Capitolo ottavo

IL SEGRETO DI CLUNY

Estratto da “IL SEGRETO DI CLUNY” di Raymond Oursel

Jaca Book 2001

 

Si chiudeva una pagina della storia cristiana. Dopo la morte di Pietro il Venerabile e come per giustificarlo davanti alla posterità, sembrò che, quasi all’improvviso, l’ordine cluniacense crollasse; esso non avrebbe ritrovato mai più il suo splendore né il suo irraggiamento. Dal 1156 al 1200 circa si succedettero non meno di otto abati, senza lasciare una traccia che andasse al di là dei loro nomi indicati nelle carte abbaziali. Tale riservatezza, se non altro, risparmiò a loro e alla congregazione, colosso dai piedi divenuti d’argilla, un coinvol­gimento troppo diretto nelle turbolenze religiose della fine del secolo, e nel dramma cataro in particolare. La crisi finanziaria arriva al suo culmine, nonostante le misure di urgenza adottate da Enrico, ve­scovo di Winchester e già monaco di Cluny, eccellente amministrato­re, che Pietro il Venerabile, papa Adriano IV e il re di Francia si era­no risolti a richiamare nell’abbazia d’origine perché raddrizzasse la situazione, in particolare rimborsando personalmente i debiti e risa­nando la gestione. L’immenso impero, battuto in breccia da quello che in Europa si conquista l’ordine rivale di Cîteaux, ha cessato di crescere. Numerosi indizi dimostrano che l’irraggiamento spirituale dell’ordine ha cominciato a frantumarsi proprio nel momento in cui appaiono nuove forme di impegno monastico: ordini militari, francescani, domenicani. Un censimento effettuato dopo le devastazioni della Peste Nera, che imperversò dal 1346 al 1348, dimostra cruda­mente la riduzione del numero delle abbazie e delle case affiliate e la notevole diminuzione, talvolta catastrofica, dei monaci.

A Cluny, tuttavia, il reclutamento sembra relativamente stabile; alla vigilia della guerra dei Cent’anni la comunità contava, in media, poco più di duecento religiosi. Ma questo numero traduce male la realtà, soggiacente alle cifre, di un cedimento degli entusiasmi e delle energie, di una routine spirituale da cui l’ordine, come esausto, non si risolleverà più. Si conteranno ancora validi e grandi abati, mecenati, intendenti e amministratori avveduti e per di più virtuosi: nomi come quelli di Ivo I (1257-1275), di Raimondo di Cadoène (1400-1416), di Odone de la Perrière (1424-1457), di Giovanni di Borbone (1457-1485), che fu vescovo del Puy e ancora, nel XVIII se­colo, del pio riformatore Giacomo di Vény d’Arbouze, non mancano di far onore alla vecchia congregazione, costretta ad affrontare la concorrenza dei nuovi ordini, l’evoluzione dei tempi, il regime disa­stroso della commenda abbaziale e infine le lacerazioni interne che finiranno per mandarla in rovina.

Ma il registro dei suoi santi è definitivamente chiuso! Per sei secoli l’istituzione cluniacense e l’abbazia madre dovranno tenere gli occhi fissi sulla comunità iniziale, che serve loro come giustificazione e al tempo stesso come autentico «Leggendario»; a buon diritto si può constatare che continua a illuminare il loro lungo cammino e a nutrirne la fedeltà. Il riferimento ai santi abati e la meditazione dei loro esempi rimangono costanti. Nel 1614 dom Martin Marrier, professo di Saint-Martin-des-Champs, eleva alla loro memoria quel «monumento storico» che è la raccolta della Bibliotheca cluniacensis. Nel XVIII secolo ne viene elaborata un’edizione complementare, che purtroppo non verrà pubblicata. Poi un abitante di Cluny, Philibert Bouché de La Bertilière, che fu testimone degli ultimi tempi della grande abbazia, le dedica una compilazione ricchissima di an­notazioni e osservazioni inedite, e questo razionalista del secolo dei Lumi lascia trasparire più di una volta il rispetto che gli ispirano le grandi figure dei primi abati.Abbazia di Cluny - Assonometria

