Schola Dei o schola DEI *? A lezione da san Benedetto

Erik Varden O.C.S.O.

Estratto da «Vita e Pensiero», CVIII, 3, maggio-giugno 2025, pp. 57-68.

Dal sito “Avvenire.it” - 11 luglio 2025

 

Nel suo prologo alla Santa Regola, scritta alla fine del V secolo e destinata a diventare, all’insaputa del suo autore, il documento principale per lo sviluppo della civiltà europea, san Benedetto chiama il monastero – termine ai suoi tempi ancora detentore di un potenziale attraente – dominici schola servitii. Questa frase solitamente è resa come «scuola del servizio del Signore», evocando l’immagine di un vecchio monaco barbuto in cattedra che conduce i novizi attraverso l’Abc della vita ascetica. L’associazione non è del tutto falsa, ma inadeguata.

Una schola nell’antichità latina non era un’istituzione molto simile a quella che noi oggi consideriamo “scuola”. Un qualcosa del significato antico si conservava nell’italiano. Chi ha visitato Venezia conosce la Scuola di San Rocco o di San Teodoro. Le scuole veneziane erano associazioni laiche che a volte somigliavano a corporazioni, altre volte a club di stranieri, microsocietà inserite nella cornice della Repubblica, che fornivano ai loro membri assistenza, una rete sociale e supporto professionale. Si pensi anche ai pittori del Rinascimento i cui allievi producevano opere sotto le loro istruzioni, tele che i curatori ora attribuiscono alla “Scuola di Michelangelo” o alla “Scuola di Tiziano”. Queste esemplificazioni ci aiutano a comprendere il progetto benedettino nei suoi termini. La schola di cui parla Benedetto è un luogo in cui si impartisce la conoscenza, certo; ma ancor più essenzialmente è un luogo di iniziativa in cui si crea qualcosa di nuovo.

Questo qualcosa è un modello innovativo di comunità che riunisce liberamente degli uomini per mezzo di un patto di vita e un obiettivo chiaro. [...] In termini cristiani, credo sia legittimo rinominare questa scuola come schola Dei. La costruzione al genitivo in latino sottende due significati; può riferirsi all’oggetto dell’apprendimento: in questo caso, la vita secondo la chiamata di Dio, rivelato in Cristo. E può riferirsi al soggetto dell’insegnamento: Dio stesso, che opera attraverso strumenti e circostanze umane. Non è quindi per mera facezia che ho intitolato questo discorso adottando l’acronimo DEI (diversity, equity, inclusion). Infatti, i valori della diversità, dell’equità e dell’inclusione condizionano l’impresa di Benedetto. Per un millennio e mezzo la sua Regola si è dimostrata il paradigma per una coesistenza umana felice. Può ancora dirci qualcosa sulle sfide che stiamo affrontando oggi? Penso di sì. [...] L’acronimo DEI identifica quei valori pertinenti a un modello di società benedettino. Ognuno, però, ha un rovescio distruttivo della medaglia. Buona per costruire comunione, l’“inclusione” è nociva come slogan di diritto. L’“equità” è splendida come indicatore di equilibrio sociale, ma dirottata in vista di guadagno privato può diventare uno strumento di manipolazione. La “diversità” è meravigliosa nel mostrare la complementarietà dei doni, ma rinchiudendo le persone in un’autoaffermazione separata i suoi frutti sono amari, causando indi gestione nel corpo politico. Per essere utile, il giusto esercizio di queste qualità deve essere appreso. Abbiamo bisogno di una formazione mirata per essere equi, inclusivi e diversi nella verità, anche se ci deve essere insegnato come essere, e aiutare gli altri a essere, veramente liberi. Uno sfruttamento retorico e caricaturale di questi termini ha portato a un’impasse. La parola è ben scelta: indica un punto da cui normalmente non è possibile alcun movimento in avanti, è possibile solo indietreggiare. Le posizioni sono bloccate, le passioni sono forti. Si verificano scontri e litigi. Rispondere alla retorica e alla caricatura in modo cinico con questi stessi mezzi, però, è improduttivo e, invero, ridicolo. Vale la pena riflettere sul fatto che pedalare all’indietro è l’unica via d’uscita da un’impasse solo se l’ostacolo non può essere superato. Per un po’ di tempo la DEI è stata sfruttata politicamente e commercialmente. Perché non usarla se vende? I clienti, tuttavia, mostrano segni di averne avuto abbastanza. La recente rinuncia alla DEI da parte, ad esempio, di Toyota indica probabilmente una tendenza in crescita. È nella natura degli slogan, in particolare degli acronimi, durare solo una stagione. Le stagioni nel commercio e nella moda sono brevi.

