Cap. II - L'Abate:
"Un abate degno di stare a capo di un monastero deve sempre avere presenti le esigenze implicite nel suo nome, mantenendo le proprie azioni al livello di superiorità che esso comporta. Sappiamo infatti per fede che in monastero egli tiene il posto di Cristo, poiché viene chiamato con il suo stesso nome, secondo quanto dice l'Apostolo: "Avete ricevuto lo Spirito di figli adottivi, che vi fa esclamare: Abba, Padre!"
Missione dell'Abate
Tratto dal libro "Lettere ai monaci" di Gabriel M. Brasò O.S.B. - Ed. Messaggero Padova
Non vi è alcun dubbio: nell’organizzazione del monastero benedettino l’elemento più importante è la persona dell’abate. Egli è il principio vitale che dà forma alla comunità monastica; a lui è stata affidata la guida dei monaci, perché, avanzando essi sulle vie del Vangelo secondo le esigenze della vita monastica, progrediscano nella fede, nella sequela di Gesù Cristo, nella sincera ed effettiva ricerca di Dio. Perché l’abate possa compiere una missione tanto delicata, san Benedetto vuole che da lui dipenda in modo esclusivo l’organizzazione materiale e spirituale del monastero, seguendo sempre il piano stabilito dalla Regola; in modo che, per i monaci che vi abitano, il cenobio sia veramente casa di Dio, scuola del servizio divino, officina dell’arte spirituale.
Tuttavia, anche con un’autorità tanto assoluta, l’abate non è libero di dirigere e governare la comunità a suo piacimento, lasciandosi guidare dalle sue proprie luci e dalle sue preferenze spirituali, anche se talvolta eccellenti. Quando è stato eletto abate, ha ricevuto la responsabilità di amministrare un’eredità spirituale e materiale, che non gli appartiene, che ha i suoi propri valori e caratteristiche, e che è costituita principalmente da uomini, ciascuno dei quali è parte integrante e vivente di questa eredità. Della sua amministrazione l’abate dovrà render conto a Dio, che gliel’ha affidata.
Per adempiere efficacemente la sua missione, l’abate dovrebbe assimilare tutti i valori con i quali la storia e la tradizione hanno plasmato quella comunità monastica, e soprattutto dovrebbe incarnare nella sua persona tutta la saggezza umana e soprannaturale, che si trova ripartita nei diversi membri della comunità, per favorire il normale sviluppo di ciascuno di essi, senza sfigurare la fisionomia del monastero, anzi conservandola e ringiovanendola con nuovo vigore.
Per questo, forse, si suol dire che la comunità ha l’abate che si merita. E’ un aforisma al quale non manca, benché non gli si possa dare un valore di assoluto, la sua parte di verità. Essa può consistere nel fatto che sono effettivamente i monaci a eleggere il loro abate, e può verificarsi il caso previsto da san Benedetto: che essi, invece di scegliere un abate che risplenda per il merito della sua vita e per la sua dottrina di saggezza, eleggano una persona complice dei loro vizi (cap. 64). Senza arrivare a un tal estremo, è certo che ogni comunità riflette il suo modo di pensare e di vivere, le sue aspirazioni e i suoi ideali, quando si trova nella necessità di eleggersi un nuovo abate.
Sarà per questo stesso motivo che, in ogni occasione della celebrazione dei Capitoli Generali speciali, che dovevano rinnovare le Costituzioni delle rispettive Congregazioni, uno dei temi discussi più appassionatamente è stato quello che si riferiva alla carica abbaziale: il suo carattere, la sua durata, i suoi limiti furono, e ancora continuano ad essere, oggetto di profonda revisione e di viva discussione. Molte volte si partiva da tristi esperienze del passato: autoritarismo nel governo, noncuranza riguardo ai monaci in favore di altre attività, impossibilità di aprirsi a una effettiva collaborazione di essi nei diversi impegni abbaziali, incapacità di riconoscere i propri limiti e di decidersi a una rinuncia desiderata, già da molto tempo, dalla maggioranza della comunità. Esperienze di tal genere hanno trovato espressione, in molte Costituzioni, in limitazioni pratiche dell’autorità abbaziale. Penso però che, con questo, non si è prestato un gran servizio alla riforma delle comunità monastiche se, nello stesso tempo, non si è tenuto conto delle incombenze indeclinabili che la Regola attribuisce all’abate. Sarei piuttosto incline a pensare che non sempre si è avuta davanti agli occhi la visione autentica di un abate benedettino, perché neppure si è avuto un concetto giusto della funzione che la Regola assegna al monastero. Ed è chiaro: a seconda di come si concepisce l’immagine del monastero, si dovrà avere un’immagine corrispondente dell’abate che lo governa.
