Dio sicuramente spera
Maria Ignazia Angelini O.S.B.
Estratto da “Prendere bene tutte le cose” – Vita e Pensiero 2011
«Noi speravamo»
È luogo d’irruzione
originaria dell’Evangelo pasquale
(Lc 24, 13-35), la
speranza all’imperfetto: «noi speravamo che». E mi pare significativo,
nell’intento di riflettere sulla virtù teologale che sembra farsi desueta,
partire proprio da questo imperfetto: cioè dalle contraffazioni della speranza.
Compagni di ventura ai due in fuga da Gerusalemme, in questa declinazione della
speranza all’imperfetto siamo oggi portati ad addestrarci parecchio, con
discussioni e retrospettive di breve respiro, dialoghi senza orizzonte.
Nella
narrazione evangelica di Luca, quell’imperfetto esprime efficacemente la
situazione dei discepoli al mattino di Pasqua. Per i due sperare è un verbo
declinato al tempo passato, legato a quel livello immaginario della coscienza,
che ora ad essi pare riferirsi a uno stadio infantile. Parlando tra loro, e solo
poi con lo Straniero, danno parola al movimento del cuore «stolto e lento», che
presume di emanciparsi dal rischio che la speranza comporta, mediante il
commiato dal passato. Per ritrovare il coraggio della speranza essi dovranno,
paradossalmente, convertire la qualità della loro memoria. La loro speranza
passata è ormai svanita a motivo della contraffazione che gli si è sovrapposta;
a causa di un eccesso di certezze essa appare indocile
alla prova. Questo passaggio invece attraverso la prova appare oggi decisivo per
ritrovare la via della speranza.
La prova genera speranza
viva
«Non doveva forse il
Cristo patire, e così entrare...?». La speranza che rimane può nascere soltanto
accedendo a quella
necessità, che Gesù
aveva in molti modi annunciato nel cammino verso Gerusalemme. Il suo annuncio,
incompreso e imbarazzante, era stato da essi rimosso. Appunto una tale
necessitas ogni discepolo deve da capo apprendere, per poter
adattare la memoria alla misura della speranza.
San Benedetto, maestro
di vita al volgere di un’epoca, fa di questa
necessitas un gradino
della scala dell’umiltà:
Il secondo
gradino d’umiltà si ha quando uno, non amando la volontà propria, non si
compiace di soddisfare i propri desideri, ma imita con i fatti quella voce
(vocem
illam) del Signore che dice: Non sono venuto a fare la volontà mia
ma quella di colui che mi ha mandato. E similmente la Scrittura dice: Il piacere
proprio ha la pena, e la necessità genera la corona.
Tale sorta di
costrizione, che risulta di fatto essere una delle corde di recitazione di quel
cantus firmus che è la vita quotidiana, consente il passaggio
dall’immaginazione, dai
desideria sua,
all’obbedienza, dunque alla volontà di Dio. La
voluntas propria
comporta una sorta di pena; mentre la
necessitas (cioè
l’accoglienza libera di quella sorta di costrizione rappresentata dallo zoccolo
duro della realtà)
parit- dice Benedetto: ha una sua fecondità sicura, genera
pienezza (coronam).
Nel
salto alluso da questo gradino iniziale della salita all’umiltà, il riferimento
è alla forma di esistenza di Gesù, l’uomo figlio. La sua umanità qui è
identificata come «voce», quasi alludendo all’espressione di Giovanni il
battezzatore «l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta
alla voce dello sposo»
(Gv 3,29). Imitare nei
fatti la voce del Signore. Dare corpo di gesti all’obbedienza rivelata dal
Figlio, da lui imparata dalle cose sofferte: questa
necessitas è feconda
di futuro, è l’anima dura della speranza,
«è necessario
attraverso molte prove entrare nel regno», fa eco l’Apostolo
(At 14,22). Dunque, per tornare ai discepoli di Emmaus, c’è una
fecondità nell’accogliere, quale codice narrativo per raccontare la storia
dell’umano, quell’intreccio singolare della rivelazione di Dio che è il
pathein di Cristo, i suoi patimenti e la partecipazione ad essi.
A
partire dalla necessità dei patimenti del Messia, su quel tragitto da
Gerusalemme a Emmaus, prototipo di ogni conversione alla speranza, tutto Mosè e
i profeti sono raccontati come per la prima volta, e una nuova narrazione
dell’umano è inaugurata. Con una certa analogia, per ritrovare la nostra
speranza ‘fanciulla’ e dissolvere ogni passione triste, dobbiamo anche noi
ricordare il cammino percorso dalle generazioni recenti - dal Concilio in poi -
alla luce della passione del Cristo, e dell’intelligenza che essa finalmente
consente (come già nella narrazione di Gesù). Certo, narrazione anzitutto di
Mosè e dei profeti, ma - sul solco di quella
historia salutis -
anche del nostro tempo povero di speranza.
L’oggi della
postmodernità. La questione del senso
Il «noi speravamo» pare
essere, in questa prospettiva, come la cifra della
post modernità, del
post secolarismo, e anche del
post concilio. Siamo a
rischio di passar oltre un passato, nel quale abbiamo investito energie, ma
senza trarne la schiusura d’orizzonte pur attesa. La modernità che pure s’era
annunciata come una narrazione grande e promettente - libertà, uguaglianza,
fraternità - lascia delusa la nostra generazione. In Occidente oggi non si
spera, ma ci si difende da un futuro che appare soprattutto inquietante,
minaccioso. Paura e
acedia sono le
«passioni tristi» che soprattutto segnano la nostra epoca. In alternativa, è in
auge soltanto un’euforia spiritualistica, o efficientistica, che appare - a uno
sguardo più pensoso - rinnovata
praesumptio, pretesa
di sottrarsi alla prova del tempo, alla necessaria pazienza di ogni crescita
umana.
