REGOLA PER I MONACI

 

DI S. FERRÉOL VESCOVO DI UZÈS

 

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Indice dei capitoli

Prefazione

Cap. 1 – L’obbedienza

Cap. 2 – Il rispetto che occorre avere (nei confronti dell’abate)

Cap. 3 – La carità

Cap. 4 – Nessuna donna entri nel monastero

Cap. 5 – Come sia ricevuto chi vuole diventare monaco

Cap. 6 – Non sia accolto, affinché rimanga nel monastero, nessun monaco o chierico

Cap. 7 – La mormorazione e la maldicenza dei monaci

Cap. 8 – La superbia e l’orgoglio devono essere evitati

Cap. 9 – L’invidia

Cap. 10 – Il monaco non deve rivendicare niente di proprio

Cap. 11 – Tutti i monaci devono saper leggere

Cap. 12 – Tutti i giorni si dicano in ordine i salmi

Cap. 13 – Le vigilie

Cap. 14 – Gli abiti dei monaci

Cap. 15 – Non venga battezzato nessuno in monastero

Cap. 16 – Al di fuori dell’abate, nessuno abbia una cella per conto proprio

Cap. 17 – I monaci abbiano un preposito ed un formatore sotto l’autorità dell’abate

Cap. 18 – Si leggano nei loro tempi, senza farsi prendere dalla pigrizia, le passioni dei martiri di cui si sono trovati i testi

Cap. 19 – I monaci si dedichino frequentemente alla lectio divina

Cap. 20 – I monaci vagabondi o fuggitivi

Cap. 21 – Un fratello non metta le mani addosso ad un altro fratello

Cap. 22 – I monaci si astengano da ingiurie e dagli insulti

Cap. 23 – Il monaco smetta e si astenga dal giurare

Cap. 24 – Il monaco rida raramente

Cap. 25 – Il monaco eviti del tutto il turpiloquio

Cap. 26 – I monaci leggano ogni giorno fino all’ora terza

Cap. 27 – Nessun monaco mangi o beva prima dell’ora terza

Cap. 28 – Il monaco compia qualche lavoro ogni giorno

Cap. 29 – Il monaco parli ponderatamente

Cap. 30 – L’abate si dispensi dal lavoro a suo piacimento

Cap. 31 – Ai monaci non sia permesso di utilizzare indumenti di lino

Cap. 32 – Le vesti dei monaci non profumino in modo particolare

Cap. 33 – I monaci abbiano giacigli singoli

Cap. 34 – Il monaco non vada a caccia

Cap. 35 – Il monaco non osi toccare dei frutti senza permesso

Cap. 36 – L’abate non abbia l’ardire di liberare uno schiavo del monastero

Cap. 37 – Come si deve comportare l’abate

Cap. 38 – In quali tempi l’abate deve lavorare in cucina e, similmente, deve lavare i piedi

Cap. 39 – La correzione dei monaci per le varie trasgressioni

PREFAZIONE ALLA REGOLA DI SAN FERRÉOL VESCOVO

Ferréol, vescovo, al padre Lucrezio, santo e santissimo signore tra tutti, compagno degli apostoli e discepolo di Cristo.

Incoraggiato un tempo per opera di Dio e infiammato dalla devozione, io, che sono terra, ho fatto l'offerta di un'altra terra affinché la Divinità vi stabilisca lei stessa una casa di servitori di Dio. Quello che destino alla santa comunità lo offro per la mia salvezza. Così la folla di religiosi, riuniti come api, offrendo abbondantemente per i miei peccati i fiori delle sue preghiere, preparerà per me un miele molto dolce con la sua intercessione.

E poiché era necessario imporre a questo nuovo popolo il giogo di una nuova legge, non per gravare sul loro collo ma piuttosto per piegare la cervice della loro mente, abbiamo scritto, dopo aver chiesto ed ottenuto il vostro permesso, una regola che serva loro come una legge. Se il giudizio della vostra scienza pensa che ci sia qualcosa di troppo duro e severo o, al contrario, troppo leggero e troppo rilassato, questo testo riceva il ritocco della vostra mano, affinché sia più adatto a ciò a cui è destinato. In questo modo io otterrò più gloria dal fatto che questa regola è stata trovata degna di ricevere le vostre correzioni, che voi le prodigherete senza nessun riguardo. Ma se, come credo, il vostro troppo benevolo giudizio eviterà di infliggere una vera revisione correggendo questo scritto come merita, allora, qualsiasi cosa di incongruo il testo non corretto presenti, sarò libero da qualsiasi colpa, dal momento che è accertato che ho sottoposto alla vostra censura il libretto contenente l'errore.

Tuttavia, devo pregare affinché ciò che abbiamo scritto piaccia innanzitutto a Dio, poi a voi ed a coloro ai quali lo affidiamo affinché lo osservino, in modo che nel nome di nostro Signore Gesù Cristo, obbedendo in tutto ai precetti divini, essi si assicurino, non senza il costo di una retta vita, la ricompensa eterna e la gloria senza fine, con la grazia del nostro Signore e Dio Gesù Cristo che, con il Padre e lo Spirito Santo vive, domina e regna nei secoli dei secoli. Amen.

Inizio della regola, riguardante le osservanze che ho stabilito per i monaci di Ferréolac, io che ho istituito il monastero. Prego che con l'aiuto di Dio, questi figli che ho generato per il Signore mediante la fede, osservando queste disposizioni con tutto il santo ardore della loro anima, facciano violenza al cielo, come dice la Scrittura (Cfr. Mt 11,12), con un cammino eccellente e perfetto della loro vita, e si preparino delle dimore allestite per coloro che ne sono degni. Così, seguendo l'Agnello ovunque vada, possano disprezzare le realtà presenti per impossessarsi di quelle a venire.

Cap. 1. L'obbedienza

Prima di tutto, poiché è proprio del monaco elevare dentro di sé l'edificio di molte virtù, ponga in sé il fondamento dell'obbedienza. Compirà così ciò che il Beato Apostolo ci comanda di osservare quando dice: "Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano su di voi e devono renderne conto, affinché lo facciano con gioia e non lamentandosi. Ciò non sarebbe di vantaggio per voi" (Eb 13,17).

Cap. 2. Il rispetto che occorre avere (nei confronti dell’abate).

Tutti, per amore, dovranno conservare nei confronti dell'abate un pieno rispetto, così che l'amore manifesti l'unione dei cuori ed il timore mantenga il senso della disciplina. È infatti giusto che sia temuto come un maestro e amato come un padre, colui al quale è stata affidata, come un gregge, la santa comunità, e che ha ricevuto la cura delle anime; è lui ad essere trascinato dall'incarico che ha ricevuto, giorno per giorno, attraverso quel cammino che nessun mortale può evitare, sia verso il castigo, sia verso la gloria. Lo dice la Scrittura: "A chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più" (Lc 12,48). Il Vangelo ci rivela ancora questa lezione con il paragone di una parabola veritiera, in cui leggiamo che il Signore diede cinque talenti a un servitore; e poiché costui ne aveva guadagnati altri cinque, meritò di ascoltare dalla bocca del Signore: "Bene, servo buono e fedele, ..., sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo Signore" (Mt 25,21).

