SAN BENEDETTO E L'EUROPA


SAN BENEDETTO, NOI E L’EUROPA

BARTOLOMEO SORGE S.J.

Conferenza tenuta a Montecassino, il 21 marzo 1980, in occasione della solenne apertura delle celebrazioni per il XV centenario della nascita di san Benedetto.

Estratto da "Civiltà Cattolica" - Vol. 2, Quaderno 3115 - 5 aprile 1980

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Che significato può avere commemorare il XV centenario della nascita d’un uomo, per quanto grande egli sia stato nel suo tempo? Un evento di 1500 anni fa può dire ancora qualcosa a chi, come noi, ha visto in pochi decenni aprire e chiudere capitoli interi di storia? E, in mezzo alle gravi preoccupazioni dei nostri giorni, non è fuor di luogo attardarsi in commemorazioni erudite di un passato lontano, il cui interesse rischia di esaurirsi nel gusto raffinato della memoria storica?

Ma, san Benedetto non appartiene al passato. Egli è vivo e opera ancora in mezzo a noi, sia attraverso l’opera dell’istituzione monastica da lui creata, sia attraverso l’attualità del suo messaggio.

Sullo stipite della porta del monastero di Subiaco si leggono scolpite queste parole: « Le stelle brillano di più, quanto più fonda è la notte » (Nonnisi in obscura sidera nocte micant). E’ una scritta che esprime bene il senso della nostra commemorazione. Quanto più profonda è la crisi che stiamo vivendo, quanto più imprevedibili ne sono gli sbocchi, tanto più ricchi di luce si rivelano per noi gli insegnamenti e le opere di san Benedetto da Norcia.

Perciò, ricordarne il XV centenario della nascita non è cedere al gusto dell’erudizione, ma piuttosto - come ha sottolineato Giovanni Paolo II - è lasciarsi illuminare da un astro di prima grandezza, per « rileggere e interpretare alla sua luce il mondo contemporaneo » (1).

Nel 1947, Pio XII, celebrando il XIV centenario della morte, definì san Benedetto il Padre dell’Europa, Pater Europae.

« Mentre l’Impero romano - disse -, corroso dalla vecchiaia e dai vizi andava in rovina e i barbari ne invadevano le province, Benedetto, chiamato l’ultimo dei grandi romani, unendo insieme la romanità e il Vangelo, vi attinse la forza che contribuì moltissimo ad unire i popoli dell’Europa sotto il vessillo auspicale di Cristo e a formare la cristianità » (2).

Alcuni anni dopo, Paolo VI, riprendendo e sviluppando il pensiero di Pio XII, il 24 ottobre 1964 proclamò san Benedetto Patrono d’Europa, poiché - spiegò - egli con il suo lavoro personale e con l’opera dei suoi figli aveva portato la civiltà cristiana dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall’Irlanda alla Polonia, « con la croce, con il libro e con l’aratro » (3).

In questa sintesi tra fede, cultura e lavoro sta l’essenza del messaggio di san Benedetto, l’originalità della istituzione benedettina. In questa sintesi tra croce, libro e aratro risiede pure l’ispirazione, l’idea stessa di Europa. Perciò, per cogliere l’attualità dell’eredità che san Benedetto ha lasciato all’uomo europeo di ogni tempo, compiremo due passi. In primo luogo, vedremo come l’idea di Europa sia nata dall’unità di popoli diversi nella medesima fede, nella cultura e nella concezione del lavoro e di un ordine economico a misura d’uomo. In secondo luogo, vedremo quali orientamenti concreti il messaggio benedettino suggerisce oggi a noi, nel costruire la nuova Europa.

La croce, strumento dell’unità spirituale dell’Europa

Non c’è dubbio: da un punto di vista storico, il primo e più decisivo elemento che ha dato forma e unità all’Europa è stato la fede cristiana. Nei secoli V e VI, cadute le deboli difese dell’Impero romano, i barbari ne invasero le province: i visigoti invasero la Spagna, i vandali il Nordafrica, i franchi la Gallia; l’Italia fu invasa dai goti, dagli ostrogoti e dai longobardi, la Britannia dagli angli. Ora, il fatto religioso restava il più forte elemento di contrasto e di divisione fra vincitori e vinti; gli abitanti del vecchio Impero erano cristiani; gli invasori, invece, erano pagani (come i franchi e gli angli) o ariani (come i goti). Ciò che consenti la nascita d’una coscienza europea comune fu l’assimilazione tra elemento romano ed elemento germanico. Ed essa si compì con l’adesione di tutti all’unica fede di Roma.

Ora, in quest’opera di conversione e di unificazione spirituale, durata diversi secoli, san Benedetto e i monasteri benedettini ebbero un posto di primissimo piano. Partendo da Montecassino, la Regola benedettina si diffuse in tutto l’Occidente: in Italia a Terracina e a Roma, dove si fece monaco benedettino colui che sarebbe divenuto papa Gregorio Magno; in Gallia e in Bretagna, dove lo stesso Gregorio Magno inviò nel 596 il monaco Agostino, priore del monastero romano di Sant’Andrea, con trentanove monaci. In Occidente, non mancavano altre regole monastiche: in Irlanda quella di san Colombano; in Inghilterra quella di san Columba di Iona; in Gallia quella di san Cesario d’Arles. Ma, a poco a poco, la maggior parte dei monasteri, pur ispirati ad altre regole, finì con adottare quella benedettina. Tanto che, nel 670, il Concilio di Autun diede come direttiva generale di vita monastica quella di seguire « tutto ciò che è insegnato dalla Regola di san Benedetto » (4).

