La nascita dell’ordine dei Templari

Estratto da “L’apocalisse dei Templari”,

di Simonetta Cerrini, Arnoldo Mondadori Editore 2012

 

Proviamo a ripercorrere la lunga strada che portò, tra il 1120 e il 1129, alla nascita dell’ordine religioso dei «poveri cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone», detti comunemente templari, il primo ordine religioso e militare della cristianità latina.

Tutto ebbe inizio da una parola: Gerusalemme. È l’unica parola sicuramente pronunciata da papa Urbano II († 1099) alla folla riunita a Clermont nel 1095. Tutto il resto è frutto di elaborazioni successive alla conquista della Città Santa, avvenuta il 15 luglio del 1099. Un’altra cosa sicura è che il papa non intendesse lanciare una crociata (almeno per come la intendiamo oggi) per colonizzare la Terra Santa. Anche perché, se lo avesse voluto, avrebbe fatto delle scelte differenti, come già avveniva per la Penisola iberica, che si voleva riconquistare militarmente alla cristianità latina. Ma in quel balletto di chiese e moschee, in quell’avvicendarsi di conquiste e riconquiste, che caratterizzava da secoli una larga parte dei paesi affacciati al Mediterraneo, la situazione della Terra Santa era ben diversa. Mentre la Reconquista spettava ai sovrani d’Occidente, un’eventuale «reconquista» di Gerusalemme e dei Luoghi santi cristiani dalle mani dei turchi selgiuchidi (nel 1098 Gerusalemme fu presa dai fatimidi d’Egitto) doveva fare i conti con l’imperatore bizantino, che era il precedente signore cristiano di quelle terre, erede dell’imperatore romano d’Oriente e in particolare di quel Costantino che fece costruire la basilica del Santo Sepolcro detta anche Chiesa della Resurrezione.

Papa Urbano II questo lo sapeva bene, come sapeva che nel 1054 si era consumato un profondo e drammatico scisma all’interno della cristianità: la separazione tra la Chiesa latina d’Occidente e la Chiesa greca d’Oriente, che rendeva difficili i rapporti sul campo tra i cristiani latini e greci. D’altra parte, sempre nel 1095, l’imperatore di Costantinopoli Alessio I Comneno aveva inviato i suoi ambasciatori al concilio di Piacenza per chiedere ancora una volta aiuti militari contro i turchi.

In questo complicato contesto bastò una sola parola, «Gerusalemme», pronunciata dal papa, la più alta autorità religiosa della cristianità latina, per spalancare nuovi orizzonti ai cavalieri e a tutta la folla radunata a Clermont, e ancora a migliaia di persone che si riversarono in massa da tutta Europa in Oriente. Ognuno di loro, «crociato» perché segnato da una croce cucita sull’abito, aveva come punto di partenza la propria cultura, le proprie forze, i propri ideali, la propria visione religiosa, spesso lambita da una confusa attesa della Fine dei tempi, dell’Anticristo e del ritorno di Cristo. Come guida avevano il legato papale, cioè Adhémar de Monteil, vescovo di Le Puy, ma potevano seguire anche un signore locale, come Goffredo di Buglione, Boemondo di Taranto o Raimondo IV di Tolosa, o un predicatore itinerante come Pietro l’eremita. Se il papa avesse avuto in mente un progetto più preciso, costruito a tavolino, molto probabilmente questo vasto, eterogeneo e spesso anarchico movimento di massa non avrebbe avuto luogo. Quattro anni dopo, nel 1099, se non «liberata» Gerusalemme fu senz’altro conquistata. I cristiani latini, detti «franchi» dalle cronache, provvidero a instaurarvi un regno che, malgrado le intenzioni del legato papale, non fu teocratico. Il regno latino di Gerusalemme era sciolto dall’omaggio che ogni re doveva all’imperatore o al papa. Era la prima monarchia assoluta del Medioevo, come dice Franco Cardini, storico tenace, sottile indagatore delle trame che intessono i secoli e gli spazi di questa nostra Europa medievale. A Gerusalemme poteva accadere di tutto: quella Terra, essendo Santa, poteva anche essere profondamente nuova e diversa. Ebbene, i futuri templari vanno cercati proprio fra quei cavalieri che, in Occidente, avevano fatto una scelta ideale: abbandonare le loro terre, proprio come aveva fatto il patriarca Abramo, e incamminarsi verso Gerusalemme. Una volta raggiunta la Città Santa, cosa fanno? A riprova del fatto che la prima missione crociata non fu un movimento di colonizzazione, la maggior parte dei pellegrini armati ritornarono in Europa appena dopo la conquista di Gerusalemme. In Terra Santa rimasero pochissimi cavalieri: secondo il normanno Raoul de Caen († 1120), giunto in Terra Santa al servizio di Boemondo di Taranto e di suo nipote Tancredi, se ne potevano contare circa duecento.