San Benedetto chiama «via di salvezza» il cammino che il
monaco deve
percorrere seguendo Gesù
Cristo, e avverte che
«non lo si può intraprendere
se non per uno stretto imbocco» (Prol.). Di qui il
pericolo di «abbandonarla subito, presi da sgomento». Perché questo non accada,
ma piuttosto si abbia la sicurezza di poter correre con indicibile soavità di
amore per la via dei divini precetti, san Benedetto offre al monaco l’aiuto di
un abate - maestro e guida ad un tempo - che «deve governare i discepoli con
duplice insegnamento, deve cioè mostrare loro tutto ciò che è buono e santo più
con i fatti che con le parole» (cap. 2). A ogni crocicchio della vita l’abate
deve manifestare ai suoi monaci, con il proprio esempio e poi con la sua
dottrina, qual è la direzione che si deve
prendere, qual è il passo
che si deve fare per
andare verso Dio, seguendo
Gesù Cristo; quale
atteggiamento assicurerà al monaco, in tale determinata circostanza, un
progresso nell’intimità con il Signore.
Questa è indubbiamente, la missione primaria e suprema
dell’abate, «della quale gli si chiederà conto nel tremendo giudizio di Dio»
(capp. 2; 3;
55;
63; 64; 65). E’ la missione di «dirigere anime», a causa della quale san
Benedetto osa presentare l’abate come «colui che in monastero tiene le veci di
Cristo» (capp. 2; 63). Non in altro senso san Benedetto si serve di questa
espressione; in modo che, quando essa è stata utilizzata abusivamente per
sacralizzare l’insieme del governo abbaziale, si è sfigurata, mitizzandola,
l’immagine dell’abate benedettino.
In che cosa si richiede che l’abate si metta al servizio
di temperamenti tanto diversi? In tutto quanto sia necessario, perché i monaci
raggiungano il fine che si sono proposti quando sono entrati in monastero,
seguendo la chiamata di Dio. All’abate incombe, dunque, anzitutto di aiutarli a
cercare Dio per quella via che risulti più adeguata a ciascuno di loro,
stimolandoli ad amare Gesù Cristo sopra tutte le cose, e a seguirlo e imitarlo
nel compimento della volontà del Padre. Se servire Gesù Cristo è seguirlo («Se
qualcuno vuol servirmi, mi segua»:
Gv
12,26), e se la sequela di Gesù Cristo esige le condizioni che san Matteo ci
trasmette come riassunto della più alta morale evangelica (cf.
Mt 16,20), possiamo dire che l’abate serve
debitamente i suoi monaci, quando, con il suo esempio e con la sua parola li
istruisce e li anima a «rinnegare se stessi, a prendere la propria croce e a
seguire Gesù».
Sebbene in una comunità monastica possano esservi molti padri spirituali - confessori, maestri, direttori, anziani - ai quali i monaci ordinariamente si confidano, non per questo l’abate resta sgravato dalla sua responsabilità di guida qualificata che si estende a tutta la vita di ciascun monaco. Anche quando l’abate non tratta frequentemente con essi in intima conversazione spirituale, questa responsabilità esige una costante e discreta attenzione ad ogni membro della comunità. Attenzione diligente e amorosa, che gli ispirerà il contenuto e la forma delle sue conferenze alla comunità, determinerà i suoi atti di governo, e lo orienterà a cercare» per ogni monaco quel lavoro o occupazione che, non solo sia utile al monastero, ma sia anche più conveniente al bene spirituale dell’interessato. Incombenza questa, che esige molta sensibilità e molto tatto. Soprattutto, quest’attenzione personale gli farà conoscere il momento opportuno, nel quale il monaco ha bisogno di aiuto dal suo abate per accogliere nel debito modo il Signore, quando questi si presenta sotto forme inattese e sconcertanti. In tali circostanze, nelle quali il Signore si presenta sempre con la croce, nessuno può sostituire la presenza e l’azione dell’abate. Mai come in questi momenti di particolare difficoltà, talvolta decisivi per il progresso spirituale di un monaco, sarà tanto vero che «il comando e l’insegnamento dell’abate devono penetrare dolcemente nell’animo dei discepoli come fermento di divina giustizia» (cap. 2), perché questi possano rispondere con fedeltà agli imperscrutabili disegni del Signore.