Ma la
«piccola speranza» resiste, in luoghi non subito appariscenti. Luoghi anche di
dolore, di fatica, in cui si vive l’umile coraggio di legami affidabili, il
coraggio di aprirsi all’avvenimento, di esporsi alla storia, in nome e in forza
di un Evento che per sempre le ha dato paradossale compimento.
Fermate il mondo, ci hanno rubato il futuro, era
il titolo di un articolo di giornale («Corriere della Sera», 16 marzo 2006). E
diceva della minaccia di distruzione della terra per l’evolversi della sregolata
situazione di sfruttamento delle energie. A volte, sembra che questo grido
accorato spunti - con tutt’altra ragione - anche dai luoghi del sacro, che si
vedono cancellare lo scenario per le loro suggestive rappresentazioni, e con
esso una apparenza di futuro. E
invece no: nell’emergenza, si tratta solo di aprire
la mente alla
necessitas quae parit.
In
verità questo nostro tempo, per il cuore che sappia vedere illuminato
dall’Evangelo, non è un’epoca senza speranza; è anch’esso il tempo «pieno»
annunciato
da Gesù di Nazaret. Convertirsi all’Evangelo - qui è
la vera questione. Ai credenti si ripropone a questo riguardo una grave
responsabilità. Quale?
Per
vocazione essi sono - dovrebbero essere dice san Paolo
(Col 3,5 ss.) - addestrati al discernimento delle passioni, alla
lotta contro le «passioni tristi», e dunque contro quell’angoscia che ottunde il
sensorio del futuro. Non può sfuggire dunque la grande sfida che ci viene
rivolta dall’epoca cui pure apparteniamo. Rimanere dentro la storia, in ascolto
delle Scritture che ci offrono il senso alla cui luce cercare di elaborare nella
fede la nuova narrazione del nostro tempo, in fraterna compagnia di tutti i
pellegrini della speranza. O altrimenti rassegnarsi a un oggi senza futuro,
perché incapace di fare memoria, afferrato all’attimo, al frantume.
Così,
apprendiamo dalle Sante Scritture, è stato fin dal principio. Nell’ora della
prova la speranza resiste, e trova consolazione non vana. Già le profezie della
nuova alleanza, del cuore nuovo rigenerato dall’alto
(Ez 36-37), si dischiudono fra i deportati, o nel buio della
cisterna dove il profeta è rinchiuso dai custodi dell’ordine vecchio (Ger
31-34). Al tramonto di un’epoca, nei sotterranei,
s’annuncia il nuovo. In tempi di angustia sono scritti i testi profetici più
ricchi di speranza.
In
questa luce, la crisi presente diventa intelleggibile quasi un nuovo deserto,
che annuncia a chi ha occhi per vedere la terra promessa. Solo nel tempo in cui
la bocca è vuota, il desiderio senza saturazione immediata, si può vedere che
cosa c’è nel cuore dell’uomo (cfr.
Dt 8,3), nel cuore che
si converte da ingordigia e idoli vani - queste sono le ‘passioni’ tipiche di
ogni cammino esodico. Anche il nostro, in modo singolare, è tempo di grazia; la
speranza nasce attraverso la prova.
Questa
è la prima porta di speranza: la grande narrazione biblica è la sorgente
zampillante a cui attingere luce per narrare il nostro tempo come tempo di
grazia. Ai due in cammino verso Emmaus, che tra loro hanno solo parole di
delusione, sfiducia e fuga, Gesù apre il senso delle Scritture. Racconta di sé,
inaugura la narrazione della speranza che essi apprendono prima solo come
«calore nel cuore», per poi dispiegarne loro stessi distintamente la narrazione
agli Undici, chiusi ancora nel cenacolo. Solo attraverso tale iniziazione essi
potranno accedere alla identificazione dello Straniero (Lc 24,31).
Il
principio vale ancora per i discepoli di oggi, inclini al ricordo un po’
‘scorato’ del nostro glorioso passato. Uno dei detti segreti di Gesù recita: «Il
mondo è un ponte: in esso transitate... ma non fatevi dimora». Dobbiamo
riappropriarci della nostra condizione di stranieri e pellegrini. La speranza
non l’ancoriamo al raggiungimento di ‘opere’, progetti, accasamenti, risultati
gratificanti. La nostra unica risorsa è la presenza del Vivente, certo sempre
nascosta e tuttavia accessibile,
per ducatum Evangelii
(Regula Monasteriorum, Prologo, v. 21). Senza indulgere al
lamento, la vera questione è come assumere la responsabilità di una speranza
viva; come attraversare la storia in cui siamo posti, e in essa riconoscere la
traccia della speranza.
Sarà il
primo capitolo di questa riflessione: come riappropriarci del presente mediante
la Scrittura; come dare figura e senso a ciò che viviamo, mediante il Vangelo.
Sulla scorta dell’istruzione di Gesù, proprio la scoperta di una ‘necessaria’
sofferenza dà la chiave di accesso alla speranza viva. Era necessario che le
comunità cristiane subissero questo contraccolpo a un’epoca di espansione forse
un poco indiscriminata, che partecipassero in certo modo alla passione
dell’Occidente, in un’epoca di precarietà, di denatalità. Era necessario perché
la loro eredità preziosa splendesse della luce degli inizi.
A prima
vista, per molte Comunità cristiane sembra di dover dire che la speranza,
piuttosto che essere professata e annunciata, langue. Ma non sarà che la teniamo
noi in ibernazione, mentre essa - «la piccola speranza, vacillante al soffio del
peccato, tremante a tutti i venti, ansiosa al minimo soffio, pure così fedele,
così dritta, così pura; invincibile e impossibile da spegnere» (Ch. Peguy) - più
che mai vive? La speranza infatti è legata a tutto ciò che inizia. E l’inizio di
Dio nella vita della sua creatura, della sua Chiesa, è incessantemente nuovo.