Cap. 3. La carità

In onore del sacro numero della Trinità, abbiamo ritenuto necessario collocare in terzo luogo la carità, la madre di tutte le virtù. È a lei, prima di tutte le altre, che va la lode dell'Apostolo: "La carità non manca di rispetto, …, la carità non avrà mai fine" (1 Cor 13, 4.8), e ancora: "La carità copre una moltitudine di peccati" (1 Pt 4,8). È quindi giusto che i monaci aderiscano a questo precetto, in modo che, nonostante il loro numero, come dice il Beato Apostolo, giungano a formare un solo corpo in Cristo (Cfr. Rm 12,5). Allora si adempierà in loro ciò che leggiamo negli Atti degli Apostoli - e questo è un esempio offerto a tutti i cristiani, ma specialmente ai religiosi -: "Avevano un cuore solo ed un'anima sola" (At 4,32). Leggiamo anche nel Libro dei Salmi: "Dio che fa dimorare nella sua casa coloro che sono unanimi" (Sal 68 (67),7; Vulg.).

Il monaco, quindi, faccia soprattutto attenzione a non nutrire nel suo cuore qualche discordia o avversione verso un fratello, od a trasmettere tali sentimenti nelle sue azioni o, sopraffatto dall'ira, a manifestarli. Infatti, l'Apostolo dice: "L'ira dell'uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio" (Gc 1,20), ed il molto saggio Salomone: "La collera dimora in seno agli stolti" (Qo (Eccle) 7,9), ed ancora l'Apostolo: "Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità" (Ef 4,31).

Cap. 4. Nessuna donna entri nel monastero

Abbiamo pensato che fosse giusto decidere che assolutamente nessuna donna entri nel monastero, anche se sembra chiederlo per ragioni di carità. Questo permesso di entrare, noi lo rifiutiamo persino alle donne religiose o alle fanciulle (lat. puellis), così che non ci sia nessuna scusa per gli spiriti deboli. Poiché una casa non può essere a lungo in sicurezza se l'avversario è vicino o il nemico nelle vicinanze, soprattutto perché nessuno può prevedere se non sarà sconfitto in uno scontro dichiarato o in una lotta insidiosa, in un campo dove non c'è altra alternativa che vincere o soccombere. Ma quando una ragione manifesta può costringere un fratello a parlare con delle donne, per lo meno onorevoli, costui riceverà l'autorizzazione a conversare (con loro) solo a distanza dal monastero, a condizione che l'abate ne sia a conoscenza, con il suo permesso ed alla presenza di testimoni, vale a dire, in compagnia di due fratelli; nondimeno l'abate non dovrà ignorare il motivo del colloquio.

Cap. 5. Come sia ricevuto chi vuole diventare monaco

Se qualcuno viene per entrare nel monastero in cerca della vita religiosa, non lo si unisca alla comunità dei monaci prima che sia trascorso un anno o, per lo meno, se l'abate riterrà opportuno diminuire un po' questo periodo, prima che siano passati sei mesi interi. Ciò gli darà il tempo di mostrare a coloro che non lo conoscono come si comporterà in futuro. E, con uno sforzo prolungato, sarà in grado di liberarsi da ogni violenza che ha portato con sé. Tuttavia, non appena chiederà di essere ammesso nel numero dei monaci, l'abate gli domanderà se è libero; se questa prima risposta gli darà soddisfazione, l'abate gli chiederà se non c'è altra ragione oltre alla devozione che lo ha portato a raggiungere il monastero. Dopodiché, su ordine dell'abate, gli si leggerà la regola del monastero; in modo che, in seguito, non saranno delle osservanze nuove e sconosciute che egli trasgredirà, se si tirerà indietro, o che egli riconoscerà, se persevererà. A lui verrà quindi data una cella vicina al monastero, dove vivrà per il periodo di tempo di cui abbiamo parlato; egli riceverà dal monastero il suo cibo quotidiano, se lavorerà con gli altri fratelli; si dedicherà soprattutto alla lettura ed alla preghiera, affinché l'Onnipotente, che scruta l'anima e conosce la famiglia che gli appartiene in segreto (Cfr. 2 Tm 2,19), si degni di aggiungerlo a coloro che conducono santamente la vita monastica, in modo che vi sia, secondo la parola della Scrittura, "un solo gregge, un solo pastore" (Gv 10,16).

Cap. 6. Non sia accolto, affinché rimanga nel monastero, nessun monaco o chierico

Noi rifiutiamo, vietiamo e proibiamo assolutamente di ricevere, per qualsiasi motivo, un monaco o un chierico proveniente da un altro monastero o da un altro luogo. Siamo indotti a ciò dalla preoccupazione per la carità, temendo che una notizia (di questo tipo) causi un'esplosione di vergognosi litigi. La Scrittura dice infatti: "Non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te" (Tb 4,15; Vulg.). Da questo motivo spesso sorgono conflitti irrimediabili, non solo tra abati, ma anche tra monasteri, perché l'uno vorrebbe mantenere colui che ha ricevuto, l'altro recuperare colui che ha perso; e se, infine, non si restituisce il fuggitivo al suo abate, e se il ritorno del disertore non giunge a placare il pregiudizio causato al suo abate, non si vincerà il male con il bene, seguendo il consiglio dell'Apostolo (Cfr. Rm 12,21), ma le due parti, entrambe malvagie, saranno vinte da un solo male. Tuttavia, riteniamo che il seguente caso non debba essere trattato con trascuratezza: se un monaco o un chierico di un altro luogo si presenta, munito di un documento scritto dal suo abate o dal suo vescovo che dimostra chiaramente che non bisogna essere diffidenti nei suoi confronti a motivo di qualche vizio, ma che viene inviato per amore di Dio, solo allora otterrà di essere associato alla comunità. Ciò avvenga, tuttavia, se si è persuasi che costui accetta di privarsi del proprio bene e che un altro venga vestito grazie alla sua spogliazione.

Cap. 7. La mormorazione e la maldicenza dei monaci

Non si senta mai nella comunità alcuna mormorazione o maldicenza – ciò che è un'abitudine molto diffusa tra i monaci - sia contro l'abate che contro un qualsiasi altro fratello. Questi disordini hanno spesso attirato su di un popolo meschino l'ira di Dio; questa potrebbe altrettanto facilmente infiammarsi su una schiera di mormoratori. Le nostre mormorazioni ci farebbero perdere l'oggetto della promessa divina, la terra promessa che interpretiamo giustamente come il luogo della beatitudine futura. Il salmo dichiara, infatti, che i seguaci di questo vizio saranno così condannati: "Chi calunnia in segreto il suo prossimo io lo ridurrò al silenzio" (Sal 101 (100),5). E l'Apostolo dice a sua volta: "Diffamatori, maldicenti, nemici di Dio" (Rm 1,29-30). E ancora: "Sono sobillatori pieni di acredine, che agiscono secondo le loro passioni; la loro bocca proferisce parole orgogliose" (Gd 1,16).

Cap. 8. La superbia e l’orgoglio devono essere evitati

Affinché i monaci evitino assolutamente la superbia e l'orgoglio, affinché la vanità non li faccia precipitare, che tutte le elevatezze d'animo siano bandite per amor di Dio. Il disprezzo di sé e l'umiltà sono la vera grandezza. Altrimenti, perché rinunciare al mondo, se si rimane attaccati alle sue vanità? Perché scegliere la vita solitaria, se il cuore è gonfio di orgoglio? Perché fare una professione di umiltà all'inizio, se non rifiutiamo queste miserie molto rapidamente, come se stessimo cercando occasioni di caduta? Si abbia piuttosto timore di questa terribile frase della Scrittura: "Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili" (1 Pt 5,5); e questa: "L'uomo dallo sguardo altezzoso e dal cuore insaziabile, non l'ho ammesso alla mia tavola" (Sal 101 (100),5; Vulg.). Non dimentichiamo, dopo averla ascoltata, questa frase dell'Apostolo: "Sappi che negli ultimi tempi verranno momenti difficili. Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori" (2 Tm 3,1-2) e gli altri qualificativi che seguono.

