SOLITUDO PLURALIS:

LA VITA SOLITARIA IN OCCIDENTE

André Louf O.C.S.O.

Estratto da “La solitudine: grazia o maledizione?” – Edizioni Qiqajon 2001

 

Il titolo di questo intervento [1] è tratto da un celebre opuscolo di Pier Damiani, curiosamente intitolato Dominus vobiscum [2], in cui l’autore, partendo da un dettaglio dell’osservanza liturgica, sviluppa una considerevole dottrina sulla posizione della vita eremitica nella chiesa. L’espressione “solitudine plurale” ci suggerirà alcune riflessioni sulle implicazioni comunitarie di una vocazione cristiana alla solitudine.

Il caso di coscienza dell’eremita al quale Pier Damiani risponde non ha niente di sconvolgente: chi celebra l’ufficio in solitudine ha o no il diritto di proferire le parole Dominus vobiscum? Se sì, perché? E in che senso? Non si troverebbe così ad “augurare la presenza del Signore alle pietre o ai mobili della sua cella”? Si tratta dunque di quello che oggi chiameremmo un problema di “verità” della celebrazione liturgica: questioni alle quali siamo diventati particolarmente sensibili.

La risposta di Pier Damiani è semplice e netta. Non soltanto l’eremita ha il diritto di servirsi delle parole consuete della liturgia, ma è assolutamente necessario che lo faccia. In primo luogo perché queste parole sono quelle che la liturgia prevede, ma soprattutto perché esprimono una realtà profonda della sua vita: anche se solo, il solitario non è mai isolato, è sempre unito agli altri, la sua solitudine è in un certo senso necessariamente plurale. Attraverso la forza di adesione dell’amore - caritatis glutinum - il solitario si trova unito a tutti i suoi fratelli; e questo in un modo quasi sacramentale: per mysterium sacramenti, per unitatis inviolabile sacramentum. In lui si realizzano così due qualità fondamentali che la chiesa riceve dallo Spirito santo: quella che unifica e quella che diversifica. La chiesa è nel contempo una e universale: essa comprende sempre la totalità delle persone, e le riconduce all’unità del corpo di Cristo. Nello stesso tempo, là dove essa unisce a sé l’individuo, lo mette in relazione con l’universalità dell’insieme. Essa è solitaria - poiché è l’unica sposa di Cristo - e insieme molteplice, poiché deve irradiare la propria luce a tutti gli uomini. La sua solitudine va dunque intesa al plurale, così come la sua diversità dev’essere compresa al singolare.

L’implicazione di una simile dottrina per la liturgia eremitica è di immediata evidenza: ciò che l’eremita celebra da solo si ripercuote sulla chiesa intera. “È giusto dunque che quanto, nelle celebrazioni liturgiche, è compiuto singolarmente da un qualunque fedele, la stessa chiesa mostri di compierlo unanime, in virtù dell’unità di fede e dell’amore di carità”[3].

Nella preghiera un gesto meramente solitario non è più possibile. In virtù del sacramento ecclesiale, ogni solitario è come se portasse sempre con sé la comunità ecclesiale. Il suo incarico riguarda la chiesa nel suo insieme: è investito di un officium universitatis. Gli eremiti, anche se lontani con il corpo, sono più che mai presenti - praesentissimi - alla chiesa. Coniando un’espressione che non si vergogna di trarre da ciò che poteva conoscere della filosofia greca, Pier Damiani arriverà a dire che l’eremita può essere chiamato minor ecclesia o micro-chiesa, una chiesa in miniatura che, in comunione con tutti gli altri membri, possiede già in se stessa tutti gli elementi essenziali del suo mistero.

Gli è dunque facile risolvere, senza grande difficoltà, il piccolo problema rituale che gli è stato sottoposto. Nello stesso tempo Pier Damiani ha affrontato una delle questioni fondamentali di ogni esperienza eremitica, e l’ha chiarita con la sua potente visione teologica. Si tratta del problema costituito da quella che si potrebbe chiamare la continua oscillazione tra solitudine e vita fraterna, l’andirivieni tra l’una e l’altra e, infine, l’alleanza e l’equilibrio che s’instaurano progressivamente tra esse nella vita di un singolo eremita.

 

Solitudine e vita fraterna

Fin dagli inizi della storia monastica il problema si è posto con grande urgenza. Si renderà necessaria la brillante trattazione, sotto forma di apologia, del vescovo di Alessandria in persona, Atanasio, nella sua Vita di Antonio, per dar credito alla scelta degli eremiti, fino a quel momento giudicata eccentrica, di isolarsi dalla comunità parrocchiale per ritirarsi in solitudine. E tutta l’abilità teologica dell’autore consisterà nel fatto di provare come, attraverso il crogiolo della solitudine, Antonio finisca per essere investito di una paternità universale che lo rende ancor più disponibile verso tutti gli uomini, senza mettere in pericolo la solitudine più radicale, quei deserti interiori, che egli continua ad amare e a ricercare prima di ogni cosa.