Negli ultimi anni del secolo successivo, un tentativo di restaurazione monastica, guidato in quegli stessi luoghi da dom Lamey, fallisce miseramente nell’equivoco e nella discordia. Ma proprio nel momento in cui cominciava a essere perpetrato il massacro della grande chiesa, abbandonata alla cupidigia di tre furfanti, il nome di Cluny sarebbe stato provvidenzialmente risollevato da una giovane borgognona di Seurre, Anne-Marie Javouhey. Ella fondò una con­gregazione femminile che avrebbe portato ai confini del mondo il gesto del bacio al lebbroso, trascinata dallo stesso slancio degli uccelli migratori che, con i loro voli misteriosi, attraversano i cicli della vallata della Saona. Infermiere, educatrici, dotate di una spiritualità profonda e compassionevole, le Suore di San Giuseppe di Cluny continuano a dedicarsi, in Europa e nelle loro lontane missioni, all’assistenza spirituale e materiale dei più indigenti, al sostegno di tutte le forme di miseria umana. In tempi ancora più recenti, la comunità di Taizé ha rivendicato e affermato sin dalle origini la sua parte di eredità cluniacense, la riconciliazione che, al primo contat­to, suggeriscono l’armonia degli spazi dilatati ai quattro venti e la tranquilla e raccolta intimità della minuscola chiesa romanica che, impregnata della memoria e della vicinanza cluniacensi, nel corso dei primi anni aveva ospitato la preghiera comunitaria dei fratelli.

Sulle ragioni esatte di un simile e così durevole prestigio, della trasmissione quasi ereditaria di una trascendenza spirituale che non ha equivalenti in tutta la storia cristiana, gli storici moderni rimangono divisi e non sempre i motivi che avanzano risultano convin­centi. Alcuni di essi adducono la longevità degli abati e la durata degli abbaziati. Ma quest’ultima fu eccezionale, lo abbiamo suffi­cientemente ricordato, solo per tre di essi. Quello di Bernone era durato solo diciassette anni, quelli di Odone e di Aimardo furono ancora più brevi: quattordici e tredici anni. Maiolo rimase in carica quarant’anni, Odilone lo supera di gran lunga con cinquantacinque anni e Ugo ancora di più, con sessant’anni! Subito dopo di lui, l’abbaziato di Ponzio di Melgueil dura tredici anni, anche se per la ve­rità interrotto dalle sue clamorose dimissioni, e Pietro di Montboissier guiderà l’abbazia per trentacinque anni.

Del resto la longevità costituisce forse sempre un fattore di succes­so o di splendore? Quante volte, al contrario, essa è sinonimo di rou­tine e di fossilizzazione! È vero che a Cluny questo rischio non era da temere; i tre «vecchi abati», circondati da venerazione, seppero salva­guardare nell’abbazia una giovinezza e un’alacrità non solo intellet­tuale ma anche fisica, che trascinava nel suo slancio tutto il monaste­ro. L’instancabile Maiolo, a ottant’anni, si mette ancora in viaggio, su richiesta del re Ugo Capeto, per riformare l’abbazia di Saint-Denis, e muore per via, come abbiamo detto, nel priorato di Souvigny. In quello stesso luogo morirà lo stesso Odilone il quale, a ottantasette anni, subito dopo essersi riposato dalle fatiche di un ultimo viaggio a Roma, aveva ritenuto di dover intraprendere una serie di visite attraverso i priorati cluniacensi (1048)! A sessant’anni passati, età in cui abitualmente l’attività dell’uomo subisce un rallentamento, Ugo decide di costruire l’enorme chiesa abbaziale, ed è facile immaginare che le molteplici preoccupazioni dovettero appesantire senza tregua gli ultimi anni della sua lunga vita anche se, con saggezza e lucidità, aveva previsto di farsi efficacemente aiutare in quel compito. In effetti, esso avrebbe superato le forze di un solo uomo.

Secondo altri, lo sviluppo di Cluny - dapprima abbazia e poi congregazione - sarebbe stato notevolmente favorito dall’abilità po­litica che gli abati dei secoli X e XI mostrarono nella ricerca di vantaggiose amicizie tra i grandi del mondo laico, in primo luogo impe­ratori e re. E certo che, tributari di un’epoca in cui i poteri religiosi e civili erano strettamente connessi, i monasteri e persino i vescova­di non potevano sopravvivere senza acquisire appoggi e protezioni presso coloro che erano in grado di offrirli. La fragile Chiesa del X secolo, un papato vacillante e screditato si ostinavano a coltivare il miraggio di una stretta unione, sotto forma di condominium, tra il corpo ecclesiastico e l’Impero. Tale illusione era stata ancora acca­rezzata anche dal papa dell’anno mille, Silvestro II, ma ancor prima di Gregorio VII, i papi dell’XI secolo dovettero rinunciarvi, volenti o nolenti, perché erano coscienti del fatto che rincorrere un simile so­gno avrebbe portato solo a un assoggettamento totale della Chiesa romana a poteri politici privi di scrupoli, decisi a disporre a loro piacimento dei benefici ecclesiastici per mezzo di elezioni o nomine compiacenti.

