VII. LA
<VITA BENEDICTI>
E LA <REGVLA
BENEDICTI>
Estratto da "Opere di
Gregorio Magno – Dialoghi", Introduzione a cura di Benedetto Calati, O.S.B.
Camald. Città Nuova Editrice 2000
Non possiamo fare a meno di stabilire un confronto
tra la vita di Benedetto, raccontata da Gregorio nel libro secondo dei Dialoghi,
e un testo
straordinario come la Regola dei monaci
attribuita allo
stesso Benedetto, almeno a partire dall’esperienza monastica di Fulda (anno
773). Bonifacio, apostolo della Germania, comunica a Papa Zaccaria la scelta di
Fulda e la decisione di stabilirvi la vita monastica, con una lettera del 751
con questo saluto iniziale:
«Al reverendissimo padre, all’amato signore, al
maestro degno di essere venerato con timore e onore, insignito del privilegio
della dignità apostolica, elevato con l’insegna del pontificato della Sede
apostolica; a Zaccaria, Bonifacio, piccolo servo, benché indegno ed ultimo
tuttavia legato devotissimo per la Germania, un desiderabile saluto in
imperitura carità».
Quindi, dopo varie informazioni di natura
ecclesiale, prosegue:
«Vi è inoltre, in mezzo ai popoli ai quali noi
predichiamo, un deserto di vastissima solitudine nel quale abbiamo disposto che
dei monaci costruiscano un monastero, vivendovi sotto la
Regola del Santo Padre
Benedetto, monaci che
osservino una rigorosa astinenza, senza far uso di
carne e di vino, di sicera
[1]
e di servi, accontentandosi di ciò che possono procacciarsi col lavoro delle
proprie mani. Cercai di ottenere il sopraddetto luogo con l’interessamento di
uomini religiosi e timorati di Dio, soprattutto per mezzo di Carlomanno, un
tempo principe dei Franchi, e dedicai il
monastero a onore del Santo Salvatore»
[2].
La lettera di Bonifacio è importante perché, oltre
a proporre per la prima volta, così sembra, il magistero della Regola
di Benedetto, propone una comunità costituita da
un piccolo numero di monaci che s’insediano a Fulda con i caratteri classici,
così ritengo, del
monachesimo romano, che è benedettino e gregoriano
insieme.
La stretta astinenza di cui si parla, sembra una
scelta che Bonifacio propone nella situazione concreta della Germania,
distaccandosi in questo dalle indicazioni della Regola
che invece non si opponeva così drasticamente al
vino o alle bevande alcoliche. Anche la proposta della rinuncia ad ogni servitù
- absque seruis -
suppone la fermezza
a quello spirito di fraternità propria del Vangelo, che andava al di là della
stessa lettera della
Regola.
Sembra difatti che
non sia estranea ad essa l’accettazione di qualche aiuto su cose necessarie da
parte dei
mancipia,
o servi della
comunità, soprattutto nel duro lavoro dei campi.
Ma la novità del
monachesimo proposto da
Bonifacio sta soprattutto nella collocazione geografica del suo monastero. Egli
insiste infatti che il luogo scelto lo pone al centro della nazione alla quale
si è diretta la predicazione di Bonifacio e dei suoi compagni: in medio praedicationis nostrae
nonostante che si
tratti, come da tradizione, di un posto assolutamente solitario: heremo uastissimae solitudinis.
Bonifacio richiama con
insistenza l’attenzione del Papa su questo punto precisando:
«Infatti i quattro popoli ai quali per grazia di Dio abbiamo predicato la Parola
di Cristo e ai quali con la vostra preghiera posso essere utile, finché vivo e
ho senno, si sa che abitano intorno a questo luogo».
Emerge dalla narrazione biografica di Bonifacio
una fabula mistica
che va al di là di
ogni sensibilità puramente poetica, perché la scelta del luogo è voluta per uno
scopo ben preciso: restare al centro della zona dell’operazione missionaria per
garantire la crescita nella fede dei popoli ai quali è stato annunziato il
Vangelo.
