SAN BENEDETTO E L'EUROPA
SAN BENEDETTO, NOI E L’EUROPA
BARTOLOMEO SORGE S.J.
Conferenza tenuta a Montecassino, il 21 marzo 1980,
in occasione della solenne apertura delle celebrazioni per il XV centenario
della nascita di san Benedetto.
E
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Che significato può avere commemorare il XV centenario della nascita d’un uomo,
per quanto grande egli sia stato nel suo tempo? Un evento di 1500 anni fa può
dire ancora qualcosa a chi, come noi, ha visto in pochi decenni aprire e
chiudere capitoli interi di storia? E, in mezzo alle gravi preoccupazioni dei
nostri giorni, non è fuor di luogo attardarsi in commemorazioni erudite di un
passato lontano, il cui interesse rischia di esaurirsi nel gusto raffinato della
memoria storica?
Ma, san Benedetto non appartiene al passato. Egli è vivo e opera ancora in mezzo
a noi, sia attraverso l’opera dell’istituzione monastica da lui creata, sia
attraverso l’attualità del suo messaggio.
Sullo stipite della porta del monastero di Subiaco si leggono scolpite queste
parole: « Le stelle brillano di più, quanto più fonda è la notte » (Nonnisi
in obscura sidera nocte micant). E’ una scritta che esprime bene il senso
della nostra commemorazione. Quanto più profonda è la crisi che stiamo vivendo,
quanto più imprevedibili ne sono gli sbocchi, tanto più ricchi di luce si
rivelano per noi gli insegnamenti e le opere di san Benedetto da Norcia.
Perciò, ricordarne il XV centenario della nascita non è cedere al gusto
dell’erudizione, ma piuttosto - come ha sottolineato Giovanni Paolo II - è
lasciarsi illuminare da un astro di prima grandezza, per « rileggere e
interpretare alla sua luce il mondo contemporaneo » (1).
Nel 1947, Pio XII, celebrando il XIV centenario della morte, definì san
Benedetto il Padre dell’Europa, Pater Europae.
« Mentre l’Impero romano - disse -, corroso dalla vecchiaia e dai vizi andava in
rovina e i barbari ne invadevano le province, Benedetto, chiamato l’ultimo dei
grandi romani, unendo insieme la romanità e il Vangelo, vi attinse la forza che
contribuì moltissimo ad unire i popoli dell’Europa sotto il vessillo auspicale
di Cristo e a formare la cristianità » (2).
Alcuni anni dopo, Paolo VI, riprendendo e sviluppando il pensiero di Pio XII, il
24 ottobre 1964 proclamò san Benedetto Patrono d’Europa, poiché - spiegò
- egli con il suo lavoro personale e con l’opera dei suoi figli aveva portato la
civiltà cristiana dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall’Irlanda alla Polonia,
« con la croce, con il libro e con l’aratro » (3).
In questa sintesi tra fede, cultura e lavoro sta l’essenza del messaggio di san
Benedetto, l’originalità della istituzione benedettina. In questa sintesi tra
croce, libro e aratro risiede pure l’ispirazione, l’idea stessa di Europa.
Perciò, per cogliere l’attualità dell’eredità che san Benedetto ha lasciato
all’uomo europeo di ogni tempo, compiremo due passi. In primo luogo, vedremo
come l’idea di Europa sia nata dall’unità di popoli diversi nella medesima fede,
nella cultura e nella concezione del lavoro e di un ordine economico a misura
d’uomo. In secondo luogo, vedremo quali orientamenti concreti il messaggio
benedettino suggerisce oggi a noi, nel costruire la nuova Europa.
La croce, strumento dell’unità spirituale dell’Europa
Non c’è dubbio: da un punto di vista storico, il primo e più decisivo elemento
che ha dato forma e unità all’Europa è stato la fede cristiana. Nei secoli V e
VI, cadute le deboli difese dell’Impero romano, i barbari ne invasero le
province: i visigoti invasero la Spagna, i vandali il Nordafrica, i franchi la
Gallia; l’Italia fu invasa dai goti, dagli ostrogoti e dai longobardi, la
Britannia dagli angli. Ora, il fatto religioso restava il più forte elemento di
contrasto e di divisione fra vincitori e vinti; gli abitanti del vecchio Impero
erano cristiani; gli invasori, invece, erano pagani (come i franchi e gli angli)
o ariani (come i goti). Ciò che consenti la nascita d’una coscienza europea
comune fu l’assimilazione tra elemento romano ed elemento germanico. Ed essa si
compì con l’adesione di tutti all’unica fede di Roma.
Ora, in quest’opera di conversione e di unificazione spirituale, durata diversi
secoli, san Benedetto e i monasteri benedettini ebbero un posto di primissimo
piano. Partendo da Montecassino, la Regola benedettina si diffuse in tutto
l’Occidente: in Italia a Terracina e a Roma, dove si fece monaco benedettino
colui che sarebbe divenuto papa Gregorio Magno; in Gallia e in Bretagna, dove lo
stesso Gregorio Magno inviò nel 596 il monaco Agostino, priore del monastero
romano di Sant’Andrea, con trentanove monaci. In Occidente, non mancavano altre
regole monastiche: in Irlanda quella di san Colombano; in Inghilterra quella di
san Columba di Iona; in Gallia quella di san Cesario d’Arles. Ma, a poco a poco,
la maggior parte dei monasteri, pur ispirati ad altre regole, finì con adottare
quella benedettina. Tanto che, nel 670, il Concilio di Autun diede come
direttiva generale di vita monastica quella di seguire « tutto ciò che è
insegnato dalla Regola di san Benedetto » (4).