Fra questi c’erano anche i nostri futuri templari, che fecero una scelta di volontariato, di assistenza sociale o di protezione civile, diremmo oggi. Infatti si «donarono», cioè si affiliarono, per così dire, a due istituzioni religiose di Gerusalemme, situate entrambe nei pressi del Santo Sepolcro, in quell’area che occupa la parte nordoccidentale della Città Vecchia e che ancora oggi viene indicata come il «quartiere cristiano». Ci riferiamo, da una parte, ai canonici regolari del Santo Sepolcro, e cioè i preti latini che vivono in comune secondo la regola di sant’Agostino e che servono la Chiesa del Santo Sepolcro; dall’altra, agli ospitalieri di san Giovanni Battista, una confraternita di laici, fondata nell’XI secolo da un gruppo di mercanti di Amalfi, che si dedica alla cura e all’assistenza dei pellegrini. Gli ospitalieri, oggi riuniti nell’ordine di Malta, nel 1113 erano stati riconosciuti dal papa come ordine autonomo assistenziale. I nostri cavalieri accettano quindi di sottomettersi all’autorità del priore dei canonici, ricevendo il compito di proteggere i pellegrini nei loro spostamenti in Terra Santa. In cambio beneficiavano degli avanzi dei pasti. In un certo senso potremmo dire che i templari nacquero a tavola, ma non come signori, bensì come mendicanti. Possiamo scorgere già in quest’occasione l’emergere dei valori templari originari, la povertà e l’umiltà, che un secolo dopo verranno fatti propri dai frati mendicanti del Poverello di Assisi.

Tuttavia, questa lodevole attività, eticamente irreprensibile, svolta nella Gerusalemme tornata cristiana e perdipiù latina, non bastò ai nostri cavalieri, che in breve tempo precipitarono in una crisi profonda. L’altissimo ideale racchiuso nella parola «Gerusalemme», che voleva significare la realizzazione in questo mondo della Gerusalemme celeste, per loro era fallito, individualmente e socialmente.