Questo innesto dei monaci nel cuore stesso della
Chiesa, e dunque il loro strettissimo collegamento con la storia presente e
futura dei popoli evangelizzati, sarà la nota che accompagnerà il
monachesimo
gregoriano- benedettino in tutti i secoli
successivi fino ai nostri giorni. Il monachesimo
di cui si parla nei
Dialoghi,
non accenna mai
esplicitamente a questa nota, né essa è presente nella Regola
di Benedetto. Se ne deve dedurre che
l’interpretazione di Bonifacio va letta come una sorta di commentario vivo alla
stessa Regola
in linea con la
dinamica dell’ermeneutica applicata universalmente alla Bibbia che distingueva
sempre fra lettera e spirito nella comprensione del testo.
Un fatto è comunque certo: la Vita di Benedetto
che risulta dai Dialoghi
di Gregorio presenta un
monachesimo
inserito e in dialogo continuo con la storia, cosa che non trova alcuna
esplicita conferma nella lettera della Regola
di Benedetto.
La Regola
normalizza con rigore il lavoro, la lectio
e la preghiera, ma non accenna mai ad un’eventuale
evangelizzazione perseguita dai monaci; mentre è fuori di ogni dubbio che la
vita di Benedetto narrata da Gregorio ne parli in modi non soltanto simbolici ma
concreti e puntuali. Gregorio pone l’impegno profuso da Benedetto per
l’evangelizzazione nel passaggio da Subiaco a Cassino, ma già nello stesso
periodo di Subiaco l’annuncio della Parola ha una presenza ben marcata. Anzi, è
lo stesso Gregorio che collega la celebrazione della Pasqua nello speco col
tempo dello spirito in cui «la lampada deve essere collocata sul candelabro, per
risplendere a quanti sono nella casa del Signore» (Dialoghi II, 1, 6).
La predicazione evangelica segnerà in ogni caso il
passaggio di Benedetto da Subiaco a Cassino. Il ciclo dei miracoli di
Montecassino è caratterizzato dalla lotta contro i demoni, che, soprattutto
nella loro espressione scoperta, sono gli idoli della gente del pagus
e perciò “pagana”. Benedetto scaccia gli idoli
costruendo oratori al posto dei tempietti idolatrici, esprimendo così lo stile
della sua presenza innovatrice, e la forza che lo anima, ma vi aggiunge anche la
predicazione evangelica. La grazia apostolica, così cara a Gregorio Magno, si
presentava così in modo integrale nella testimonianza di Benedetto:
«L’uomo di Dio appena arrivò a Cassino mandò
l’idolo in frantumi, rovesciò l’altare, rase al suolo i boschetti sacri e, nel
tempio di Apollo, eresse un oratorio al beato Martino. Sul posto dell’altare di
Apollo costruì un oratorio a san Giovanni, quindi, predicando instancabilmente,
chiamava alla fede la popolazione dei dintorni
(et commorantem circumquaque
multitudinem praedicatione continua ad fidem uocabat)»
(Dialoghi, II, 8, 11).
Il cambiamento qualitativo operato da Gregorio,
rispetto al monachesimo
della Vita Antonii
e delle Collationes
di Cassiano, è fuori discussione.
L’evangelizzazione compiuta in modo così esplicito da Benedetto è un fatto nuovo
che caratterizza il monachesimo romano di Gregorio e lo distingue
dal monachesimo della tradizione antica.
Gregorio propone all’attenzione di tutte le Chiese
il monachesimo
che fiorisce in Roma e nelle campagne italiche, offrendo così anche una risposta
di fede alla crisi universale dovuta alla percezione della fine di Roma e alle
difficoltà della Chiesa imperiale. E la sua proposta permetterà la rinascita del
germe originario della vita evangelica, che si dimostrerà estremamente feconda
nell’impatto ormai inevitabile della romanità con i popoli nuovi.
Se si esaminano gli altri libri dei Dialoghi
tenendo conto di quest’angolatura particolare, ne
riceviamo ulteriore conferma. Prendiamo l’esempio del monaco Equizio di cui si
parla nel libro primo dei
Dialoghi.
Equizio, anch’egli
purificato dallo Spirito con il dono della sapienza e della preghiera
contemplativa, ebbe il dono di una
eccezionale paternità spirituale, che potremmo definire anche
“grazia dell’evangelizzazione".