Numerose tracce della stessa problematica le si può rinvenire negli apoftegmi. Tutto il corpus attribuito ad Arsenio, per esempio, si propone di spiegare come questi possa essere così amante della solitudine senza tuttavia venir meno alla carità. Il problema vi è analizzato sotto ogni possibile angolatura. Anche l’intellettuale Evagrio non potrà evitare la questione, benché si limiti a rispondervi con un aforisma, alla sua maniera, ma che apre prospettive immense: “Monaco è colui che è da tutti separato e con tutti armonicamente unito”[4].

Cassiano erediterà a sua volta lo stesso problema, che ricorre nelle sue Conferenze. Affascinato dall’ideale dell’estrema solitudine, del quale ha incontrato alcuni esempi eccezionali nel corso delle sue peregrinazioni, egli ne misura però tutti i rischi. D’altronde scrive per dei cenobiti, pochi dei quali saranno chiamati a simili imprese. Da cui quella perenne esitazione che sembra percorrere la sua opera: Cassiano si compiace di descrivere nei dettagli tanto i vantaggi quanto i rischi dell’uno e dell’altro ideale di vita.

Nella maggior parte dei casi tuttavia, la soluzione non sarà quella di scegliere uno dei due generi di vita a esclusione dell’altro, ma piuttosto di combinare il più sapientemente possibile i vantaggi di entrambi, per ridurne i rispettivi rischi. Vale la pena di citare quel testo di Gregorio di Nazianzo nel quale egli rievocherà così l’opera monastica di Basilio:

 

La vita eremitica e quella cenobitica contrastano l’una con l’altra, dal momento che si differenziano nella maggior parte dei loro aspetti, e nessuna delle due presenta in modo completo o vantaggi o svantaggi senza che essi si intreccino fra loro. La prima, infatti, è più tranquilla, stabile e in armonia con il Signore, ma non senza superbia, a causa del possesso di una virtù che sfugge a ogni misura e confronto; la seconda, invece, è più attiva e più utile, ma non si sottrae alla confusione. Basilio conciliò al meglio l’un con l’altro questi generi di vita e li mescolò, costruendo, sì, luoghi di ascesi e monasteri, ma non lontano dai centri in cui si vive in una società mista; non li delimitò con una specie di muro centrale né li divise l’uno dall’altro, ma li dispose più vicini, uniti e distinti, cosicché non ci fosse vita contemplativa senza quella attiva né vita attiva senza quella contemplativa, nello stesso modo in cui terra e mare cedono l’una all’altro in uno scambio reciproco le proprie cose, concorrendo all’unica gloria di Dio[5].

 

Le modalità pratiche di quest’alleanza varieranno all’infinito. Ma sempre, in un modo o nell’altro, la ricerca della solitudine non escluderà interamente un certo esercizio concreto della carità. Ci potranno essere dei tipi di vita più solitari, come quello descritto da Rufino nella sua Storia dei monaci, in termini che d’altronde fanno presentire quelli impiegati in seguito da Pier Damiani: “Restano dispersi nel deserto e in celle separate, ma uniti dalla carità”. I motivi addotti da Rufino a favore di tale accentuazione della solitudine sono già quelli dell’esicasmo: “Essi sono così separati quanto all’abitazione affinché, meditando le cose di Dio nella calma del silenzio e nell’applicazione dello spirito, nessuna voce, nessun incontro, nessun discorso ozioso li disturbino”. Restano tuttavia insieme, ma senza alcun danno per la solitudine: “Pur formando una moltitudine, vivono come dei solitari. Tutto il loro modo di vivere consiste nel fatto di essere insediati in gruppo, come se vivessero nel deserto”. La domenica si radunano per celebrare fraternamente la gioia della risurrezione [6].

Dalla parte opposta, l’equilibrio preconizzato da un Doroteo di Gaza è più sottile e sfumato. Secondo lui, che si richiama d’altronde all’insegnamento degli antichi padri, “metà della vita monastica consiste nel rimanere in cella, l’altra metà nell’incontrare gli anziani”. Il clima è subito più cenobitico, sembrerebbe, anche se si continua a sottolineare l’importanza della cella. Doroteo si sforza di spiegare perché il monaco debba ogni tanto anche lasciare la propria cella per andare a trovare altri fratelli. Egli intravvede tre motivazioni per questo: la prima è la carità. Doroteo si limita a ricordare a questo proposito un antico apoftegma, che si ritrova già in Tertulliano, prima ancora che nei detti degli antichi padri: “Quando vedi il tuo fratello, vedi il Signore Dio tuo”. La seconda motivazione ci appare oggi di una modernità sorprendente: Doroteo constata che la parola di Dio è più facilmente ascoltata quando parecchi fratelli la condividono tra di loro. La terza motivazione riguarda il discernimento spirituale: la solitudine può essere fonte di illusione. A questo riguardo l’incontro con i fratelli giocherà il ruolo di un’occasione di verifica. Al solitario esso rivela il suo vero stato, “la cella infatti eleva lo spirito, ma gli uomini mettono alla prova”. Spesso da simili incontri all’eremita parrà di aver subito qualche danno, ma egli in profondità ne avrà tratto guadagno, se avrà saputo approfittarne per crescere nell’umiltà: “Egli riconosce la propria debolezza, riconosce di non aver ancora imparato nulla dalla solitudine e rientra umilmente nella propria cella, versa lacrime, fa penitenza, invoca Dio a soccorso della propria debolezza e rimane così tranquillo in cella vegliando sul suo cuore” [7].

