insomma, la vita di Gesù è stata riconosciuta come un amore
trasparente, pieno e quelli che lo avevano visto vivere e morire in quel modo
hanno dovuto credere alla forza dell’amore più forte della morte, fino a
confessare che con la sua vita egli aveva davvero raccontato che «Dio è amore»
(ho theòs agápe estìn: 1Gv 4,8.16).
Illuminati da questa consapevolezza, i discepoli hanno poi compiuto un cammino a
ritroso, che li ha condotti a ricordare, raccontare e infine mettere per
iscritto nei vangeli la vita di Gesù sulle strade della Galilea e della Giudea.
Essi hanno compreso che Gesù aveva narrato l’amore di Dio con le sue parole, con
la sua maniera di stare in mezzo agli altri, di incontrare i malati e gli
emarginati, di perdonare la donna adultera (cf. Gv 8,1-11), di accettare il
gesto d’amore della peccatrice (cf. Lc 7,36-50), di chiamare Giuda: «amico» (Mt
26,50), proprio mentre per colpa sua veniva arrestato… E dopo aver raccontato
tale amore per tutta la vita – fino a dire, sulla croce: «Padre, perdona loro,
perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34) – avrebbe potuto restare preda
della morte? Con la sua vita e la sua morte Gesù ha mostrato di avere una
ragione per cui morire e, quindi, una ragione per cui vivere: l’amore dei
fratelli, vissuto quotidianamente e con semplicità, gratuitamente e liberamente,
quell’amore che non può morire!
Eccoci così tornati a noi, noi discepoli di Gesù ma anche noi uomini tutti:
l’unico prezzo che il cristianesimo ci richiede per essere vissuto e compreso in
profondità è quello dell’amore. Siamo cioè chiamati a immergerci nell’amore di
Dio, quell’amore di cui canone, regola, forma è l’amore di Cristo, che ha speso
giorno dopo la giorno la vita per i fratelli (cf. Gv 15,13): allora la nostra
vita potrà avere un senso, una direzione, un sapore… Ecco perché quando siamo
incapaci di sperare nella resurrezione, è perché in verità non crediamo che
l’amore possa avere l’ultima parola: credere e sperare la resurrezione è una
questione d’amore, perché solo l’amore ha provocato la resurrezione di Gesù.
Forte come la morte è solo l’amore, più forte della morte è stato l’amore
vissuto da Gesù Cristo: è questo che noi cristiani dovremmo annunciare, con
umiltà e discrezione, a tutti gli uomini. Affermare semplicemente che «Gesù è
risorto» è un bella notizia, ma troppo breve per essere davvero Vangelo per
tutti gli uomini: come questa notizia potrebbe riguardarli? Forse invece anche i
non credenti sono interessati a percorrere un cammino nel quale si parta dal
presupposto che l’amore è in grado di combattere la morte, fino a vincerla: ecco
il senso profondo della resurrezione di Cristo, ecco come questo evento può
parlare a tutti gli uomini, nostri fratelli.
Conclusione
L’apostolo Giovanni che nel prologo del vangelo ha scritto: «Dio nessuno l’ha
mai visto, ma il Figlio unigenito ce lo ha raccontato» (Gv 1,18), è lo stesso
che nella sua Prima lettera afferma:
Dio nessuno l’ha mai contemplato, ma se ci amiamo gli uni gli altri Dio rimane
in noi e in noi il suo amore è giunto a pienezza … Noi abbiamo conosciuto e
creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore, chi rimane nell’amore, rimane
in Dio e Dio rimane in lui (1Gv 4,12.16).
L’amore che Gesù ha vissuto deve essere vissuto anche da noi cristiani: solo
così anche noi potremo conoscere Dio – questo significa che egli rimane in noi –
e narrarlo nelle nostre vite. Dove infatti vi è un’esperienza di amore
autentico, là è presente l’amore di Dio in noi, e la nostra vita umana partecipa
delle energie d’amore di Dio, capaci di vincere la morte. Di nuovo, si pensi
alla portata di tale affermazione anche per i non cristiani: già di qui, già
prima della morte «chi ama è passato dalla morte alla vita» (cf. 1Gv 3,14).
Certo, vinceremo definitivamente la morte nel Regno (cf. Ap 21,4), grazie alle
energie di vita donateci dal Risorto; ma è possibile predisporre tutto per tale
evento, vivendo quell’amore che già oggi ci fa partecipare alla vittoria
dell’amore sulla morte: questo dovrebbe essere il nostro esercizio quotidiano.