La Cronaca di Ernoul fa parlare i cavalieri stessi: «Noi abbiamo abbandonato le nostre terre e i nostri amici, e siamo giunti qui per mettere in onore ed esaudire la legge di Dio. E ora siamo bloccati, beviamo, mangiamo, spendiamo, senza fare nulla». Un cavaliere di medio-basso lignaggio, cosa poteva fare di più? Aveva lasciato tutto, le terre e gli amici, le cose e le persone, il suo mondo, per un compito, una missione divina, ma una volta raggiunta la meta, Gerusalemme, non gli erano tornati i conti della vita. Ciò che attendeva – la Fine dei tempi? la battaglia con l’Anticristo? l’avvento dei mille anni del regno di Cristo annunciati dall’Apocalisse? – non si era compiuto e ora si trovava «sans oevre faire», disoccupato, senza un’opera da compiere. E perdipiù, per lui che era un cavaliere, senza poter combattere. Un’iniziativa già l’aveva presa: era andato al Santo Sepolcro, luogo che fisicamente coincideva con il suo obiettivo iniziale, e lì aveva deciso di «donarsi», da laico, all’ordine religioso più sacro di tutta la Città Santa, quello dei canonici regolari del Santo Sepolcro, e agli ospitalieri di San Giovanni, che senz’altro avevano bisogno di protezione armata per difendersi da tutti i banditi che imperversavano sulle strade e anche dalle belve feroci, come i leoni. Ma ciò non gli bastava, il suo mondo era giunto alla fine, la sua «cerca» era rimasta disattesa e si sentiva irrealizzato. E qui scatta qualcosa. Scrive ancora l’autore della Cronaca di Ernoul: «Ci furono alcuni buoni cavalieri fra quelli che si erano donati, così presero consiglio tra di loro e dissero…». Ecco il primo elemento: questi «buoni cavalieri» non rimasero da soli, ma condivisero il loro disagio con gli altri. Da notare come il loro essere «buoni» sia proprio ciò che li spinge a non accontentarsi. L’etica templare è in evoluzione, è un’etica in cammino. L’altro elemento, a mio parere decisivo, fu quello che si dice dopo: «Non combattiamo neppure, e ce ne sarebbe bisogno in questa Terra». E cioè: questa società ha bisogno proprio di me e di ciò che so fare. La consapevolezza della dignità e del valore della loro funzione innescò la seconda «cerca» dei futuri templari: l’invenzione di un nuovo destino, il nuovo mondo, la nuova Gerusalemme, poteva cominciare da loro, in perfetta obbedienza a quella forza spirituale che li aveva portati proprio lì, a Gerusalemme.

Intorno al 1119-1120, i futuri templari – secondo alcune fonti erano nove cavalieri provenienti da tutta Europa, ma secondo altre erano trenta – si riunirono e dissero: «Obbediamo a un prete e non combattiamo. Eleggiamo quindi maestro uno di noi che, con il permesso del priore, ci conduca in battaglia quando sarà necessario!». Con queste parole, tra l’altro, il cronista Ernoul fotografa la nascita di una vera e propria famiglia guerriera che presto diventerà una fraternità religiosa. Fu così che il maestro della cavalleria Ugo di Payns (o di Payens, «de Païens»), democraticamente eletto dai suoi compagni, si recò dal re di Gerusalemme. Cosa voleva da lui? Chiedeva che la sua piccola fraternità di cavalieri, dedita alla protezione armata dei pellegrini (un compito che oggi verrebbe definito «di polizia stradale»), fosse sciolta dall’obbedienza prestata al priore dei canonici del Santo Sepolcro, che era un prete, così da poter combattere nell’esercito crociato.

Una miniatura medievale (Paris, BnF, fr. 9081.f132) descrive proprio quell’incontro. La parte superiore ci mostra il re di Gerusalemme Baldovino II, con la sua barba bionda, seduto sul trono, e di fronte a lui, in piedi, i due fondatori della nuova comunità: Ugo di Payns, cavaliere della Champagne, e il fiammingo Goffredo di Saint-Omer. Il re porta la corona e un mantello scarlatto, mentre la croce rossa campeggia sui mantelli scuri dei due futuri templari. Ritorneremo più avanti sui segni distintivi e sui colori dei templari. Nella parte inferiore della miniatura osserviamo invece la scena di una battaglia persa dai crociati: è quella del «Campo di sangue» (Ager sanguinis), avvenuta nel principato di Antiochia. Nel 1119 Ruggero di Salerno, reggente di Antiochia, aveva affrontato Ilghazi, l’atabeg, cioè il governatore, di Aleppo. Per imprudenza non aveva atteso i rinforzi del re di Gerusalemme. Le conseguenze di quella scelta furono pesantissime: Ruggero morì in battaglia insieme con settecento cavalieri e tremila fanti. Le due immagini sono sovrapposte: come se il miniatore avesse pensato che l’incontro tra quei cavalieri e il re potesse evitare nel futuro disastri paragonabili a quell’atroce sconfitta.