Cap. 9. L'invidia

Innanzitutto, il monaco allontanerà l'invidia dalla sua anima, poiché è il più grande di tutti i vizi. Egli, inoltre, non soffrirà di un livore segreto che possa corrompere la verginità del suo spirito, per timore che un prodotto impuro distrugga il buon seme sparso nella sua anima. Ma sia sempre forte come un guerriero sulla linea di battaglia, respingendo, con l'aiuto dello scudo della carità, l'assalto dell'invidia. E soprattutto, non essendo vinto dall'invidia, vincerà l'Invidioso per eccellenza; sappiamo che la Scrittura dice: " Per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo" (Sap 2,24). Inoltre, sono suoi imitatori coloro che le appartengono.

Cap. 10. Il monaco non deve rivendicare niente di proprio

Abbiamo anche avuto cura di decretare ciò: nessun monaco oserà rivendicare nulla come suo proprio bene, al di fuori della comunità dei fratelli; i suoi stessi beni personali da quel momento in poi non apparterranno di più a lui che agli altri. Egli, infatti, quando si è sottomesso al potere di un altro, ha posto tutte le cose con se stesso nel potere altrui. Quindi, tutto ciò che ha portato al momento della sua domanda di ammissione tra i monaci, non appena è stato incorporato nella comunità, sappia che tutto è andato immediatamente in comunione con gli altri, e consideri che nulla è suo, tranne ciò che ha in condivisione con i fratelli. Il testo degli Atti degli Apostoli ci ricorda infatti che i fedeli di Cristo, ai tempi della Chiesa primitiva, vivevano così: "Nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune" (At 4, 32).

Cap. 11. Tutti i monaci devono saper leggere

Se qualcuno rivendica il nome di monaco, non potrà dispensarsi dal saper leggere. Inoltre, egli deve conoscere a memoria tutti i salmi; nessuna scusa gli permetterà di sottrarsi a questo sacro studio. Ed anche i membri della comunità che, secondo la consuetudine, sono inviati a custodire le greggi, devono essere solleciti nello studiare i Salmi come gli altri, in modo che non siano trovati inferiori a ciò che è il più grande di tutti i loro doveri e che, per loro confusione, non si possa applicare loro questa parola della Scrittura: "L'uomo animale non percepisce le cose dello Spirito di Dio" (1 Cor 2,14; Vulg.).

Cap. 12. Tutti i giorni si dicano in ordine i salmi

In ogni tempo, i salmi devono essere cantati in ordine fino alla fine del Salterio ma, in segreto, ognuno potrà, per guadagno personale, al di fuori dei salmi recitati pubblicamente per il Signore, offrire ogni giorno delle lodi, con una nascosta ruminazione, a Dio che solo lo sa. Anche la notte è opportuno vegliare recitando numerosi salmi seguiti da orazioni; così saranno adempiute queste parole: "Davanti a te grido giorno e notte" (Sal 88 (87),2), e ancora: "La sua legge medita giorno e notte " (Sal 1,2).

Cap. 13. Le vigilie

Ogni volta che, per pregare Dio, è richiesta una veglia notturna, sia per devozione, sia per una festa, nessuno dei monaci presenti al monastero dovrà assentarsi, a meno che non ci sia una malattia riconosciuta oppure un'altra necessità. E ciò per paura che, abituandosi a soffrire di un grave malessere interiore, l'anima spirituale non muoia mentre la carne rimane in vita. Piuttosto, cerchiamo ardentemente e otteniamo l'adempimento di queste promesse: "Io amo coloro che mi amano e quelli che vegliano di buon mattino mi troveranno" (Pr 8,17; Vulg.). Ed un salmo reca anche queste parole: "Allora lo cercavano e tornavano da lui, e prima dell'alba si presentavano davanti a lui" (Sal 78 (77),34; Vulg.). Ricordiamo – se non lo si giudica inutile - che ogni monaco, ogni giorno, deve assolutamente alzarsi per i mattutini. E tutti i giorni, per i notturni, tutti si alzeranno così in fretta e con una tale sincronia che tutti saranno riuniti nello stesso momento e non ci sarà nessun ritardatario. E se si troverà qualcuno che contravviene a questa regola, sarà condannato a digiunare, da solo, un numero di giorni pari a quello delle ore in cui si sarà rifiutato di vegliare con i fratelli.

Cap. 14. Gli abiti dei monaci

Il monaco non chiederà vestiti superflui; non riceverà nulla se non ciò che l'abate ha ritenuto necessario per l'uso quotidiano. Il Signore dice ai suoi discepoli: "Non portatevi due tuniche" (Lc 9,3). Queste due tuniche, noi dobbiamo intenderle non in termini di quantità, perché in inverno possono diventare necessarie, ma nel senso che sarebbero contate come in eccesso se i monaci si riservassero più del necessario. Quindi quello che risultasse in eccedenza sarebbe considerato inopportuno. Poiché tutto ciò che un avaro proprietario nasconde, va più a beneficio dello scrigno che non del padrone stesso: al fine di proibire ciò, il beato Apostolo si erge come un testimone molto importante e dice: "Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci. Quelli invece che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti. Ma tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni. Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo" (1 Tm. 6,8-14). Fate in modo che, fratelli miei, ciò che è stato scritto ad un uomo particolare, cioè a Timoteo, sia osservato da un'intera comunità.

Cap. 15. Non venga battezzato nessuno in monastero

Abbiamo considerato che non fosse necessario battezzare i bambini nel monastero, come è consuetudine in altri monasteri. E neppure un monaco farà da padrino al figlio di nessuno in nessun luogo, perché non avvenga che, poco a poco, si contraggano con i genitori (del bimbo) degli illeciti e morbosi legami, come succede di solito. Se un monaco osa fare ciò, sia corretto come trasgressore della regola.

Cap. 16. Al di fuori dell’abate, nessuno abbia una cella per conto proprio

Non sarà permesso a nessun monaco, se non all'abate, di avere una cella privata, né per rimanervi, né per nessun altro uso. Tuttavia, gli artigiani, perlomeno quelli a cui l'avrà permesso l'abate, ne avranno una, ma solo per il loro lavoro. L'intera comunità deve essere infatti riunita nella stessa dimora e nella stessa casa. Quanto a coloro che sono indeboliti da una salute fragile, o sono spossati da una malattia riconosciuta, saranno temporaneamente separati dalla comunità e verrà data loro una dimora adatta all'interno del monastero, fino a quando abbiano recuperato le loro forze di prima con la salute fisica; in modo che questo allontanamento dalla comunità acceleri la loro guarigione.

Cap. 17. I monaci abbiano un preposito ed un formatore, sotto l’autorità dell’abate

Decretiamo che, per aiutare l'abate, al di sotto di lui, si sceglierà un monaco zelante e molto amante della disciplina, che sia degno di ricevere l'incarico ed il titolo di preposito; essendo così diviso il lavoro, l'onore sarà meno oneroso per l'abate, dal momento che saranno in due ad assumere la sollecitudine quotidiana. Sarà quindi giusto mostrare al preposito rispetto ed obbedienza, secondo la regola stabilita dall'abate. Inoltre, dopo questo preposito, di cui abbiamo appena parlato, ordiniamo che, secondo la regola, venga istituito un formatore che sia l'esempio stesso delle virtù: in questo modo l'abate, che porta il nome di padre, raccoglierà più facilmente, con questi aiuti, i frutti abbondanti della perfezione dei suoi cari figli. Tuttavia, il preposito ed il formatore si riconosceranno tutti e due, con gli altri e tra gli altri, sottoposti all'autorità dell'abate.