Questa diffusione della Regola benedettina in Occidente significò non solo uno
sviluppo straordinario della vita cenobitica, ma anche un potente impulso
all’evangelizzazione dei popoli barbari. Infatti, ogni monastero benedettino si
trasformò in testimonianza vivente e in centro di irradiazione della fede
cristiana. Lo stesso san Benedetto aveva dato per primo l’esempio ai suoi monaci
di come la loro presenza dovesse servire alla evangelizzazione dei territori
dove erano mandati a vivere e a lavorare. San Gregorio racconta nei Dialoghi
che san Benedetto, giunto sul Monte di Cassino dove sorgeva un tempio in
onore di Apollo,
« fece a pezzi l'idolo, rovesciò l’altare, sradicò i boschetti e dove era il
tempio di Apollo eresse un oratorio in onore di san Martino [di Tours] e dove
era l’altare sostituì una cappella che dedicò a san Giovanni Battista. Si
rivolse poi alla gente che abitava lì intorno e con assidua predicazione
l’andava invitando alla fede » (5).
E sottolinea che il Santo non si limitava a predicare alla gente del luogo, ma
affrontava apertamente i pagani per invitarli alla conversione. È rimasto famoso
- tra gli altri - l’incontro del Santo col re goto Totila, a Montecassino.
Racconta san Gregorio:
« Totila allora si avviò in persona verso l’uomo di Dio [...]. Benedetto lo
rimproverò della sua cattiva condotta e in poche parole gli predisse quanto gli
sarebbe accaduto. ”Tu hai fatto molto male - gli disse - e molto ne vai facendo
ancora; sarebbe ora che una buona volta mettessi fine alle tue malvagità. Tu
adesso entrerai in Roma, passerai il mare, regnerai nove anni, al decimo
morirai”. Lo atterrirono profondamente queste parole, chiese al Santo che
pregasse per lui, poi partì. Da quel giorno - conclude san Gregorio - [Totila]
diminuì di molto la sua crudeltà » (6).
I monaci, dunque, seguendo l’esempio del loro Padre, non si contentarono di
dedicarsi alla lode di Dio, ma si trasformarono in ferventi evangelizzatori
delle popolazioni ancora pagane. In questo modo, Villibrordo evangelizzò la
Frisia, Bonifacio la Germania, Anscario la Danimarca e la Svezia, Adalberto
l’Ungheria e la Boemia. Il frutto principale di questa cristianizzazione
dell’Europa, lenta e faticosa, fu la coscienza della unità spirituale che servì
a saldare tra loro popoli diversi. La spada prima li aveva divisi, la croce ora
li univa.
Perciò, possiamo dire che il contributo specifico e determinante, dato da san
Benedetto alla costruzione dell’Europa, fu innanzitutto d’ordine spirituale e
religioso, non culturale ed economico. Egli, infatti, fu l’uomo del primato di
Dio. Da Norcia a Roma, da Roma a Subiaco, da Subiaco a Montecassino, tutta la
sua esistenza fu una continua ricerca di Dio. Quest’ansia egli trasfuse nei suoi
monaci e tradusse nella vita cenobitica. La prima cosa da fare, quando uno
chiede di entrare in monastero - leggiamo nella Regola - è sottoporlo a dure
prove, per vedere « se cerca veramente Dio » (7). In concreto, questa ricerca si
deve tradurre nell’impegno di « servire Dio solo » in ogni cosa (8) e di «
sopportare per il Signore tutte le contrarietà », allo scopo di « giungere al
perfetto amore di Dio » (9). Soprattutto, questa ricerca deve avere come suo
movente interiore il desiderio di un generoso servizio a Cristo. Insiste san
Benedetto nella sua Regola: chi entra in monastero s’impegna a rinunciare alla
propria volontà e a mettersi sotto l’ubbidienza dell’abate « per militare per il
vero re, Cristo Signore » (10). La legge costitutiva dell’istituzione monastica
benedettina sta tutta qui: « Niente preferire all’amore di Cristo » (11). San
Benedetto traduce questo primato di Dio e dell’amore di Cristo nel compimento
dell’« opera di Dio », l'opus Dei per eccellenza, che rimane il compito
essenziale della vita cenobitica: la lode di Dio - sette volte al giorno -
mediante la celebrazione dell’Ufficio divino (12). Le altre azioni della
giornata - sia la lettura meditata della Scrittura (lectio divina), sia
il lavoro manuale (labor manuum) - sono importanti, ma hanno lo scopo di
disporre a compiere meglio l’opus Dei( 13). Perciò, il motto: Ora et
labora, sebbene non si trovi nella Regola e non sia stato coniato da san
Benedetto, tuttavia ne esprime molto bene il messaggio, perché realizza la
sintesi tra preghiera e lavoro e, nello stesso tempo, accentua la priorità che
la preghiera deve avere sul lavoro.
Questo senso della gerarchia dei valori - prima Dio, poi l’uomo; prima i valori
spirituali, poi quelli materiali - come costituì l’anima della vita cenobitica
benedettina, così passò ad essere la piattaforma della christianitas
medievale. In virtù della medesima fede religiosa, popoli e regni diversi,
spesso divisi e in lotta fra loro, convennero in una medesima scala di valori.
Nacque così la civiltà europea, fondata sul riconoscimento del primato di Dio
sulla storia, dello spirito sulla materia; una civiltà, nella quale il benessere
temporale va subordinato e finalizzato allo sviluppo spirituale dell’uomo, al
raggiungimento del suo fine trascendente; dove la norma etica di giudizio e di
comportamento si fonda ultimamente in Dio, e da lui riceve i caratteri di
universalità e di assolutezza, ai quali ispirare la legislazione civile degli
Stati. Fu così che l'Europa nacque innanzitutto come unità spirituale, e il
cristianesimo ne divenne l’anima.