Questa diffusione della Regola benedettina in Occidente significò non solo uno sviluppo straordinario della vita cenobitica, ma anche un potente impulso all’evangelizzazione dei popoli barbari. Infatti, ogni monastero benedettino si trasformò in testimonianza vivente e in centro di irradiazione della fede cristiana. Lo stesso san Benedetto aveva dato per primo l’esempio ai suoi monaci di come la loro presenza dovesse servire alla evangelizzazione dei territori dove erano mandati a vivere e a lavorare. San Gregorio racconta nei Dialoghi che san Benedetto, giunto sul Monte di Cassino dove sorgeva un tempio in onore di Apollo,

« fece a pezzi l'idolo, rovesciò l’altare, sradicò i boschetti e dove era il tempio di Apollo eresse un oratorio in onore di san Martino [di Tours] e dove era l’altare sostituì una cappella che dedicò a san Giovanni Battista. Si rivolse poi alla gente che abitava lì intorno e con assidua predicazione l’andava invitando alla fede » (5).

E sottolinea che il Santo non si limitava a predicare alla gente del luogo, ma affrontava apertamente i pagani per invitarli alla conversione. È rimasto famoso - tra gli altri - l’incontro del Santo col re goto Totila, a Montecassino. Racconta san Gregorio:

« Totila allora si avviò in persona verso l’uomo di Dio [...]. Benedetto lo rimproverò della sua cattiva condotta e in poche parole gli predisse quanto gli sarebbe accaduto. ”Tu hai fatto molto male - gli disse - e molto ne vai facendo ancora; sarebbe ora che una buona volta mettessi fine alle tue malvagità. Tu adesso entrerai in Roma, passerai il mare, regnerai nove anni, al decimo morirai”. Lo atterrirono profondamente queste parole, chiese al Santo che pregasse per lui, poi partì. Da quel giorno - conclude san Gregorio - [Totila] diminuì di molto la sua crudeltà » (6).

I monaci, dunque, seguendo l’esempio del loro Padre, non si contentarono di dedicarsi alla lode di Dio, ma si trasformarono in ferventi evangelizzatori delle popolazioni ancora pagane. In questo modo, Villibrordo evangelizzò la Frisia, Bonifacio la Germania, Anscario la Danimarca e la Svezia, Adalberto l’Ungheria e la Boemia. Il frutto principale di questa cristianizzazione dell’Europa, lenta e faticosa, fu la coscienza della unità spirituale che servì a saldare tra loro popoli diversi. La spada prima li aveva divisi, la croce ora li univa.

Perciò, possiamo dire che il contributo specifico e determinante, dato da san Benedetto alla costruzione dell’Europa, fu innanzitutto d’ordine spirituale e religioso, non culturale ed economico. Egli, infatti, fu l’uomo del primato di Dio. Da Norcia a Roma, da Roma a Subiaco, da Subiaco a Montecassino, tutta la sua esistenza fu una continua ricerca di Dio. Quest’ansia egli trasfuse nei suoi monaci e tradusse nella vita cenobitica. La prima cosa da fare, quando uno chiede di entrare in monastero - leggiamo nella Regola - è sottoporlo a dure prove, per vedere « se cerca veramente Dio » (7). In concreto, questa ricerca si deve tradurre nell’impegno di « servire Dio solo » in ogni cosa (8) e di « sopportare per il Signore tutte le contrarietà », allo scopo di « giungere al perfetto amore di Dio » (9). Soprattutto, questa ricerca deve avere come suo movente interiore il desiderio di un generoso servizio a Cristo. Insiste san Benedetto nella sua Regola: chi entra in monastero s’impegna a rinunciare alla propria volontà e a mettersi sotto l’ubbidienza dell’abate « per militare per il vero re, Cristo Signore » (10). La legge costitutiva dell’istituzione monastica benedettina sta tutta qui: « Niente preferire all’amore di Cristo » (11). San Benedetto traduce questo primato di Dio e dell’amore di Cristo nel compimento dell’« opera di Dio », l'opus Dei per eccellenza, che rimane il compito essenziale della vita cenobitica: la lode di Dio - sette volte al giorno - mediante la celebrazione dell’Ufficio divino (12). Le altre azioni della giornata - sia la lettura meditata della Scrittura (lectio divina), sia il lavoro manuale (labor manuum) - sono importanti, ma hanno lo scopo di disporre a compiere meglio l’opus Dei( 13). Perciò, il motto: Ora et labora, sebbene non si trovi nella Regola e non sia stato coniato da san Benedetto, tuttavia ne esprime molto bene il messaggio, perché realizza la sintesi tra preghiera e lavoro e, nello stesso tempo, accentua la priorità che la preghiera deve avere sul lavoro.

Questo senso della gerarchia dei valori - prima Dio, poi l’uomo; prima i valori spirituali, poi quelli materiali - come costituì l’anima della vita cenobitica benedettina, così passò ad essere la piattaforma della christianitas medievale. In virtù della medesima fede religiosa, popoli e regni diversi, spesso divisi e in lotta fra loro, convennero in una medesima scala di valori. Nacque così la civiltà europea, fondata sul riconoscimento del primato di Dio sulla storia, dello spirito sulla materia; una civiltà, nella quale il benessere temporale va subordinato e finalizzato allo sviluppo spirituale dell’uomo, al raggiungimento del suo fine trascendente; dove la norma etica di giudizio e di comportamento si fonda ultimamente in Dio, e da lui riceve i caratteri di universalità e di assolutezza, ai quali ispirare la legislazione civile degli Stati. Fu così che l'Europa nacque innanzitutto come unità spirituale, e il cristianesimo ne divenne l’anima.