Cap. 18. Si leggano nei loro tempi, senza farsi prendere dalla pigrizia, le passioni dei martiri di cui si sono trovati i testi

Ordiniamo insistentemente che gli Atti dei Martiri, intendiamo le Passioni dei santi che sono state attentamente raccolte e messe per iscritto, siano lette nell'oratorio, alla presenza di tutta la comunità, alla data in cui il ritorno dell'anno, secondo le leggi del suo corso, riporta il giorno della loro morte. Questo giorno non passerà inosservato e non sarà come tutti gli altri; dal fatto che è stato precedentemente illustrato dalla costanza dei martiri, ora sarà segnato dal ricordo della loro passione.

Cap. 19. I monaci si dedichino frequentemente alla lectio divina

Per risvegliare l'ardore delle menti pigre, che spesso si annoiano della lectio divina e preferiscono lasciarsi andare alla pigrizia invece di abbeverarsi alla salutare fonte delle Scritture e ritrovare così il fervore spirituale, ci è sembrato indispensabile aggiungere ciò: ogni monaco, sia che il suo lavoro lo tenga dentro o fuori dal monastero, non lascerà passare un solo giorno senza nutrirsi dalla lectio divina. Non appena le loro mani termineranno il lavoro, coltiveranno la loro anima con la lettura. Tutti devono obbedire a questo avvertimento del beato Paolo al suo discepolo Timoteo, quando dice: "Dedicati alla lettura, all'esortazione e all'insegnamento" (1 Tim 4, 13). E ancora: "Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona" (2 Tim 3,16-17).

Cap. 20. I monaci vagabondi o fuggitivi

Non è né appropriato né adatto per un monaco vagare da un luogo all'altro, per timore che, catturato da un qualunque vizio, soccomba alle attrazioni del secolo e "torni al suo vomito" (2 Pietro 2,22). Perché con questa disposizione recidiva dell'animo, colui che una volta disprezzò il mondo sarebbe riconquistato dall'amore del secolo e, pervertito, avrebbe lasciato la via della salvezza. Ecco perché abbiamo ordinato di osservare la seguente regola: tranne coloro che, per l'utilità del monastero, ricevono dall'abate l'ordine di andare a fare la spesa qua o là, nessuno si permetterà di uscire dal monastero per rimanere in un altro luogo, per qualunque motivo o necessità, senza il permesso dell'abate. Allora non sarà possibile applicare ai monaci ciò che scrive l'Apostolo parlando delle giovani vedove: "Inoltre, non avendo nulla da fare, si abituano a girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene"(1 Tim 5,13). Questo è il motivo per cui chi infrange questa regola con un qualunque motivo di contrasto, fino al punto da risultare di averla trasgredita, sarà soggetto a questa condanna: digiunerà un numero di giorni doppio di quelli che avrà passato fuori dal monastero; la misura del suo cibo sarà fissata dall'abate, ma non gli sarà mai dato vino. Per quanto riguarda il monaco fuggitivo che abbandona la disciplina e manda in rovina se stesso, vogliamo che venga riportato indietro come trasgressore.

Cap. 21. Un fratello non metta le mani addosso ad un altro fratello

Un monaco, infiammato dall'ira verso un altro monaco, non abbia la presunzione di colpirlo, ciò che è abominevole, tranne coloro a cui spetta valutare la misura della correzione e pronunciarne la sentenza. Il peccato di uno solo non deve provocare una presuntuosa audacia negli altri, per timore che, con il disordine introdotto nella disciplina e la violazione della regola, gli stessi precetti della santa vita religiosa siano rovinati uno per volta. Quindi, se uno non può controllare le sue mani al punto di non sapere come astenersi da atti proibiti, quelle mani che ha sollevato contro il suo prossimo, saranno condannate a stancarsi per molto tempo, non solo col digiuno, ma con un lavoro continuo, così che, in seguito, le sue mani si innalzino a Dio in preghiera e non si distendano più con furore contro un fratello. Decidiamo, tuttavia, che il perdono sarà concesso a chi lo richiede, nella misura in cui l'abate lo giudichi ragionevole; ma costui dovrà fare penitenza e chiedere perdono per la sua colpa, inondando il suo viso con un'effusione di lacrime.

Cap. 22. I monaci si astengano da ingiurie e dagli insulti

Un monaco non deve mai pronunciare ingiurie o insulti né, sotto l'impulso dell'impazienza, lasciare andare le briglie alla sua lingua per lasciar sfuggire dalle sue labbra dei discorsi smodati. Ma se è mosso dall'ira, ciò che è umano, egli dica: "Poni, Signore, una guardia alla mia bocca, sorveglia la porta delle mie labbra" (Sal 141 (140),3). Aggiunga questa parola: "Ho detto: «Vigilerò sulla mia condotta per non peccare con la mia lingua»" (Sal 39 (38),2), avendo davanti ai suoi occhi queste parole dell'Apostolo: "I calunniatori non erediteranno il regno di Dio "(1 Cor 6,10). Se, quindi, qualcuno, perdendo il controllo di se stesso, irromperà in parole offensive, sarà tenuto per trenta giorni lontano dalle conversazioni con tutti i fratelli; riconoscendo poi che in questo modo ha solo ottenuto di essere messo in disparte dalla comunità, deciderà di chiedere perdono.

Cap. 23. Il monaco smetta e si astenga dal giurare

L'abitudine di fare giuramenti deve essere, se possibile, totalmente soppressa nelle conversazioni dei monaci. Anche se, a causa della debolezza umana, essi non riescono a evitare completamente il peccato di menzogna, possano almeno evitare uno spergiuro condannabile. Io li invito ed esorto a sforzarsi di mantenere nella loro bocca parole sacre, così che non sia mai necessario fare giuramenti. Il beato Apostolo ci insegna come tutti devono evitare questo vizio vergognoso; egli dice infatti: "Non giurate né per il cielo, né per la terra e non fate alcun altro giuramento. Ma il vostro «sì» sia sì, e il vostro «no» no, per non incorrere nella condanna" (Gc 5,12), ed un altro passo della divina Scrittura: "Un uomo dai molti giuramenti accumula iniquità; il flagello non si allontana dalla sua casa" (Sir (Eccli) 23,11). A queste prove di grande peso e perfettamente evidenti si congiunge la testimonianza del testo evangelico, che è l'autorità suprema, quando il Signore dice ai suoi discepoli: "Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno" (Mt 5,33-37). Ci basti pensare di aver supportato con questi esempi le nostre stesse esortazioni su ciò che occorre evitare.

Cap. 24. Il monaco rida raramente

Credo che sia anche conveniente che i monaci ridano solo in poche occasioni e non per qualunque futile motivo. E se un fratello cerca un esempio nelle sue letture, gli basti solo ciò: secondo la testimonianza del Vangelo, leggiamo che il nostro Signore Gesù Cristo pianse (Lc 19,42, Gv 11,35), ma non sappiamo se abbia riso; rattristato fino alle lacrime, non si è lasciato andare al riso. Tuttavia, affinché nessuno possa dire che non abbiamo trovato altre testimonianze nella Scrittura, ascoltiamo ciò che dice Salomone: "Anche nel riso il cuore prova dolore e la gioia può finire in pena" (Pr 14, 13). E ancora: "È preferibile la mestizia al riso, perché con un volto triste il cuore diventa migliore. Il cuore dei saggi è in una casa in lutto e il cuore degli stolti in una casa in festa" (Qo (Eccle) 7,4-5). E ancora: "Lo stolto alza la sua voce quando ride, ma l’uomo saggio sorride appena sommessamente" (Sir (Eccli) 21,20).