Scrive Gregorio:
«Equizio, come prima aveva
diretto gli uomini, così d'ora in poi prese a dirigere
anche le donne. Esercitava questo dono con particolare
senso di umiltà: tanto infatti era il fervore di cui era acceso
il suo cuore nel
portare anime a Dio che, pur non trascurando il governo
del monastero, correva continuamente di qua e di là,
per i castelli e i
villaggi, e per le case dei fedeli cristiani,
eccitando i cuori di chi imitava alla contemplazione delle cose celesti»
(Dialoghi I, 4).
Gregorio sottolinea la grande semplicità con cui
procedeva Equizio
in questa sua predicazione. Viveva poverissimamente, ignorato da chi
non lo conosceva. Portava con sé i codici delle Scritture e con la Parola
di Dio istruiva i
fedeli. Un metodo, questo, che fa parte della tradizione
gregoriana, come risulta chiaramente da Beda che ne
parla nella sua
Storia degli Inglesi
[3].
La ricchezza delle narrazioni agiografiche dei Dialoghi
gregoriani, fonda una vera teologia della prassi,
che va al di là di quanto possano prevedere i
comportamenti previsti dalle Regole monastiche.
In realtà per gli antichi Padri, e soprattutto per
Gregorio Magno, non
tutto si esauriva nella normativa di una Regula,
che invece si supponeva sempre in profonda
connessione con la Parola delle Scritture. Erano
sempre queste ultime la Regola suprema.
Le narrazioni agiografiche sono testimoni di
questo primato delle
Scritture ispirate sulla Regola, su qualunque Regola. L’esperienza vitale
degli autentici uomini di Dio non potrebbe essere mai costretta all'interno
di parametri stabiliti da una Regola che non sia la stessa Parola
di Dio, che
nessuna Regola umana potrà mai comprendere in modo adeguato.
Nell’interpretare sarà dunque sempre necessario
congiungere la lettura
delle Regole con le narrazioni agiografiche, con la scrupolosa attenzione
a porre sempre l’una e le altre sotto il giudizio determinante della
Scrittura ispirata, di cui quelle Regole e quelle narrazioni agiografiche
intendevano essere l’interpretazione “spirituale” attualizzata.
Da qui il naturale pluralismo delle
interpretazioni. Lo stesso
ed unico Spirito, che anima ogni comunità cristiana
rispettandola nella sua singolare diversità,
anima anche l’interprete della Regola che propone la sua diversità nel pluralismo degli uomini di Dio che si richiamano
all’unicità letterale del codice di riferimento
aprendolo simultaneamente alla sua multiforme
interpretazione spirituale.
Un esempio lampante dell’applicazione di questo
principio è dato dalla costante dell’impegno lavorativo nelle Regole monastiche.
La Regola
di Benedetto stabiliva la “norma del lavoro” per i
monaci con un discernimento tutto proprio. Le generazioni successive hanno
interiorizzato lo spirito della
Regola
arrivando a
sintetizzare lo spirito dei monaci occidentali nel famoso motto «Ora et labora».
Un’interpretazione legittima, dal momento che la Regola
stessa si muoveva in tal senso proponendo
preghiera e lavoro a eguale titolo, con un tatto sapienziale che sarà fatto
proprio dalla tradizione benedettina.
Rimanendo in questo ambito, la tradizione
successiva ha potuto sviluppare un genere di lavoro che più tardi si chiamerà lavoro apostolico,
riconducendo
l’evangelizzazione, così ben sviluppata nei Dialoghi,
nell’ambito del lavoro monastico. Può essere che
tutto questo esiga, nella lettura delle fonti della tradizione monastica antica,
una visuale sinottica sapienziale e una compenetrazione, le une nelle altre,
delle molteplici tradizioni che rompono gli schematismi più tardivi. Quelle
fonti rispondono infatti alle esigenze dell’esperienza più che a schemi più o
meno preconcetti di costruzioni teoriche della spiritualità.
Potremmo proseguire la nostra analisi, riferendoci
in modo analogo anche al metodo di preghiera espresso nella vita degli uomini di
Dio dei
Dialoghi
gregoriani. Anche in questo caso la preghiera
(oratio)
viene vista infatti
anzitutto come storia dell’esperienza cristiana, espressa nel suo momento più
qualificato. Per cui sfugge anch’essa ad ogni tentativo di imbrigliarla entro
schemi rituali predeterminati che invece sembrano essere preferiti, per esempio,
dalla stessa
Regula Benedicti.
