“LECTIO
DIVINA” 6
«A tal proposito è stato fatto acutamente notare che, ad interpretare bene la regola, il classico ora et labora dovrebbe essere integrato così: Ora, labora et lege! (cf. de Vogüé, La Regola di S. Benedetto, Abbazia di Praglia 1998, p.336) Occorre cioè mettere in evidenza il ruolo straordinario che Benedetto annette, dopo la preghiera, e prima del lavoro manuale, alla lettura e alla meditazione, ricordando che per lui la lectio per eccellenza è quella della S. Scrittura, seguita da quella degli scritti spirituali dei Padri, ma evidentemente senza escludere ogni altra lettura fatta nello stesso spirito.»
LA
SPIRITUALITA’ DI SAN BENEDETTO
E IL SEGRETO DELLA SUA EFFICACIA
Omelia
del Card. ANGELO SODANO,
Segretario di Stato,
nella Santa Messa in onore di S. Benedetto.
(Montecassino, 21 marzo 1999)
E’ commovente sentir proclamare le Beatitudini evangeliche fra le mura di Montecassino. La loro lettura, prevista per la festa del Santo ed eccezionalmente qui consentita per questa domenica, ben si colloca nell’orizzonte della Quaresima. Non è forse, questa pagina di vangelo, il “manifesto” della vita cristiana, e perciò il punto di riferimento per ogni autentico rinnovamento spirituale?
Nella vita dei Santi il discorso delle Beatitudini passa come luce attraverso un prisma, ed ogni Santo ne accentua qualche tonalità. Oggi lo vediamo riflesso nella vita di S. Benedetto, padre del monachesimo occidentale e patrono d’Europa.
Questi due titoli ci ricordano oggi la grande schiera dei monaci che si riconducono alla regola benedettina e che occupano un posto d’onore nella storia di tante Nazioni.
Ringrazio perciò il Reverendissimo Abate Don Bernardo D’Onorio e la comunità di Montecassino per l’invito che mi hanno rivolto a presiedere questa Eucaristia, invito che ho volentieri accolto anche per esprimere il mio apprezzamento per quanto questo illustre centro di vita monastica ha dato nei secoli alla Chiesa e al mondo. Un saluto cordiale va anche a tutte le autorità qui convenute, ed in modo particolare al Signor Presidente del Parlamento Europeo D. José Maria Gil-Robles, al Signor Ministro degli Affari Esteri d’Italia, On. Lamberto Dini ed agli Ambasciatori di vari Paesi.
Fu intuizione di uomini lungimiranti quella che, sulle macerie dell’ultimo conflitto mondiale, additò in questa prospettiva una direzione obbligata se si voleva che l’Europa volta e per sempre la pagina delle sue guerre e si ponesse come erede e promotrice di civiltà nel quadro di un nuovo ordine mondiale.
Altrettanto illuminata, e direi profetica, fu la scelta compiuta da Paolo VI di proclamare S. Benedetto celeste Patrono del continente, additando in lui non solo un protettore, ma anche un educatore, nella consapevolezza che il suo messaggio spirituale rimane di grande attualità, è capace anzi di offrire un’indicazione di rotta, per evitare che questo grande processo di unificazione si delinei all’insegna di un pragmatismo privo di anima. E’ ben noto quanto su questa prospettiva di un’Europa dei valori, ben radicata nella sua tradizione cristiana, insista il Santo Padre chiamando continuamente i cattolici a rendere in questo senso il loro insostituibile servizio.
A prima vista, la spiritualità monastica potrebbe suonare la più lontana da questo processo di transizione epocale in cui siamo coinvolti..
Quella che portò il giovane Benedetto a lasciare Roma, dove si era recato per studio, e prendere la via di Affile, poi di Subiaco, e infine di Montecassino, per darsi alla vita di preghiera, fu una scelta di abbandono del mondo, di “fuga mundi”. Se si opera un confronto con il variegato scenario della vita monastica precedente e a lui contemporanea, è facile notare come, sulla base di un comune progetto ascetico, la stessa vita monastica poteva essere concepita in modo diverso. Alcuni avevano scelto la formula radicale dell’eremitismo, dal quale lo stesso giovane Benedetto fu attratto. Altri avevano optato per la vita cenobitica, coniugando l’ansia della ricerca di Dio con i valori della vita comunitaria. Ma anche in quest’ultimo modello, si aprivano diverse possibilità per la configurazione del rapporto tra la vita monastica, quella pastorale, e la stessa storia civile.