Occorre ricordarlo, riconoscerne l’impronta, custodirne l’energia. Occorre
essere sensibili a quell’ora in cui la notte fonda inizia a trascolorare
nell’aurora, che - ormai lo sappiamo, per sola grazia, per fedeltà salda -
certamente viene
(Rm 13,12). Sempre
così s’annuncia speranza.
La Scrittura ci insegna
la speranza
Una scorsa sul lessico
della speranza
Il
lessico della speranza, sia nell’ebraico del Testo Masoretico che nel greco dei
LXX, e puntualmente di riflesso nel latino della Vulgata, è complesso: speranza
non si dice con una sola parola. La pluralità dei termini usati si riferisce
sempre alla fede, e più precisamente al cimento della fede nel tempo. Un primo
plesso di termini si riferisce alla certezza di futuro che viene
dall’affidamento a un Tu (così un certo tipo di espressioni della Vulgata, come
«in te
speravi», in italiano vengono tradotte spesso «in te
mi rifugio»). Un secondo plesso, poi, allude alla dinamica
dell’esposizione, dell’attiva tensione in uscita da sé (così l’inizio del Salmo
40:
expectans expectavi Dominum: «nello sperare sono uscito verso il
Signore»). Sperare significa in tal senso uscire dal presente definito,
sollecitati dalla promessa, dalla memoria che rimanda ad un futuro altro
dall’immaginazione e dalla costruzione umana, ma anticipato dal sentimento
fondamentale della meraviglia per la fedeltà di Dio, sempre imprevedibile: «...
che non so misurare»
(Sal 71,15). In questo senso speranza è sinonimo di pazienza,
tanto che nel greco dei LXX si dice come
hypomoné: resistenza,
perseveranza, costanza nel rimanere saldi. Soltanto attraverso la prova, la
speranza assume la forma della relazione teologale, diventa dunque speranza in
Dio stesso piuttosto che nei suoi benefici. «Ora, che attendo, Signore? In te la
mia speranza»
(Sal 39,8).
Insomma, il lessico tecnico della speranza è quanto mai
dialettico. I due termini fondamentali per dire
speranza
nel Nuovo Testamento sono
elpís e
hypomoné. Il
primo si riferisce all’atto di affidarsi,
autorizzato da un vincolo riconosciuto come
affidabile; il secondo si riferisce
piuttosto ad una disposizione costante all’autosuperamento
nell’esposizione a un ‘oltre’, quale quella richiesta dal momento
del cammino in cui il vincolo originario
appare come smentito dalla vicenda esteriore. La prova a cui
è sottoposto l’iniziale affidamento non ha
certo il senso troppo banale di saggiarne la reale consistenza; ha invece il
senso di propiziare l’iscrizione di quell’atto di abbandono a Dio nella verità
del cuore.
Scrittura e speranza
Espressione forte di
questo secondo versante della speranza, ove Dio è percepito come colui che si
autoimplica nella vicenda umana, è l’atto stesso - posto
dagli agiografi in seno al popolo di Dio - di scrivere un testo:
soprattutto come esso si configura nella vicenda della scrittura profetica. La
scrittura, come atto umano, è già di per sé sempre «a futura memoria», e
l’ispirazione dell’agiografo ha in sé questa umile e grande speranza: ciò che
Dio dice a me, è per tutti, parla e parlerà alle generazioni future, al di là
della vicenda particolare, e dell’esistenza stessa dell’agiografo. I profeti,
infatti, anzitutto predicano, ma non trovano, nell’immediato, veri uditori. E
tuttavia il difetto di ascolto non decreta la vanità della loro parola, ma
impone che «si scriva, si chiuda questa testimonianza, si sigilli nel cuore dei
discepoli. Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il suo volto alla casa di
Giacobbe»
(Is 8,16 ss.). I discepoli sono pochi, i molti sono ottusi,
resistono all’ascolto. Proveniente da Dio, attraverso la viva carne
dell’agiografo scritta sul rotolo del libro, la Parola
di salvezza rimane nel nudo scritto, fino a che nasca un uditore fedele. Essa è
destinata a tutti, rimane per sempre ‘consegnata’ nella Sacra Scrittura: «Questo
si scriva per la generazione futura, e un popolo nuovo darà lode al Signore»
(Sal 101,19). «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette
perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di
una scadenza e non mentisce, perché certo verrà e non tarderà»
(Ab 2,3).
E ancor
più chiaramente in Geremia:
Nel quarto anno
di Joiakin, figlio di Giosia, re di Giuda, fu rivolta questa parola a Geremia,
da parte del Signore: «Prendi un rotolo da scrivere e
scrivici
le cose che ti ho detto riguardo a Gerusalemme, a Giuda, e a tutte le nazioni,
da quando cominciai a parlarti, dal tempo di Giosia fino ad oggi. Forse quelli
della casa di Giuda...»
(Ger 36,32).
E poi, di nuovo,
nell’ora più buia, «mentre l’armata del re di Babele assediava Gerusalemme e
Geremia era rinchiuso nel cortile della prigione», dunque nel cuore di una notte
che sarebbe stata lunghissima, è consegnato a Geremia il messaggio della
speranza: «Ecco cosa dice l’Eterno, Dio d’Israele:
metti per iscritto
tutte le parole che ti ho detto, in un libro. Poiché ecco venire i giorni in cui
Io ricondurrò il popolo».
Un
libro che attraverserà il tempo portando la fiaccola della speranza, opera di un
uomo votato a una morte desolante. E occhi capaci di trapassare il tempo
scopriranno in questo scritto la meraviglia della narrazione di ciò che accade
loro.