Baldovino, re di un regno sospeso tra Oriente e Occidente e tra terra e cielo, accettò con gioia di sostenere la nuova confraternita che si proponeva di dare soccorso alla Terra Santa. Il re decise di affrontare la questione durante il concilio-assemblea di Nablus, nel gennaio del 1120. Lì si erano radunate le autorità laiche e quelle religiose del regno di Gerusalemme, sotto la guida in qualche modo congiunta del re Baldovino II e del patriarca latino di Gerusalemme, il piccardo Gormond de Picquigny. Ancora oggi gli storici non sanno definire con certezza cosa si radunò a Nablus: un concilio della Chiesa? un sinodo? un’assemblea generale dei grandi del regno? In ogni caso, quel che vi accadde era quantomeno sorprendente: il re e il patriarca presero insieme decisioni in materia religiosa. Ciò non si vedeva più da molto tempo. All’epoca dell’Impero carolingio, e poi con la dinastia degli Ottoni, era una consuetudine, in quanto l’imperatore, come il basileus in Oriente, era unto con il crisma e quindi interveniva con autorità nelle questioni religiose di una Chiesa che non era ancora una vera e propria istituzione ecclesiastica. Ma nell’XI secolo, la secolarizzazione e la degenerazione dei costumi dei chierici e l’appropriazione di benefici ecclesiastici da parte dei laici, condussero papa Gregorio VII († 1085) a voler riformare profondamente la Chiesa e finirono per strappare dalle mani dei laici ogni forma di potere religioso.

Proprio in quel grappolo di anni i chierici e i laici stavano combattendo l’ultimo atto del lungo conflitto che aveva opposto il papato all’Impero, papa Gregorio VII all’imperatore Enrico IV, e che si sarebbe concluso nel 1122 a Worms, con il concordato fra Callisto II e l’imperatore Enrico V. Tra gli effetti della cosiddetta «riforma gregoriana» che accompagnò quel dissidio ci fu la netta divisione tra chierici e laici, che sancì da quel momento in avanti l’inferiorità spirituale dei secondi rispetto ai primi. Così, ai laici desiderosi di santità non rimase che la via dell'obbedienza al clero.

Ma la Terra Santa era un vero e proprio laboratorio politico e spirituale dove succedevano cose impensabili altrove. E così, appena due anni prima del concordato di Worms, a Nablus nel 1120 troviamo i responsabili dell’intera comunità crociata, chierici e laici insieme, pronti a riflettere sulla situazione spirituale degli Stati crociati e intenti a interpretare i segni divini. Ne parla nella sua Storia dei fatti d’Oriente anche l’arcivescovo di Tiro, Guglielmo († intorno al 1186), precettore del futuro re Baldovino IV, il re lebbroso, e cancelliere del regno di Gerusalemme: i peccati del popolo avevano provocato l’ira del Signore e per questo da quattro anni il regno subiva non solo frequenti attacchi dai nemici, ma anche l’invasione di locuste e di topi voraci che avevano finito per far scomparire il pane. Tutti erano atterriti dai segni minacciosi che venivano dal cielo e dai frequenti terremoti, dalla fame e dalla violenza del nemico.

A Nablus si parlò senz’altro anche della recente sconfitta del «Campo di sangue» e, in quel contesto, dovette essere più facile per il re convincere il priore dei canonici regolari del Santo Sepolcro a sciogliere i cavalieri dall’obbedienza dovuta. I cavalieri, la cui fraternità veniva riconosciuta, furono posti sotto l’autorità del patriarca di Gerusalemme, il che concretamente li lasciava molto più liberi da vincoli con il clero locale. Visto che la nuova comunità non aveva più un luogo dove riunirsi, il re Baldovino concesse loro l’uso di una delle residenze gerosolimitane, quella conosciuta sotto il nome di Tempio di Salomone, da cui i frati cavalieri presero più tardi il nome di templari. Noi non sapremo mai se i veri sentimenti dei templari che li portarono a ottenere l’appoggio delle maggiori autorità del regno di Gerusalemme fossero quelli espressi dal cavaliere Ernoul, oppure se lo scudiero del celebre Baliano di Ibelin, signore di Nablus e strenuo difensore di Gerusalemme nel 1187 contro il Saladino, ci mise del suo. In ogni caso, il processo psicologico sembra quantomeno plausibile.