Questa importantissima missione, che san Benedetto affida all’abate, richiede
molta fede e abnegazione, un costante sforzo di ogni giorno, benché,
normalmente, non si giunga a risultati immediati o facilmente constatabili. E’
una missione che dev’essere ispirata da una carità molto pura e disinteressata;
suppone infatti un’intima unione con Dio, per ottenere da Lui la luce necessaria
per illuminare e guidare i monaci, non sempre coscienti e desiderosi di questa
missione dell’abate, mentre forse egli stesso si trova in momenti di oscurità e
di angustia. Non per niente san Benedetto vuole che l’abate risplenda per «il
merito della vita e per una dottrina di sapienza» (cap. 64); e non desiste
dall’animarlo a un nuovo lavoro così arduo, ricordandogli che «mentre si
mantiene cauto per il rendiconto altrui, diviene sollecito di quello proprio, e
mentre con le sue ammonizioni corregge gli altri, anche lui si va emendando dei
suoi difetti» (cap. 2).
Questo compito più intimo dell’ufficio abbaziale, pur essendo tanto importante, non è l’unico e neppure il più ordinario: né all’esterno del monastero, e talvolta neppure all’interno, si apprezza un abate unicamente per il compimento di questa delicata missione. Se ci fermassimo soltanto a questo, e non considerassimo gli altri aspetti del servizio abbaziale, sfigureremmo l’immagine dell’abate benedettino. A lui compete anche l’organizzazione del monastero - «stabiliscano un degno amministratore della casa di Dio» - e la prudente direzione degli uomini ivi congregati - «(l’abate) regoli tutto in modo che i forti possano desiderare di fare di più e i deboli d’altra parte non si sgomentino» - (cap. 64).
Sono responsabilità importanti, che esigono notevoli qualità di capo, particolarmente in chi deve guidare una grande comunità. La Regola, in molte e diverse occasioni, sottolinea le qualità di sapienza, prudenza, discrezione e moderazione che devono distinguere un abate. Praticamente, nei diversi capitoli che trattano dell’organizzazione del monastero, san Benedetto indica all’abate certe norme che devono orientare la sua azione di governo, in modo che questa conduca sempre a un fine pastorale. Da tutte quelle norme si può dedurre che l’intenzione profonda, che le ispira, è quella che si trova precisata nella frase: «(l’abate) tutto moderi e disponga, in modo che le anime si salvino, e quello che i fratelli fanno, lo facciano senza fondato motivo di mormorazione» (cap. 41). Quanto allo stile di governo, è ben nota l’importanza e l’attualità del capitolo 3°, che coordina saggiamente l’autorità e la corresponsabilità dei monaci. Si può riassumere con questo passo: «Dopo aver ascoltato il consiglio dei fratelli, consideri la cosa dentro di sé, e faccia quel che avrà stimato più utile» (cap. 3). Per completare questa norma di governo, le si potrebbe aggiungere quest’altra: «Si scelgano dei fratelli di buona reputazione e di santa vita,... con i quali l’abate possa tranquillamente condividere i suoi pesi» (cap. 21).