Il libro, strumento dell'unità culturale dell’Europa

Il secondo elemento che ha dato forma e unità all’Europa è stata la cultura. Ora, anche per quanto riguarda la cultura, furono proprio san Benedetto e i suoi monaci a riaccenderne in Occidente la fiamma, che le invasioni barbariche avevano quasi del tutto spenta. Certo, il merito d’aver promosso la rinascita della cultura greco-romana e cristiana va anche ad altri. Tralasciando di parlare di Severino Boezio e di altri, non possiamo qui non accennare all’opera del monaco calabrese Cassiodoro (480-575), contemporaneo di san Benedetto. Dopo essere stato il segretario di Teodorico l’ostrogoto, egli fondò un monastero a Vivarium, impegnando i suoi monaci in un serio lavoro culturale, sia attraverso la copiatura dei manoscritti antichi, sia attraverso la traduzione di opere greche, sia anche spingendoli a comporre personalmente opere nuove. I monaci di Vivarium, guidati da una severa Ratio studiorum e dalle Institutiones di Cassiodoro, coltivarono, così, la grammatica, la retorica, la dialettica, l’aritmetica, la musica, la geometria e l’astronomia. Il monastero di Vivarium si convertì in un centro culturale di grande valore, in una schola cbristiana, il cui scopo era quello di formare i professionisti dell’insegnamento (professos doctores), in grado poi di diffondere, con gli scritti, la buona dottrina. Ma Vivarium non ebbe avvenire. Morto il fondatore, anch’esso cessò poco dopo.

Diversi, invece, furono l’impostazione e l’esito dell'opera culturale di san Benedetto. Innanzitutto, la sua intenzione nel fondare il monastero di Montecassino non fu quella di creare un centro culturale, come aveva fatto Cassiodoro. Il monastero non doveva essere una scuola di insegnamenti profani, bensì - come dice la Regola - una « scuola del servizio di Dio » (14), dove il monaco veniva soltanto per imparare a cercare Dio. Tuttavia l’attività culturale vi occupava un posto importante. La stessa priorità data alla lectio divina esigeva che ogni monastero avesse una scuola in cui insegnare a leggere e a scrivere agli illetterati; che vi fosse una scuola di grammatica, in cui si dessero i primi elementi di cultura generale ai ragazzi che si offrivano (oblati) al monastero, per restarvi come monaci; che abbondassero libri e codici con i testi della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa, alla cui lettura i monaci erano istantemente invitati dalla Regola (15). Così, i monasteri benedettini sparsi in tutto l'Occidente, pur non proponendoselo direttamente come fine, divennero i più importanti centri di elaborazione e di irradiazione culturale; e questo, proprio quando sembrava che le invasioni barbariche con le loro devastazioni volessero cancellare, ogni vestigio di civiltà.

I benedettini, dunque, sono considerati a pieno titolo i promotori della nuova cultura europea. Ricordiamo alcuni dei grandi pionieri. Il monaco Gregorio Magno - con la sua Regola pastorale, con i suoi Moralia in Job, con i suoi Dialoghi, le sue Omelie e le sue Lettere - gettò un ponte tra l’età patristica e il Medioevo cristiano, esercitando un influsso determinante su tutta la cultura nuova. Il monaco Agostino portò la nuova cultura in Inghilterra dove, un secolo più tardi, sarebbe sorto il monaco Beda il Venerabile, grande conoscitore degli autori e dei poeti latini (in particolare di Virgilio), il quale fuse in una sintesi armoniosa l’eredità culturale dell’antichità latina con l’eredità patristica. In seguito, gli scambi culturali si intensificarono ad opera di monaci missionari. Così, un manoscritto di Tito Livio, copiato in Italia nel V secolo, dapprima fu introdotto in Inghilterra nel VII e nell’VIII secolo, di qui poi fu portato nella regione di Utrecht da un missionario anglosassone. In Germania, il monaco Bonifacio, che evangelizzò l’Europa centrale, nel mezzo d’una attività apostolica intensissima, trovò il tempo di comporre un opuscolo sulla metrica e un trattato di ars grammatica. Paolo Diacono, monaco di Montecassino, e Alcuino, monaco di York, furono i principali realizzatori del disegno di riforma politica ed ecclesiastica di Carlo Magno, che avrebbe portato alla « rinascita carolingia ». Notevolissimo, infine, fu l’influsso esercitato da Benedetto di Aniane (che alcuni considerano come il secondo fondatore del monachesimo benedettino), il quale fissò le linee definitive del programma culturale dei monaci medievali.

Dunque, la nuova cultura - la cultura europea - nacque, come sintesi tra l’eredità classica pagana e l’eredità cristiana, come impegno di illuminare con la fede le culture non cristiane. Rabano Mauro, abate di Fulda, scrive: « Se quando leggiamo i poeti pagani, incontriamo qualcosa di utile, lo convertiamo al nostro dogma (ad nostrum dogma convertimus) » ( 16). Contemporaneamente nasceva pure una lingua nuova: il latino cristiano medievale, che continuava il latino classico, ma lo rinnovava profondamente. In tal modo l’unità europea non fu solo di fede e di cultura, ma anche linguistica. Su questa piattaforma si realizzò una omogeneità culturale tra tutti i popoli del vecchio Continente, fondata su un’antropologia nuova; una cultura ispirata a una scala di valori universalmente accettata, al cui vertice rimase il primato dello spirito e di Dio, quale fondamento ultimo della dignità della persona umana e dei suoi diritti inalienabili, primo fra tutti quello alla vita. Grazie a questa sua alta concezione antropologica, la cultura europea avrebbe toccato vertici non raggiunti da altri.