Molto presto, in oriente, farà la sua comparsa un tipo di vita particolare, che Giovanni Climaco [8] consacrerà con il nome di “via media”, o “via regale”, tra l’eremitismo e il cenobitismo più rigorosi, consistente nella vita solitaria condotta a piccoli gruppi di monaci riuniti attorno a un padre spirituale. L’ideale, magnificamente rilanciato da Nil Sorskij nella Russia del XVI secolo [9], sopravvive ancor oggi nell’ortodossia.

 

La via regale

L’occidente non ha ignorato questa via, anche se l’ha vissuta secondo modalità leggermente diverse. Anche in occidente saranno eccezionali gli eremiti rigidamente e completamente solitari. Un buon conoscitore dell’eremitismo occidentale ha potuto scrivere: “Uno dei caratteri dell’eremitismo nel medioevo è che raramente fu individuale” [10]. Nel momento in cui parte una vita eremitica, o al suo punto d’arrivo, fa capolino quasi sempre un legame fraterno ed ecclesiale, che tende ad assumere una certa importanza. Un attento studio dei documenti che riguardano la reclusione, forma tipicamente occidentale della vita solitaria, basterebbe, ad esempio, a provarlo. La Regala solitariorum di Grimlaico è significativa a questo riguardo. Il recluso al quale egli si rivolge raramente è solo, e i legami che lo uniscono al suo o ai suoi compagni di reclusione possono apparire più impegnativi di quelli che uniscono tra loro i cenobiti, forzatamente più numerosi, di un grande monastero [11].

Alcuni secoli più tardi, la Ancren Riwle [12] presenta una situazione molto simile in Inghilterra. Vi si trovano tre recluse che abitano insieme, ciascuna nella sua cella particolare, certamente, ma ciascuna delle celle è dotata di tre finestre: una si apre sulla chiesa, una sulla cella vicina, e infine una terza si apre sull’esterno; attraverso quest’ultima i visitatori possono essere accolti e ascoltati. Tale elemento comunitario nella vita delle recluse sembra d’altronde di un certo peso, perché l’autore del documento ci tiene a felicitarsi con le destinatarie per la grande concordia e unità di spirito che regna tra di loro, e che ne fa, a suo avviso, il gruppo di recluse più pacifico che egli conosca in Inghilterra, tra venti altri che frequenta abitualmente.

Bisogna ora risalire più indietro nel tempo per ritrovare le origini, in occidente, di quest’equilibrio tra vita solitaria e condivisione fraterna. Secondo Eucherio di Lione, è agli antichi padri di Lérins che l’occidente deve l’usanza, che lui qualifica come egiziana, di vivere insieme ma in celle separate: “Quei vecchi asceti, con le loro cellette separate, hanno introdotto i padri egiziani fra i nostri galli”[13]. E tuttavia, la comunità di Lérins conserva veramente l’aspetto di una chiesa che, si potrebbe dire, vive in comune questo ideale del deserto. Lo stesso Eucherio le si rivolge come a un sanctorum coetus conventusque (adunanza e convenire di santi). E Sidonio Apollinare, in una lettera a Fausto, anziano monaco di Lérins, di recente eletto vescovo, ricorderà la santa compagnia dei solitari che ha appena lasciato, con gli appellativi di congregatio eremiis o di senatus Lirinensium cellulanorum [14]. L’abbondanza e la precisione di questo vocabolario comunitario provano fino a qual punto la solitudine condivisa, o, se si vuole, la solitudine plurale, corrispondesse già allora a una grazia particolare, i cui elementi costitutivi erano già correttamente compresi dagli uomini di quei tempi.

Molto più tardi il movimento riformatore dei secoli XI e XII porterà a una nuova accentuazione della solitudine nell’esperienza monastica. Questo movimento è caratterizzato, tra l’altro, da un ritorno al deserto: l’eremo vi diventa segno e garanzia di autenticità. Eppure, più che mai, tale deserto è segnato anche dall’esigenza fraterna. Da un lato, il forte movimento eremitico, nato nei boschi e nelle paludi, tende a organizzarsi molto spesso in vita cenobitica.

A titolo di esempio tra molti altri si possono citare i monaci di Obazine che la Cronaca omonima presenta come monachi ex eremitis effecti [15]. Ma soprattutto quest’epoca vedrà la nascita di svariati tipi di vita eremitica in comune, alcuni dei quali hanno continuato a esistere fino a oggi.