Il libro, strumento dell'unità culturale dell’Europa
Il secondo elemento che ha dato forma e unità all’Europa è stata la cultura.
Ora, anche per quanto riguarda la cultura, furono proprio san Benedetto e i suoi
monaci a riaccenderne in Occidente la fiamma, che le invasioni barbariche
avevano quasi del tutto spenta. Certo, il merito d’aver promosso la rinascita
della cultura greco-romana e cristiana va anche ad altri. Tralasciando di
parlare di Severino Boezio e di altri, non possiamo qui non accennare all’opera
del monaco calabrese Cassiodoro (480-575), contemporaneo di san Benedetto. Dopo
essere stato il segretario di Teodorico l’ostrogoto, egli fondò un monastero a
Vivarium, impegnando i suoi monaci in un serio lavoro culturale, sia attraverso
la copiatura dei manoscritti antichi, sia attraverso la traduzione di opere
greche, sia anche spingendoli a comporre personalmente opere nuove. I monaci di
Vivarium, guidati da una severa Ratio studiorum e dalle Institutiones
di Cassiodoro, coltivarono, così, la grammatica, la retorica, la dialettica,
l’aritmetica, la musica, la geometria e l’astronomia. Il monastero di Vivarium
si convertì in un centro culturale di grande valore, in una schola
cbristiana, il cui scopo era quello di formare i professionisti
dell’insegnamento (professos doctores), in grado poi di diffondere, con
gli scritti, la buona dottrina. Ma Vivarium non ebbe avvenire. Morto il
fondatore, anch’esso cessò poco dopo.
Diversi, invece, furono l’impostazione e l’esito dell'opera culturale di san
Benedetto. Innanzitutto, la sua intenzione nel fondare il monastero di
Montecassino non fu quella di creare un centro culturale, come aveva fatto
Cassiodoro. Il monastero non doveva essere una scuola di insegnamenti profani,
bensì - come dice la Regola - una « scuola del servizio di Dio » (14), dove il
monaco veniva soltanto per imparare a cercare Dio. Tuttavia l’attività culturale
vi occupava un posto importante. La stessa priorità data alla lectio divina
esigeva che ogni monastero avesse una scuola in cui insegnare a leggere e a
scrivere agli illetterati; che vi fosse una scuola di grammatica, in cui si
dessero i primi elementi di cultura generale ai ragazzi che si offrivano (oblati)
al monastero, per restarvi come monaci; che abbondassero libri e codici con i
testi della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa, alla cui lettura i monaci
erano istantemente invitati dalla Regola (15). Così, i monasteri benedettini
sparsi in tutto l'Occidente, pur non proponendoselo direttamente come fine,
divennero i più importanti centri di elaborazione e di irradiazione culturale; e
questo, proprio quando sembrava che le invasioni barbariche con le loro
devastazioni volessero cancellare, ogni vestigio di civiltà.
I benedettini, dunque, sono considerati a pieno titolo i promotori della nuova
cultura europea. Ricordiamo alcuni dei grandi pionieri. Il monaco Gregorio Magno
- con la sua Regola pastorale, con i suoi Moralia in Job, con i
suoi Dialoghi, le sue Omelie e le sue Lettere - gettò un
ponte tra l’età patristica e il Medioevo cristiano, esercitando un influsso
determinante su tutta la cultura nuova. Il monaco Agostino portò la nuova
cultura in Inghilterra dove, un secolo più tardi, sarebbe sorto il monaco Beda
il Venerabile, grande conoscitore degli autori e dei poeti latini (in
particolare di Virgilio), il quale fuse in una sintesi armoniosa l’eredità
culturale dell’antichità latina con l’eredità patristica. In seguito, gli scambi
culturali si intensificarono ad opera di monaci missionari. Così, un manoscritto
di Tito Livio, copiato in Italia nel V secolo, dapprima fu introdotto in
Inghilterra nel VII e nell’VIII secolo, di qui poi fu portato nella regione di
Utrecht da un missionario anglosassone. In Germania, il monaco Bonifacio, che
evangelizzò l’Europa centrale, nel mezzo d’una attività apostolica intensissima,
trovò il tempo di comporre un opuscolo sulla metrica e un trattato di ars
grammatica. Paolo Diacono, monaco di Montecassino, e Alcuino, monaco di
York, furono i principali realizzatori del disegno di riforma politica ed
ecclesiastica di Carlo Magno, che avrebbe portato alla « rinascita carolingia ».
Notevolissimo, infine, fu l’influsso esercitato da Benedetto di Aniane (che
alcuni considerano come il secondo fondatore del monachesimo benedettino), il
quale fissò le linee definitive del programma culturale dei monaci medievali.
Dunque, la nuova cultura - la cultura europea - nacque, come sintesi tra
l’eredità classica pagana e l’eredità cristiana, come impegno di illuminare con
la fede le culture non cristiane. Rabano Mauro, abate di Fulda, scrive: « Se
quando leggiamo i poeti pagani, incontriamo qualcosa di utile, lo convertiamo al
nostro dogma (ad nostrum dogma convertimus) » ( 16). Contemporaneamente
nasceva pure una lingua nuova: il latino cristiano medievale, che continuava il
latino classico, ma lo rinnovava profondamente. In tal modo l’unità europea non
fu solo di fede e di cultura, ma anche linguistica. Su questa piattaforma si
realizzò una omogeneità culturale tra tutti i popoli del vecchio Continente,
fondata su un’antropologia nuova; una cultura ispirata a una scala di valori
universalmente accettata, al cui vertice rimase il primato dello spirito e di
Dio, quale fondamento ultimo della dignità della persona umana e dei suoi
diritti inalienabili, primo fra tutti quello alla vita. Grazie a questa sua alta
concezione antropologica, la cultura europea avrebbe toccato vertici non
raggiunti da altri.