Non è
il testo di una meta raggiunta, la Sacra Scrittura; è, per eccellenza, il
documento della speranza. Se questa è l’origine del testo scritto, si comprende
come l’atto della lettura chieda al discepolo del Regno di ritrovare la passione
mai spenta degli agiografi; nel libro essi hanno versato il loro sangue, hanno
consegnato la loro vita, hanno sperato in ciò che non avrebbero visto, hanno
seminato ciò che altri avrebbero mietuto. Dalla Santa Scrittura i credenti
imparano a sillabare la speranza.
L’autentica speranza:
canto alla fedeltà dell’Inizio
La disposizione del
lessico della speranza sui due registri, affidamento e costanza, corrisponde ai
due tempi della vita umana. L’essere umano nasce come un ‘tu’ amato, prima di
alzarsi come un «io» che spera. La certezza di sé, e quindi il desiderio
assoluto di salvezza, è preceduto dall’evento della grazia. La meraviglia, che
presiede alla prima e piccola speranza della vita, allo schiudersi dell’infante
alla luce del mondo, ha in sé l’istanza ad articolarsi in parola di libertà. Già
come slancio originario di tale risposta deve essere intesa la piccola speranza;
essa per altro può diventare grande, adulta e ferma, unicamente attraverso il
cimento della prova, e dunque della costanza.
Possiamo trovare un’illustrazione sintetica ed efficace di questa struttura
teologale di fondo della speranza in un testo della Lettera ai Romani:
Giustificati
dunque per la fede, pace abbiamo con
(pros) Dio, attraverso il Signore nostro Gesù Cristo, attraverso
il quale anche l’accesso abbiamo avuto alla grazia, questa in cui stiamo, e ci
gloriamo
sulla speranza della gloria di Dio: e non solo, ci gloriamo
(kauchasthai nel linguaggio biblico esprime fiducia profonda alla
quale l’uomo gioiosamente s’innalza e s’estrinseca nella lode e nel canto, come
condensato della fiducia, fiducia radicale) anche
nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione fa sorgere la
perseveranza (hypomonè),
la perseveranza poi fa sorgere la prova, la prova la speranza. La speranza poi
non inganna perché l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori attraverso lo
Spirito santo a noi donato.
Il
testo paolino è illuminante per apprendere la nuova ‘narrazione’, che è il primo
frutto della speranza. Rispetto all’origine dell’avventura della fede, al
momento iniziale in cui la grazia viene incontro come il seno materno al
neonato, come la manna agli schiavi esuli nel deserto («potente in parole e
opere», raccontano i discepoli di Emmaus); rispetto alla «grazia nella quale già
siamo» perché ormai irrevocabilmente l’amore di Dio ci avvolge con il suo
abbraccio, la prova non è uno spiacevole incidente; la
krisis, piuttosto,
rivela la differenza della speranza di Gesù dalle speranze negl’idoli. La prova
fa sorgere la speranza «viva», il legame che rende saldi nella traversata del
mare, del buio, che orienta a scelte arrischiate, non ovvie e non immediatamente
vincenti, dentro la complessità della storia.
E
questa nostra epoca caratterizzata da tanti ‘post’, da tante possibilità che
paiono come ormai bruciate, da tante
esperienze vanificate, non è forse da riconoscere proprio alla luce di questa
scrittura paolina come l’ora della speranza?
Spendendo la vita, giorno dopo giorno, in una precarietà
sempre più minacciata che si rivela, nella fede, condizione opportuna per non
possedersi, per uscire da autonomie falsamente promettenti, non ci troviamo
nella condizione ideale per corrispondere alla tenacia della promessa di Dio,
per testimoniare la consegna alla sua fedeltà, nel rifiuto di ogni ‘espediente’
per sopravvivere?
San
Benedetto, in un’epoca non so se più o meno precaria della nostra, ma certamente
altrettanto minacciata di distruzione, costruisce tutta la sua regola monastica
sul fondamento della speranza come chiave di nuova, arrischiata, narrazione
dell’umano. Basti pensare alla conclusione del capitolo
IV, sugli strumenti delle buone opere. L’ultimo
‘strumento’, la corona dei settantaquattro strumenti per l’arte che introduce a
compiere opere belle, è appunto questo: «E della misericordia di Dio mai
disperare
(et de Dei misericordia numquam
desperare)»
(Regula
4,72). La speranza sub
contrario, esperita dinanzi al Volto inconoscibile incarnato nel volto del
misericordioso. Dove infatti è incontrabile quella «misericordia di Dio» di cui
secondo il Salmista è piena la terra (Sal 33,5), se non nel
Vangelo di Gesù, nella narrazione dell’umana vicenda inaugurata su quel tragitto
che scende da Gerusalemme a Gerico
(Lc 10,30)? Lì
avvenne, secondo la parabola, ciò che umanamente sembra impossibile, e lì il
volto della misericordia divina è svelato.
La
speranza in un tempo di crisi è da Benedetto delineata lungo tutta la sua
«piccola regola per principianti»
attraverso la molteplicità delle situazioni umane, ma soprattutto nella stesura
della «scala dell’umiltà», paradossale itinerario umano verso la pienezza
dell’amore. Proprio perché è capacità di trovare stabilità in un movimento di
uscita da sé, di affidamento totale, ancor prima che di servizio, l’umiltà
risulta, da quel settimo capitolo, tutta intessuta sull’ordito resistente della
speranza.
Come ci comportiamo da
testimoni di speranza?