Nel XII secolo un canonico regolare, Rambaldo di Liegi, cerca di veder chiaro in questa grande mescolanza di tendenze e di osservanze. Egli distingue tre famiglie tra i monaci. I primi abitano tra gli uomini, e i cluniacensi ne sono un perfetto esempio. I secondi si stabiliscono lontano dagli uomini, e si pensa ai cistercensi. Infine, in terzo luogo, vengono annoverati gli eremiti che vivono soli o in piccoli gruppi[16]. Anche se tendono a vivere completamente soli, non si esclude la condivisione fraterna. Lo attesta la Vita di san Bernardo di Tiron, nella quale una descrizione della vita eremitica ai confini della Bretagna documenta come i solitari più ritirati si ritrovino di quando in quando per deliberare in comune, more concilii [17].

Ma bisognerebbe soprattutto prendere qui in esame il movimento eremitico che, attraverso alcuni maestri carismatici come Stefano di Muret, Romualdo e Bruno, arriverà all’istituzione di veri e propri ordini religiosi, il cui carisma consiste in questa delicata alchimia tra l’attrazione per la vita solitaria e l’attrazione per la vita fraterna. Indubbiamente la loro venuta era stata preparata. Jean Leclercq ha ricordato a suo tempo quest’eremitismo sul modello delle laure, ancor oggi poco studiato, ma che doveva essere molto diffuso nella penisola italiana durante l’alto medioevo, e del quale un esempio illustre è costituito dal monte Luco, situato non lontano da Spoleto, al quale si è potuto dare il nome di “Tebaide italiana”, e sul quale c’erano alcune laure accanto a dei cenobi [18]. Questi preparativi sfoceranno nel movimento di Romualdo.

Grazie a Pier Damiani, conosciamo abbastanza bene le intenzioni di Romualdo quando questi intraprende la sua campagna di riforma della vita eremitica. Romualdo ha riconosciuto la grazia che egli stesso aveva ricevuto, ritrovandola perfettamente formulata nelle Vitae Patrum [19]. Questo riferimento è importante: situa la sua opera nell’alveo della grande tradizione. Da essa egli ha attinto quell’immagine della vita eremitica che sta ormai per diffondere. La vita eremitica è quella, ricorda Pier Damiani, di fratelli che digiunano in solitudine per tutta la settimana (singulariter ieiunantes), ma che si radunano (pariter conveniunt) il sabato e la domenica per qualche momento di distensione fraterna [20]. Romualdo ritiene che tale ritmo di vita monastica sia ormai quello ideale: esso coniuga una preponderanza netta accordata alla vita solitaria con un’apertura discreta ma positiva alla vita fraterna. Egli tenta d’imporre questo ideale anche agli abati dei grandi monasteri cenobitici dei quali intraprende la riforma: una settimana di cella in solitudine inframezzata da un giorno destinato alla visita e all’accoglienza dei fratelli [21]. Ovunque Romualdo passi con il suo zelo riformatore, propone lo stesso equilibrio. Da una parte, raduna i fratelli sotto un superiore e una regola comune, nell’obbedienza [22]; dall’altra li separa, ciascuno in una cella individuale [23].

Tra le numerose fondazioni sparse lungo tutto il tempo del peregrinare di Romualdo, quella di Camaldoli era destinata a un particolare successo. La codificazione più antica delle usanze di questo deserto, che noi dobbiamo a Rodolfo di Camaldoli [24], ha conservato un’immagine abbastanza fedele del ritmo abituale nei monasteri di Romualdo. Accanto ai reclusi, che lasciano il loro eremo solo in casi eccezionali, gli altri eremiti frequentano la chiesa per partecipare alle liturgie solo la domenica e in occasione delle grandi feste. In quegli stessi giorni la refezione è in comune. Un’esortazione spirituale al capitolo è riservata unicamente alle grandi feste.

Nella stessa epoca, una fondazione è alla ricerca di un equilibrio analogo: quella che Bruno realizza nel deserto della Chartreuse, e le cui usanze saranno codificate dopo di lui da Guigo. Si tratta certo di una ricerca, e che non ha probabilmente mancato di suscitare stupore e riserve. Nella sua Lettera d’oro, indirizzata ai certosini di Mont-Dieu, Guglielmo di Saint-Thierry si prende ancora la briga di ricordare che lo straordinario equilibrio certosino tra solitudine e vita fraterna affonda le radici in un’antichissima tradizione della chiesa: “Ma questa novità non è una nuova vanità. Essa infatti è la sostanza dell’antica vita religiosa, è la perfezione della pietà fondata da Cristo, l’antica eredità della chiesa di Dio”[25], e di aggiungere che questo genere di vita rappresenta la luce dall’oriente - orientale lumen[26] - che viene, attraverso le usanze certosine, a scacciare le tenebre dell’occidente.

