Bernardo di Chiaravalle
Sermoni sul Cantico dei cantici
Estratto da “IL CRISTO” Volume IV, a cura di Claudio Leonardi
Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori Editore 2001
Il testo originale comprende molte note esplicative
Link al testo parziale latino con italiano a fronte
SERMONE SECONDO
1. Mi capita spesso di pensare all’ardente desiderio che i patriarchi ebbero
della presenza carnale di Cristo: allora dentro di me provo umiliazione e
vergogna. Mi viene quasi da piangere, se penso, con dolore, alla freddezza e
all’indifferenza di questa nostra età meschina. Chi fra noi prova, quando
egli per grazia ci viene mostrato, una gioia tanto intensa come quella che
infiammava i cuori di quei nostri santi antenati per la promessa della sua
incarnazione? Pensate quanti «gioiranno per la sua natività»
(Ev. Luc. 1, 14), che ci accingiamo a celebrare! Magari
gioissero davvero per la sua natività! Queste parole (del Cantico) accendono
in me un ardente desiderio e un sentimento di attesa fiduciosa, come quello
che provavano quei patriarchi: «Mi baci con un bacio della sua bocca» (Cant.
1, 1). In quel tempo chiunque fosse dotato di una natura spirituale, dentro
di sé poteva avvertire «di quanta grazia fossero cosparse le sue labbra»
(Ps. 44, 3). Per questo «la sua anima, spinta dal desiderio»
(Is. 26, 8) diceva: «Mi baci con un bacio della sua bocca»,
perché a nessun costo voleva rinunciare a una dolcezza tanto intensa.
2. Diceva infatti ogni perfetto: «A che mi servono le oscure parole dei
profeti? Lui, "il più bello tra i figli degli uomini”
(Ps. 44, 3), lui mi baci con il bacio della sua bocca. Ormai
non presto ascolto a Mosè: per me “la sua lingua è diventata confusa"
(Ex. 4, 10). E le labbra di Isaia sono impure; Geremia è “come
un bambino che non sa parlare”
(Ier. 1, 6), e tutti i profeti sono privi del dono della
parola. Lui, quello di cui loro parlano, sia proprio lui a parlare; sia lui
a baciarmi con il bacio della sua bocca. Non mi parli in loro o attraverso
di loro, perché “l’acqua rimane oscura finché è trattenuta dentro le nuvole
del cielo”
(Ps. 17, 12). Sia lui a baciarmi con il bacio della sua bocca,
la sua presenza misericordiosa e la ricchezza della sua eccelsa dottrina
creino dentro di me “una sorgente di acqua zampillante fino alla vita
eterna" (Ev.
Io. 4, 14). Il Padre “fra tutti i suoi figli ha unto lui con
l’olio della gioia”
(Ps. 44, 8); non si diffonderà forse dentro di me una grazia
più grande, se soltanto si degnerà di baciarmi con il bacio della sua bocca?
“La sua parola è piena di vita ed efficace”
(Ep. Hebr. 4, 12), è il suo bacio su di me: non è certo simile
al bacio che si scambiano le labbra di due amanti, simulando l’armonia dei
loro sentimenti; il suo bacio è gioia traboccante, rivelazione dei suoi
misteri, unione eccezionale, in un certo senso indivisibile, della luce
divina e dell’anima da quella luce illuminata. “L’anima che si stringe a Dio
forma con lui un unico spirito”
(1 Ep. Cor. 6, 17). Non presterò più attenzione a sogni o
visioni, non mi attraggono più simboli ed enigmi; persino gli angeli mi
lasciano indifferente. Il mio Gesù è infinitamente più bello di loro (cfr.
Ps. 44 , 5). Non voglio nessun altro, né angelo né uomo.
Voglio che soltanto lui mi baci con il bacio della sua bocca.
2. Certo io non pretendo di essere baciato proprio dalle sue labbra;
questa è la felicità esclusiva e il singolare privilegio dell’uomo che il
Verbo ha assunto incarnandosi; ma più umilmente aspiro a essere baciato con
un bacio della sua bocca, che è un bacio comune a molti, a tutti quelli che
possono dire: “Noi tutti prendiamo parte alla sua pienezza”» (Ev. Io.
1, 16). [...]