L’aratro, strumento di un ordine economico a misura d’uomo
Il terzo elemento, infine, che ha dato forma e unità all’Europa è stato la
concezione profondamente umana del lavoro, posta a fondamento d’un ordine
economico che si voleva a misura d’uomo. Ancora una volta, convinti ispiratori e
diffusori di questa visione del lavoro, rivoluzionaria nei confronti della
concezione pagana, furono i benedettini, che rivalutarono per primi la fatica
intellettuale e fisica.
Per quanto riguarda il lavoro intellettuale, fu di straordinaria importanza -
accanto all’insegnamento e allo studio - la dedizione con la quale i monaci si
applicarono a ricopiare le opere classiche. Ciò costituiva una vera e propria
forma di lavoro.
« La copia - scrive dom Jacques Laclercq - era una forma autentica di ascesi.
Decifrare, su un manoscritto talvolta mal conservato, un testo spesso scritto
male e lungo, riprodurlo con esattezza, costituiva una fatica nobile, senza
dubbio, ma dura e meritoria. Gli scrivani del Medioevo non hanno mancato di
spiegarcelo: tutto il corpo è teso verso lo sforzo delle dita, l’attenzione deve
essere costante e precisa. Era un lavoro insieme manuale ed intellettuale. La
calligrafia - lo sappiamo bene - era un’arte difficile. Ma non si trattava
solamente di ricopiare. Era necessario, per ogni testo trascritto, procedere ad
un minuzioso lavoro di revisione, di correzione, di collazione, di critica »
(17).
Ma san Benedetto voleva che i suoi monaci si impegnassero soprattutto nel «
lavoro delle mani » (18), nel « lavoro dei campi » (19) e in altri lavori
artigianali, necessari per la vita del monastero, affinché questo fosse
economicamente indipendente e bastasse a se stesso.
Il lavoro manuale era già prescritto ai monaci da san Pacomio e da san Basilio
in Oriente, da sant’Agostino e da san Cassiano in Occidente come esercizio
ascetico per fuggire l’ozio, « nemico dell’anima » (20). Perciò, san Benedetto
non fu un innovatore su questo punto. Nuovo, invece, fu l’accento posto sulla
dimensione umana del lavoro. Infatti, esso fu concepito essenzialmente come un
servizio reso all’uomo e al suo sviluppo, come il mezzo pratico per contribuire
al sostentamento dei fratelli e per dare al monastero la possibilità di
accogliere degnamente i poveri e gli ospiti. Nuova pure e originale la
organizzazione del lavoro, ideata da san Benedetto. Egli insisteva che i suoi
monaci fossero impegnati nel lavoro manuale, non meno che nella lectio
divina; ma, proprio per questo, il lavoro non doveva essere oppressivo o
eccessivo, così da togliere la serenità dello spirito: « Nessuno deve essere
turbato e contristato nella casa di Dio » (21).
Il lavoro deve rendere libero e lieto l'uomo, non asservirlo. Un giorno -
racconta san Gregorio - Benedetto mandò un monaco con un falcetto a ripulire dai
rovi un pezzo di terra, adiacente a uno stagno. Improvvisamente il ferro del
falcetto si staccò dal manico e cadde in acqua. Il monaco ne rimase
profondamente rattristato; ma Benedetto, accortosi del turbamento di quel
poveretto, prese il manico, lo immerse sott’acqua e ne trasse il falcetto
mirabilmente intatto. Lo porse, quindi, al monaco stupito, dicendogli: « Ecco
qui! Continua pure a lavorare, e sta contento » (22).
Dunque, nel pensiero di san Benedetto, il lavoro doveva nobilitare il monaco,
non avvilirlo; facilitargli la ricerca di Dio, che restava lo scopo essenziale
della vita monastica. Certo, anche il valore economico era tenuto presente: i
monaci - afferma, infatti, la Regola - « allora sono veramente monaci, se vivono
del lavoro delle loro mani », come avevano fatto i Padri antichi e gli Apostoli
(23). Tuttavia, la fatica intellettuale e fisica doveva mantenere un
orientamento religioso.
Ebbene, questa rivalutazione spirituale, insieme, ed economica del lavoro —
inteso come servizio dell’uomo, ma subordinato al servizio divino —, vissuta e
insegnata dai monasteri benedettini in ogni parte d’Europa, influì notevolmente
sulle concezione dell’ordine economico medievale.
Si sa quanto nella civiltà greco-romana il lavoro manuale fosse poco apprezzato,
anzi fosse considerato indegno dell’uomo libero. D’altra parte, le invasioni
barbariche avevano inferto un duro colpo all’economia essenzialmente agricola
dell’Occidente. Il fatto, perciò, che san Benedetto da un lato avesse
valorizzato il lavoro manuale e dall’altro avesse fatto di ogni monastero un
centro di attività agricola fu di grande significato per il futuro dell’Europa.
Fu questo un servizio inestimabile, reso allo sviluppo economico del nostro
Continente, il cui merito, fin dall’inizio, venne subito riconosciuto a san
Benedetto. Così fa, per esempio, un carme del suo discepolo Marco:
«Dopo che tu fosti arrivato, disparvero su questo suolo scogli e rovi, e l’arida
terra disvelò mirabilmente le vene dell’acqua sorgiva [...]. Quelli che prima
erano aridi scogli, ecco che sono stati trasformati in ameni orti; le nude rupi
adesso vengono ombreggiate da alberi da frutta. Gli scogli ora riguardano con
meraviglia le messi. La selva disboscata, invece dei suoi antichi frutti
silvestri, si allieta di splendidi pomi » (24).