Da molti punti di vista, perfino nel rituale che installa il novizio certosino solennemente nella sua cella, la solitudine certosina, strettamente legata allo spazio dell’eremo e del suo piccolo giardino, ricorda quella dei reclusi. Salvo per gli uffici, ai quali in origine ci si reca in comune solo due volte al giorno, il certosino di rado ha un motivo sufficiente per uscire dalla propria solitudine. Anche la celebrazione della Messa sarà piuttosto rara, poiché la preoccupazione della solitudine e della quies prevale su tutte le altre. Per contro, le domeniche e i giorni di festa si trascorrono all’incirca come nei monasteri cenobitici, e questa porzione di tempo, quantitativamente ristretta, riservata alla vita fraterna sarà sempre custodita con grande attenzione. Ecco, per esempio, in che termini Innocent Le Masson giustificherà nel XVII secolo la pratica degli “spaziamenti” o passeggiate comunitarie:

 

Ci sono proporzioni e misure da osservare nella solitudine e nel silenzio per poterli vivere bene e per renderli adeguati alle possibilità degli uomini, le menti dei quali, così come i loro corpi, non possono adattarsi a ciò che è eccessivo. Per questo bisogna guardarsi bene dal seguire in questo campo quello che una teoria fervorosa potrebbe raffigurarsi, a meno che non si voglia cadere nell’impotenza a servirsi della propria mente e del proprio corpo, divenendo così inutili alla comunità e un peso a se stessi. L’esperienza ha fatto toccare con mano questa verità nell’ordine certosino, ed è per questa ragione che al posto di tutti i colloqui che si tenevano una volta con gli ospiti, si fa una passeggiata, che è stabilita ogni settimana, e che si chiama “spaziamento”, per la quale a nessuno dei nostri viene data l’esenzione, e non permettiamo neanche che qualcuno se ne assenti senza una causa legittima, che meriti che il superiore ne dia il permesso, perché si ritiene che tale passeggiata sia un mezzo e un’osservanza che aiuta a mettere in pratica tutte le altre [27].

 

In certosa appare fin dagli inizi un’altra forma di condivisione fraterna: il desiderio di irradiare oltre che con la preghiera anche con un’attività concreta, che non adombri tuttavia la solitudine: la trascrizione dei manoscritti. Un altro autore certosino, Adamo Scoto, vedrà in questo lavoro un’attività tipicamente eremitica, opera immortale al servizio del bene spirituale di tutti: “opera specifica ... dei reclusi certosini”[28].

Tutte queste strutture comunitarie, anche quando assumono una grande visibilità, rimangono tuttavia interamente al servizio della vita solitaria. Questo va sottolineato. L’esempio forse più impressionante di questo fatto si ha nella persona del superiore di questa piccola fraternità eremitica. A causa della sua carica, egli è interamente al servizio del bene comune del gruppo. Deve però, prima di ogni altra cosa, essere l’esempio vivente di tutte le virtù tipiche dello stato eremitico, virtù che egli deve esprimere in sé “come fossero incise nella sua carne dalla santità”[29]. Secondo l’autore del Liber haeremiticae regulae, o Costituzioni lunghe di Camaldoli, che abbiamo appena citato, questa lista di virtù eremitiche è lunga e impressionante. Guigo il certosino è più sobrio, ma non meno incisivo. A proposito del priore, egli ricorderà l’essenziale: “Offra a tutti un esempio di pace interiore e di solitudine”[30]. Quest’esempio sarà talmente esigente che Guigo chiederà al priore della Chartreuse di non uscire mai dai confini del deserto, per nessun motivo. In tal modo, colui che è il simbolo e il centro stesso della vita fraterna, il priore della comunità eremitica, diventa anche una sorta di segno e di sacramento della clausura.

Si può osservare a questo proposito come Stefano di Muret richieda un’analoga esemplarità al superiore della sua fondazione:

 

Il vostro pastore si guardi assolutamente dall’andarsene fuori della cinta di Grandmont, salvo che vi sia spinto da un’inevitabile necessità. Sappia con certezza che finché egli si lascia legare dalla catena di Cristo e non vuole vagare per il mondo, nessuno dei suoi discepoli oserà essergli disobbediente ... Infatti quello stesso Signore dal cui amore il pastore sarà stato avvinto terrà avvinti anche i discepoli [31].

 

L’esempio cistercense

Prima di concludere questa breve panoramica, è il caso di segnalare un altro ambiente, questa volta cenobitico, nel quale riscontriamo, intorno alla stessa epoca, un’analoga preoccupazione di raggiungere un certo equilibrio tra i valori della solitudine e quelli della condivisione fraterna. Si tratta dei cistercensi del XII secolo, molto segnati, sembrerebbe, dai luoghi desertici nei quali erano venuti a insediarsi. La preoccupazione per un tale equilibrio si esprimerà all’incirca con lo stesso vocabolario del quale si erano già serviti gli eremiti che vivevano nelle laure. Per convincersene, basta mettere in parallelo due testi. Nel primo un certosino, nella sua Vita dì sant’Ugo di Lincoln, descrive l’armonia raggiunta su questo punto dalla certosa. Nel secondo Guglielmo di Saint-Thierry rappresenta un equilibrio molto simile riportando l’esperienza dei primi cistercensi di Clairvaux.

