A SCUOLA DI MANAGER CON SAN BENEDETTO?


 

LO ZEN VENDE

Un articolo che con ironia parla dell’utilizzo di temi spirituali al servizio del “materialismo”

Scritto da Todd Stein nel novembre 1999.

Scrittore freelance ed ex giornalista del Sacramento Bee che vive presso lo Zen Center di San Francisco

Basta chiedere a Lancome, il cui Hydra Zen, “idratante anti-stress per la pelle”, viene venduto a 42,50$ in quasi tutti i negozi. Oppure, se i prodotti di bellezza non sono il tuo genere, fai un giro di prova su un pickup Ford Ranger “in cerca della saggezza sulla cima di una montagna”. Lungo la strada puoi “ringraziare il cielo per la 7-Eleven” e fermarti per una bottiglia di acqua Evian, famosa per la sua “eterna forza vitale”.
O, ancora, puoi “cercare la verità” in un bicchiere di Heineken. Ah, e quando stai sulla cima della montagna, non meravigliarti se vedi monaci tibetani dalle vesti scarlatte aprire il programma Lotus Notes sui loro portatili IBM, due aziende che recentemente si sono “unite in armonia spirituale”. Se non riesci a scorgere monaci sulla cima della montagna, cercali nel campo di basketball. Saranno quelli con la testa rasata e le Nike ai piedi.Oggi, con tanti insegnanti spirituali (veri e finti) impegnati a promuovere beni di consumo – la Apple ha agguantato Gandhi e il Dalai Lama per la sua campagna Think Different (Pensa differente) – forse preferiresti cancellare il viaggio verso la cima della montagna e metterti alla ricerca di un guru nel centro commerciale della tua città. Perlomeno, questo è il messaggio che esce da Madison Avenue in questi giorni.
I pubblicitari stanno vendendo di tutto, dagli hamburger alle automobili, facendo appello, ironicamente, ai nostri desideri più immateriali. “Serenità adesso” non è più soltanto una battuta divertente del telefilm Seinfeld; è la filosofia non detta di un tipo di pubblicità distintiva di questi anni: l’inserzione spirituale. Mettendo in campo un esercito di angeli, saggi illuminati e figure religiose apertamente finte, i pubblicitari sperano di trarre vantaggio dalla ricerca della pace interiore insegnandoci, come afferma il sociologo Bernard McGrane della Chapman University, che “la vita diventa radiosa attraverso il consumo”.

“Se il consumismo è la religione della nostra epoca, la pubblicità ne è la liturgia e il gran sacerdote”, dice McGrane, analista dei media e autore di due libri sulla pubblicità; “È onnipresente come la chiesa del Medio Evo. È ovunque. Permea ogni cosa, inclusi la suola delle scarpe, il retro della maglietta e la macchina che stai guidando”.

Oltre a sostenere che la salvezza deriva dal processo di acquisto e possesso, la pubblicità sta anche cambiando sottilmente il modo in cui concepiamo la spiritualità e noi stessi. Come è già avvenuto per il sesso negli anni cinquanta e sessanta, la pubblicità sta trasformando le nostre più elevate aspirazioni spirituali in lucrose banalità.

Naturalmente, l’appropriazione del linguaggio e delle immagini spirituali per vendere prodotti non è nulla di nuovo. In passato, la Xerox ha usato finti monaci amanuensi per vendere fotocopiatrici, e la Hebrew National Hot Dogs vantava per la propria carne standard superiori a quelli del ministero statunitense dell’agricoltura perché “doveva rispondere a un’autorità più elevata”. Ma le versioni odierne di queste pubblicità sono molto più diffuse e riflettono un crescente interesse verso le cose spirituali, in ogni campo dei consumi: dai bestseller (La profezia di Celestino) agli spettacoli televisivi (Touched by an Angel, “Toccato da un angelo”) fino ai gioielli per teen-ager con le iniziali WWJD (What would Jesus Do?, “Cosa farebbe Gesù?”).

In questo caso, probabilmente Gesù butterebbe la sua TV dalla finestra, cosa che pochi di noi fanno. Quando un americano medio compie 20 anni, ha visto circa un milione di spot televisivi. Per chi è cresciuto nell’era della TV, quei numeri equivalgono a una verità innegabile: sin dall’infanzia siamo stati programmati a cercare l’appagamento attraverso gli acquisti.