La scelta di vita
cenobitica si presenta nella Chiesa come una delle possibili libere risposte
della speranza umana alla grazia dell’Inizio. Quell’intreccio di affidamento,
tensione d’attesa, pazienza irriducibile, esposizione all’altro (e all’oltre) da
sé, che abbiamo visto delineare i contorni del complesso continente della
speranza, trova nella forma monastica una sua peculiare coniugazione, un
paradigma di vita. Una risposta ‘parabolica’ nel senso che al paradosso della
grazia di Dio, offerta in Gesù, risponde con i paradossi di una vita quotidiana,
in comune, sulla ‘corda’ dell’umiltà - quale forma della reciprocità animata
dalla dialettica del Dono.
Alle
cause della non speranza del nostro tempo, a questo oscuramento del futuro che
affligge tutte le generazioni, i monaci hanno obiettivamente una loro parola
viva da dire, attinta dall’Evangelo e declinata nella forma della
koinonia, della comunione nel celebrare, nel leggere le Scritture,
nel legame fraterno. Su questa ’strana’ perseveranza come matrice di speranza
vale forse la pena di addentrarsi.
Stabilitas ed epoca presente
Quando Gesù ebbe
spiegato le Scritture, i due discepoli esprimono un desiderio immediato, che
corrisponde alla grazia di quella
lectio pasquale:
«rimani con noi». Il legame che si era instaurato attraverso quella lettura
richiedeva stabilità. Solo così il movimento di fuga dalla speranza («noi
speravamo») potrà convertire il suo corso. Forse le comunità monastiche oggi
hanno da riscoprire e ricomprendere nell’oggi la loro preziosa eredità, la
stabilitas, e declinarla in forme eloquenti nel tempo presente
così che si manifesti come affidabile voce, vissuto di speranza.
Stabilitas è qualità che riguarda anzitutto i legami, ma anche i punti di
appoggio, i riferimenti fondamentali al senso del vivere, dell’operare, del
patire e del morire.
A
fronte della mobilità, della flessibilità dell’epoca (non occorre che qui si
ripeta un’analisi, è sufficiente rimandare a un luogo ormai comune) penso sia
una priorità riproporre il senso della stabilità monastica, come declinazione
dell’amore che rimane, l’accento che può far risuonare quale
‘buona notizia’ affidabile l’appello alla speranza, è modo concreto della
responsabilità della speranza.
Questo
«rimanere stabilmente radunati in comunità» di cui parla Benedetto da Norcia
(R.B. 4,78) è tutt’altro che stasi, è il nome della fedeltà dei legami, secondo
dinamismi che ripropongono i paradossi evangelici. Ne accenniamo
due: il raduno del «piccolo resto», seguendo «il filo del profumo».
Ma al
di là di luoghi e tempi, sta l’importanza decisiva - perché i monasteri siano
luoghi in cui s’annuncia speranza non vana
- di custodire i legami comunitari: l’unico segno di riconoscimento dei
discepoli di Gesù, è anche l’unico fondamento della speranza. Forse succede
troppo spesso che per dar credito a modelli e strumenti importati da altri
orizzonti, da una cultura inquieta e distratta, si smarrisca il senso del
fondamento, si disperdano energie preziose.
«Lascerò in mezzo a
te un piccolo resto»
Con questa categoria -
il «piccolo resto» - di origine profetica ma che ha una connotazione storica
precisa, intendo alludere a un raduno
non sulla base di affinità elettive,
ma sulla base della grazia dell’Inizio, riscoperta e anzi ricevuta nuovamente
per grazia attraverso un processo di
crisi radicale.
La
categoria di «piccolo resto» nasce storicamente nel contesto delle grandi
deportazioni, che la fede del popolo di Dio leggeva come eventi di purificazione
dai grandi peccati storici di idolatria. Si identificava con quello sparuto
residuo di scampati alla deportazione, insignificante minutaglia, che rimanevano
nella terra a coltivarla, senz’alcuna forza di ricostituire un’identità di
popolo. Da questi, promette il Signore, ricomincerà la storia dell’alleanza.
La
storia di Gesù compie, universalizzandola, la storia del «piccolo resto». In una
differenza mai adeguabile, egli realizza in sé la verità delle promesse di Dio,
e attraverso di lui, «rimasto solo»
(Gv 12,24), il nuovo
popolo dell’alleanza deve passare per appropriarsi della verità delle promesse
di Dio.
Questa
categoria a mio parere dovrebbe interessarci seriamente, nel tentativo di
comprendere che senso ha un monachesimo come
testimone di speranza nella Chiesa. Se ha un senso il sorgere del monachesimo
come movimento di ritorno all’Origine, attraverso il riferimento alla
testimonianza dei martiri e la crisi della fede nell’impatto con un mondo in
decadenza, il paradigma biblico di piccolo resto può valere per riappropriarci
della responsabilità della speranza, affidataci nella Chiesa.
Piccolo
gruppo umano radunato non sulla base di affinità elettive; e cioè la comunità
monastica non si edifica come ‘comunità affettiva’, ma come insieme fondato
sulla fedeltà dell’Unico Signore, e la conseguente capacità dei membri di
accogliersi reciprocamente pur e proprio nelle differenze, povertà, miserie
fisiche e morali (R.B. 72). Il che, peraltro, genera affetti duraturi e saldi.
Questa forma comunitaria nella Chiesa di oggi non è affatto scontata.