Molteplice, dunque, fu il contributo di san Benedetto alla nascita dell’Europa.
Si deve soprattutto a lui se essa nacque come una coscienza nuova dell’unità tra
popoli diversi, ispirata dalla fede cristiana, fondata sull’unità della cultura
e della lingua, e su un ordine economico che voleva essere umano e umanizzante.
Ma, come questa coscienza nuova dell’unità, rafforzandosi, costituì il germe
fecondo dello sviluppo straordinario del vecchio Continente, così al disgregarsi
della sua unità spirituale, culturale ed economica restano legati i momenti più
difficili che l’Europa ha conosciuto.
Ciò è particolarmente vero, se guardiamo all’ultima grande crisi, la quale,
scoppiata tre secoli fa, è giunta al culmine nei giorni nostri, quando si
annuncia laboriosamente la nascita d’una Europa nuova.
Noi e l’Europa
Infatti, se - dopo aver considerato il nucleo del messaggio benedettino e
l’influsso determinante che esso ebbe nella nascita dell’Europa - rivolgiamo
l’attenzione al nostro tempo, mentre sta nascendo la nuova Europa, due
considerazioni vengono spontanee.
La prima considerazione è la profonda analogia che intercorre tra quella svolta
storica e la nostra. In quest’ultimo scorcio del XX secolo, alla soglia del
2000, l’Europa sta vivendo una trasformazione così profonda della sua cultura e
della sua fisionomia, che per molti aspetti la crisi di oggi risulta non meno
decisiva di quella che seguì al crollo dell’Impero romano.
Certo, durante questi quindici secoli, innumerevoli altre crisi si sono
succedute e hanno scosso il vecchio continente: d’ordine politico, sociale,
economico e culturale; guerre e distruzioni spaventose. Ma possiamo dire che
negli ultimi decenni stia giungendo a maturazione la crisi più lunga e più
profonda di tutta la storia d’Europa. Attraverso un processo di tre secoli, i
germi posti dall’Illuminismo, dalla Rivoluzione francese e dalla prima
rivoluzione industriale sono cresciuti fino a cambiare radicalmente il volto del
vecchio Continente. Tra contraddizioni, involuzioni e progressi esaltanti il
mondo moderno è esploso, mettendo a dura prova le strutture portanti
dell’Europa, che oggi appare lacerata e divisa. Basti pensare, solo un istante,
sul piano culturale alle contrapposizioni determinate dalle grandi correnti di
pensiero, quali l’idealismo, il positivismo, il marxismo; sul piano politico, al
rovesciamento e alla scomparsa delle vecchie monarchie prima e dei nazionalismi
totalitari poi, soppiantati dai regimi costituzionali, repubblicani e
democratici; sul piano economico, alla espansione del sistema capitalistico di
produzione e alla nascita contrapposta dei vari socialismi; sul piano
scientifico, allo sviluppo vertiginoso della scienza e della tecnica, in tutti i
campi dalla medicina alla comunicazione sociale. In mezzo a tutto questo
fermento, le ideologie e i miti del nostro tempo hanno diffuso tra le masse una
pluralità di visioni dell’uomo e della società spesso inconciliabili tra loro. E
per lo più in polemica, quando non in opposizione, con le radici cristiane del
vecchio mondo.
Il risultato è stato che oggi sono in discussione quegli stessi elementi
portanti che avevano fatto nascere l’Europa ed erano stati per secoli la causa
principale di un prodigioso progresso spirituale e materiale, di una civiltà che
aveva illuminato il mondo: cioè, l’ispirazione cristiana, l’apertura della
cultura ai valori trascendenti, la concezione del lavoro quale strumento di
crescita personale e sociale, materiale e morale.
Bastano questi rapidi cenni per darci il senso delle proporzioni eccezionali del
trapasso epocale che stiamo vivendo. Chiaramente ci troviamo a un bivio della
storia che presenta un’impressionante analogia con il bivio di fronte al quale
si trovò ad agire san Benedetto, quando la fine dell’Impero romano travolse
valori e istituzioni stabili da secoli.
La seconda considerazione che viene spontanea è l’attualità del messaggio e
della intuizione di san Benedetto. Infatti, il suo vero merito è quello di aver
realizzato una sintesi tra civiltà pagana e cristianesimo, spianando la via a
quel progetto socio-religioso che fu la « cristianità medioevale ». Una unità
nuova che, mentre, da un lato, era in continuità con le mete raggiunte dalle
civiltà precedenti, dall’altro si poneva chiaramente in rottura con le tendenze
regressive d’una concezione pagana e barbarica del mondo e della vita.
Non dissimile è lo sforzo che si richiede oggi da noi, mentre nasce una nuova
Europa: realizzare una sintesi nuova in continuità con le mete raggiunte in
lunghi secoli di progresso e di civiltà e con i valori emergenti dalle nuove
realtà culturali e sociali del nostro tempo, ma in rottura con le spinte
regressive e devianti dell’umanesimo materialistico e radicaleggiante, che è una
edizione aggiornata della visione pagana e barbarica della vita.
Nello stesso tempo, mentre prendiamo atto delle coincidenze, siamo coscienti
altresì delle grandi differenze tra il nostro tempo e quello di san Benedetto.
Esse sono tali che rendono inedito e nuovo lo sforzo che noi oggi siamo chiamati
a compiere per contribuire a creare la nuova Europa. Una differenza sostanziale
è che oggi - in un mondo che è cambiato e in una Chiesa che è cresciuta - un
progetto di « cristianità » sul tipo di quello medievale non è più
proponibile, né storicamente, né teologicamente, in una Europa culturalmente,
socialmente e politicamente pluralistica. Un’altra differenza sostanziale è che
la nuova Europa nasce non più come un universo a sé, come il centro
dell’umanità, ma ridimensionata a una delle tante regioni del mondo.