La specificità del cristianesimo consiste nell’annuncio che l’amore vince la
morte, buona notizia che siamo chiamati a decodificare e a tradurre qui e ora,
nella storia e nella compagnia degli uomini… Insomma, quando lo stesso Giovanni,
nella sua meditazione per ondate successive sull’amore, rivela:
Amatissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio, e chiunque ama
è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché
Dio è amore (1Gv 4,7-8),
egli espone l’essenziale del cristianesimo. Il Dio cristiano è amore perché è
stato narrato da Gesù, colui che ha vissuto l’amore più forte della morte: ecco
perché lui è risorto, e noi, trascinati dietro a lui nella sua vita umana,
possiamo fare un cammino di ritorno al Padre, un cammino che si apre sulla vita
eterna.
La singolarità del cristianesimo è tutta qui, ed è una singolarità che ci
consente un’ultima straordinaria apertura di orizzonte: se noi tenessimo con
saldezza lo sguardo fisso su Gesù (cf. Eb 3,1; 12,2), e comprendessimo che la
forma della vita di quest’uomo ci conduce a Dio, capiremmo anche che la nostra
ricerca di Dio ormai è diventata ricerca dell’uomo. Sì, dopo Gesù Cristo chi
cerca Dio passa necessariamente per la ricerca del vero uomo, e la vita
cristiana coincide con un cammino di umanizzazione dell’uomo. Non è possibile
cercare Dio senza cercare la vera umanità, né fare un cammino di salvezza senza
aprire strade di autentica umanizzazione: la vita umana autentica è sempre vita
spirituale cristiana e quest’ultima è sempre un capolavoro di arte umana!
Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi veramente uomo, e noi siamo chiamati a trasmettere con la nostra vita il racconto di Dio fornitoci da Gesù, mediante un cammino che consiste semplicemente nel vivere l’amore: Dio nessuno l’ha mai visto, ma se ci amiamo gli uni gli altri come Gesù ci ha amati, allora Dio vive in noi, già ora e poi per la vita eterna.
La passione d’amore di Gesù, il Servo crocifisso
di ENZO BIANCHI
estratto dal sito:
monasterodibose.it
Tutte le testimonianze scritte
sulla fine della vita terrena di Gesù sono concordi nel dichiarare che egli è
morto in croce. Per la Scrittura questa è la morte del maledetto da Dio
(«Maledetto chi pende dal legno»: Dt 21,23; Gal 3,13), appeso tra cielo e terra
perché rifiutato da Dio e dagli uomini.
Gesù, un galileo che aveva
radunato attorno a sé una comunità di pochi uomini e alcune donne coinvolti
nella sua vita itinerante, ritenuto rabbi e profeta da questi discepoli e da un
numero più ampio di simpatizzanti, è stato condannato e messo a morte mediante
la crocifissione a Gerusalemme, il 7 aprile dell’anno 30. Questa fine
fallimentare è subito apparsa uno scandalo, «lo scandalo della croce» (cf. 1Cor
1,23), un grave ostacolo per la fede in Gesù, specialmente quando si cominciò a
confessarlo Messia di Israele e Figlio di Dio. Ecco perché, ancora all’inizio
del II secolo d.C., il giudeo rabbi Tarfon afferma nel dialogo con il cristiano
Giustino: «Noi sappiamo che il Messia deve soffrire, ma che debba essere
crocifisso e morire in un modo così vergognoso, non possiamo neppure arrivare a
concepirlo».
Eppure per l’autentica fede
cristiana è proprio il crocifisso colui che «ha raccontato Dio» (cf. Gv 1,18);
anche sulla croce, anzi soprattutto sulla croce, Gesù «ha reso testimonianza
alla verità» (cf. Gv 18,37), trasformando uno strumento di esecuzione capitale
nel luogo della massima gloria. Ma com’è stato possibile che un uomo appeso a
una croce diventasse colui sul quale i cristiani tengono fissi lo sguardo come
Salvatore e Signore? Per rispondere a questa domanda occorre innanzitutto
guardarsi dalla tentazione di leggere Gesù a partire dalla croce. Al contrario,
come ha acutamente osservato il teologo Giuseppe Colombo, bisogna leggere anche
la croce a partire dalla vita di chi vi è salito, l’uomo Gesù: questa morte è
l’atto che ricapitola l’intera sua esistenza spesa nella libertà e per amore di
Dio e degli uomini.