Dovremmo trarne esempio, noi, in questo tempo di crisi sociale e spirituale, e cogliere spunti per ripensare e rimettere in discussione antiche certezze e consolidati obiettivi. I templari seppero trasformare quel tempo e quell’esperienza di Fine del loro mondo, quella disillusione, e quella crisi, in una delle realtà spirituali, economiche e militari più importanti d’Europa. Trasformarono il tempo cronologico in «tempo dell’occasione». Da Chrónos a Kairós. I templari direbbero ai nostri giovani: «Sappiate che ora il mondo ha bisogno di voi, delle vostre energie e di ciò che sapete fare»; e anche: «Non isolatevi, ma trovate dei compagni di avventura, perché non siete soli»; infine: «Abbiate l’umiltà di chiedere consiglio a chi stimate».

La scelta dei templari, che li portò a proporsi al re, fu un piccolo fatto nel complesso della storia più grande, ma le conseguenze lasciarono una traccia indelebile: in brevissimo tempo i «poveri cavalieri» divennero una delle grandi potenze internazionali. Così descrisse la loro ascesa il patriarca giacobita di Antiochia Michele il Siro († 1199):

 

Quanto a loro, si imposero la regola di vivere come monaci, non sposandosi, non andando ai bagni, non possedendo assolutamente nulla di proprio, ma mettendo in comune tutti i loro beni. Con simili abitudini, cominciarono a diventare famosi: la loro reputazione si diffuse in tutto il paese, al punto che dei principi del regno, dei re, dei grandi e degli umili arrivavano e si univano a loro in quella fraternità spirituale; e chiunque diveniva loro fratello donava alla comunità tutto ciò che possedeva: villaggi, città, o qualsiasi altro bene. Si moltiplicarono, si svilupparono e si trovarono a possedere dei territori, non solo nella contrada della Palestina, ma anche nelle contrade lontane d’Italia e di Roma.

 

E più avanti:

 

Si moltiplicarono al punto di essere centomila. Possedevano dei castelli e costruirono essi stessi delle piazzeforti in tutti i paesi dominati dai cristiani. La loro ricchezza si moltiplicò in oro e in beni di ogni tipo, in armature di ogni specie, in mandrie e greggi di montoni, di buoi, di maiali, di cammelli, di cavalli, più di quella di tutti i re. E tuttavia erano poveri e distaccati da tutto.

 

Diciamo che i templari cambiarono stile di vita. Alla loro carta d’identità possiamo aggiungere questi valori: povertà e comunione dei beni, fraternità e distacco da tutto, rinuncia al desiderio personale e quindi all’individualismo.

Ma al contempo, così come desideravano, si era prodotto un cambiamento significativo nella loro vocazione: da custodi della Terra Santa e protettori dei pellegrini passarono al servizio militare nell’armata del re. Insomma, come prova il nostro affresco, il santo a cavallo cui si rifacevano non era certo san Martino (IV secolo) che diede a un mendicante la metà del suo mantello militare, e che giunse ad abbandonare l’esercito per portare a termine la sua missione religiosa. I templari avevano assunto una funzione militare a tutti gli effetti, cosa che cominciò a creare delle perplessità sull’autenticità della loro vocazione. Il fatto che dei cavalieri divenissero religiosi senza deporre le armi era una novità assoluta per la cristianità. Quella strana scelta doveva essere ratificata a un livello ecclesiale più alto, e in Occidente. Grazie al cavaliere e abate cistercense san Bernardo di Clairvaux, i templari riuscirono in un’impresa davvero epocale: ottenere una regola e diventare un vero e proprio ordine religioso. Fu Bernardo a organizzare – potremmo dire a produrre – il concilio provinciale di Troyes, il 13 gennaio 1129, giorno della festa di sant’Ilario. Il concilio riuniva innanzitutto i due protagonisti, san Bernardo e Ugo di Payns, poi l’ambasciatore del papa, due arcivescovi (di Sens e di Reims), dieci vescovi, sette abati, due magistri, un segretario, cinque templari e tre laici.