Nientemeno che S. I. Newhouse Jr., direttore dei periodici “Conde Nast”, condanna la crescente influenza di Madison Avenue. «I pubblicitari si sono impossessati del mondo», si è lamentato con il “New York Times” l’editore di “Vogue” e “Vanity Fair”. Pochi mettono in dubbio la crescente influenza di questa industria: la pubblicità è forse la principale forza di socializzazione della Terra. L’industria è tanto più influente quanto più è progettata per non apparire tale. Se non usiamo nei suoi confronti un’attenzione critica e consapevole, essa eserciterà su di noi effetti molto potenti. Inoltre, la pubblicità è capace di rendere ogni cosa un elemento dell’universo consumista, persino le professioni di fede antimaterialiste della spiritualità.

Un caso esemplare. Sfogliando qualsiasi rivista femminile recente, si troverà la pubblicità di un nuovo shampoo chiamato Abba. Una modella dalle fattezze angeliche osserva il lettore, mentre la sua bionda chioma è agitata dal vento. Abbastanza ovvio, no? Ma una lettura del testo a fianco suggerisce qualcosa di più. Esso dice che Abba è in grado di “imbrigliare il potere di guarigione della natura”, aiutandoti a “riscoprire che la bellezza autentica sorge dall’interno”.

Hmm. Lasciando da parte la domanda sul perché dovresti comprare uno shampoo per avere ciò che viene solo dall’interno (quello che la pubblicità e i koan zen hanno in comune è la sfida alla logica), analizziamo il “potere di guarigione” di Abba. A un esame più attento, scopriamo che la modella si trova in un deserto. Le sue mani sono aperte in un gesto di supplica; il suo vestito è nero, informe, quasi monacale. Il sole le conferisce un’aureola. Se niente di tutto questo ti ha messo una pulce nell’orecchio, considera che “Abba” vuol dire “padre” in aramaico, la lingua di Gesù. “Abba” è anche la radice del termine onorifico “abate”, usato per indicare gli eremiti del deserto nel cristianesimo primitivo. Il “potere di guarigione” venduto da Abba farà qualcosa di più che curare qualche doppia punta. Non è l’illuminazione, vero, ma cosa vuoi per meno di 10 dollari? Dio in persona?

«La maggior parte dei libri di marketing ti dice di inseguire le aspirazioni che la gente ha in testa», dice Doug Gilmour, presidente della Gilmour Associates, un’azienda pubblicitaria con sede a Larkspur, in California, specializzata in campagne New Age per case produttrici di cibi sani; «Io voglio correre dietro a quelle che stanno nella loro anima».

Che puntino all’anima o al karma (sia Finlandia Vodka che Volkswagen parlano di reincarnazione nelle loro recenti campagne), i pubblicitari sostengono di stare semplicemente rispecchiando l’attuale fascinazione del pubblico verso la spiritualità.

«Non siamo persone ambigue che cercano di manipolarti per farti comprare qualcosa», dice Myra Stark, senior vicepresidente e direttrice di knowledge management alla Saatchi & Saatchi di New York, una delle maggiori aziende pubblicitarie del Paese; «Siamo persone che cercano di capire cosa vogliono dire una marca o un prodotto per un consumatore, e quest’ultimo si connette a quell’immagine oppure no».

Uno studio iniziato l’anno scorso dalla Stark porta a delle conclusioni meno innocenti. Lo studio serviva alla Saatchi & Saatchi per comprendere meglio le convinzioni e l’atteggiamento del consumatore verso la spiritualità, oltre al suo modo di percepire il nome di una marca. Dopo aver definito la spiritualità “un interesse verso le cose dello spirito, i valori e il significato della vita, piuttosto che verso le cose materiali e di tutti i giorni”, spiega la Stark, lo studio ha scoperto che quando le aziende creano con il consumatore un legame emotivamente intenso attraverso l’uso di simboli spirituali, le vendite salgono. Specialmente le vendite, avrebbe potuto aggiungere, di quelle “cose materiali e di tutti i giorni”.