S. Benedetto fece un’opzione precisa, scegliendo, per sé e per i suoi, la formula cenobitica, secondo una linea che sottraeva il monaco sia al ministero pastorale diretto sia, a maggior ragione, all’impegno secolare. “La sua vita – ha scritto de Vogüé – trascorrerà fuori del tempo politico, lontano dalla storia” (S. Benedetto uomo di Dio, Edizioni S. Paolo, 1999, p. 44).
Eppure, proprio di quest’uomo che altro non ambiva se non il “quaerere Deum”, veniamo oggi a celebrare il ruolo storico che ha svolto nel lungo cammino di formazione dell’Europa. Qual è la logica di questo apparente paradosso?
In realtà, quella separazione dalla storia in nome del radicalismo evangelico non era un “rifiuto”, ma una “rifondazione”. Non era il mondo in quanto tale che Benedetto aborriva, ma i falsi valori che lo abitano e lo inquinano. Egli intuiva che solo la scelta radicale del vangelo riporta l’uomo e il mondo a se stessi. E’ la logica del “perdersi” per “ritrovarsi”: “Beati i miti, perché possederanno la terra”.
Per spiegare l’influsso storico della regola benedettina è un luogo comune far riferimento alla saggezza con cui il Santo legislatore seppe conciliare la dimensione interiore della contemplazione con la stima del lavoro: ora et labora! Paolo VI, nella Lettera apostolica Pacis nuntius, sviluppò la formula di questa incidenza in tre icone: la croce, il libro, l’aratro.
Ma se si vuol cogliere il punto focale della spiritualità di Benedetto e il segreto della sua “efficacia” non c’è di meglio che partire dal discorso delle Beatitudini.
Qui emerge, da una parte, il contrasto netto tra lo spirito di Cristo e lo spirito del mondo, contrasto che il monaco è chiamato ad incarnare con tutte le sue scelte di vita; dall’altra, è sottolineato che questo contrasto non implica un’opzione di pessimismo e di grigiore, ma al contrario è una condizione di gioia profonda. Il criterio di questa gioia è nettamente rovesciato rispetto a quello comune: beati sono detti i poveri, gli afflitti, i miti, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per la causa della giustizia e per il nome di Cristo.
In un mondo in cui la ricerca della gioia è legata alle prospettive del successo, del denaro, del potere, le affermazioni di Cristo suonano provocazione, e direi, contestazione.
Ma la storia della santità, e in particolare la testimonianza della santità monastica, sta a dimostrare che Cristo non ci ha ingannati.
Per capire il senso intimamente “gioioso” del discorso della montagna, occorre guardare con sapienza dentro il cuore dell’uomo, facendo luce sulle sue tendenze profonde. A queste profondità guardò Benedetto, quando tradusse la logica delle beatitudini nella “scala dell’umiltà”.
L’uomo che cede alla tentazione dell’orgoglio può avere per un momento l’impressione di essere più forte. Ma queste scelte contrarie alla legge di Dio non tardano a presentare il conto: orgoglio chiama orgoglio, avidità chiama avidità, sopruso chiama sopruso... L’uomo si sperimenta come intrappolato e fa un’esperienza di sostanziale schiavitù.
Le istanze del vangelo, disegnate nella linea dell’umiltà, della rinuncia a se stessi e della dedizione agli altri, nell’immediato appaioni come una “via stretta”, qual è la via della croce; ma alla lunga si rivelano come condizione di vera libertà.
Benedetto intuì tutto questo. La scala dell’umiltà che egli disegnò nel capitolo VII della Regola, con i suoi dodici esigenti scalini, non vuole rendere gli uomini privi di personalità. Essa al contrario mette l’uomo in grado di innalzarsi fino alla perfezione dell’amore di Dio. Insieme rappresenta una grande scuola del carattere, che rende la persona capace di affrontare, con la forza di Dio, non solo le tendenze negative che abitano nel suo cuore, ma anche i problemi della storia, guardando con umile coraggio agli stessi potenti che il mondo teme. Ben lo mise in evidenza Gregorio Magno nella sua vita di Benedetto, mostrando il tremendo re Totila ammansito dalla sua mite chiaroveggenza.
Non si comprende nulla della grande tradizione benedettina, se non si parte dal respiro contemplativo che la pervade. Il monastero che Benedetto vuole è tutto concentrato su Dio: è la “scuola del servizio divino” (Dominici schola servitii). E’ questo il fondamento della regola: Dio come oggetto unico del desiderio e della ricerca, Dio da lodare attraverso la celebrazione dell’opus Dei, Dio da celebrare e testimoniare attraverso l’impegno della vita.