Ecco come il giovane Ugo di Lincoln fa il suo primo incontro con la Chartreuse. L’immagine che l’ha colpito, e che sarà poi all’origine della sua vocazione, unisce mirabilmente i due aspetti, quello della solitudine e quello della condivisione:

 

I loro statuti raccomandano non l’individualismo, ma la solitudine. Le loro celle sono separate, ma i loro cuori uniti. Ciascuno abita per suo conto, e nessuno possiede qualcosa di proprio. Tutti vivono isolatamente e nondimeno ciascuno agisce con la comunità. Si è soli, e si evitano così gli inconvenienti della vita sociale, ma si vive in comune per non essere del tutto privati del sollievo che procura la comunità dei fratelli. Tutto questo attirava Ugo, ed egli volle abbracciare a qualunque costo la vita certosina [32].

 

 Guglielmo di Saint-Thierry scopre nella vita cistercense, quantunque essa sia concretamente così diversa dalla solitudine certosina, un’alleanza simile tra solitudine e condivisione:

 

La solitudine di quel posto, fra le ombre dei boschi e le gole delle montagne vicine da una parte e dall’altra, dove si nascondevano i servi di Dio, ricorda in certo qual modo la famosa grotta del nostro santo padre Benedetto ... anche se in tanti, lì erano tutti solitari. La valle era piena di gente, ma la carità regolata in modo ordinato la rendeva solitaria per ognuno di loro ... grazie all’unità di spirito e alla legge del silenzio imposta dalla regola, gli uomini vivevano in una massa ordinata, e per ognuno di loro quell’ordine bastava da solo a proteggere la solitudine del suo cuore[33].

 

Cîteaux, nel XII secolo, era appunto questa vita comune, ma condotta nel deserto, e che, grazie al rigore del silenzio, ricuperava e rendeva possibile un’autentica esperienza eremitica ed esicasta. Ecco d’altronde come un altro cistercense, Guerrico d’Igny, scopre e descrive lo stesso equilibrio:

 

Senza dubbio per una straordinaria grazia della divina provvidenza si è provveduto perché in questi nostri deserti ci sia per noi la quiete della solitudine senza che tuttavia ci manchi la consolazione di una compagnia gradita e santa. È lecito a ciascuno sedere da solo e restare in silenzio, tanto da non avere nessuno che gli rivolga la parola; e tuttavia non si può dire: guai a chi è solo, perché non ha chi lo riscaldi, o chi lo sollevi se cade. Siamo in mezzo a molti uomini e siamo senza confusione. Viviamo come in una città, ma non ne subiamo il rumore, che ci impedisca di ascoltare la voce di uno che grida nel deserto, se conserviamo un silenzio interiore pari a quello esteriore[34].

 

Il parallelismo impressionante tra queste due spiritualità, certosina e cistercense, tutte e due insieme eremitiche e fraterne, eppure così diverse fra loro quanto al genere di vita concreto, è una prova ulteriore di quello che queste poche righe vorrebbero mettere in evidenza: l’altra faccia evangelica che si cela in ogni solitudine è la vita fraterna, che prima o poi finirà in qualche modo per trasparire. E ora possiamo aggiungere: l’altra faccia evangelica che si cela in ogni vita veramente fraterna è la solitudine in Dio e a causa sua, alla quale essa deve sempre condurre.

 

Conclusioni

In breve, per concludere, da qualunque lato la si osservi, l’esito della solitudine cristiana è una pienezza di comunione; è una solitudine sempre plurale: solitudo pluralis. La cella, secondo Pier Damiani, è conclave sanctae Ecclesiae [35]. Si persevera in essa non per se stessi, ma, come dice Stefano di Muret, al servizio di tutti: “Vi è però una grande sapienza e una grande misericordia nel fatto che, finché possono riposare nell’intimità di Dio, essi rimangano là a utilità comune” [36].

E il coronamento della solitudine, il suo frutto maturo, è la dolcezza dell’amore, quella di cui Dio ha colmato il solitario e che ora, attraverso di lui, è disponibile a tutti gli uomini. Il vero solitario finisce per apparire come un mite tra i miti. Egli irradia la pietas, quella mitezza che l’autore del Libro della Regola eremitica raccomanda come virtù eremitica indispensabile, quella “accogliente compassione del cuore che si china con misericordiosa umanità sulla debolezza dell’altro” [37].

Essa eguaglia la gratuità dell’amore cantato da Guigo, e che non trova altra ragion d’essere che la sua stessa mitezza: “Si deve bere l’amore gratuitamente, in ragione della sua stessa dolcezza, come un nettare delizioso” [38].

 

 

DICHIARAZIONE DI SAINT DAVID [39]

SULLA VITA EREMITICA

La vita eremitica, condotta nella preghiera e nel silenzio in presenza di Dio, una vita che non ha mai smesso di esistere nell’oriente cristiano, è sempre più riscoperta oggi nelle chiese d’occidente. Noi ci rallegriamo di questa nuova tendenza discernendovi un segno della grazia di Dio, e crediamo che la nostra esperienza comune della vocazione eremitica costituisca un fortissimo legame di unità tra le nostre tradizioni separate.