A
partire dalla categoria teologica di «piccolo resto», che il Vangelo di Gesù
porta a pienezza - anzitutto nella persona di lui, ma anche penso alle
beatitudini, penso alle parabole del Regno, penso al discorso missionario («non
temere, piccolo gregge»,
Lc 12,32) -, una serie di riletture a cascata dei vari aspetti
della vita monastica sarebbero da riconsiderare come ‘luoghi teologici’ della
speranza. Purché il monachesimo sia
disposto a comprendersi come espressione di Chiesa e per la Chiesa e non come
élite di separati. Cosa intendo per «monachesimo
come fatto di Chiesa»? Fondamentalmente questo: che abbia come unico senso di
tenere alto non se stesso, ma l’interrogativo di Gesù e su Gesù nel tempo,
perché questo è il senso fondamentale della
Chiesa. Che il Vangelo attestato nei monasteri sia capace di ‘impastare’ la
vita. Così nel celebrare, nel leggere le Sacre Scritture, nei legami che matura,
la comunità monastica ha la pretesa di raccogliere la sfida di tentare una
narrazione intelligente (in senso evangelico) della storia di tutto il popolo di
Dio, dei «figli di Dio dispersi», e non un’allegoria autoreferenziale. In tal
modo la speranza vissuta sul filo della quotidianità albergherà Dio in tutta la
sua differenza, che equivale a fedeltà all’eccesso.
«...seguendo il filo del profumo». Speranza
e gratuità
L’esperienza cruciale
che sta sotto la categoria biblica di piccolo resto riceve ulteriore
determinazione da un altro
dinamismo, che - già presente
nell’Antico Testamento - si precisa soprattutto nel nuovo. La speranza ha un
sapore inconfondibile: è come il filo del profumo.
Nel
silenzio del sabato santo, in quell’abisso degl’inferi (di cui tanto ci ha
rivelato Silvano del Monte Athos: «Tienti consapevolmente agl’inferi e non
disperare»), che rappresenta un tempo insuperabile e decisivo della fede
cristiana, c’è sempre, più viva di tutti i massi,
una fessura da cui passerà la vita,
nuova, dall’alto. Un’impossibile fessura. «Speranza contro speranza». Speranza
che si àncora solo nella fedeltà del Dio vivente. Importante è avvistarla, anche
e proprio nell’ora della desolazione.
È
uno sguardo che gli evangeli appropriano per lo più alle donne: esse vanno al
sepolcro piene di presagi; nell’attesa malinconica i discepoli orfani aspettano
chiusi nel cenacolo o in fuga da Gerusalemme. Quella degli Undici uomini è
un’attesa vuota di anticipi: «noi speravamo». Una condizione che assomiglia
tanto a tanta parte di cristianesimo oggi, che semplicemente assorbe la temperie
della città.
È
compito indilazionabile il congedarsi da questa temperie, cui piace la compagnia
dei luoghi suggestivi dello spirito. Né la malinconica chiusura in cenacoli di
affinità elettive, né l’organizzazione di
happening o iniziative di beneficenza sono la fessura da cui
passerà il Risorto. Purché si sappia stare nel vuoto e nel silenzio del sabato
santo sensibili ai presagi, come le donne in quel sabato santo. Uno per tutti li
identifica, atto gratuito per eccellenza: ed è la preparazione attuata dalla
donna di Betania, con il suo profumo. Sul filo di quel profumo irromperà il
Risorto: «lasciate fare, essa anticipa la mia sepoltura». Essa anticipa la
sepoltura, usando profumo preziosissimo, profumo che custodisce il corpo per un
futuro non immaginabile.
Dal
profumo che avvolge il nuovo digiuno
(Mt 6,17), nel
segreto, quando lo sposo è veramente tolto, al profumo che anticipa la
risurrezione. Il «filo di profumo» è la traccia viva che deve attirare e
alimentare la speranza. Che significa il filo del profumo? Significa l’atto
gratuito, senza ostentazione né dissimulazione, la semplicità di quell’atto in
cui si stringe un legame gratuito. «Offra ogni umanità», direbbe san Benedetto
(R.B. 53,9). Ogni umanità, dice: ma questo si fa dopo aver letto la Santa
Scrittura per sventare le illusioni diaboliche, cioè legami di presunte affinità
elettive, che fanno tanto conventicola e non fanno Chiesa.
Leggere le Scritture sul filo della storia riscalda il
cuore e sventa le illusioni diaboliche. Allora sorge l’atto gratuito, anima del
legame affidabile, che resiste alla prova del sabato santo, e anzi attraverso
quel silenzio, quel vuoto, quel digiuno, prepara l’aurora.
«Il
filo del profumo» è tutt’altro che cristianesimo estetizzante, postmoderno. C’è
in esso tutta la severa bellezza, quella discrezione sobria, che sconfessa ogni
immagine di religione che esibisce il proprio lutto, il lamento. Quelle donne
che vanno al sepolcro con aromi
(Lc 24,1) sono discepole di Gesù, colui che spiegando sulla via di
Emmaus le Scritture Sante non racconta il lutto, ma dice qualcosa che riscalda
il cuore: ricorda quanta «necessaria» passione e tenacia ci sia nel mantenere i
legami nonostante tutte le interferenze e contraddizioni altrui. Un legame così
deve essere nutrito in ogni comunità
ecclesiale, a testimonianza della speranza viva. Sprecare cose preziose, per un
nulla - per dare segno che di qua è passato il Signore. Ed è pazientemente,
tenacemente atteso.
Oggi,
per noi, c’è speranza? L’epoca cui apparteniamo ci fa attraversare un difficile
guado della fede. Da una società organica (in cui un ordine prestabilito
accompagnava i gesti e le decisioni del singolo o del gruppo, per lo più di tipo
familiare), a una società complessa che non conosce in alcun modo il consenso
circa il fine ultimo, circa il senso. In questo contesto le passioni tristi sono
la tipica reazione di chi vive e percepisce il tempo che sta davanti in modo
opposto a trent’anni fa: lo percepisce come minaccioso e ostile. Il futuro ha
cambiato segno: continuano a dircelo. E questa crisi esterna investe
l’interiorità. Il soggetto si sente minacciato e insorgono in lui inquietudine e
senso d’impotenza, una soggettività ‘straniata’.