La storia di Cluny dimostra che, di fatto, solo Maiolo fu avvantaggiato
Abbazia di Cluny
Ingresso dell'Abbazia di Cluny nel XVII° secolo
Estratto da "Essai historique sur l'Abbaye de Cluny"
di Prosper Lorain -
1839
 dalle amicizie politiche che aveva acquisite, quelle germaniche e quelle italiane in particolare; ma essa dimostra anche con altrettanta evidenza che Odilone di Mercoeur non fu certo dotato di una grande capacità di giudizio politico! Più di una volta lo si trova implicato in situazioni imbarazzanti, perché nel suo umile candore gli accadeva di sbagliare nella scelta degli amici, senza curarsi di qualsiasi ritorno im­mediato o affettivo. Detto per inciso, Ugo di Semur non dovette agire diversamente quando, a Canossa, ebbe tra le mani il destino dell’Im­pero germanico: che cosa sarebbe accaduto se si fosse dichiarato a favore di colui che era il suo figlioccio, che continuava ad amare di un affetto che, a quanto pare, era sincero! I buoni uffici che le due parti speravano dalla sua presenza lo ponevano tra l’incudine e il martello, con il rischio di attirarsi il rancore dell’una e dell’altra: Enrico IV per­ché l’abate di Cluny, in quel drammatico frangente, non l’aveva né raggiunto né sostenuto; Gregorio VII perché aveva interceduto e chie­sto grazia per colui che l’intrattabile papa voleva far affondare fino al collo nella neve e nel gelo.

Inoltre non si può pensare che la Cluny dell’apogeo si sarebbe imposta per il suo prestigio intellettuale e in particolare per una qualche rinomanza delle sue scuole. Il professor Conant assegna a queste ultime una scarsa importanza, al punto che non le localizza nemmeno nelle sue ricostruzioni grafiche dei vasti edifici abbaziali, né le cita nel suo testo Cluny, églises et maisons, bilancio di una vita dedicata alle ricerche e agli scavi nel sito. Poiché non sono indicate nemmeno nelle piante e nei disegni antichi, non siamo in grado di situarle. In ogni caso, esse non raggiunsero mai la reputazione delle scuole monastiche di Fleury-sur-Loire o di Saint-Denis, vivai di let­terati, o, nell’ambito secolare, delle celebri e frequentatissime scuole episcopali di Chartres. Se così non fosse stato, gli apologisti di Cluny e dei suoi abati dell’XI e del XII secolo non avrebbero manca­to di segnalarlo. Per quanto riguarda gli scritti di questi ultimi, ci sa­rebbe voluto assai più del trattato delle Collationes, del resto caduto abbastanza presto nel più completo oblio, o della Vita Geraldi (di Aurillac), di più facile lettura, per assicurare la fama di Odone di Tours. L’Odilone delle grandi omelie aveva preoccupazioni tutt’altro che letterarie, e i talenti di teologo, e perfino di libellista, di epi­stolografo, di narratore, di Pietro il Venerabile, peraltro incontesta­bili, non sono che un lato della sua versatile personalità.

Infine, secondo il grande pubblico e secondo più di uno studio­so, il prestigio di Cluny dipenderebbe anzitutto, e quasi esclusivamente, dalla grandiosa qualità dei suoi monumenti, quanto meno a giudicare dal poco che ne resta. Ed ecco una buona occasione per opporre, non senza secondi fini, il lusso cluniacense, fattore di spu­doratezza spirituale, alla pura bellezza nuda dell’architettura cister­ciense. Questo luogo comune è duro a morire, ma richiede una du­plice osservazione. Anzitutto nella stirpe dei grandi abati due sol­tanto, secondo i loro memorialisti, possono essere considerati come mecenati e come grandi costruttori: si tratta di Odilone e soprattut­to, ovviamente, di Ugo. Colpisce tuttavia il poco spazio che i memo­rialisti, nella rassegna dei rispettivi titoli, concedono alle loro opere costruttive (non sarà inutile un confronto con la lunga e precisa de­scrizione che la Guida del pellegrino di Santiago offriva, più o meno nello stesso momento, della cattedrale di Santiago de Compostela). In seguito, molti altri interverranno nel rinnovamento generale delle «basiliche» che seguì l’anno mille e, interrotto dalla «grande mortalità» degli anni 1031-1033, riprese con risultati ancora più splendenti a partire dalla seconda metà dell’XI secolo: Saint-Bénigne di Digione, Tournus, Chalon e Mâcon, Perrecy-les-Forges, Bernay, Fleury, San Miguel de Cuxá e così via. Nessuno dei loro costruttori raggiunse una fama spirituale paragonabile a quella di Ugo di Semur, la quale è dovuta a molte altre ragioni.