Analizzando le biografie dei Padri conciliari di Troyes, si può notare che formavano una specie di squadra di lavoro: incoraggiavano le nuove formazioni religiose, scrivevano regole di ordini e si dedicavano alla riforma delle abbazie e dei capitoli della regione. I laici erano il conte di Champagne Thibaut II, nipote ed erede del conte Ugo che si era fatto templare nel 1125, il conte di Nevers Guillaume e il senescalco André de Baudement. Proprio come era avvenuto a Nablus nove anni prima, a Troyes i laici svolsero un ruolo attivo. Addirittura furono esplicitamente invitati a partecipare alla redazione della regola, naturalmente per quel che riguarda l’aspetto militare. I templari, per il solo fatto di esistere, obbligavano alla continua novità e stimolavano piccole rivoluzioni.

Il 13 gennaio 1129 nacquero nella Champagne «i poveri compagni di battaglia di Cristo e del Tempio di Salomone». Hanno la licenza di uccidere il nemico in battaglia senza peccare. La regola è saldamente fondata sul testo della regola benedettina, che riprende spesso parola per parola senza però mai citarla. I Padri del concilio furono quindi gli autori formali della regola, ma possiamo pensare che la maggior parte degli articoli siano da attribuire agli interventi di Ugo di Payns e san Bernardo. Il maestro Ugo riferì al concilio tutte le norme di vita che i templari avevano seguito fino a quel momento e san Bernardo fece un lungo discorso lodato da tutti i partecipanti. I laici diedero senz’altro il loro contributo sulle questioni espressamente militari. A quanto mi risulta, non esiste nessun’altra regola di un ordine religioso che comporti una sezione esplicitamente militare. I teutonici e alcuni ordini minori adottarono la regola templare per l’aspetto militare, mentre gli altri ordini della stessa natura si limitarono a inserire le procedure militari nei loro statuti, pur adottando una regola religiosa del tutto priva di riferimenti bellici.

La posta in gioco era grande: la Chiesa aveva accettato l’esistenza di una via di santità che prevedesse il combattimento armato. Naturalmente, esisteva il contrappasso: il templare doveva essere pronto a uccidere, ma anche a morire, senza preferire l’una cosa né l’altra. Il templare che combatte quindi ha già rinunciato alla propria vita prima ancora di entrare sul campo di battaglia. Fatta questa premessa, vediamo quindi che tipo di valori veicola questa nuova realtà religiosa. Il frate templare parte dalla riforma della cavalleria mondana, che, secondo la regola, si era ormai traviata dimenticando «ciò che era suo», e cioè la difesa dei poveri e delle chiese. Invece si stava dedicando alla rapina e al saccheggio. Quindi la vocazione dei templari consisteva innanzitutto nella difesa dei poveri e delle chiese, ma in Terra Santa.

Il fine della regola era di mettere insieme il tempo del religioso e il tempo del combattente, mantenendo la santità come unico obiettivo del templare. Questa sfida della doppia vocazione coniugò due diverse etiche, quella cavalleresca e quella monastica e diede alla luce una regola religiosa sorprendente, rigorosamente antiascetica per dei frati e una regola coraggiosamente antieroica per dei cavalieri. Mi spiego meglio. Il modello ascetico dei monaci e degli eremiti era desiderio e aspirazione principale di tanti cavalieri in cerca di santità, ma di fatto rappresentava una tentazione per i templari, che avevano il dovere di costituire una squadra e di conservare un’ottima condizione fisica. Così, veniamo a scoprire che i frati templari sono obbligati a riposarsi la mattina, se stanchi; che non possono stare troppo in piedi durante le funzioni religiose e che devono mangiare a due a due nello stesso piatto perché ognuno possa controllare l’altro e impedirgli di digiunare troppo.

A questo proposito, in una sua predica il vescovo di Acri, Jacques de Vitry († 1240), racconta un episodio:

 

Siamo venuti a sapere di una persona molto religiosa, ma non secondo la scienza, che nella battaglia contro i Saraceni, al primo colpo di lancia, cadde dal suo cavallo. Un suo confratello lo sollevò con grande pericolo per la propria persona. Subito dopo però, per un altro colpo, costui cadde nuovamente a terra. Gli disse il suo confratello, quel cavaliere che lo aveva già sollevato due volte e liberato dalla morte: «Signor Pane e Acqua, attento a voi, perché se cadrete ancora una volta non sarò io certo a sollevarvi». Lo chiamava «Pane e Acqua» perché digiunando spesso aveva debilitato troppo il proprio corpo rendendolo inutile per la battaglia. Non dovete infatti tentare Dio ma fare ciò che spetta a voi, previa la ragione, solo allora potrete accogliere la morte per Cristo.