Quindi, se c'è un membro della comunità così giovane di età o di spirito, come spesso accade, che non esita a ridere e non si cura di evitare gli scherzi, cosa fa se non cambiare il monaco in un buffone? Come quelle persone che, nelle città popolose, si dedicano soltanto a passare il tempo in facezie, applausi e risate.

Tuttavia, io ammonisco, prescrivo ed in particolare ordino a tutti di osservare la seguente regola: ogni volta che una lettura utile alle anime consacrate a Dio è resa pubblica in chiesa, nel refettorio o in qualsiasi altro luogo, nessuno si abbandonerà al riso, né lo provocherà. Nelle stesse circostanze, lo si sappia bene, dobbiamo sfuggire ad ogni chiacchiera. Se un monaco, sebbene avvertito dal presente consiglio, non lo osserva, incorrerà nella pena di tre giorni di digiuno. Tuttavia, noi vogliamo che nessuno completi questi tre giorni di digiuno in una volta sola, in modo che la punizione non venga meno in qualche modo alla discrezione; ma ordiniamo che questi tre giorni di digiuno fino alla sera vengano interrotti ogni giorno da un pasto. E noi dichiariamo che ciò debba essere osservato per tutti gli altri digiuni destinati a correggere i trasgressori della regola, a condizione, tuttavia, che l'abate non veda nel monaco colpevole orgoglio e durezza del cuore.

Cap. 25. Il monaco eviti del tutto il turpiloquio

Per amore della castità, il monaco deve considerare vergognoso pronunciare parole volgari e deve evitare parole indecenti che, eccitando la mente, infiammano anche il corpo. Il benedetto Apostolo dice: "Gettate via tutte queste cose: ... cattiveria, insulti e discorsi osceni, che escono dalla vostra bocca" (Col 3,8). Vi chiedo, fratelli, è meno colpevole di un adultero, colui il cui linguaggio lo rende complice del peccato? Non cade già nella lussuria, colui che contamina la sua bocca casta con la corruzione delle sue parole? Inoltre, affinché il timore della punizione tenga tutti lontani da tali contaminazioni, ordiniamo che il responsabile di tale colpa sia privato per sei mesi dalla comunione con il Signore e dal bacio di pace dei fratelli.

Cap. 26. I monaci leggano ogni giorno fino all’ora terza

In ogni tempo, fino alla terza ora del giorno, i monaci, dagli anziani fino all'ultimo, si prenderanno cura di dedicarsi alla lettura. Solo allora, per il resto della giornata, potranno dedicarsi al lavoro che sarà loro assegnato, con la sola eccezione dei malati, ai quali la naturale debolezza, ancor più della loro volontà, non permette che sia imposto un carico che superi le loro forze.

Per quanto riguarda coloro che, durante la stagione del raccolto, avranno ricevuto dall'abate l'ordine di eseguire un lavoro o un'attività di qualsiasi tipo nelle ore del mattino, costoro non saranno vincolati da questa norma. Non saranno rimproverati per aver infranto questa regola, dal momento che hanno obbedito ad un ordine dato loro per un motivo di interesse generale. È, infatti, consuetudine per gli agricoltori tagliare il grano maturo all'alba quando è ancora inumidito dalla rugiada, in modo che questa possa proteggere più facilmente il raccolto dal calore nocivo, per tutto il tempo che, all'inizio del giorno, essa mantiene una piacevole  aria fresca. So che spesso, lavorando apposta all'alba, prima che il calore del sole abbia prosciugato il mondo, per così dire, essendo il raccolto legato in fasci, si sottrae il raccolto ed i suoi frutti alle fiamme dell'astro che brucia. Se, quindi, questi monaci che si dedicano al lavoro agiscono così, come abbiamo detto sopra, anche loro non dovranno essere considerati trasgressori della regola per aver agito al fine di far fruttare il proprio lavoro (per il bene della comunità).

Cap. 27. Nessun monaco mangi o beva prima dell’ora terza

A parte gli ammalati, nessun monaco si permetterà di mangiare o bere prima che si compia l'ora terza, anche se l'accoglienza di qualche parente o amico possa offrire una grande occasione di golosità; egli non lo farà in nessuna circostanza, che inviti il suo ospite, o che sia lui stesso invitato – per lo meno durante il periodo dell'anno in cui il digiuno regolare è sospeso. Dopo questa stessa ora, se l'ospite e lo stomaco lo consentono, si aspetti fino all'ora sesta per mangiare. Ma, per questo pasto, il monaco andrà a prendere uno o due dei suoi fratelli come compagni (di tavola) e, lasciandosi vedere, farà in modo di dimostrare che, grazie a questo atto di condivisione e umanità, egli si nutre pubblicamente e non furtivamente.

(Ndr. Nei tempi di digiuno regolare è proibito mangiare fino all'ora nona, non solo prima dell'ora terza o sesta.)

Cap. 28. Il monaco compia qualche lavoro ogni giorno

A parte certe solennità o nel caso di una evidente malattia, il monaco che trascorre la giornata senza lavorare deve essere escluso dalla mensa comune, secondo la prescrizione dell'Apostolo: "Chi non vuole lavorare, neppure mangi" (2 Ts 3,10). Nondimeno prevediamo le conseguenti scuse dei fannulloni, ed è per questo che imponiamo un limite alla loro pigrizia. Una di queste persone dirà: "non posso lavorare, io che ho perso le forza della gioventù e ora sono un vecchio inadatto ad ogni lavoro". Un altro: "anch'io non posso lavorare perché sono sopraffatto dalla malattia". Un terzo dirà, ammesso che se ne trovi uno così: "neanch'io posso lavorare, perché l'assiduità al lavoro mi ha logorato, i lunghi viaggi mi hanno fiaccato, il compito che mi è stato affidato mi ha tolto il vigore, il lavoro imposto mi ha privato di tutte le mie forze". Ma il linguaggio della ragione deve opporsi vittoriosamente a questi avversari dicendo: "colui che non ha la forza di applicarsi al lavoro sia più desideroso di leggere; chi non coltiva un campo, si dedichi doppiamente all'adorazione di Dio; e tra le altre cose, cerchi anche di decorare le pagine con le dita, colui che non lavora la terra con l'aratro".

Nessun monaco, se non lavora, potrà quindi addurre alla sua inazione una scusa giusta, poiché, come abbiamo detto, chi non ha la forza di lavorare nei campi può leggere o scrivere, ciò che è la più nobile delle opere; inoltre può pescare, intrecciare reti, preparare scarpe per i fratelli, oppure praticare e realizzare altre simili attività. Se, quindi, un fratello si rifiuta di scegliere, tra tutti questi, un lavoro che possa occuparlo, accetti di soffrire la fame e l'umiliazione.

Cap. 29. Il monaco parli ponderatamente

In ogni colloquio il monaco deve parlare con temperanza, a causa di ciò che dice la Scrittura: "Nel molto parlare non manca la colpa" (Pr 10,19), e ancora nel Vangelo: "Non sprecate parole come i pagani" (Mt 6,7). Troviamo anche in un salmo: "L'uomo loquace non camminerà dritto sulla terra" (Sal 140 (139),12; Vulg.). Perciò, fratello, chiunque tu sia, le tue parole siano limitate. E non solo, ma la presenza dell'abate o anche di un altro anziano ti imponga il silenzio; così che tu non ti permetta di romperlo prima di essere stato interrogato o prima che ti abbiano chiesto di parlare. Così obbedirai a questa parola della Scrittura che dice: "Non rispondere prima di aver ascoltato e non intervenire in mezzo a degli anziani" (Sir (Eccli) 11,8; Vulg.). Questa disposizione deve essere osservata anche a tavola, lo dichiariamo espressamente.