Per giungere a tale
comprensione gli autori del Nuovo Testamento hanno meditato in profondità le
Scritture dell’Antico Testamento, una meditazione che ha lasciato tracce
soprattutto nei racconti della passione di Gesù. In questi capitoli decisivi dei
vangeli si possono infatti cogliere, esplicitamente o implicitamente, numerose
citazioni dell’Antico Testamento che concorrono a presentare la passione di Gesù
come quella del giusto ingiustamente perseguitato. Tra questi passi spiccano
alcuni Salmi di supplica: «lo crocifissero e si divisero le sue vesti tirando a
sorte su di esse» (Mc 15,24; cf. Sal 22,19); «uno corse a inzuppare di aceto una
spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere» (Mc 15,36; cf. Sal 69,22).
Ma i testi più importanti per
comprendere la passione di Cristo sono certamente i cosiddetti quattro canti del
Servo sofferente del Signore, la misteriosa figura annunciata dal profeta Isaia
(cf. Is 42,1-9; 49,1-7; 50,4-11; 52,13-53,12). Da sempre i cristiani hanno
confessato che Gesù, il crocifisso risorto, è il Servo del Signore descritto in
queste pagine, e non a caso gli strati più antichi della riflessione
cristologica del Nuovo Testamento presentano Gesù quale Servo (cf. At 3,13.26;
4,27.30). Un posto di particolare rilievo spetta all’ultimo di questi testi, che
costituisce non solo l’apice dei quattro canti, ma anche uno dei luoghi
rivelativi più elevati dell’intero Antico Testamento, al punto che la tradizione
cristiana lo ha letto come una sorta di «quinto vangelo». Meditando su questo
canto essa vi ha colto la dinamica di abbassamento ed esaltazione del Servo Gesù
(cf. Fil 2,6-11), vedendovi profeticamente delineato il suo mistero pasquale.
Nel Nuovo Testamento si segnalano una cinquantina tra citazioni e allusioni a
questo brano. Ne ricordo solo due. Poco prima di essere arrestato, Gesù ha così
istruito i suoi discepoli: «Deve compiersi in me questa parola della Scrittura:
“E fu annoverato tra i malfattori” (Is 53,12)» (Lc 22,37). E Filippo,
interrogato dall’eunuco etiope sull’identità del Servo («Di quale persona il
profeta dice questo?»), «partendo da quel passo gli annunciò la buona notizia di
Gesù» (At 8,34-35). In breve, leggere questo testo con intelligenza significa
contemplare la passione di Cristo prima che avvenga, così come è effettivamente
avvenuta: ecco perché la chiesa proclama liturgicamente il brano di Isaia 53 al
venerdì santo, nel solenne ufficio in cui fa memoria della passione del Signore.
Merita soffermarsi almeno su
un suo versetto: «Al Signore è piaciuto prostrare il Servo con dolori» (Is
53,10). Affermazione che può turbare, lasciandoci sconcertati al pensiero che
Dio si compiaccia di far soffrire il proprio Servo. Occorre però comprenderla in
profondità, per non rischiare di attribuire a Dio un volto perverso: cosa
veramente è piaciuto a Dio? Che il Servo subisse atroci tormenti fino a morirne?
Che suo Figlio patisse sulla croce? No, a Dio è piaciuto che il Servo fosse
capace di compiere la sua volontà, cioè di «amare fino alla fine» (cf. Gv 13,1),
anche a costo di subire una morte ingiusta e ignominiosa! In altre parole, il
Servo Gesù non è morto per volontà di Dio, ma è morto perché noi uomini ci siamo
scagliati contro di lui, accecati dal nostro egoismo che è giunto fino a una
violenza omicida. È una necessitas umana, inscritta nella storia: il giusto dà
fastidio, va eliminato, poiché è di inciampo alla logica e all’operato dei
malvagi; la sua vita, posta sotto il segno della radicale obbedienza a Dio, è
per essi una presenza intollerabile (cf. Sap 2,10-20). Qui sta la responsabilità
di noi uomini; a Dio invece è piaciuto l’amore del Servo, fino alla sua capacità
di amore per i nemici. È per questo che Bernardo di Clairvaux ha potuto
scrivere: «Non la morte del Figlio è piaciuta a Dio, ma la volontà libera del
morente, di Gesù».
Sì, Gesù è stato l’uomo che si è caricato delle sofferenze dei fratelli, l’uomo che non si è difeso rispondendo con violenza alla violenza che gli veniva inflitta, ma ha speso la vita per gli altri, offrendo se stesso «fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8). Proprio in questa morte che agli occhi del mondo è una sconfitta consiste la vittoria dell’amore di Gesù, il Servo del Signore crocifisso, «vincitore perché vittima» (Agostino).
17 marzo 2021 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net