L’aratro, strumento di un ordine economico a misura d’uomo

Il terzo elemento, infine, che ha dato forma e unità all’Europa è stato la concezione profondamente umana del lavoro, posta a fondamento d’un ordine economico che si voleva a misura d’uomo. Ancora una volta, convinti ispiratori e diffusori di questa visione del lavoro, rivoluzionaria nei confronti della concezione pagana, furono i benedettini, che rivalutarono per primi la fatica intellettuale e fisica.

Per quanto riguarda il lavoro intellettuale, fu di straordinaria importanza - accanto all’insegnamento e allo studio - la dedizione con la quale i monaci si applicarono a ricopiare le opere classiche. Ciò costituiva una vera e propria forma di lavoro.

« La copia - scrive dom Jacques Laclercq - era una forma autentica di ascesi. Decifrare, su un manoscritto talvolta mal conservato, un testo spesso scritto male e lungo, riprodurlo con esattezza, costituiva una fatica nobile, senza dubbio, ma dura e meritoria. Gli scrivani del Medioevo non hanno mancato di spiegarcelo: tutto il corpo è teso verso lo sforzo delle dita, l’attenzione deve essere costante e precisa. Era un lavoro insieme manuale ed intellettuale. La calligrafia - lo sappiamo bene - era un’arte difficile. Ma non si trattava solamente di ricopiare. Era necessario, per ogni testo trascritto, procedere ad un minuzioso lavoro di revisione, di correzione, di collazione, di critica » (17).

Ma san Benedetto voleva che i suoi monaci si impegnassero soprattutto nel « lavoro delle mani » (18), nel « lavoro dei campi » (19) e in altri lavori artigianali, necessari per la vita del monastero, affinché questo fosse economicamente indipendente e bastasse a se stesso.

Il lavoro manuale era già prescritto ai monaci da san Pacomio e da san Basilio in Oriente, da sant’Agostino e da san Cassiano in Occidente come esercizio ascetico per fuggire l’ozio, « nemico dell’anima » (20). Perciò, san Benedetto non fu un innovatore su questo punto. Nuovo, invece, fu l’accento posto sulla dimensione umana del lavoro. Infatti, esso fu concepito essenzialmente come un servizio reso all’uomo e al suo sviluppo, come il mezzo pratico per contribuire al sostentamento dei fratelli e per dare al monastero la possibilità di accogliere degnamente i poveri e gli ospiti. Nuova pure e originale la organizzazione del lavoro, ideata da san Benedetto. Egli insisteva che i suoi monaci fossero impegnati nel lavoro manuale, non meno che nella lectio divina; ma, proprio per questo, il lavoro non doveva essere oppressivo o eccessivo, così da togliere la serenità dello spirito: « Nessuno deve essere turbato e contristato nella casa di Dio » (21).

Il lavoro deve rendere libero e lieto l'uomo, non asservirlo. Un giorno - racconta san Gregorio - Benedetto mandò un monaco con un falcetto a ripulire dai rovi un pezzo di terra, adiacente a uno stagno. Improvvisamente il ferro del falcetto si staccò dal manico e cadde in acqua. Il monaco ne rimase profondamente rattristato; ma Benedetto, accortosi del turbamento di quel poveretto, prese il manico, lo immerse sott’acqua e ne trasse il falcetto mirabilmente intatto. Lo porse, quindi, al monaco stupito, dicendogli: « Ecco qui! Continua pure a lavorare, e sta contento » (22).

Dunque, nel pensiero di san Benedetto, il lavoro doveva nobilitare il monaco, non avvilirlo; facilitargli la ricerca di Dio, che restava lo scopo essenziale della vita monastica. Certo, anche il valore economico era tenuto presente: i monaci - afferma, infatti, la Regola - « allora sono veramente monaci, se vivono del lavoro delle loro mani », come avevano fatto i Padri antichi e gli Apostoli (23). Tuttavia, la fatica intellettuale e fisica doveva mantenere un orientamento religioso.

Ebbene, questa rivalutazione spirituale, insieme, ed economica del lavoro — inteso come servizio dell’uomo, ma subordinato al servizio divino —, vissuta e insegnata dai monasteri benedettini in ogni parte d’Europa, influì notevolmente sulle concezione dell’ordine economico medievale.

Si sa quanto nella civiltà greco-romana il lavoro manuale fosse poco apprezzato, anzi fosse considerato indegno dell’uomo libero. D’altra parte, le invasioni barbariche avevano inferto un duro colpo all’economia essenzialmente agricola dell’Occidente. Il fatto, perciò, che san Benedetto da un lato avesse valorizzato il lavoro manuale e dall’altro avesse fatto di ogni monastero un centro di attività agricola fu di grande significato per il futuro dell’Europa.

Fu questo un servizio inestimabile, reso allo sviluppo economico del nostro Continente, il cui merito, fin dall’inizio, venne subito riconosciuto a san Benedetto. Così fa, per esempio, un carme del suo discepolo Marco:

«Dopo che tu fosti arrivato, disparvero su questo suolo scogli e rovi, e l’arida terra disvelò mirabilmente le vene dell’acqua sorgiva [...]. Quelli che prima erano aridi scogli, ecco che sono stati trasformati in ameni orti; le nude rupi adesso vengono ombreggiate da alberi da frutta. Gli scogli ora riguardano con meraviglia le messi. La selva disboscata, invece dei suoi antichi frutti silvestri, si allieta di splendidi pomi » (24).