La vacuità di molti discorsi su questo tema deriva dall’assenza di una meta-narrazione praticabile, di una visione antropologica sovrastante. Per avere un senso, i termini di DEI devono essere definiti. Inclusione in cosa? Equità secondo quale giusto standard? Diversità secondo quale norma? Queste sono domande che i nostri tempi pragmatici sono mal attrezzati a gestire e da cui le personalità pubbliche si sottraggono. Poiché passare dal registro del “Come?” a quello del “Perché?” presuppone l’impegno verso una visione del mondo, e persino immaginare una cosa del genere è considerato da molti come manifestamente anti-DEI. Questa è l’ironia, in un certo senso la tragedia, che dobbiamo affrontare. Il compito è per tutti, ma soprattutto per i cristiani, sostenuti come sono da una visione di un nuovo cielo e una nuova terra, la cui prospettiva non è riservata all’eschaton. La speranza mi sembra qui il termine cruciale. Molti degli eccessi ideologici del nostro tempo sono tentativi su misura di ricrearla, poiché da tempo è scomparsa dalla politica. Ne sentiamo la mancanza, anche se in modo subliminale. Eppure la speranza non può essere decretata come strategia. Deve nascere.

Per secoli, la missione di civilizzazione della Chiesa ha trovato espressione nei gesti di carità, nella liturgia e nelle arti, nell’impegno intellettuale. Si è espressa anche, non meno durevolmente, nella riproposizione di un vocabolario, consentendo ai cristiani di salvare dalle nebbie mitizzate nozioni preziose necessarie per parlare di nuovo di uno scopo umano comune e desiderabile. Le controversie provocate dalla DEI mostrano la mancanza di tale scopo in una società il cui tessuto si sta sfilacciando in tutte le direzioni contemporaneamente, e da cui intere matasse di filo vengono bruscamente strappate, in cui modelli di nobiltà o bellezza non appaiono più all’occhio umano. San Benedetto visse in un mondo che, sotto questo aspetto, assomigliava al nostro, un mondo crepuscolare. La sua risposta fu, nelle parole del salmo, quella di «risvegliare l’aurora», ricordando all’uomo, per il quale non è bene essere solo, cosa significhi sperimentalmente essere umani, pienamente e felicemente umani, per poi formulare quella proposizione attraverso un ideale condivisibile.

Il metodo in passato ha funzionato, traendo da diverse sensibilità una qualità molto gentile: l’unanimitas, un’unità di anima che rende leggere le cose pesanti. Chissà. Potrebbe funzionare di nuovo. Perché, in verità, ciò che serve ora è più di una semplice agenda politica stancamente ritoccata. Ciò di cui c’è bisogno è un nuovo senso della nozione stessa di polis. Ciò di cui c’è bisogno è una rinascita dell’uomo. Ciò di cui c’è bisogno è una testimonianza collettiva credibilmente incarnata della vera umanità.

 

(Traduzione di Simona Plessi).

 


* Nota del redattore del sito: Per diversità, equità e inclusione (dall'inglese: diversity, equity, and inclusion, anche riportato con l'acronimo DEI) si intende un indirizzo gestionale strategico nell’ambito della gestione delle risorse umane, adottato da organizzazioni pubbliche e private per valorizzare e promuovere un ambiente di lavoro eterogeneo, equo e inclusivo. (Fonte Wikipedia)

 


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26 novembre 2025                Alberto "da Cormano"   Grazie dei suggerimenti   alberto@ora-et-labora.net