Tutto il resto lo si lascia all’iniziativa di ciascun abate, a condizione che
questi «operi tutto con il timore di Dio e secondo la prescrizioni della Regola»
(cap. 3); in effetti, «conviene che dalla volontà dell’abate dipenda tutta
l’organizzazione del suo monastero» (cap. 65); e quindi, anche la determinazione
delle caratteristiche dello stesso e della sua irradiazione pastorale. Di qui
nasce il grande pluralismo dei monasteri benedettini. Con una simile libertà di
azione e con tale ampiezza di poteri, è chiaro che l’opera di ogni abate
dipenderà in gran parte dalle sue qualità personali e dalla saggezza con la
quale saprà avvalersi della collaborazione dei suoi monaci.
Non fa meraviglia che le cronache giudichino i diversi abati, che si sono
succeduti nel governo del monastero, mettendo in evidenza soprattutto il tipo di
attività esterna che hanno sviluppato. Questo però contribuisce necessariamente
a dare un’immagine molto parziale di ciò che fu in realtà la persona e l’azione
integrale di ciascuno di essi. Così troviamo abati che sono passati alla storia
come abati-fondatori, come abati-costruttori o abati-organizzatori, o anche come
grandi prelati o eminenti uomini politici. In questa linea di procedimenti
sembra che oggi, con una visione che è molto più in consonanza con la Regola, si
desideri avere abati- servitori, il che probabilmente non procurerà loro un
posto molto rilevante nella storia, forse perché, per far questo, si esige da
loro un atteggiamento semplicemente evangelico.
In certi luoghi sembra che, in questi ultimi decenni, i monasteri si siano
lasciati influenzare da quel dinamismo febbrile che è proprio della nostra
epoca: clima di avventura, di novità, di emozione, suscitato dalla rapidità dei
mezzi di comunicazione sociale, frequentemente dominati dal sensazionalismo. Nei
monasteri questo clima generale può essersi manifestato come una necessita di
trovare forme nuove, di creatività, di ricerca incessante, quasi che questo
fosse l’indizio più autentico di vitalità. Tutti sappiamo quante «esperienze»
sono sorte e scomparse in questi ultimi tempi. Questa necessità di movimento e
di dinamismo esigeva un determinato tipo di abate: l’abate-animatore. Se l’abate
non era capace di comunicare un incessante movimento di novità e di ricerca alla
sua comunità, questa aveva la sensazione di «essere sgonfiata», di «non sapere
dove andava». E’ chiaro che non è facile trovare sempre un tale abate-animatore;
ma anche quando lo si ha, è ancora più difficile che possa mantenersi per molti
anni in questa posizione di generatore costante di attività. Questo richiede
molta immaginazione, che gli anni facilmente affievoliscono.
Non credo che questo sia il clima adeguato e normale di
una comunità monastica, il cui dinamismo e la cui vitalità si manifestano nella
incessante ricerca di Dio-,
questa porta piuttosto a un sereno approfondimento della
vita ordinaria e contribuisce a fare in modo che «nessuno si turbi né si
contristi nella casa di Dio» (cap. 31).
Ogni abate è figlio del suo tempo. Quali che possano essere le sue iniziative,
il suo stile di governo, e i risultati che riesce ad ottenere, è certo che, al
di sopra di tutto, egli dovrebbe essere considerato come un monaco che è stato
posto al servizio dei suoi fratelli, e che si impegna nel migliore dei modi,
secondo i suoi talenti e le sue possibilità, per favorire il bene della
comunità. Chi sa con quanto amore e con quanto sacrificio si sarà adoperato per
trovare una soluzione adeguata alle necessità particolari dei monaci -
situazioni e necessità che talvolta egli solo conosce - e per risolvere
difficoltà comunitarie molto profonde, benché non sempre altrettanto manifeste!
La sua attività politico-amministrativa sarà certamente soggetta alla critica
degli altri, e sempre si può pensare che un altro abate, al suo posto, avrebbe
operato diversamente, e forse con maggior successo, ma con la stessa buona
volontà di servire i suoi monaci. Questo dovrebbe tenersi molto presente oggi,
che è tanto facile liberarsi di un abate e sostituirlo con un altro. «Nessuno
pensa di ringraziare l’alveo asciutto del fiume per il suo passato!» (Tagore).