Cap. 30. L’abate si dispensi dal lavoro a suo piacimento

Nessuno oserà criticare l'abate se non lavora come gli altri monaci, perché è meglio per lui dedicarsi alla lettura, che gli permette di educare tutti i giorni i suoi fratelli, di istruire quelli che gli sono stati affidati, di formarli mediante sante ammonizioni. Tuttavia, ogni volta che non terrà in mano un libro, dovrà sforzarsi di unirsi al lavoro che fanno i fratelli , qualunque esso sia, secondo la misura delle sue forze: così che, anche se non si osi chiamarlo pigro, nessuno mormori in silenzio dicendo che è sprezzante.

Cap. 31. Ai monaci non sia permesso di utilizzare indumenti di lino

Il monaco, indipendentemente dalla sua fragilità fisica, non indosserà vestiti di lino sul nudo corpo. Poiché è sconveniente che una carne, sempre orgogliosa per vizio di natura, sia confortata da abiti delicati e sia circondata da cure come se fosse senza forza, nello stesso tempo in cui essa si scatena ogni giorno come un fresco e vigoroso combattente , per sconfiggere l'anima. Perché la carne ritrova forze nella sua guerra contro l'anima ogni volta che le viene accordata una tregua, come avviene ad uno schiavo ribelle. Il benedetto Apostolo parla di questo combattimento quando dice: "La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito" (Gal 5,17). Ed ancora: "Nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra" (Rm 7, 23). E di nuovo: "(Per questo, affinché io non monti in superbia,) è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, (perché io non monti in superbia). A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza»" (2 Cor. 12,7-9). Ed ancora: "Se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete" (Rom 8,13). Chi ama questa vita (dello Spirito), calpesti sotto i piedi una carne che deve morire; ed in un combattimento quotidiano, come un implacabile guerriero, manterrà sempre questa carne nei legami di una stretta disciplina, in modo che non possa attaccare l'anima a causa di un pur minimo rilassamento. Così saranno seguiti l'insegnamento e l'esempio dell'Apostolo che dice: "Tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato" (1 Cor. 9.27).

Cap. 32. Le vesti dei monaci non profumino in modo particolare

Il monaco eviterà accuratamente di usare vestiti profumati o troppo eleganti, per timore dell'esaltazione d'animo; segua piuttosto ciò che dice l'Apostolo: "Noi siamo infatti (dinanzi a Dio) il profumo di Cristo" (2 Cor 2,5). (Il monaco) eviterà anche di indossare o desiderare abiti bianchi o troppo rossi, che spesso, per sua rovina, attirano l'attenzione sul suo aspetto corporeo; inoltre, in questo modo darà prova della propria vanità e, Dio non voglia, cercando di ornare temporaneamente il suo corpo con abiti che si consumano così velocemente, non si preoccuperà di fornire la sua anima di ornamenti che possono durare per sempre. Coloro che agiscono così sono rimproverati dalla Divina Scrittura: "Non ti vantare per le vesti che indossi e non insuperbirti nel giorno della gloria" (Sir (Eccli) 11,4). Per quanto riguarda le scarpe, ordiniamo di osservare l'usanza degli altri monaci. Ci si prenda cura che il piede sia vincolato coi legacci con moderazione, senza troppe cinture che lascino trasparire la vanità ma, per preoccupazione di santità, il piede stia largo nella scarpa con le cinghie un po' allentate; come in tutte le cose, la semplicità, accompagnata dalla santità, renderà gradevole a Dio colui che, posseduto dal suo amore, apparirà ai suoi occhi come un vero disprezzatore del mondo.

Cap. 33. I monaci abbiano giacigli singoli

In vista della preghiera segreta, che si dirige più facilmente a Dio quando è senza testimoni, due fratelli, qualunque sia il loro grado di parentela o di amicizia, non approfitteranno del loro buon accordo per dormire nello stesso letto. Siano davvero persuasi che una maggiore libertà è concessa per la preghiera all'anima afflitta di compunzione quando non teme alcun testimone o giudice delle sue veglie. Tutti, quindi, cercheranno di passare solo la minima parte della notte a dormire, applicandosi a vegliare, a pregare, a recitare i salmi. Così, chi è libero da ogni compagnia deve evitare di essere ingannato dal Nemico, perché non può assolutamente rivendicare un letto solo per se stesso se non per vegliare. È conveniente seguire il consiglio del profeta quando canta per ammonirci: "Ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio, bagno di lacrime il mio letto"(Sal 6,7), e ancora: "Durante la notte, alzate le mani verso il santuario e benedite il Signore" (Sal 134 (133),1-2), e questa parola: "Nella notte ricordo il tuo nome, Signore, e osservo la tua legge" (Sal 119 (118),55). Dunque, affinché il fervente monaco possa meglio realizzare quanto è stato appena detto, durante le normali ore di riposo avrà un letto per sé e, con uno scambio vantaggioso, avrà con sé nel dormitorio, come fratello, il Signore che veglia.

Cap. 34. Il monaco non vada a caccia

Tra gli altri piaceri mondani, il monaco deve sapere che andare a caccia gli è particolarmente proibito e che non deve impegnarsi in un combattimento tanto inutile quanto pericoloso contro le bestie feroci. Sappia, piuttosto, che sono i vizi, e non le bestie, che egli deve mettere a morte. Questo è il motivo per cui non sarà attratto da tale attività così sterile, né per la consuetudine locale, né per la vicinanza e la posizione favorevole delle foreste, né per il facile accesso alle montagne, alle concavità delle valli, alla profondità dei boschi, o per il folto territorio. Ciò non deve, infatti, essere dannoso per la vita religiosa, ricordando l'avvertimento dell'Apostolo: "Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato" (1 Cor 7,24). Sappia che il normale corso della sua vita verrebbe distrutto da queste futili corse e dovrà stare attento a non farsi del male; trascurando la sua condizione di monaco, anche lui verrebbe preso nel catturare animali selvaggi e, preso nelle reti dei desideri del secolo, il cacciatore di selvaggina diventerebbe lui stesso la selvaggina dell'Avversario. Possa egli trovare piuttosto la sua gioia nel dedicarsi solo a Dio, Colui che sta cercando, ed a servire incessantemente Colui che ha scelto. Sappia che noi ci accordiamo così al precetto evangelico: "Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto" (Mt 4,10). Ed altrove: "Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita" (Sal 27 (26),4). Il monaco cercherà quindi, tralasciando tutto il resto, di compiacere a Dio solo con il suo servizio, in modo che il Signore possa rendere partecipe del suo Regno colui che vede interamente dedito al suo servizio. Tuttavia, abbiamo ritenuto opportuno non tralasciare ciò: nel caso in cui delle bestie particolarmente feroci dovessero attaccare un fratello che guadagna il suo cibo lavorando ai raccolti, la furia dei cani, usata solo per proteggere i raccolti dai danni, le allontanerà nel modo giusto. Si preferirà quindi mettere questi animali in fuga piuttosto che inseguirli; il monaco mostrerà così che non è interessato alla caccia, ma al raccolto.