Molteplice, dunque, fu il contributo di san Benedetto alla nascita dell’Europa. Si deve soprattutto a lui se essa nacque come una coscienza nuova dell’unità tra popoli diversi, ispirata dalla fede cristiana, fondata sull’unità della cultura e della lingua, e su un ordine economico che voleva essere umano e umanizzante.

Ma, come questa coscienza nuova dell’unità, rafforzandosi, costituì il germe fecondo dello sviluppo straordinario del vecchio Continente, così al disgregarsi della sua unità spirituale, culturale ed economica restano legati i momenti più difficili che l’Europa ha conosciuto.

Ciò è particolarmente vero, se guardiamo all’ultima grande crisi, la quale, scoppiata tre secoli fa, è giunta al culmine nei giorni nostri, quando si annuncia laboriosamente la nascita d’una Europa nuova.

Noi e l’Europa

Infatti, se - dopo aver considerato il nucleo del messaggio benedettino e l’influsso determinante che esso ebbe nella nascita dell’Europa - rivolgiamo l’attenzione al nostro tempo, mentre sta nascendo la nuova Europa, due considerazioni vengono spontanee.

La prima considerazione è la profonda analogia che intercorre tra quella svolta storica e la nostra. In quest’ultimo scorcio del XX secolo, alla soglia del 2000, l’Europa sta vivendo una trasformazione così profonda della sua cultura e della sua fisionomia, che per molti aspetti la crisi di oggi risulta non meno decisiva di quella che seguì al crollo dell’Impero romano.

Certo, durante questi quindici secoli, innumerevoli altre crisi si sono succedute e hanno scosso il vecchio continente: d’ordine politico, sociale, economico e culturale; guerre e distruzioni spaventose. Ma possiamo dire che negli ultimi decenni stia giungendo a maturazione la crisi più lunga e più profonda di tutta la storia d’Europa. Attraverso un processo di tre secoli, i germi posti dall’Illuminismo, dalla Rivoluzione francese e dalla prima rivoluzione industriale sono cresciuti fino a cambiare radicalmente il volto del vecchio Continente. Tra contraddizioni, involuzioni e progressi esaltanti il mondo moderno è esploso, mettendo a dura prova le strutture portanti dell’Europa, che oggi appare lacerata e divisa. Basti pensare, solo un istante, sul piano culturale alle contrapposizioni determinate dalle grandi correnti di pensiero, quali l’idealismo, il positivismo, il marxismo; sul piano politico, al rovesciamento e alla scomparsa delle vecchie monarchie prima e dei nazionalismi totalitari poi, soppiantati dai regimi costituzionali, repubblicani e democratici; sul piano economico, alla espansione del sistema capitalistico di produzione e alla nascita contrapposta dei vari socialismi; sul piano scientifico, allo sviluppo vertiginoso della scienza e della tecnica, in tutti i campi dalla medicina alla comunicazione sociale. In mezzo a tutto questo fermento, le ideologie e i miti del nostro tempo hanno diffuso tra le masse una pluralità di visioni dell’uomo e della società spesso inconciliabili tra loro. E per lo più in polemica, quando non in opposizione, con le radici cristiane del vecchio mondo.

Il risultato è stato che oggi sono in discussione quegli stessi elementi portanti che avevano fatto nascere l’Europa ed erano stati per secoli la causa principale di un prodigioso progresso spirituale e materiale, di una civiltà che aveva illuminato il mondo: cioè, l’ispirazione cristiana, l’apertura della cultura ai valori trascendenti, la concezione del lavoro quale strumento di crescita personale e sociale, materiale e morale.

Bastano questi rapidi cenni per darci il senso delle proporzioni eccezionali del trapasso epocale che stiamo vivendo. Chiaramente ci troviamo a un bivio della storia che presenta un’impressionante analogia con il bivio di fronte al quale si trovò ad agire san Benedetto, quando la fine dell’Impero romano travolse valori e istituzioni stabili da secoli.

La seconda considerazione che viene spontanea è l’attualità del messaggio e della intuizione di san Benedetto. Infatti, il suo vero merito è quello di aver realizzato una sintesi tra civiltà pagana e cristianesimo, spianando la via a quel progetto socio-religioso che fu la « cristianità medioevale ». Una unità nuova che, mentre, da un lato, era in continuità con le mete raggiunte dalle civiltà precedenti, dall’altro si poneva chiaramente in rottura con le tendenze regressive d’una concezione pagana e barbarica del mondo e della vita.

Non dissimile è lo sforzo che si richiede oggi da noi, mentre nasce una nuova Europa: realizzare una sintesi nuova in continuità con le mete raggiunte in lunghi secoli di progresso e di civiltà e con i valori emergenti dalle nuove realtà culturali e sociali del nostro tempo, ma in rottura con le spinte regressive e devianti dell’umanesimo materialistico e radicaleggiante, che è una edizione aggiornata della visione pagana e barbarica della vita.

Nello stesso tempo, mentre prendiamo atto delle coincidenze, siamo coscienti altresì delle grandi differenze tra il nostro tempo e quello di san Benedetto. Esse sono tali che rendono inedito e nuovo lo sforzo che noi oggi siamo chiamati a compiere per contribuire a creare la nuova Europa. Una differenza sostanziale è che oggi - in un mondo che è cambiato e in una Chiesa che è cresciuta - un progetto di « cristianità » sul tipo di quello medievale non è più proponibile, né storicamente, né teologicamente, in una Europa culturalmente, socialmente e politicamente pluralistica. Un’altra differenza sostanziale è che la nuova Europa nasce non più come un universo a sé, come il centro dell’umanità, ma ridimensionata a una delle tante regioni del mondo.