Fin dall’origine, come abbiamo visto, alla giovane fondazione non erano stati assegnati obiettivi artistici e intellettuali. L’atto del duca Guglielmo, anzitutto, parlava espressamente della «unità di fe­de» che devono osservare coloro che attendono la misericordia di Cristo, e per i quali essa non è solo la fonte «unica della speranza» del mondo, ma anche il fattore più decisivo di sviluppo, «di luce e di pace», di unanimità. Il vero trionfo di Cluny non fu dovuto ad al­tro, se non alla fedeltà che, per più di due secoli, l’abbazia seppe conservare al precetto degli inizi e alla pratica che ne fece.

Caritas et Amor. In definitiva e sopra ogni cosa, è proprio l’Amo­re a illuminare ciascun anello di questa stirpe incomparabile. Ognu­no alla sua maniera, tutti i santi abati, lungi dal trincerarsi nel rifugio rassicurante del ritiro monastico e dall’evadere dal mondo scosso dalle tempeste, vissero pienamente il proprio tempo, nelle sue debo­lezze come nella sua forza, e lo impregnarono di un modello di carità evangelica di cui il gesto di Pietro il Venerabile nei confronti di Abe­lardo costituisce al tempo stesso il simbolo più espressivo, la sintesi e la sublime conclusione. A tutti coloro che avrebbero potuto essere, o sarebbero ancora oggi, tentati di temere che la contemplazione mo­nastica allontani dal dovere sociale, essi offrivano, con dieci secoli di anticipo, la più serena smentita. La loro efficacia fu perfetta soltanto nella misura in cui era rimasta sempre fondata sulla visione di Dio che siede nella Sua gloria e sull’Umanità assunta da Cristo.

Occorre ammettere una buona volta questa evidente verità: ancor più che nelle espressioni d’arte, per quanto siano splendide, è qui che risiedono la vera grandezza di Cluny, il suo genio proprio, la pe­rennità del suo messaggio. Indubbiamente non si può sottovalutare, senza essere ingiusti, l’azione civilizzatrice, economica e artistica del­la grande famiglia cluniacense. Ma il segreto del suo irraggiamento si trova a un superiore e imponderabile livello; esso sta nell’aura, ine­guagliabile sotto ogni aspetto, che vi si respirava, composta in parti uguali da reciproca concordia, da vicendevole aiuto, da gioia quoti­diana, sostenuti dalla liturgia e sfocianti nell’indulgenza e nella com­passione verso gli altri: una compassione che dopo tanti secoli conti­nua a impregnare i luoghi che aveva santificato. Anche solo a questo titolo, l’ultima parola spetta a papa Gregorio VII: davanti ai prelati del concilio riunito a Roma nel 1080 e per così dire di fronte alla cri­stianità, Cluny oggiegli decretava a Cluny un omaggio che nessun giudizio ulte­riore ha potuto offuscare: «Tra tutti i nobili monasteri d’Oltralpe fondati a gloria di Dio Onnipotente e degli apostoli Pietro e Paolo, ve n’è uno che è unito a Roma da un diritto tutto particolare: Cluny. Dedicato in modo speciale fin dalla sua fondazione all’onore e alla difesa della Sede Apostolica per la grazia e la pietà divina, sotto la guida di santi abati, è giunto a tale santità da superare tutti i mona­steri d’Oltralpe nel servizio di Dio e nel fervore spirituale. Per quan­to mi è dato di giudicare, e benché molti siano più vecchi del mona­stero di Cluny, non v’è nessuno che lo uguagli, dal momento che a Cluny non ci fu un solo abate che non sia stato UN SANTO».

E storicamente provato che all’origine della maggior parte degli ordini religiosi, in qualsiasi epoca, troviamo un santo o una santa che in certo qual modo costituisce la cauzione divina ed ecclesiale della fondazione. Ma Gregorio aveva detto il vero: il privilegio di Cluny, che si può reputare esclusivo, è proprio questo: su un lasso di due secoli e mezzo (dal 910 al 1156, ovvero un intervallo poco più lungo di quello che ci separa dalla Rivoluzione francese), tranne un’eccezione, non ci fu uno solo degli abati di Cluny che non sia stato a suo modo un santo, o non abbia meritato di esserlo. E cia­scuno di essi, l’uno dopo l’altro, doveva aggiungere una nuova di­mensione o un ampliamento ai criteri oggettivi di santità riconosciu­ti ai suoi predecessori. Non è affatto difficile comprendere come, quanto meno fino alla recente contestazione universitaria che ha steso sulle menti e sui cuori il velo più fitto che la storia intellettuale o religiosa abbia mai conosciuto, la posterità sia rimasta affascinata dall’irradiazione di questo eccezionale focolare, che continuava a ri­scaldarla anche quando si era ormai da tanto tempo spento, alla ma­niera di quelle stelle morte da secoli e la cui luce continua, come punto di irriducibile speranza, a perforare l’opacità della notte!

 


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09 marzo 2015  a cura di Alberto "da Cormano"       Grazie dei suggerimenti          alberto@ora-et-labora.net