Cap. 35. Il monaco non osi toccare dei frutti senza permesso

Se un monaco, per nessun'altra ragione che l'ingordigia, coglie, senza aver ricevuto l'ordine, un qualunque frutto rimasto sull'albero o, non padroneggiando la sua ingordigia, porta la sua mano su di un frutto caduto a terra o, come spesso accade, si concede la primizia di altri prodotti della terra, come il primo uomo Adamo, anche lui subirà per la sua golosità una pena adatta, quella del digiuno, e sarà giudicato indegno di partecipare al pasto comune, che è come un immagine del paradiso. Non gli sarà permesso di venire a tavola se prima non avrà ottenuto il perdono di tutti i fratelli; è giusto infatti che chieda il perdono di tutti, colui che ha sottratto qualcosa che apparteneva a tutti. Tutti osserveranno quindi questa regola: se capita a un fratello di ricevere o anche di trovare del cibo, costui lo conservi fedelmente intatto prima di metterlo sulla tavola (comune), oppure lo affidi al cellerario. Eviti di impossessarsi, assaggiandolo, di un cibo destinato a tutti; e siccome non ha compagni nel perdere la sua innocenza e perpetrare il suo furto, egli avrà solo la sua ingordigia come complice. Questo è il motivo per cui il diritto di proprietà sarà esercitato esclusivamente dalla comunità; tutti i beni apparterranno quindi a tutti, e tutto apparterrà a tutti i fratelli.

Cap. 36. L’abate non abbia l’ardire di liberare uno schiavo del monastero

L'abate non avrà il diritto di liberare uno schiavo del monastero senza il consenso di tutti i monaci, a meno che non presenti nello stesso tempo ai fratelli, per suo diritto, un sostituto della stessa età e con le stesse qualità. Lo schiavo di molti non può diventare libero grazie all'indulgenza di uno solo; egli non può essere affrancato se tutti non lo autorizzano all'unanimità, poiché è evidente che ha tanti padroni quanti sono i monaci.

Cap. 37. Come si deve comportare l’abate

L'abate si farà apprezzare da tutti i monaci che governa per il suo zelo, certamente, ma anche per la sua dolcezza e specialmente per la sua vita; così i fratelli lo venereranno più per la sua santità che per la sua severità, e lo temeranno più per il suo impareggiabile merito che per il suo primato d'onore. Egli sia moderato nelle sue correzioni, riservato nelle sue predilezioni; si adatti a tutti i caratteri in modo da attirare gli uni con gentilezza, dominare gli altri con il timore; è nella stessa misura in cui egli odia i vizi che sarà più amato da tutti. Tutta la sua condotta sarà quindi come un solido fondamento sul quale si potranno edificare tutti coloro che attraverso dei buoni meriti, a sua imitazione, avranno scelto di avvicinarsi a Dio. Lui non condannerà nessuno arbitrariamente, ma solo per una giusta ragione. Nessuno sarà così legato a lui da poter prendere più libertà degli altri, oppure così malvisto da lui da non poter tornare alla grazia dopo aver fatto penitenza. È, infatti, conveniente che egli tema tutti, lui che è temuto da tutti, e che si applichi con tutto il suo zelo e tutta la sua attività per impedire che uno di quelli affidati alla sua cura non venga, per qualche avverso evento, a separarsi dalla comunità. Questo è il motivo per cui deve venire in aiuto alle debolezze dei monaci con molti medicamenti ed apportare alle malattie dell'anima il rimedio di una cura spirituale. Così, se vede un uomo orgoglioso gli offrirà mediante ripetute esortazioni la pozione dell'umiltà; ad un iracondo presenterà l'unguento della pazienza; ad un menzognero amministrerà l'antidoto della verità, stimolato in ciò dalle istruzioni dell'Apostolo che dice: "Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così facendo, salverai te stesso e quelli che ti ascoltano" (1 Tim 4,16). Ed ancora a Timoteo: "Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù" (2 Tim 1,13). E di nuovo: "Tu però vigila attentamente, sopporta le sofferenze, compi la tua opera di annunciatore del Vangelo, adempi il tuo ministero" (2 Tim 4,5). Allo stesso modo, il beato Pietro scrive: " Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato"; ed aggiunge: "Non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce"(1 Pt 5,1-4) Anche il santissimo Geremia dice, parlando nel nome del Signore: "Vi darò pastori secondo il mio cuore, che vi guideranno con scienza e intelligenza" (Ger 3,15). Ed ancora: "Così dice il Signore Dio: Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi!", ed aggiunge: "Udite quindi, pastori, la parola del Signore: Così dice il Signore Dio: Eccomi contro i pastori: a loro chiederò conto del mio gregge e non li lascerò più pascolare il mio gregge" (Ez 34, 2.9-10). Infine lo stesso Signore, nel Vangelo, dice a Pietro, il principe degli apostoli, al quale chiedeva se l'amava: "Pasci le mie pecore" (Gv 21, 17).

Di conseguenza è ovvio fratello, chiunque tu sia che ti trovi alla testa dei monaci, che questo onore ti impone un fardello molto pesante, perché mentre sei il primo in dignità, tu porti, con il sudore della fronte, il peso di tutti. Ecco perché devi correre diritto sul percorso che conduce al cielo. Mostra al gregge la via sicura che occorre percorrere e cammina davanti ad esso, precedendolo con la tua santità; assicurati che nessuno di quelli che ti seguono come capo e come modello arrivi al punto di cadere nell'errore; In questo modo si realizzerà in te il precetto dell'Apostolo che dice: "Sii di esempio ai fedeli nel parlare, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza" (1 Tim 4,12). E ancora: "Sfòrzati di presentarti a Dio come una persona degna, un lavoratore che non deve vergognarsi e che dispensa rettamente la parola della verità" (2 Tim 2,15). Noi dedichiamo questo capitolo a te, abate, come a titolo particolare, in modo da non rattristarti per essere escluso dal discorso della regola, e affinché tu ti riconosca come membro della comunità. Ti avvertiamo e ti ammoniamo davanti a Dio di osservare con fervido zelo non solo tutto ciò che si è appena detto per te, ma anche tutto ciò che è stato detto agli altri, in modo che tu possa servire loro come esempio.

Cap. 38. In quali tempi l’abate deve lavorare in cucina e, similmente, deve lavare i piedi

Tre volte all'anno, l'abate andrà in cucina per preparare il pasto della comunità: il giorno della Natività del Signore, la domenica di Pasqua, e per la festa del santo patrono del monastero, il santo, beato e sempre venerabile santo martire Ferréol, o per la festa dei santi a cui potrebbe essere dedicato lo stesso monastero. Lì, con l'aiuto di un fratello più giovane, egli servirà ai tavoli, portando con i piatti l'esempio dell'umiltà e abbassandosi volontariamente in questa santa umiliazione che lo rende più grande di tutti facendolo loro uguale. Così egli acquisisce tanta più autorità su tutti i fratelli per quanto accetterà, come tutti loro, di rendere i servizi più umili. Inoltre, imiti l'esempio divino lavando i piedi ai fratelli o anche ai viaggiatori; abbia a cuore di compiere spesso il comandamento del Signore, dando l'esempio ai monaci con le sue opere piuttosto che con le sue parole. Poiché il Signore disse ai suoi discepoli nel Vangelo: "Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri" (Gv 13,14). Tutti i monaci imiteranno anch'essi con anima docile ciò che l'abate farà per osservare queste parole del Vangelo e ciò che abbiamo appena detto in questo capitolo; tanto che, desiderosi di preparare il cibo a turno ed al tempo stabilito, si serviranno l'un l'altro e svolgeranno alternativamente il ruolo di superiori (gli uni degli altri) nell'uguaglianza del servizio.

Cap. 39. La correzione dei monaci per le varie trasgressioni

Questo capitolo si propone, con varie avvertenze, di correggere i monaci per le loro negligenze; ma sollecita meno la condanna delle persone di quella delle colpe. Poiché ciò che li renderà puri e laverà via la sporcizia di tutti i loro vizi, è soprattutto l'amore di una vita integra, il desiderio di perfezione, l'aspettativa dell'eredità, la promessa di gloria, la vita eterna e la dimora con il Creatore, oggetto della nostra fede, di cui l'Apostolo parla in questo modo: "Verremo rapiti... nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore " (1 Ts 4,17).