Perciò, in un contesto essenzialmente diverso, ma in una svolta storica per molti aspetti gravida di futuro come quella vissuta da san Benedetto, il suo messaggio conserva certo la sua validità, però - dopo quindici secoli - gli elementi fondanti che hanno dato vita e prosperità all’Europa (la fede cristiana, la cultura e il lavoro) vanno ripensati e riproposti in modo nuovo. E’ il compito soprattutto dei cristiani di oggi. Non si tratta di riproporre il vecchio modello di cristianità, ma di porre il dinamismo della fede cristiana al servizio della costruzione di una nuova Europa, divenuta pluralistica, in leale collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà. Perciò, il miglior modo di celebrare l’attualità del messaggio di san Benedetto è quello di trarne ispirazione per porre a fondamento dell’Europa una nuova unità spirituale, per impegnarci in una nuova sintesi culturale, per lavorare alla creazione di un nuovo ordine economico a misura d’uomo.

Realizzare una nuova unità spirituale

Con l’inizio dell’epoca moderna ha preso l’avvio quel processo di secolarizzazione e di laicizzazione che non solo ha portato alla fine della « cristianità » come fatto storico e sociologico, ma ha sovvertito la scala dei valori. Non è più Dio il valore primo. La crisi religiosa ha avuto ripercussioni immediate sul campo morale, dato il nesso strettissimo che lega religione e morale; il mondo moderno non accetta più che la norma morale si fondi ultimamente su Dio, e da lui riceva i caratteri di assolutezza e di universalità. Di conseguenza, la perdita del senso di Dio, mentre da un lato ha dato origine all’ateismo e alla indifferenza religiosa di massa, dall’altro si è tradotta in perdita del senso dell’uomo: del suo valore unico, del rispetto assoluto che si deve alla sua dignità di persona, alla sua vita, alla sua libertà, ai suoi diritti inalienabili. Così, la « morte di Dio » che, come ci ha insegnato Nietzsche, è il fatto più tragico della civiltà moderna, si è tradotta nella « morte dell’uomo ». E non solo l’Europa ha vissuto drammaticamente questa « morte dell’uomo » con le due ultime guerre mondiali, con i campi di sterminio nazisti, con i gulag e il terrorismo organizzato dei nostri giorni, ma ha tentato addirittura di teorizzarla (si pensi allo strutturalismo) come l’ultima conquista del pensiero, finalmente libero da ogni residuo di trascendenza. Questo ridurre l’uomo alla sua mera dimensione naturale non minaccia forse di distruggere la civiltà europea, la quale è nata e si è sviluppata invece nel segno dell’uomo immagine di Dio, dell’uomo che pur radicato nella natura, però la trascende infinitamente?

Il pericolo di percorrere fino in fondo questo vicolo cieco e le drammatiche conseguenze che ciò comporterebbe consentono di misurare l’importanza e l’attualità del messaggio di san Benedetto. Vogliamo ristabilire il vero primato dell’uomo? Vogliamo fondare solidamente la dignità della persona umana, l'inalienabilità dei suoi diritti? Per sfuggire al nichilismo che incombe mentre sta nascendo la nuova Europa, occorre ristabilire il primato dello spirito sulla materia. Non si tratta di contrapporre, ma di comporre; di ristabilire la dovuta gerarchia nella scala dei valori, la sintesi che armonizzi trascendenza e immanenza; nel rispetto, da un lato, della laicità e della legittima autonomia della dimensione temporale dell’uomo (evitando, cioè, forme non più accettabili di clericalismo e di integrismo), e, dall’altro, evitando innaturali e impossibili dicotomie tra fede e storia, tra materia e spirito, tra azione e pensiero, tra impegno temporale e vita interiore. Aver realizzato questa sintesi fu appunto il merito principale della scuola monastica benedettina e fu la ragione vera della fecondità della civiltà europea in ogni campo del sapere e dell’agire dell’uomo.

Se oggi la nuova Europa che nasce dovesse rifiutare definitivamente questa sintesi, maturata e arricchita da quindici secoli di vita e di difficile crescita, non esisterebbe nessun’altra possibilità di darle un’anima. Il messaggio cristiano non è legato ad alcuna forma particolare di cultura umana o di sistema politico, economico o sociale, non è identificabile con l’uno o con l’altro blocco ideologico o militare; viene prima dei sistemi e dei blocchi, perché si pone a livello dell’uomo, cioè a livello culturale, pre-politico. Proprio in virtù di questa sua universalità può costituire un legame strettissimo tra le diverse comunità umane e nazionali, può divenire ancora una volta strumento di unificazione e di collaborazione all’interno di un’Europa pluralistica (25). L’Europa non nascerà, se oltre che come unità doganale, economica e politica non si realizzerà come unità spirituale. E questa non potrà mai venire dall’egemonia di una ideologia o di un sistema su tutti gli altri; ma soltanto da una coscienza nuova che, raccogliendo l’eredità di quindici secoli, sappia assumere in una sintesi nuova quanto di valido si trova in ogni elaborazione culturale sull’uomo. Ecco perché, anche se si volesse prescindere dalla storia reale di quindici secoli d’Europa, il cristianesimo in sé (sintesi di persona e di universalità) offre ancora una volta un contributo determinante alla maturazione d’un pensiero comune, nella diversità delle culture, all’affermazione d’un diritto comune, nel pluralismo delle strutture e dei sistemi, alla riscoperta di una profonda affinità spirituale, nonostante gli irrigidimenti ideologici, alla realizzazione nella complementarità della mutua integrazione di progetti e di forze, senza mortificare la identità propria di ciascuno.