Da qui la necessità, di nuovo, di leggere i testi
spirituali degli antichi Padri cristiani ponendo in modo sinottico, l’una di
fronte alle altre, opere di carattere legislativo e opere agiografiche. Così si
imporrà necessariamente per la spiritualità antica, la legenda agiografica
unita, quando è
possibile, anche alla
regula uitae,
come insegna
ampiamente Gregorio nei suoi
Dialoghi (Dialoghi II, 37).
I
Dialoghi
gregoriani privilegiano più gli stati d’animo
degli uomini o delle donne di Dio che non l’enumerazione di tempi e momenti, e
tanto meno di formule, dedicati alla preghiera.
Il
cap. IV del libro secondo dei
Dialoghi
offre un
interessante paradigma di questi stati d’animo. Vi si parla di un monaco che non
riusciva a stare in preghiera. Infatti, appena i fratelli si raccoglievano per
darsi alla preghiera, se ne usciva, e con l’animo svagato si dava ad occupazioni
terrene e futili rendendo sempre inutile l’intervento del padre del monastero.
Condotto dall’uomo di Dio, Benedetto, questi lo rimproverò severamente per la
sua leggerezza. Tornato
al monastero, dopo appena due giorni di perseveranza, al terzo giorno il monaco
tornò a gironzolare durante il tempo della preghiera. La cosa fu riferita al
servo di Dio, Benedetto, dallo stesso padre del monastero cui apparteneva il
monaco.
Benedetto rispose: «Penserò io stesso a correggerlo».
Venne dunque l’uomo
di Dio al monastero, e all’ora fissata, quando conclusa la salmodia i fratelli
si davano alla preghiera, Benedetto intuì che il monaco era oggetto di una
particolare tentazione, per cui non riusciva a perseverare nella preghiera.
Benedetto chiede agli altri monaci di pregare per il loro compagno, ma aggiunge
anche la severità della verga
«a causa della cecità del suo cuore».
E da quel giorno il monaco «perseverò raccolto e immobile nella preghiera»
(Dialoghi, II, 4, 3).
Lo studium orationis
sembra
particolarmente disciplinato nella comunità se, per l’insofferenza di un monaco,
viene invocato l’intervento di Benedetto, riconosciuto come padre carismatico
della tradizione spirituale della comunità in parola.
La disciplina orationis
è però ben distinta
dalla salmodia. Il fatto che l’orazione privata fosse oggetto di una tentazione
che pesava sul monaco dissipato, rivela l’importanza che veniva riconosciuta a
tale esercizio dell’orazione per il buon cammino della comunità. Finalmente,
dopo l’intervento del magistero spirituale di Benedetto, che vi aggiunge la
severità della verga, l’unità e la pace ritornano di nuovo nel cuore del monaco.
Da un confronto con la Regola
di Benedetto salta subito agli occhi la diversità
dello stile della narrazione agiografica del Dialogo
rispetto alla normativa della Regola.
Un’analisi sinottica permette di notare, fra
l’altro, la sobrietà salmodica, che emerge dalla Vita di Benedetto,
e la maggiore
importanza che riceve in essa la preghiera silenziosa cui si impegna la comunità
dopo la salmodia!
Se il monaco cluniacense, aggiungiamo noi, fosse
stato modellato da questa sobrietà evangelica che appare dalla Vita di Benedetto,
non avremmo avuto
gli eccessi di un
monachesimo cultuale dedicato all’incessante salmodia
dei secoli tardivi. Il “Benedetto” di Gregorio avrebbe fatto provare forse
qualcosa di simile alle percosse, date al monaco dissipato, alla comunità
cluniacense! E forse, a partire dall’abate e da tutti i monaci, avrebbe
richiamato tutti ad una maggiore sobrietà nelle celebrazioni liturgiche
monastiche!
[1]
Nota del redattore del sito. La
sicera è un succo di sostanze fermentate quali l'orzo, il miele, le
mele, ecc.. usato come bevanda leggermente alcoolica.
[2] Bonifatius et Lullus, Die Briefe, Epistola 86, Berlin
1955, p.193.
[3]
Beda il Venerabile, Historia
Ecclesiastica Gentis Anglorum, recognouit Plummer, Oxford 1956
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15 gennaio 2019 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net