Ecco la correzione rivolta a coloro che seminano la discordia tra i fratelli: se la fede non basta a distoglierli da una via così perversa, non è solo la sentenza dell'abate, ma la riprovazione di tutti i fratelli che li colpirà, finché non abbandonino questa cattiva abitudine; è di loro che il Signore ha detto, come ricorda l'evangelista Luca: "È inevitabile che vengano scandali, ma guai a colui a causa del quale vengono. È meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare" (Lc 17, 1-2).

Per coloro che, dopo essere stati corretti, si ribellano alla decisione degli anziani, persistono nel giustificare la loro colpa e, invece di pentirsi riconoscendo il loro torto, si induriscono all'estremo nel loro scontento, ecco la sentenza che li riguarda: finché non si sono distolti da questo stato d'animo e non hanno rinunciato all'orgoglio del loro spirito con un emendamento manifesto, essi saranno sottoposti, secondo il giudizio dell'abate, ad un trattamento più severo, perché non hanno dichiarato: "Le mie iniquità io le riconosco" (Sal 51 (50),5), ma avranno fatto ciò che dice il profeta Isaia a proposito dei ribelli: "Nessuno si pente della sua malizia, e si domanda: “Che cosa ho fatto?” "(Ger 8,6).

Coloro che si pongono al di sopra dei loro anziani e, per orgoglio, non arrossiscono nel prendere il posto degli altri, contraddicendo così i precetti del Signore: "Chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo" (Mt 20,26-27), costoro saranno confusi dai severi rimproveri dell'abate e degli altri, e saranno rimessi al loro posto, che avevano abbandonato. Ordiniamo che si differisca la loro promozione ad un aumento di grado, per timore che un'aggiunta di dignità rafforzi questa presunzione naturalmente radicata in loro.

Così stabiliamo questa regola: quando i fratelli sono riuniti a tavola e vengono portati i piatti, nessuno assaggi o si appropri della parte di un altro, ed un fratello indiscreto non metta la mano nel piatto (di portata) più spesso degli altri, a causa di questa parola dell'Apostolo: "Uno ha fame, l'altro è ubriaco" (1 Cor 11,21); ed ancora: "I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi! Dio però distruggerà questo e quelli" (1 Cor 6,13). E di nuovo: "Il regno di Dio infatti non è cibo o bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo" (Rm 14.17). Ed ancora: "Costoro, infatti, non servono Cristo nostro Signore, ma il proprio ventre" (Rom 16: 18); e nuovamente: "Il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi" (Fil 3,19). Leggiamo anche in un salmo, e Dio voglia che ciò non accada mai ai monaci: "Avevano ancora il cibo in bocca, quando l’ira di Dio si levò contro di loro" (Sal 78 (77),30-31). Chiunque abbia trasgredito a questa regola, il giudizio dell'abate deciderà la durata dei digiuni coi quali una tale aggressività a tavola sarà punita.

Considero superfluo ammonire un monaco contro l'ubriachezza: accettando di bere vino, per quanto poco sia, egli si allontana dal suo proposito di austerità riguardo al corpo. Tuttavia, poiché i monaci non possono ignorare ciò che l'Apostolo ha scritto a Timoteo: "Bevi un po’ di vino, a causa dello stomaco e dei tuoi frequenti disturbi" (1 Tm 5,23), riceveranno ogni giorno, secondo le risorse del monastero, la quantità di vino ordinata e procurata dall'abate, e non ne chiederanno di più. Ed ordiniamo di osservare la stessa regola per la distribuzione di altre derrate. Infatti, l'ubriachezza è proibita anche a coloro che vivono nel secolo, come testimonia la Scrittura. L'Apostolo dice agli Efesini: "E non ubriacatevi di vino, che fa perdere il controllo di sé" (Ef 5,18). Il Profeta (Isaia) dice anche: "Guai a coloro che sono gagliardi nel bere vino, valorosi nel mescere bevande inebrianti", e ancora: "Guai a coloro che si alzano presto al mattino e vanno in cerca di bevande inebrianti e si attardano alla sera. Il vino li infiamma" (Is 5,22.11). Ecco perché, ciò che è spaventoso dire, se succedesse che troviamo un monaco in stato di ubriachezza, ordino con indignazione che lo si privi della sua porzione di vino per trenta giorni, fino a quando, con questa prolungata digestione, la sua anima non abbia evacuato questo eccesso di bevanda.

Parliamo ora di quei monaci che alla fine di una giornata sono ancora nella discordia, che trascinano le loro dispute fino alla sera e non allontanano l'odio prima del tramonto; la loro disobbedienza è contraria a ciò che dice l'Apostolo: "Non tramonti il sole sopra la vostra ira" (Ef 4,26). Ordiniamo che siano sfiancati con l'astinenza per tutto il tempo necessario per indurli a soddisfare ed a tornare liberamente ad una sincera riconciliazione. Tuttavia, dopo una così lunga lite, non sarà loro permesso di fare la pace solo in segreto, perché la purezza della loro carità potrebbe essere in qualche modo simulata; la riconciliazione di coloro la cui discordia è stata manifesta deve essere pubblica. Quindi è davanti a tutti i fratelli riuniti che chiederanno perdono, poiché sono entrambi colpevoli di una lunga lite; è probabile che l'uno si sia astenuto dal chiedere perdono, e l'altro, desiderando di essere supplicato, non ha perdonato. Questo è senza pietà, l'altro non ha mostrato pentimento; il primo deve essere condannato per la sua ira, il secondo per la sua colpa. Inoltre, il fratello offeso non perseveri nella sua rabbia, sfidando il Vangelo, ma ricordi senza indugio questa parola: "Perdonate e sarete perdonati" (Lc 6,37), e quest'altra dell'Apostolo: "Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi" (Col 3,12-13). Per quanto riguarda colui che ha arrecato l'insulto, provi timore in fretta da questo passo: "Il Signore rende giustizia agli oppressi" (Sal 146 (145),7), ed altrove: "Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato" (Gal 6,7).

Quanto a colui che è colpevole di furto, se possiamo ancora chiamarlo monaco, noi ordiniamo di percuoterlo con la verga quasi come fosse un adultero e di giudicarlo con dure punizioni. In effetti, costui è responsabile della stessa sentenza dei fornicatori, perché anche lui ha commesso l'impurità nel furto. Infatti noi assimiliamo l'uno all'altro con congruenza, poiché li troviamo nominati insieme nella Sacra Scrittura. Il Signore dice infatti col profeta: "Non c’è infatti... conoscenza di Dio nel paese", e subito dopo: "Si ruba, si commette adulterio" (Os 4,1-2). E ancora, in un salmo: "Se vedi un ladro, corri con lui e degli adùlteri ti fai compagno" (Sal 50 (49),18). Leggiamo anche che il Signore ha detto nel Vangelo: "Adulteri, …, furti", e subito dopo: "Queste sono le cose che rendono impuro l'uomo" (Mt 15,19). Gli schiavi di questi due crimini possono quindi dedurre da tali passi che devono essere sottoposti a sanzioni uguali, poiché gli stessi vizi li dominano.

 

Ed affinché non trascuriate nulla di ciò che ho appena scritto, amati fratelli in Cristo, rileggete questa regola davanti all'intera comunità riunita una volta al mese, vale a dire, alle calende (cioé all'inizio di ogni mese).


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7 ottobre 2018                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net