Ma questa “curvatura” dell’esistenza verso il trascendente, lungi dall’essere in contrasto con il bisogno dell’uomo di realizzarsi nella libertà e nella gioia, è il segreto e la sorgente di tutto questo. C’è una paradossale coincidenza tra la scala dell’umiltà e la scala della libertà, tra la radicalità dell’obbedienza e la intensità della comunione, tra la “fuga mundi” e l’autentica “stima” per il mondo, guardato alla luce di Dio.
Non sorprende dunque che l’ascetica benedettina abbia espresso il ben noto apprezzamento anche per il lavoro manuale.
Il lavoro, infatti, prima di essere colto nella sua dimensione strumentale, che spesso induce a praticarlo solo in funzione del guadagno e della necessità, va visto in rapporto al disegno di Dio.
Com’è noto, S. Benedetto offre due motivazioni per il lavoro del monaco: la prima è un’indicazione ascetica, ossia il superamento dei pericoli derivanti dall’ozio; la seconda è tratta dalla tradizione dei padri e degli apostoli: il vero monaco è uno che vive col lavoro delle sue mani (cf. RB 48). Sono due prospettive illuminanti, ma non certo una completa teologia del lavoro. Per riscoprire la profonda intuizione del grande Legislatore, occorre attingere alle linee della spiritualità del lavoro, come, sulla base della Scrittura, le ha disegnate il Concilio e Giovanni Paolo II le ha poi sviluppate nell’enciclica Laborem exercens. Qui il lavoro è presentato come partecipazione all’opera del Creatore (n. 24).
E’ un discorso, questo, rivolto a tutti i cristiani. Ma il monachesimo benedettino, inserendo l’esperienza e la spiritualità del lavoro nella sua tipica tensione verso Dio, ha mostrato come quest’ultima, lungi dal togliere forza all’impegno per le realtà terrene, lo riempie di senso religioso. Fu in forza di questo che i monasteri benedettini diventarono centri di irradiazione non solo di vita liturgica e contemplativa, ma anche di una concreta civiltà del lavoro, attraverso le molteplici opere compiute e promosse, dal dissodamento della terra alle realizzazioni edilizie, dall’assistenza sociale alla costruzione di strade fino alla promozione di una vera e propria industria artigianale. E’ impressionante come questo equilibrio della formula monastica benedettina, pur nettamente disegnata nella logica delle beatitudini e sul primato dell’aldilà, illumini insieme la vita quotidiana, come luce trasfigurante e trasformante, capace di influire sulla costruzione della storia in modo certamente diverso, ma non opposto, a quello tipico della vita laicale.
Questa singolare esperienza benedettina è patrimonio spirituale da investire per il futuro. L’Europa che si sta formando, ne ha bisogno più che mai, per darsi una fisionomia che unisca alle ragioni dell’economico le ragioni del trascendente, restando fedele a quella sintesi umanistica che il cristianesimo ha saputo promuovere nel nostro continente.
A tal proposito è stato fatto acutamente notare che, ad interpretare bene la regola, il classico ora et labora dovrebbe essere integrato così: Ora, labora et lege! (cf. de Vogüé, La Regola di S. Benedetto, Abbazia di Praglia 1998, p.336) Occorre cioè mettere in evidenza il ruolo straordinario che Benedetto annette, dopo la preghiera, e prima del lavoro manuale, alla lettura e alla meditazione, ricordando che per lui la lectio per eccellenza è quella della S. Scrittura, seguita da quella degli scritti spirituali dei Padri, ma evidentemente senza escludere ogni altra lettura fatta nello stesso spirito. Una lettura siffatta, lungi dal distrarre dalla preghiera, la nutre e, nella rimeditazione, sostiene spiritualmente lo stesso lavoro manuale.
Cari amici, non ci è dato di presagire quale figura di società si affermerà nel terzo millennio ormai alle porte. Ma a questa nuova società in formazione, con i suoi ardimenti e spesso con i suoi fallimenti, i figli di S. Benedetto sono chiamati a ricordare i valori della nostra civiltà cristiana. In particolare, essi sono chiamati a ricordare che tutto è guadagnato mettendo Dio al primo posto e tutto rischia di essere perduto, quando si perde il senso di Dio.
E’ questo il messaggio che ancor oggi, il padre del monachesimo occidentale rivolge all’umanità, all’alba del terzo millennio cristiano.
Testo prelevato dal sito Web della Santa Sede: https://www.vatican.va/
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21 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net