Nel corso dei dibattiti, abbiamo prestato particolare attenzione ai seguenti punti:

1.    La vita del solitario, benché implichi una separazione esteriore dalla società, è pur sempre, nel contempo, una vita condotta in comunione profonda con la chiesa intera e tutta l’umanità. Rimanendo “alla frontiera”, separato da tutti, l’eremita è nello stesso tempo unito a tutti. Vivendo sovente in condizioni di estrema semplicità e povertà, il solitario (o la solitaria) s’identifica con tutti gli uomini nella loro precarietà e nella loro indigenza davanti a Dio.

2.   L’eremita ha la vocazione di sperimentare, con un’immediatezza tutta particolare, il mistero della morte e della risurrezione di Cristo, mistero nel quale tutti i cristiani sono chiamati a entrare.

3.   L’esistenza di eremiti che vivono - geograficamente parlando - in disparte rispetto alla società, aiuta quelli che vivono nel mondo a prendere coscienza della dimensione di solitudine delle loro vite. Perciò l’anacoreta è un segno per tutti gli uomini, come per la chiesa. In virtù della sua vicinanza all’ambiente naturale concreto, la vita eremitica può aiutare la nostra epoca a ritrovare un rapporto più equilibrato con il mondo materiale.

4.   Oggi, come nel passato, la vocazione eremitica presenta una grande varietà di forme; il grado d’isolamento fisico, in particolare, può variare molto a seconda dei casi individuali. La “skiti”, o piccola fraternità di preghiera e di silenzio, può giocare un ruolo importante come via intermedia tra la comunità e l’eremita.

5.   Tale diversità di forme implica che si debba dar prova di flessibilità, in una misura eccezionale, nell’accompagnamento spirituale degli eremiti. Come suggerisce l’esperienza della chiesa ortodossa, non è sempre necessario che la guida sia il superiore della comunità. Benché il solitario resti sotto l’obbedienza di quest’ultimo, la direzione personale della sua vita interiore può essere affidata a volte a qualcun altro.

6.   Il discernimento degli spiriti è della massima importanza per riconoscere l’autentica vocazione alla solitudine. È evidente che si tratta di un genere di vita che esige una grande maturità, sia psicologica che spirituale.

La ricchezza spirituale che abbiamo scoperto, in questi giorni vissuti insieme, ci spinge a pensare che questo argomento richieda uno studio più approfondito, insieme storico e teologico, e che la formula delle piccole riunioni informali, nelle quali un’esperienza di vita può essere condivisa e apprezzata, si riveli estremamente vantaggiosa.

Seguono le firme di padre André Louf, abate di Mont-des- Cats (Francia), di madre Mary Clare, superiora del Convento dell’Incarnazione a Fairacres (Oxford), dell’archimandrita Kallistos Ware (Oxford) e del canonico Donald Allchin (Canterbury).

 

 


[1] II testo di questa comunicazione è stato pubblicato in Collectanea Cisterciensia 1 (1976), pp. 29-39.

[2] PL 145,231-252, specialmente le coll. 235-240.

[3] “Dignum ergo est ut quidquid in sacris officiis a quibuscumque fidelibus particulariter agitur, hoc ipsa Ecclesia per unitatem fidei et caritatis amorem unanimiter agere videatur”: Pier Damiani, Dominus vobiscum 7, PL 145,237; tr. it. in Il libro chiamato Dominus Vobiscum indirizzato all'eremita Leone, a cura di G. Cenedese, Piemme, Casale Monferrato 2001, p. 71.

[4] La preghiera 124, pp. 134-135.

[5] Orazione 43,62, in Gregorio di Nazianzo, Tutte le orazioni, pp. 1097-1099.

[6] Cf. Rufino di Aquileia, Storia di monaci, Città Nuova, Roma 1991, p. 160 e passim.

[7] Lettera 1, in Doroteo di Gaza, Scritti e insegnamenti spirituali, a cura di L. Cremaschi, Paoline, Roma 1980, pp. 227-228.

[8] Cf. Giovanni Climaco, La scala del paradiso 1,6, p. 53.

[9] Cf. G. Maloney, La spiritualité de Nil Sorsky. L’hésychasme russe, Abbaye de Bellefontaine 1978 (Spiritualité orientale 24); Saint Nil Sorsky (1433-1508). La vie, les écrits, le skite, par S. Jacamon et A. Louf, Abbaye de Bellefontaine 1980 (Spiritualité orientale 32); AA.VV., Nil Sorskij e l'esicasmo, Qiqajon, Bose 1995.

[10] J. de Trévillers, Sequania monastica II, Vesoul 1955, p. 101.

[11] Cf. Regula solitariorum 15-17.24, PL 103,592-596; 605-607.

[12] Ancren Riwle o “regola delle recluse”. Si tratta di un’opera anonima di grande interesse. Si pensa che sia stata composta, tra il 1135 e il 1154, da san Gilberto di Sempringham, per tre recluse che abitavano nei dintorni di Londra [N.d.T.].