Ma la
lettura della storia che la Scrittura ci dischiude, ci insegna a narrare una
storia altra. A partire da quel racconto di Gesù che, sulla via da Gerusalemme a
Emmaus, spalanca un orizzonte nuovo di lettura della storia. In quel tragitto
paradigmatico, a ogni evento umano, percepito come ‘non saturato’ dalle
apparenze narrate dalla cronaca, rivela come suo futuro l’amore di Dio, una
storia diversa da quella scandita dalla rabbia del potere dominante, ansioso del
tempo che sfugge. Così, a questa narrazione nuova, fa eco una prassi analoga
della comunità nascente; penso ad esempio ad
At 4,23-31, dove la rilettura di un evento abbastanza squallido di
incarcerazione per niente, è narrata sulle righe del Salmo 2, e così
l’avvenimento è ’saturato’ del suo peso di speranza.
Le agonie della speranza
«Noi speravamo»: anche
riguardo
alle varie progettazioni di sopravvivenza elaborate in
contesti ecclesiali ricchi di mezzi e poveri di legami affidabili, si deve dire:
non è questa la speranza. Non è speranza quella che si alimenta alle nostre
evidenze, con un’operazione di proiezione nel futuro. La vicenda dell’Occidente
moderno ci deve istruire. Gli anni di un pensiero utopico, alimentato dalla
fiducia in se stessi, a cui fa seguito la cultura dell’angoscia o del non senso.
Siamo allenati da una lunga tradizione spirituale a indicare la vanità
dell’investimento di sé e della propria
identità in forme immediate di benessere emotivo. L’uomo economico e l’uomo
psicologico. Non c’è speranza nel tentare di sopravvivere a ogni costo,
soprattutto se il prezzo è la fedeltà alla forma evangelica.
Dopo la
caduta delle grandi narrazioni, si fa fatica ad articolare un orizzonte alla
speranza: preferiamo restare aggrappati al presente, cercando una fedeltà alla
terra attraverso espedienti. Ma il frammento del tempo attuale, quale senso
porta? Forse quello di consentirci di ‘fare un po’ di bene’, senza voltarci
indietro e senza guardare avanti (‘navigare a vista’)? Ma s’assapora in questa
prospettiva il gusto chiuso dell’autoreferenzialità.
La
prospettiva della sopravvivenza non annuncia alcuna speranza, piuttosto o è
irrilevante o addirittura è di scandalo ai cercatori di Dio, a coloro che
cercano ragioni per sperare.
Speranza e perseveranza.
La speranza e la morte
La pazienza è una delle
anime - lo abbiamo visto nella rapida scorsa sul lessico biblico - della
speranza cristiana. La pazienza è il contrario della pigrizia, dell’inerzia
anche nell’esporsi all’imprevedibilità del Dio vivente. Così la speranza di
Giobbe, che ha il volto di una pazienza tutt’altro che rassegnata, si oppone al
dio degli amici di Giobbe. Questo volto della speranza ci riguarda in quel largo
settore della vita umana che riguarda la malattia, l’invecchiamento, la morte.
Non è scontato che le comunità cristiane abbiano raccolto la sfida della morte e
ne abbiano fatto il luogo della speranza. Come infatti si delinea negli ambiti
ecclesiali lo spazio per la presenza, sempre più ‘invadente’, di fratelli e
sorelle il cui corpo è «segnato dalla morte»
(Rm 4,19)? Come viviamo la presenza, vicino a noi, di malattie
degenerative della mente e dell’imminenza della morte? Come riconosciamo in
questi membri della Chiesa i testimoni privilegiati di quella «bellezza che
salva il mondo», la bellezza di un umano che, al bordo estremo dell’orizzonte
terreno, è segnato a caratteri di fuoco dall’appartenenza al Dio Vivente?
Siamo
salvati nella speranza. La speranza è quell’àncora che penetra «oltre il velo»,
in un oltre che è però già adesso l’intima consistenza delle cose. Nonostante la
cultura del frammentario, provvisorio, virtuale, in realtà non ci si
disaffeziona alla sua silenziosa e rocciosa Presenza nel fragile, in colui che
l’età rende debolissimo, fragile, nell’impotenza del morire.
Il
gesto di speranza suprema appare allora nel prendersi cura gratuita del debole,
e - ancor più - in quell’accettazione di essere limitati, e perciò
nell’accettare di morire, quando viene l’ora. Sia per la persona singola che per
l’istituzione. Senza voler caparbiamente sopravvivere a se stessi; la
sopravvivenza, cristianamente, è solo dono: «Non lascerai che il tuo santo veda
la corruzione»
(Sal 16,10), «è Dio la mia sorte per sempre. Il mio bene: stare
vicino a te»
(Sal
73,26.28). Senza artificiosamente voler produrre una propria discendenza. La
speranza cristiana ci impegna anche a questa povertà teologale: non pretendere
di garantire la propria sopravvivenza - sia attraverso opere che attraverso
adescamento di persone.
La speranza e
l’acedia
È
urgente smontare
l’immagine oleografica
della speranza. Attraverso la prova affrontata nella storia, i cristiani lottano
contro l’acedia,
contro la precipitosa resa alla convinzione che «non c’è più niente da fare nel
presente»; che qui e adesso tutte le possibilità di vita sono esaurite. Lottano
nel sottoporre alla prova del futuro le conquiste del passato. L’essenziale
della lotta non è la sopportazione, ma l’accettare di crescere attraverso il
passaggio oscuro: il travaglio di un cambiamento non voluto, il venire meno di
immagini capaci di dare figura a un futuro che accenda il desiderio.