«La realtà dei fatti è che tutti stanno pregando per fare buoni affari», si lamenta Marc Balet, della Balet & Albert, un’agenzia pubblicitaria di New York che annovera tra i clienti Giorgio Armani e Anne Klein; «È come i pantaloni a zampa d’elefante degli anni settanta. Ognuno coglie al volo ciò che è nuovo, ma fra tre mesi saranno passati ai cartoni animati Jetsons».

Forse i pubblicitari sono in malafede quando affermano di essere solo uno specchio della società. Infatti, la gente paga 150 dollari per avere i jeans della marca giusta e le ragazze si riducono alla fame per assomigliare a Kate Moss. Ma saltando sul carro della spiritualità, gli imbonitori sono ormai arrivati all’estremo nell’inseguimento degli interessi della loro principale fonte di guadagno, i Baby Boomers.

In quanto gruppo di bambini più numeroso mai apparso in America, i Boomers sono stati il bersaglio di Madison Avenue sin dall’inizio. Non sorprende che siano cresciuti con l’acuta coscienza di se stessi come consumatori. Oggi il membro più giovane della ex “generazione Pepsi” ha 35 anni, il più anziano 53, e forse per la prima volta nella loro vita stanno guardando in faccia la morte. O, almeno, stanno gettando un’occhiata in quella direzione.

Il risultato, prevedibilmente, è un improvviso ritorno di interesse verso lo spirito. Anche se un numero sempre maggiore di noi volge le spalle alla religione tradizionale, il nostro interesse per la spiritualità è alle stelle. Nei quattro anni tra il 1993 e il 1997, la percentuale di americani secondo cui la spiritualità era una parte importante della loro vita è schizzata dal 58 per cento al 75 per cento: un mutamento statistico straordinario per un periodo di tempo così breve.

“Il terremoto spirituale”, come lo chiama T. George Harris, direttore e fondatore di “Psychology Today”, ha inviato onde d’urto in ogni campo della spiritualità, provocando forme di spiritualità impensabili una generazione fa. L’attuale gruppo di scuole spirituali sembra un Dream Team del perfezionamento di sé: spiritualità della creazione, spiritualità eucaristica, spiritualità dei nativi americani, spiritualità dei Dodici Gradini, spiritualità femminista, spiritualità della Terra (Gaia), spiritualità eco-femminista, spiritualità della Dea e spiritualità degli uomini, per non parlare del tradizionale settore giudeo-cristiano e, naturalmente, del buddismo, il taoismo, l’induismo e tutto l’oriente.

I pubblicitari, che dopotutto fanno parte della cultura, non possono fare altro che prendere nota della nuova mania. E ciò che vedono, lo usano.

«Fondamentalmente, la creazione della pubblicità consiste in uno scrittore e un art director chiusi in una stanza che cercano di tirare fuori centinaia di idee da lanciare sul cliente, sperando che una resti impressa», dice John Lombardi, ex art director della McCann Erickson che si è ritirato dagli affari per lavorare nello Zen Center di San Francisco; «Devono produrre, quindi usano tutto ciò che vedono nel mondo intorno a loro, senza fare distinzioni morali tra l’uso di un ballo swing, un incontro di wrestling o lo zen».

Ma, d’altra parte, la morale non ha mai goduto di grande considerazione tra i pubblicitari.

Lo scrittore Thomas Frank ha dimostrato, nel suo libro The Conquest of Cool, che la grande conquista della pubblicità dopo gli anni sessanta è stata trasferire l’ideale del dissenso dalla dottrina del consumo alla dottrina in sé. Così, la Canon chiama la sua nuova macchina fotografica The Rebel (“La ribelle”), mentre la Burger King ci dice che “ogni tanto dobbiamo infrangere le regole”. Come ha detto il romanziere Jonathan Dee in un recente studio apparso su “Harper’s”: “Il perfetto eroe capitalista è un «ribelle» il cui dissenso è limitato alla scelta dei prodotti da comprare”.

E ciò che funziona per il ribelle funziona per il santo.

Il Dalai Lama occhieggia con benevolenza dai cartelloni pubblicitari ai lati dell’autostrada. Il suo volto gentile irradia la saggezza non solo sua, ma di tutti i Buddha della storia. Egli è allo stesso tempo la personificazione umana di Avalokiteshvara, bodhisattva della compassione; simbolo di tutto ciò che non è avidità, desiderio senza freni e materialismo sconsiderato; vincitore del Premio Nobel e leader del movimento internazionale per il Tibet libero.