Creare una nuova sintesi culturale

Il materialismo, la perdita del senso della vita, la caduta nell’insignificanza del mondo e dell’esistenza dell’uomo nel mondo, il nichilismo non sono visioni culturali componibili con la tradizione culturale europea, che è essenzialmente una « civiltà della vita » e non una « civiltà della morte ». Ma, se da un lato dobbiamo fare attenzione a non prendere come valori quelle che in realtà sono deviazioni patologiche di una civiltà in crisi, d’altro lato sarebbe grave se ci sfuggisse il fatto che molti valori delle culture di oggi sono in realtà una traduzione secolarizzata di valori cristiani; da assumere, quindi, da armonizzare e da aprire a una visione integrale dell’uomo e della storia. Così, accanto a idee impazzite, che minacciano di distruggere l’uomo, si deve riconoscere che l’uomo oggi ha una coscienza più profonda di sé, della vita, della storia, delle sue responsabilità personali e sociali. Oggi non sono più soltanto le élite, ma le masse ad avere il senso della dignità della persona e della inalienabilità dei suoi diritti; è divenuta coscienza universale il bisogno di giustizia e di equità, il dovere della tolleranza e del rispetto del pluralismo, la necessità della solidarietà e del dialogo per realizzare insieme un mondo più fraterno.

Ora, questi fermenti culturali che emergono dalla crisi presente e che già orientano l’Europa di domani, che altro sono se non quei « frutti umani dei Vangelo » di cui parlava Paolo VI nel suo messaggio del 26 gennaio 1977 al Consiglio d’Europa, i quali sono maturati e restano vivi « anche presso coloro che non condividono la nostra fede, anche dove la fede si è assopita o estinta »?

Ancora una volta, tutto ciò rende testimonianza della viva attualità dell’intuizione benedettina, secondo la quale solo una cultura aperta alla trascendenza poteva essere fattore aggregante tra componenti tanto diverse tra loro, quali potevano essere quelle greche, latine, slave e anglosassoni del suo tempo. Oggi ritorna questa necessità per noi di prendere l’iniziativa d’un confronto tra tutte le culture, in modo da realizzare una sintesi nuova, improntata ad un umanesimo integrale; tale, cioè, che senza lasciar cadere quanto di buono e di valido c’è in ogni elaborazione culturale, induca a comporre una coscienza comune, nel pieno rispetto della identità di ciascuno. La nuova Europa, unita e pluralistica, solo può nascere da un aperto richiamo allo umanesimo integrale, cioè a confrontarsi sull’uomo, sui suoi valori, sui suoi problemi reali in una visione della vita non riduttiva e materialistica, ma globale e aperta alla sua dignità trascendente. La lezione e l’esempio di san Benedetto affidano soprattutto ai cristiani di oggi, impegnati con tutti gli uomini di buona volontà a costruire la Europa di domani, il compito di prendere l’iniziativa per un’azione di inculturazione, di mediazione culturale nuova, che apra il discorso dell’uomo verso orizzonti comuni d’un umanesimo plenario. L’unità culturale della nuova Europa va costruita attraverso il dialogo aperto e leale, teso a superare l’ottica immanente e materialistica.

Costruire un nuovo ordine economico a misura d'uomo

Infine, come la vecchia Europa trasse la forza del suo sviluppo da una concezione ideale del lavoro, così noi oggi siamo chiamati a porre, attraverso una concezione rinnovata del lavoro umano, il fondamento di un diverso ordine economico, europeo e internazionale. La società del benessere, fondata sul consumismo, si è rivelata disumanizzante. Producendo per produrre, consumando per consumare, l’homo sapiens si è trasformato in homo faber, ha portato a misurare tutto col metro dell’efficientismo e del benessere materiale. In tal modo anche la concezione del lavoro e della economia ne è risultata stravolta. Il lavoro non è più uno strumento al servizio dell’uomo e della sua crescita integrale, ma l’uomo diviene schiavo del lavoro e delle strutture di produzione. Anche l’esperienza dei Paesi socialisti ha mostrato alla evidenza che un mero cambio di strutture non basta a garantire la soddisfazione dei bisogni essenziali dell’uomo, la sua libertà, la sua effettiva partecipazione responsabile alle scelte e alle decisioni comuni. I fattori etici e sociali sono - oggi, non meno che al tempo di san Benedetto - determinanti ai fini dell’instaurazione d’un ordine economico degno dell’uomo.

È un insegnamento antico che il Concilio ha voluto riprendere: «Dio ha destinato la terra e tutto ciò che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e popoli, e pertanto i beni creati debbono, secondo un equo criterio, affluire a tutti, essendo guida la giustizia e assecondando la carità » (26). Dunque, le responsabilità dei cristiani di oggi per la edificazione d’un nuovo ordine economico europeo e internazionale non sono minori di quelle che avvertì san Benedetto dinanzi al crollo dell’Impero romano.

Occorre, allora, impegnarsi affinché sia riveduto il concetto stesso di sviluppo, oggi ancora dominante, il quale continua a proporre come traguardo ai Paesi meno favoriti dell’Europa e del Terzo Mondo il modello consumistico del welfare State. Ciò comporta - al di là del dibattito teorico - la volontaria limitazione, la austerità, la moderazione dei consumi personali e di massa nei Paesi ricchi. Ritorna la scelta di sobrietà che san Benedetto poneva, insieme con la qualità umana del lavoro, a fondamento di un regime economico a misura d’uomo, finalizzato non all’avido guadagno, ma alla soddisfazione dei bisogni reali dell’esistenza (27).