Perciò, in un contesto essenzialmente diverso, ma in una svolta storica per
molti aspetti gravida di futuro come quella vissuta da san Benedetto, il suo
messaggio conserva certo la sua validità, però - dopo quindici secoli - gli
elementi fondanti che hanno dato vita e prosperità all’Europa (la fede
cristiana, la cultura e il lavoro) vanno ripensati e riproposti in modo nuovo.
E’ il compito soprattutto dei cristiani di oggi. Non si tratta di riproporre il
vecchio modello di cristianità, ma di porre il dinamismo della fede cristiana al
servizio della costruzione di una nuova Europa, divenuta pluralistica, in leale
collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà. Perciò, il miglior modo di
celebrare l’attualità del messaggio di san Benedetto è quello di trarne
ispirazione per porre a fondamento dell’Europa una nuova unità spirituale, per
impegnarci in una nuova sintesi culturale, per lavorare alla creazione di un
nuovo ordine economico a misura d’uomo.
Realizzare una nuova unità spirituale
Con l’inizio dell’epoca moderna ha preso l’avvio quel processo di
secolarizzazione e di laicizzazione che non solo ha portato alla fine della «
cristianità » come fatto storico e sociologico, ma ha sovvertito la scala dei
valori. Non è più Dio il valore primo. La crisi religiosa ha avuto ripercussioni
immediate sul campo morale, dato il nesso strettissimo che lega religione e
morale; il mondo moderno non accetta più che la norma morale si fondi
ultimamente su Dio, e da lui riceva i caratteri di assolutezza e di
universalità. Di conseguenza, la perdita del senso di Dio, mentre da un lato ha
dato origine all’ateismo e alla indifferenza religiosa di massa, dall’altro si è
tradotta in perdita del senso dell’uomo: del suo valore unico, del rispetto
assoluto che si deve alla sua dignità di persona, alla sua vita, alla sua
libertà, ai suoi diritti inalienabili. Così, la « morte di Dio » che, come ci ha
insegnato Nietzsche, è il fatto più tragico della civiltà moderna, si è tradotta
nella « morte dell’uomo ». E non solo l’Europa ha vissuto drammaticamente questa
« morte dell’uomo » con le due ultime guerre mondiali, con i campi di sterminio
nazisti, con i gulag e il terrorismo organizzato dei nostri giorni, ma ha
tentato addirittura di teorizzarla (si pensi allo strutturalismo) come l’ultima
conquista del pensiero, finalmente libero da ogni residuo di trascendenza.
Questo ridurre l’uomo alla sua mera dimensione naturale non minaccia forse di
distruggere la civiltà europea, la quale è nata e si è sviluppata invece nel
segno dell’uomo immagine di Dio, dell’uomo che pur radicato nella natura, però
la trascende infinitamente?
Il pericolo di percorrere fino in fondo questo vicolo cieco e le drammatiche
conseguenze che ciò comporterebbe consentono di misurare l’importanza e
l’attualità del messaggio di san Benedetto. Vogliamo ristabilire il vero primato
dell’uomo? Vogliamo fondare solidamente la dignità della persona umana,
l'inalienabilità dei suoi diritti? Per sfuggire al nichilismo che incombe mentre
sta nascendo la nuova Europa, occorre ristabilire il primato dello spirito sulla
materia. Non si tratta di contrapporre, ma di comporre; di ristabilire la dovuta
gerarchia nella scala dei valori, la sintesi che armonizzi trascendenza e
immanenza; nel rispetto, da un lato, della laicità e della legittima autonomia
della dimensione temporale dell’uomo (evitando, cioè, forme non più accettabili
di clericalismo e di integrismo), e, dall’altro, evitando innaturali e
impossibili dicotomie tra fede e storia, tra materia e spirito, tra azione e
pensiero, tra impegno temporale e vita interiore. Aver realizzato questa sintesi
fu appunto il merito principale della scuola monastica benedettina e fu la
ragione vera della fecondità della civiltà europea in ogni campo del sapere e
dell’agire dell’uomo.
Se oggi la nuova Europa che nasce dovesse rifiutare definitivamente questa
sintesi, maturata e arricchita da quindici secoli di vita e di difficile
crescita, non esisterebbe nessun’altra possibilità di darle un’anima. Il
messaggio cristiano non è legato ad alcuna forma particolare di cultura umana o
di sistema politico, economico o sociale, non è identificabile con l’uno o con
l’altro blocco ideologico o militare; viene prima dei sistemi e dei blocchi,
perché si pone a livello dell’uomo, cioè a livello culturale, pre-politico.
Proprio in virtù di questa sua universalità può costituire un legame
strettissimo tra le diverse comunità umane e nazionali, può divenire ancora una
volta strumento di unificazione e di collaborazione all’interno di un’Europa
pluralistica (25). L’Europa non nascerà, se oltre che come unità doganale,
economica e politica non si realizzerà come unità spirituale. E questa non potrà
mai venire dall’egemonia di una ideologia o di un sistema su tutti gli altri; ma
soltanto da una coscienza nuova che, raccogliendo l’eredità di quindici secoli,
sappia assumere in una sintesi nuova quanto di valido si trova in ogni
elaborazione culturale sull’uomo. Ecco perché, anche se si volesse prescindere
dalla storia reale di quindici secoli d’Europa, il cristianesimo in sé (sintesi
di persona e di universalità) offre ancora una volta un contributo determinante
alla maturazione d’un pensiero comune, nella diversità delle culture,
all’affermazione d’un diritto comune, nel pluralismo delle strutture e dei
sistemi, alla riscoperta di una profonda affinità spirituale, nonostante gli
irrigidimenti ideologici, alla realizzazione nella complementarità della mutua
integrazione di progetti e di forze, senza mortificare la identità propria di
ciascuno.