 

La stessa regola mitiga gli aspetti più appariscenti legati alla condizione di cavaliere e mette in dubbio i principi stessi della cavalleria. Aventure, largesse, prouesse: i tipici valori del cavaliere medievale esaltati nelle Chansons de geste sono assolutamente negati. Chi ha pronunciato il voto monastico di povertà non può esibire decorazioni d’oro o d’argento. Chi ha già dato tutto a Dio ha scelto di sacrificare, nel senso originario della parola e cioè «rendere sacro», ogni momento della vita e quindi non può avere interesse a fare gesti eccezionali manifestando la propria generosità attraverso regali. I cavalieri templari non devono nemmeno sfoggiare la forza fisica né gloriarsi delle proprie prouesses, perché ogni prodezza deve essere attribuita a Dio e la prestanza fisica non è certo un valore spirituale. Il loro dovere è l’obbedienza, non l’eroismo. Per esempio, negli statuti viene detto che, se un templare vede che un cristiano rischia la vita, lo deve soccorrere solo se la sua coscienza gli dice che sarà in grado di salvarlo. Detto questo, il coraggio era dato per scontato e il coraggio dei templari fu riconosciuto in numerose occasioni, anche dagli avversari. Non venne risparmiata neppure la caccia, perché ricreava un ambiente sociale aristocratico che i frati cavalieri avevano scelto di abbandonare. L’unica caccia permessa era quella al leone, simbolo dell’energia bestiale che l’uomo pio deve domare e utilizzare, nonché animale realmente pericoloso in Terra Santa.

I templari rappresentarono per l’epoca una grandissima novità. Furono considerati «rivoluzionari» innanzitutto dai loro contemporanei. Il cistercense Bernardo di Clairvaux († 1153) compose per loro un fortunatissimo «Elogio della nuova cavalleria», e il certosino Guigues I († 1137) de la Grande Chartreuse scrisse al fondatore maestro Ugo a proposito del doppio combattimento che si apprestavano a sostenere, quello contro il nemico esteriore e quello contro il nemico invisibile. Ci fu quindi chi approvò con vigore la novità di quest’ordine religioso che al tempo stesso era militare, come il cluniacense Pietro il Venerabile († 1156) o il canonico premonstratense Anselmo di Havelberg († 1158). Ma ci fu anche chi la osteggiò, come il cistercense Isaac de l’Étoile († 1169), che considerava la «nuova cavalleria» come un «nuovo mostro». Altrettanto dannosa era la novità introdotta dal monaco Pietro Abelardo, che applicava la logica e la dialettica alla teologia. Questo nuovo ordine, nato in Palestina, legittimato a Troyes, fu presentato al clero di tutta Europa durante il concilio di Pisa del 1135, e nel 1139, con la bolla Omnis datum optimum, fu sottomesso all’autorità diretta ed esclusiva del pontefice. Proprio per questo nel 1312 papa Clemente V, unico superiore dell’ordine, aveva tutta l’autorità per scioglierlo.

L’eccellenza e la fama dei cavalieri templari furono tali da indurre Guillaume le Maréchal († 1219), colui che fu definito già dai suoi contemporanei «il miglior cavaliere del mondo», a prendere l’abito del Tempio in punto di morte. Ma non fu l’unico: secondo la sua Vita, il grande trovatore Jaufré Rudel († 1170), inventore dell’amour de loin, giunto in Terra Santa durante la seconda crociata, chiese infatti di indossare l’abito templare morendo tra le braccia della sua amata, la contessa di Tripoli.



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14 giugno 2014   a cura di Alberto "da Cormano"   Grazie dei suggerimenti   alberto@ora-et-labora.net