La
questione della speranza è quella di rinascere quando si è vecchi, invece di
invecchiare. Speranza è la costanza dell’attesa di un futuro senza immagine:
Quel che occhio
non vide, né orecchio mai udì, quel che mai è salito in cuore umano, questo Dio
ha preparato per coloro che lo amano
(1Cor 2,9).
I pozzi dell’acqua della
speranza, sempre di nuovo si ritrovano intasati dalle illusioni e nostalgie. La
memoria zampillante dell’inizio, non deve mancare di compiere la sua opera:
rimuovere gli stereotipi. Ecco l’antidoto all'acedia,
sia di fronte alla ripetizione, sia di fronte all’accadimento deludente. Accade
altro da quello che ci si aspettava: il presente come ’prova’ della speranza e
sua soglia di ingresso. Dagli idoli dell’autocelebrazione ci si libera solo
convertendosi alla memoria del Dono originario.
La speranza del chicco di senapa
Nell’ora del turbamento
supremo, Gesù esprime una delle parabole più intense della sua predicazione, la
parabola della speranza: quella del chicco di grano, che in certo modo riprende
e supera quella del «piccolo resto». Coniuga il tema della speranza con quello
della giustizia. Per sé è un inquietante fronteggiarsi: che speranza può
alimentarsi in un presente saturo di ingiustizia? «Ora il mio cuore è turbato: e
che dirò?»
(Gv 12,27). Lo snodo della speranza si attua ancora nella logica
del Dono, la logica della sovrabbondanza, come diceva Paul Ricoeur: il chicco di
grano, caduto in terra solo, nel suo libero donare la vita porta molto frutto.
Apre il futuro, con nuova giustizia.
Giustizia che rispecchia la carità della prima ora - per usare l’espressione del
presbitero alla Chiesa di Efeso
(Ap 2,4). Gli fa eco
la parola di papa Benedetto
XVI:
«nel confronto faccia faccia con Dio che è Amore il monaco avverte l’esigenza
impellente di trasformare tutta la propria vita in servizio»
(Deus Caritas est, 40).
È
dunque l’umile amore che rende ragione della speranza, quello che regge alla
sfida del dilagare dell’ingiustizia
(Mt 24,12). Umile, e
facilmente umiliato.
Ad una
promessa meravigliosa, quella rivelata in Gesù, figlio dell’uomo, corrisponde
dunque una realtà difficilissima. C’è il rischio per le comunità cristiane di
valere come alibi per la fuga, in un presente di culture cui fanno difetto
prospettive. Si danno invece minoranze convinte e creative che hanno trovato la
perla preziosa e vivono questo ritrovamento in maniera convincente.
Difficile virtù, bambina, la speranza. È un rapporto con il definitivo. In cui
il livello del desiderio, della paura, della volontà - della fede - è implicato.
Apertura al futuro, come bambini liberi da schematismi conclusivi. Ma occorre
oggi nuovamente comprendere che la speranza non è semplicemente il desiderio
rivolto al futuro. La speranza si accende nella consapevolezza che il desiderio
del bene è sempre esposto al fallimento. Essa è dunque piuttosto la
trasformazione che il desiderio subisce quando, consapevole della propria
finitezza, esce dalla cultura della omologazione, si apre alla Promessa di Dio,
fedele oltre ogni umana infedeltà.
Speranza di Dio: Dio
spera?
Alla radice di tutto
questo balbettare c’è una certezza: è possibile per noi, pur e proprio nel tempo
della povertà, annunciare speranza, purché (e nella misura in cui) apriamo gli
occhi alla speranza di Dio, rivelata in Gesù. In Gesù sappiamo che anche Dio
spera, anzi soprattutto Dio spera, poiché sperare è schiusura del tempo, a
partire da un’originaria pienezza. Speranza è dimensione vitale del processo di
creazione.
Dio,
sicuramente, spera. Dipende da noi sperare dinanzi a lui: non dal nostro più o
meno innato ottimismo, ma dall’apertura alla speranza di Dio, rivelata in Gesù.
Per noi, in corrispondenza allo sperare di Dio che crea, che ama, che in Gesù si
annienta in quella «obbedienza fino alla morte di croce», sperare è - per
esprimerci con un paradosso che cantiamo nella salmodia, che dunque
dice l’indicibile del nostro desiderio –
sperare è, come fecero quelle donne «al mattino
del primo giorno dopo il
sabato», «svegliare l’aurora»
(Sal 57,9). Questo
paradossale atto che
s’avvia nella
celebrazione e si continua in tutti i gesti
della quotidianità, paradossale interruzione del cerchio
mortale della ripetizione, realizza una sorta
d’immersione in un evento naturale - l’aurora -, simbolo
vivente della fedeltà, della speranza di Dio, nel quale l’origine
luminosa della vita irrompe sempre da capo nel
buio
della nostra condizione mortale, e annuncia - attraverso le brecce
delle nostre mura di difesa - la grazia di un giorno, veramente
irrevocabilmente, nuovo.
Gli
occhi spalancati nella notte devono scorgere i piccoli fili, i bagliori della
speranza, e dal loro invisibile profumo farsi guidare a sortite, improbabili ma
piene di felicità, solo intravista e già gustata.
Tu che fai nuove tutte le cose,
rinnovami con la tua conoscenza
e muovi dentro il mio cuore
la tua autentica speranza.
Oceano di benevolenza,
sottraimi al turbinio della dissipazione
[la cui causa è l’essere] senza di te
e innalzami fin dentro la fiamma
del fuoco della fede in te.
Dammi da bere il vino che mi fa sentire la tua speranza.
RRendimi degno di questo ardore del cuore
che, essendovi caduta una goccia della tua speranza,
brucia senza consumarsi (Isacco di Ninive)
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18 luglio 2024 a cura di Alberto "da Cormano"/span> alberto@ora-et-labora.net