Creare una nuova sintesi culturale
Il materialismo, la perdita del senso della vita, la caduta nell’insignificanza
del mondo e dell’esistenza dell’uomo nel mondo, il nichilismo non sono visioni
culturali componibili con la tradizione culturale europea, che è essenzialmente
una « civiltà della vita » e non una « civiltà della morte ». Ma, se da un lato
dobbiamo fare attenzione a non prendere come valori quelle che in realtà sono
deviazioni patologiche di una civiltà in crisi, d’altro lato sarebbe grave se ci
sfuggisse il fatto che molti valori delle culture di oggi sono in realtà una
traduzione secolarizzata di valori cristiani; da assumere, quindi, da
armonizzare e da aprire a una visione integrale dell’uomo e della storia. Così,
accanto a idee impazzite, che minacciano di distruggere l’uomo, si deve
riconoscere che l’uomo oggi ha una coscienza più profonda di sé, della vita,
della storia, delle sue responsabilità personali e sociali. Oggi non sono più
soltanto le élite, ma le masse ad avere il senso della dignità della
persona e della inalienabilità dei suoi diritti; è divenuta coscienza universale
il bisogno di giustizia e di equità, il dovere della tolleranza e del rispetto
del pluralismo, la necessità della solidarietà e del dialogo per realizzare
insieme un mondo più fraterno.
Ora, questi fermenti culturali che emergono dalla crisi presente e che già
orientano l’Europa di domani, che altro sono se non quei « frutti umani dei
Vangelo » di cui parlava Paolo VI nel suo messaggio del 26 gennaio 1977 al
Consiglio d’Europa, i quali sono maturati e restano vivi « anche presso coloro
che non condividono la nostra fede, anche dove la fede si è assopita o estinta
»?
Ancora una volta, tutto ciò rende testimonianza della viva attualità
dell’intuizione benedettina, secondo la quale solo una cultura aperta alla
trascendenza poteva essere fattore aggregante tra componenti tanto diverse tra
loro, quali potevano essere quelle greche, latine, slave e anglosassoni del suo
tempo. Oggi ritorna questa necessità per noi di prendere l’iniziativa d’un
confronto tra tutte le culture, in modo da realizzare una sintesi nuova,
improntata ad un umanesimo integrale; tale, cioè, che senza lasciar cadere
quanto di buono e di valido c’è in ogni elaborazione culturale, induca a
comporre una coscienza comune, nel pieno rispetto della identità di ciascuno. La
nuova Europa, unita e pluralistica, solo può nascere da un aperto richiamo allo
umanesimo integrale, cioè a confrontarsi sull’uomo, sui suoi valori, sui suoi
problemi reali in una visione della vita non riduttiva e materialistica, ma
globale e aperta alla sua dignità trascendente. La lezione e l’esempio di san
Benedetto affidano soprattutto ai cristiani di oggi, impegnati con tutti gli
uomini di buona volontà a costruire la Europa di domani, il compito di prendere
l’iniziativa per un’azione di inculturazione, di mediazione culturale nuova, che
apra il discorso dell’uomo verso orizzonti comuni d’un umanesimo plenario.
L’unità culturale della nuova Europa va costruita attraverso il dialogo aperto e
leale, teso a superare l’ottica immanente e materialistica.
Costruire un nuovo ordine economico a misura d'uomo
Infine, come la vecchia Europa trasse la forza del suo sviluppo da una
concezione ideale del lavoro, così noi oggi siamo chiamati a porre, attraverso
una concezione rinnovata del lavoro umano, il fondamento di un diverso ordine
economico, europeo e internazionale. La società del benessere, fondata sul
consumismo, si è rivelata disumanizzante. Producendo per produrre, consumando
per consumare, l’homo sapiens
si è trasformato in homo faber, ha portato a misurare tutto col metro
dell’efficientismo e del benessere materiale. In tal modo anche la concezione
del lavoro e della economia ne è risultata stravolta. Il lavoro non è più uno
strumento al servizio dell’uomo e della sua crescita integrale, ma l’uomo
diviene schiavo del lavoro e delle strutture di produzione. Anche l’esperienza
dei Paesi socialisti ha mostrato alla evidenza che un mero cambio di strutture
non basta a garantire la soddisfazione dei bisogni essenziali dell’uomo, la sua
libertà, la sua effettiva partecipazione responsabile alle scelte e alle
decisioni comuni. I fattori etici e sociali sono - oggi, non meno che al tempo
di san Benedetto - determinanti ai fini dell’instaurazione d’un ordine economico
degno dell’uomo.
È un insegnamento antico che il Concilio ha voluto riprendere: «Dio ha destinato
la terra e tutto ciò che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e popoli, e
pertanto i beni creati debbono, secondo un equo criterio, affluire a tutti,
essendo guida la giustizia e assecondando la carità » (26). Dunque, le
responsabilità dei cristiani di oggi per la edificazione d’un nuovo ordine
economico europeo e internazionale non sono minori di quelle che avvertì san
Benedetto dinanzi al crollo dell’Impero romano.
Occorre, allora, impegnarsi affinché sia riveduto il concetto stesso di
sviluppo, oggi ancora dominante, il quale continua a proporre come traguardo ai
Paesi meno favoriti dell’Europa e del Terzo Mondo il modello consumistico del
welfare State. Ciò comporta - al di là del dibattito teorico - la volontaria
limitazione, la austerità, la moderazione dei consumi personali e di massa nei
Paesi ricchi. Ritorna la scelta di sobrietà che san Benedetto poneva, insieme
con la qualità umana del lavoro, a fondamento di un regime economico a misura
d’uomo, finalizzato non all’avido guadagno, ma alla soddisfazione dei bisogni
reali dell’esistenza (27).