E anche testimonial di un’azienda di computer.
Se sei come la maggior parte di noi, la prima cosa che avrai pensato vedendo quel cartellone pubblicitario sarà stata: «Oh, amo il Dalai Lama! Divertente che la Apple lo usi nella sua pubblicità!». Sottinteso: forse la prossima volta comprerò un Macintosh.

«Quello che ha fatto la pubblicità è cooptare i nostri desideri più profondi e usarli per venderci una confezione di pasta, una casa in campagna e l’ultima generazione di computer superveloci», dice Bob Whalley, ministro episcopaliano che tiene lezioni sui media e la spiritualità all’Università di San Francisco; «Si impossessano delle nostre aspirazioni verso l’umanità e la trascendenza per trasformarle in aspirazioni all’acquisto. Se questa è una commedia o una tragedia, dipende dai punti fermi e dalle speranze che nutriamo riguardo l’umanità. Se per noi è okay essere semplici consumatori, benissimo. Ma se pensiamo che tra le caratteristiche dell’essere umano ci sia quella di favorire un senso di comunione e di fratellanza più profonde, e la pubblicità lo impedisce, la cosa è tristissima».

I pubblicitari, naturalmente, preferirebbero che noi vedessimo il loro lavoro come una commedia cosmica; l’umorismo è la loro arma preferita. In una nuova pubblicità della Ford Ranger SuperCab (“Il compact pickup quattroporte più divertente del mondo”), l’uso ironico della meditazione sfiora il ridicolo. Un ragazzo (“Spence”) è seduto a gambe incrociate, con gli occhi chiusi e un sorriso ironico di fronte a una catasta di giocattoli costosi: un completo da sommozzatore, degli sci, una bicicletta, una chitarra elettrica. Sullo sfondo, in cima a una collina, c’è il nuovo pickup, nel cui interno rifulge lo stesso bagliore dorato che avvolge Steve.

Il testo dice: “Spence ha dato un’interpretazione nuova a una filosofia antica. Per essere uno con ogni cosa, secondo lui, devi avere uno di ogni cosa. Ecco perché possiede anche la nuova Ford Ranger. Così può cercare la saggezza sulla cima di una montagna. Parti all’inseguimento dell’illuminazione. E connettiti con la Madre Terra… Steve dice che il pickup gli facilita l’accesso alla pace interiore. Questo fa di lui un’anima felice”.

È facile capire perché l’umorismo è uno degli strumenti fondamentali del mestiere. Ridendo delle irrealizzate aspirazioni spirituali di Spence, la pubblicità ci permette di porre una distanza ironica tra noi stessi e il nostro comportamento, decisamente non illuminato. Il messaggio sotterraneo è: scordati la meditazione, l’unica cosa che conta davvero è avere i giocattoli giusti.

La pubblicità della Ford mostra in che modo i pubblicitari usano questo medium per ridicolizzare la spiritualità. Quando l’ultra materialista Spence scimmiotta un meditatore, o quando la catena di abbigliamento Victoria’s Secret fa sfilare una frotta di top model in biancheria intima, chiedendo: «Che tipo di angelo sei?», non stanno celebrando le speciali qualità della meditazione o degli angeli. Stanno usando queste immagini spirituali per promuovere idee esattamente opposte al loro significato originario. In tal modo, l’assenza di desideri viene correlata al materialismo, la purezza al sesso.

Naturalmente, il sesso è stato oggetto del gioco di scambio dei pubblicitari già da molto tempo prima che questi ultimi pensassero di applicarlo alla spiritualità. Siamo così abituati a vedere spuntare ragazze in bikini nelle pubblicità di automobili e di centri per la salute, che non mettiamo più in dubbio il legame tra il prodotto e la promessa. Questa oggettivazione delle donne (e recentemente degli uomini) al fine di vendere prodotti, ha trasformato il “mysterium tremendum” della sessualità umana a una questione di “culi e tette”, dice Whalley.