Parimente occorre rivedere la diffusa concezione del diritto di proprietà privata, quasi esso sia sinonimo di liceità dell’accumulo indefinito dei beni, ad uso e consumo arbitrario di singoli individui, gruppi o Paesi. « Quali che siano le forme concrete della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli secondo circostanze mutevoli e diverse - dice ancora il Concilio -, si deve sempre tener conto della destinazione universale dei beni. Perciò, l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri » (28). Ritorna, dunque, anche qui lo spirito di san Benedetto: nella vita di una comunità « non si facciano preferenze. Nessuno sia più amato di un altro. A chi entra in religione da condizione servile, non si deve anteporre chi è libero [...], poiché sia schiavi sia liberi, in Cristo siamo tutti una sola cosa e [...] non v’è distinzione di persona presso Dio (29).

E’ questa l’ispirazione d’un messaggio che i cristiani di oggi sono chiamati a far passare nella nuova Europa, in continuità - da un lato - con le radici spirituali e culturali del passato, ma in rottura - dall’altro - con le tendenze disumanizzanti del nostro tempo.

*  *  *

Così, la celebrazione del XV centenario della nascita di san Benedetto - nel contesto della grave crisi in cui cade - non può esaurirsi affatto in una commemorazione erudita. Si traduce, invece, in un appello vigoroso e pressante che dalla culla spirituale della vecchia Europa si rivolge oggi alla coscienza dei popoli e dei cittadini d’Europa. E’ l’appello a rifiutare la logica della divisione e della distruzione, che come ha detto Giovanni Paolo II all’inizio di quest’anno - è in antitesi con lo spirito benedettino, con quello spirito, cioè, che ha dato vita all’idea stessa d’Europa (30). Non dividere e distruggere, ma unire e costruire insieme.

Non dividere e distruggere. Non, quindi, un’Europa lacerata e disgregata spiritualmente, culturalmente ed economicamente. Non l’Europa dei blocchi ideologici contrapposti, delle cortine e dei muri di separazione, della corsa agli armamenti, delle frontiere chiuse.

Ma costruire insieme. Un’Europa spiritualmente e culturalmente unita, nel rispetto del legittimo pluralismo; un’Europa in cui i diritti umani sono non solo riconosciuti, ma effettivamente rispettati; una Europa non solo dei Nove o dei Dodici, ma di tutti i popoli che la abitano ad Occidente e ad Oriente, dall’Atlantico agli Urali; finalmente, un’Europa non chiusa in sé, in un mondo che ormai s’è fatto piccolo, ma aperta a dare e a ricevere mediante nuovi e profondi legami con i popoli giovani in via di sviluppo, e con il mondo intero.

 

 

(1)          Giovanni Paolo II, Omelia del 1° gennaio 1980, in Oss. Rom., 2-3 genn. 1980.

(2)          Pio XII, Omelia del 18 settembre 1947, in AAS XXXIX (1947), 453.

(3)          Cfr AAS LVI (1964), 965 $.

(4)              Quidquid canonum ordo vel Regala sancii Benedicti edocet, MGH, Conc. I, can. 15, 221.

(5)          S. Gregorio Magno, Dialoghi, II, 8, PL 66, 152.

(6)              Ivi, II, 15, PL 66, 162.

(7)              Si revera Deum quaerit, Regula, 58, 7. Citiamo la Regula S. Benedicti, a cura di G. Penco, Firenze, La Nuova Italia, 1958; vedi pure: La Règie de Saint Benoìt, 2 voli., in Sources Chrétiennes 181-182, Paris, Ed. du Cerf, 1972.

(8)              Uni Deo servitur, Regula, 61, 10.

(9)              Ivi, 1, 38. 67.

(10)           Domino Christo vero regi militaturus, ivi, Prol. 3.

(11)           Nihil amori Christi praeponere, ivi, 4, 21.

(12)           Cfr ivi, 7, 63; 16, 5.

(13)        Cfr ivi, 48, 1.

(14)           Dominici schola servitii, ivi, Prol. 45.

(15)           Ivi, 73, 2. 6.

(16)        Rasano Mauro, De clericorum institutione, III, 18; PL 107, 396.

(17)        J. Leclercq, L’amour des lettres et le désir de Dieu, Paris, Ed. du Cerf, 1957, 118.

(18)           Regula, 48, 1.

(19)           Ivi, 41, 2.

(20)           Ivi, 48, 1.

(21)           Ivi, 31, 19.

(22)            Ecce, labora et noli contristari; S. Gregorio Magno, Dialoghi, cit., II, 6, PL 66, 144.

(23)           Regula, 48, 8.

(24)        Paolo Diacono, De Gestis Longobardorum, 1. 1, c. 26; trad, it. in I. Schuster, La storia di san Benedetto e dei suoi tempi, Milano, Vita e Pensiero, 1943, 386.

(25)        Cfr Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 42.

(26)        Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 69.

(27)        Cfr Regula, 57.

(28)        Concilio Vaticano II, Cost past. Gaudium et spes, n. 69.

(29)           Regula, 2, 18 ss.

(30)        Giovanni Paolo II, Omelia del 1” gennaio 1980, cit.


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7 novembre 2014                Alberto "da Cormano"               alberto@ora-et-labora.net