Parimente occorre rivedere la diffusa concezione del diritto di proprietà
privata, quasi esso sia sinonimo di liceità dell’accumulo indefinito dei beni,
ad uso e consumo arbitrario di singoli individui, gruppi o Paesi. « Quali che
siano le forme concrete della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei
popoli secondo circostanze mutevoli e diverse - dice ancora il Concilio -, si
deve sempre tener conto della destinazione universale dei beni. Perciò, l’uomo,
usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente
possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano
giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri » (28). Ritorna, dunque, anche
qui lo spirito di san Benedetto: nella vita di una comunità « non si facciano
preferenze. Nessuno sia più amato di un altro. A chi entra in religione da
condizione servile, non si deve anteporre chi è libero [...], poiché sia schiavi
sia liberi, in Cristo siamo tutti una sola cosa e [...] non v’è distinzione di
persona presso Dio (29).
E’ questa l’ispirazione d’un messaggio che i cristiani di oggi sono chiamati a
far passare nella nuova Europa, in continuità - da un lato - con le radici
spirituali e culturali del passato, ma in rottura - dall’altro - con le tendenze
disumanizzanti del nostro tempo.
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*
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Così, la celebrazione del XV centenario della nascita di san Benedetto - nel
contesto della grave crisi in cui cade - non può esaurirsi affatto in una
commemorazione erudita. Si traduce, invece, in un appello vigoroso e pressante
che dalla culla spirituale della vecchia Europa si rivolge oggi alla coscienza
dei popoli e dei cittadini d’Europa. E’ l’appello a rifiutare la logica della
divisione e della distruzione, che come ha detto Giovanni Paolo II all’inizio di
quest’anno - è in antitesi con lo spirito benedettino, con quello spirito, cioè,
che ha dato vita all’idea stessa d’Europa (30). Non dividere e distruggere, ma
unire e costruire insieme.
Non dividere e distruggere. Non, quindi, un’Europa lacerata e disgregata
spiritualmente, culturalmente ed economicamente. Non l’Europa dei blocchi
ideologici contrapposti, delle cortine e dei muri di separazione, della corsa
agli armamenti, delle frontiere chiuse.
Ma costruire insieme. Un’Europa spiritualmente e culturalmente unita, nel
rispetto del legittimo pluralismo; un’Europa in cui i diritti umani sono non
solo riconosciuti, ma effettivamente rispettati; una Europa non solo dei Nove o
dei Dodici, ma di tutti i popoli che la abitano ad Occidente e ad Oriente,
dall’Atlantico agli Urali; finalmente, un’Europa non chiusa in sé, in un mondo
che ormai s’è fatto piccolo, ma aperta a dare e a ricevere mediante nuovi e
profondi legami con i popoli giovani in via di sviluppo, e con il mondo intero.
(1)
Giovanni Paolo
II, Omelia del 1° gennaio 1980, in Oss. Rom., 2-3 genn. 1980.
(2)
Pio XII, Omelia del 18 settembre 1947,
in AAS XXXIX (1947), 453.
(3)
Cfr AAS LVI (1964), 965 $.
(4)
Quidquid canonum ordo vel Regala sancii Benedicti edocet, MGH,
Conc. I, can. 15, 221.
(5)
S. Gregorio Magno,
Dialoghi,
II, 8, PL 66, 152.
(6)
Ivi,
II, 15, PL 66, 162.
(7)
Si revera Deum quaerit, Regula,
58, 7. Citiamo la Regula S. Benedicti, a cura di G.
Penco,
Firenze, La Nuova Italia, 1958; vedi pure: La Règie de Saint Benoìt, 2
voli., in Sources Chrétiennes 181-182, Paris, Ed. du Cerf, 1972.
(8)
Uni Deo servitur, Regula,
61, 10.
(9)
Ivi, 1,
38. 67.
(10)
Domino Christo vero regi militaturus, ivi,
Prol. 3.
(11)
Nihil amori Christi praeponere, ivi,
4, 21.
(12)
Cfr ivi,
7, 63; 16, 5.
(13)
Cfr ivi,
48, 1.
(14)
Dominici schola servitii, ivi,
Prol. 45.
(15)
Ivi,
73, 2. 6.
(16)
Rasano Mauro, De clericorum institutione, III, 18; PL 107, 396.
(17)
J. Leclercq, L’amour des lettres et le désir de Dieu,
Paris, Ed. du Cerf, 1957, 118.
(18)
Regula,
48, 1.
(19)
Ivi,
41, 2.
(20)
Ivi,
48, 1.
(21)
Ivi,
31, 19.
(22)
Ecce, labora et noli contristari;
S. Gregorio Magno, Dialoghi, cit., II, 6, PL 66, 144.
(23)
Regula,
48, 8.
(24)
Paolo Diacono,
De Gestis Longobardorum,
1. 1, c. 26; trad, it. in I. Schuster,
La storia di san Benedetto e dei suoi tempi, Milano, Vita e
Pensiero, 1943, 386.
(25)
Cfr Concilio Vaticano II, Cost.
past.
Gaudium et spes,
n. 42.
(26)
Concilio Vaticano
II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 69.
(27)
Cfr Regula, 57.
(28)
Concilio Vaticano
II, Cost past.
Gaudium et spes,
n. 69.
(29)
Regula,
2, 18 ss.
(30)
Giovanni Paolo
II, Omelia del 1” gennaio 1980, cit.
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7 novembre 2014 Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net