Adesso egli teme che correremo lo stesso rischio con la pubblicità spirituale. «Quando il mistero del nostro lato spirituale si sarà trasformato nella pubblicità di un’automobile», dice Whalley, «avremo perso il nostro senso del meraviglioso. Il mondo è allo stesso tempo piccolissimo e immenso, incredibilmente intimo e meraviglioso al di là di ogni immaginazione. Ma quando tutto, perfino la spiritualità, viene ridotto a qualcosa di acquistabile, rimaniamo con dei bocconi inutilizzabili, con i quali non possiamo né digiunare né banchettare».

I pubblicitari si rendono conto del paradosso di usare un messaggio essenzialmente antimaterialista per venderci dei prodotti? Sì e no.

«Sicuramente vedono il paradosso», dice Lombardi, «ma non se ne curano. Non è un bel business; è pieno di gente senza anima. È difficile abbracciare la spiritualità e fare il pubblicitario. Il tuo cliente è la Exxon e la Valdez è appena naufragata sulle coste dell’Alaska: il tuo lavoro è mettere in buona luce questo evento. Oppure il tuo cliente è la Ortho e il tuo lavoro è vendere erbicidi alla gente per il loro giardino, sapendo che non è una buona cosa per loro e per il pianeta.

L’aspetto manipolatorio di questo business non mi è mai andato a genio. I pubblicitari possono farti credere qualsiasi cosa. Potrebbero passare il tempo a cercare di migliorare il mondo. Sono potentissimi: sarebbero davvero in grado di risolvere qualche problema difficile: la droga, le armi, le gang giovanili. Invece, stanno cercando di farti credere che la spiritualità è raggiungibile grazie all’acquisto di prodotti».

Tuttavia, incolpare la pubblicità di tutti i mali del capitalismo è un po’ come pensare che l’ambasciatore porti pena. Si può quasi – quasi – provare pena per questi imbonitori, che vengono sempre rimproverati di svolgere il proprio lavoro. Ma anche se non riuscissimo a provare compassione, dobbiamo ammettere che non tutto nella pubblicità è negativo. Essa può essere divertente (la ragazzina della Pepsi che imita Marlon Brando) o toccante (i “Momenti memorabili” della Kodak). Ogni tanto, la pubblicità può persino aiutare la ricerca spirituale.

Gli esseri umani, dopo tutto, hanno bisogno di una mano nella lunga, difficile strada dell’autorealizzazione o dell’illuminazione. Finché sappiamo che il cibo o i vestiti che compriamo sono solo un sostegno per il cammino, possiamo usarli nello spirito dei biscotti di latte in polvere di Garrison Keilor, i quali “ti danno la forza di fare ciò che va fatto”. Questo “programma di viaggio” favorisce una specie di consapevolezza-manna che ci aiuta ad attraversare il deserto spirituale senza paura di morire di fame.

Inoltre, i pubblicitari non sono tutti spettri affamati che cercano di allontanarci dal cammino. Doug Gilmour, per esempio, è sincero quando dice di fare appello all’anima della gente. La sua pubblicità “Tu sei energia; l’energia è te” per la Clifbar, la popolare barretta di proteine, è nata dalla sua fiducia nell’ideale del “maschio guerriero maturo, ma umile membro della comunità”, come dice lui.

Però, anche se non esiste una vasta cospirazione finalizzata a ridicolizzare o negare le nostre motivazioni spirituali, la nuova pubblicità spirituale è certamente il prodotto di molte piccole cospirazioni involontarie. L’effetto cumulativo di decisioni individuali di copywriter e creativi della pubblicità supera abbondantemente le loro aspettative e i loro progetti. Come i giornalisti di guerra che basandosi sulle fonti governative si trasformano in poco più che strumenti di propaganda, i pubblicitari hanno assorbito senza molta riflessione i temi non-materialisti della spiritualità, svisandoli in una sorta di equivoco Grande Fratello.

Forse il ritratto più chiaro delle conseguenze di questa nuova anti-teologia è apparso nel film Network, in cui il direttore televisivo interpretato da Ned Beatty pontifica sulla sua particolare visione orwelliana del futuro. Alzando le mani verso il cielo e sorridendo di soddisfazione, Beatty prevede una vasta rete di aziende globali i cui prodotti soddisferanno istantaneamente ogni desiderio del consumatore, assicurando “la scomparsa di tutte le ansie”.

Meditazione? Perché non piuttosto una Pepsi?


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21 giugno 2014                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net