La responsabilità di amministrare e governare un monastero, di per sé già
difficile e delicata, risulta molto più pesante quando si pensa che ogni atto di
governo di un abate, anche quando si riferisce ad affari materiali, può- avere
risonanza nella vita spirituale della comunità. L’abate sa molto bene che le sue
decisioni produrranno nei monaci reazioni, non sempre ugualmente logiche e
ragionevoli. Perciò, agli elementi di giudizio, talvolta per la loro stessa
natura già molto complessi, i quali possono orientare le sue decisioni, ne deve
unire un altro - sempre grave e delicato -, che san Benedetto mette davanti ai
suoi occhi: «che non solo non debba lamentare perdite nell’ovile affidatogli, ma
anzi possa rallegrarsi dell’incremento del buon gregge» (cap. 2).
Per questa ragione, l’azione di governo di un abate non
dipende unicamente dalle sue attitudini personali e dalle circostanze storiche
del suo abbaziato; la sua attuazione rifletterà evidentemente il concetto di
vita monastica che lo ispira e la maggiore o minore importanza che egli stesso
attribuisce alla sua missione pastorale. D’altra parte, però, l’efficacia del
suo lavoro sarà sempre condizionata dalla fiducia, dalla recettività e dalla
collaborazione dei suoi monaci. Queste, a loro volta, dipenderanno dall’ideale
monastico che gli stessi monaci si saranno proposto, dall’interpretazione che
essi danno al
«revera Deum quaerere»,
alla specie di servizio che individualmente e collettivamente si aspettano dal
loro abate.
Non è stato facile il lavoro degli abati in questi ultimi tempi: han dovuto
affrontare situazioni nuove e importanti mutamenti di strutture; han dovuto
aprirsi a una seria riflessione sul futuro della propria comunità nella Chiesa e
nel mondo in evoluzione; si sono incontrati con crisi ideologiche e vocazionali
nei monaci, e con la diminuzione o inesistenza di nuovi candidati; non rare
volte han dovuto sopportare le invettive di un gregge inquieto e disobbediente.
E davanti a quest’insieme di circostanze, si son sentiti profondamente
angosciati nel constatare i propri limiti e la propria incapacità, e nel
considerare davanti a Dio la dura parola di san Benedetto: «Tenga per certo che
quanti fratelli egli sa di avere sotto la sua cura, d’altrettante anime dovrà
nel giorno del giudizio render conto al Signore, oltre al conto che naturalmente
darà dell’anima propria» (cap. 2). Non mancano occasioni a un abate per
praticare il quarto grado di umiltà.
Questo fa parte della sua missione pastorale: monaco come
gli altri, anche l’abate ha bisogno di essere purificato e di seguire Gesù
Cristo per la via dell’abnegazione e della croce. Inoltre, essendo costituito
maestro di questa scienza eminentemente pratica, egli stesso deve aver fatto
l’esperienza di che cosa significhi «obbedire nelle cose difficili e ripugnanti,
e anche davanti a qualunque specie di torti, e abbracciare volentieri nel
silenzio la sofferenza, sopportando tutto con pazienza, senza perdersi d’animo
né indietreggiare, per amore del Signore» (cap. 7, gr. 4). Nel suo caso
acquistano un senso più profondo le parole «abbracciare volentieri nel silenzio,
con pazienza», in quanto riflettono quel silenzio interiore e quella solitudine
che, a questo riguardo, sogliono essere il patrimonio di molti abati. Non vorrei
drammatizzare; però, se «l’abate nel monastero fa le veci di Cristo» e deve
essere maestro di obbedienza per i suoi monaci, non credo esagerato affermare
che egli stesso deve imparare a obbedire, partecipando più intimamente alla
Passione del Signore, che, «pur essendo Figlio, imparò a obbedire mediante i
suoi patimenti»
(Eb 5,
8). Se è così, i monaci possono avere piena fiducia nel proprio abate, potendo
vedere in lui un’immagine di Gesù Cristo, di cui è stato scritto: «Noi non
abbiamo un pontefice che non sia in grado d’aver compassione delle nostre
infermità; ma al contrario, egli è stato messo alla prova in tutto come noi»
{Eb 4, 15).Missione
dell’Abate
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21 giugno 2014
a cura di
Alberto
"da Cormano"
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