[13] “Divisis cellulis Aegyptios Patres Gallis nostris intulerunt”: De laude eremi 42, in Eucherio di Lione, Elogio della solitudine. Rinuncia al mondo, a cura di M. Spinelli, Città Nuova, Roma 1997, p. 98.

[14] Epistula 9,3, PL 58,618.

[15] Vita Beati Stephani abbatis monasterii Obarinensis 2,7, in Miscellanea I, a cura di E. Baluze, Lucca 1761, p. 159.

[16] “Monachi qui iuxta homines habitant ... Monachi qui longe se ab hominibus fa- ciunt ... Eremitae qui pauciores sunt et soli saepe habitant vel cum paucis”: PL 213,814 ss.

[17] PL 172,1381.

[18] Cf. J. Leclercq, “L’érémitisme en Occident jusqu’à l’an mil”, in Le millénaire du Mont-Athos, 963-196} I, Editions de Chevetogne, Chevetogne 1963, pp. 161-180.

[19] CL Vita Beati Romualdi 8-9, a cura di G. Tabacco, Istituto storico italiano per il medioevo, Roma 1957, pp. 28-31.

[20] “[Ut] ieiunii rigorem interponerent et remissius victitarent”: ibid. 8, p. 28.

[21] Cf. ibid. 30 e 45, pp. 65-67 e 86-87.

[22] “Multis fratribus aggregatis”, ibid. 26, p. 55; “ut communia cuncta facerent”, ibid. 34, p. 73.

[23] “[His] per cellas singulas constitutis”, ibid. 26, p. 55.

[24] Cf. Costituzioni del beato Rodolfo o Costituzioni brevi, in G. Vedovato, Camaldoli e la sua congregazione dalle origini al 1184, Centro storico benedettino italiano, Cesena 1994, pp. 279-285.

[25] “Sed haec novitas non est novella vanitas. Res enim est antiquae religionis, perfette fundatae in Christo pietatis, antiqua haereditas Ecclesiae”: Lettera d’oro I,ii; tr. it. in Guglielmo di Saint-Thierry, Lettera d’oro, p. 41.

[26] Lettera d'oro I, i.

[27] Explications de quelques endroits des anciens Statuts de l’Ordre des Chartreux (senza nome d’autore), La Correrie 1689. Di fatto l’opera, fuori commercio e indirizzata confidenzialmente ai soli priori dell’Ordine, è una risposta del priore della Chartreuse a un pamphlet scritto dall’abbé de Rancé, fondatore dei trappisti.

[28] De quadripertito exercitio cellae 36, PL 153,881 ss.; cf. Guigo, Consuetudines 28,3-4, PL 153,694.

[29] “Sculpta per expressionem sanctitatis”: Liber heremiticae regulae 54, in G. Vedovato, Camaldoli e la sua congregazione, p. 307.

[30] “Benché debba essere di aiuto a tutti con la parola e con la vita e debba prendersi cura di ciascuno con sollecitudine, deve tuttavia soprattutto offrire ai monaci tra i quali è stato scelto un esempio di pace interiore, di stabilità e degli altri esercizi che appartengono al loro genere di vita”: Consuetudini della Certosa 15,2, in Regole monastiche d’occidente, p. 161.

[31] Regola di Grandmont 62,1, in Regole monastiche d’occidente, p. 256.

[32] Vita Hugonis 1,7. PL 153,951-952

[33] Guglielmo di Saint-Thierry, Vita di san Bernardo 7,35, a cura di M. Spinelli, Città Nuova, Roma 1997, pp. 92-93.

[34] Quarto sermone per la venuta del Signore 2, in Guerrico d’Igny, Sermoni, a cura di O. Testoni, Qiqajon, Bose 2001, p. 87.

[35] De contemptu saeculi 22, PL 145,275.

[36] “Magna tamen est sapientia, magnaque misericordia, dum in secreto Dei possunt quiescere, ut ibi maneant ad communem omnium utilitatem”: Regola di Grandmont 54,5, PL 204,1156; tr. it. in Regole monastiche d’occidente, p. 250.

[37] “Benigna cordis affectio, alienae infirmitati misericordi humanitate condescendens”: Liber heremiticae regulae 45, in G. Vedovato, Camaldoli e la sua congregazione, p. 302.

[38] “Potanda est dilectio gratis, id est propter suam dulcedinem propriam, tamquam nectar suavissimum”. Testo latino in PL 153,626, dove però a optanda sarà da preferire la lezione potanda, secondo il testo critico stabilito in Le recueil des pensées du B. Guigue, par A. Wilmart, Paris 1936, p. 93.

[39] Nota del redattore del sito: Si tratta del convegno sulla vita eremitica tenutosi a Saint David, nel Galles, dal 29 settembre al 4 ottobre 1975, con la partecipazione di rappresentanti della chiesa cattolica, della chiesa ortodossa, della chiesa anglicana e delle tradizioni congregazionaliste.

 


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19 ottobre 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net