3. Prestate attenzione. La bocca che bacia è il Verbo, quando assume in sé
la carne; baciata è la carne assunta dal Verbo; ma il bacio che coinvolge in
egual misura chi bacia e chi è baciato è la persona stessa formata dal Verbo
e dalla carne, «il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù»
(1 Ep. Tim. 2, 5). Per questo motivo nessuno tra i santi osava
dire: «Mi baci con la sua bocca», ma soltanto «con il bacio della sua
bocca»; in questo modo essi rispettano questo suo privilegio, perché la
bocca del Verbo ha impresso il suo bacio soltanto una volta e a una sola
persona, quando «la pienezza di Dio» si incarnò «nel corpo» di Gesù
(Ep. Col. 2, 9). Bacio felice, mirabile per la sua
stupefacente misericordia: non sono labbra che premono altre labbra, ma Dio
che si unisce all’uomo. Due labbra che si uniscono rappresentano l’unione
degli animi; in questo caso invece l’unione di due nature fonde insieme
l’umano con il divino, «concludendo la pace fra la terra e il cielo»
(Ep. Col. 1, 20). «Egli è la nostra pace, lui che ha unito due
cose in una.»
(Ep. Eph. 2, 14). Per questa ragione tutti i santi del tempo
antico sospiravano quel bacio, perché presentivano che «in quel bacio erano
custodite gioia e felicità»
(Sir. 15, 6) e che in esso «si celavano tutti i tesori della
sapienza e della scienza»
(Ep. Col. 2, 3), e anch’essi desideravano partecipare alla sua
pienezza (cfr.
Ev. lo. 1, 16). 4. Avverto che vi piacciono le mie parole;
ascoltate ora un’altra interpretazione del nostro testo.
4. Beato davvero fra tutti gli uomini Simeone, che «nella sua vecchiaia»
potè godere di «questa sovrabbondante misericordia» (Ps. 91, 11).
Certamente «trepidò di gioia, per vedere» l’oggetto del suo desiderio; «lo
vide e gioì in cuor suo» (Ev. Io. 8, 56). Ricevette il bacio della
pace e nella pace fu congedato da questa vita; prima però aveva rivelato a
chiara voce che Gesù era nato come segno di contraddizione. E fu proprio
così. Una volta apparso, questo segno di pace fu contraddetto «da coloro che
odiavano la pace» (Ps. 119, 7): infatti «la pace è per gli uomini di
buona volontà» (Ev. Luc. 2, 14), mentre per i malvagi è «pietra di
scandalo e sasso d’inciampo» (1 Ep. Pet. 2, 8). Persino «Erode ne
restò turbato e con lui tutta Gerusalemme» (Ev. Matth. 2, 3), perché
«il Signore è venuto nella sua patria e i suoi non lo hanno accolto.»
(Ev. Io.
1, 11). Felici quei pastori che durante la veglia notturna furono giudicati
degni di vedere quel segno. Già allora «si celava ai dotti e ai saggi,
mentre si rivelava agli umili» (cfr.
Ev. Matth.
11, 25;
Ev. Luc.
10, 21). Anche Erode avrebbe voluto vederlo, ma poiché non era uomo di buona
volontà, non lo meritò. Il segno della pace era donato solo agli uomini di
buona volontà; a Erode e a quelli come lui «verrà accordato soltanto il
segno del profeta Giona»
(Ev. Matth.
12, 39). Disse l’angelo ai pastori: «Eccovi il segno»
(Ev. Luc.
2, 12), per voi che siete umili e obbedienti, per voi «che non vi vantate di
sapere tutto»
(Ep. Rom.
12, 16), ma vegliate e «meditate giorno e notte secondo la legge di Dio»
(Ps.
1, 2); «eccovi il segno» disse. Ma quale? Il segno che gli angeli
promettevano, che i popoli imploravano, che i profeti avevano predetto,
questo segno lo ha realizzato ora il signore Gesù e lo mostra a voi, perché,
per mezzo di esso, gli increduli conoscano la fede, i timorosi la speranza,
i perfetti la certezza. «Eccovi il segno.» Segno di che? Segno di perdono,
di grazia, di pace, e «di pace eterna»
(Is.
9, 7). Questo è il segno: «Troverete un bambino, avvolto nelle fasce e
deposto in una mangiatoia»
(Ev. Luc.
2, 12). Ma Dio si trova in lui, «per riconciliare a sé il mondo»
(2 Ep. Cor.
5, 19). Morirà per i vostri peccati, «e risorgerà per la vostra
giustificazione, perché voi, giustificati con la fede, abbiate pace con Dio»
(Ep. Rom.
4, 25 - 5, 1). Un tempo un profeta aveva proposto al re Achaz di chiedere al
signore suo Dio questo segno di pace, «sia nell’alto dei cieli sia dal
profondo degli inferi» (cfr.
Is.
7, 11). Ma quel re scellerato rifiutò, poiché, infelice, non credeva che con
questo segno si potessero unire nella pace le cose più umili con quelle più
eccelse, sino al punto che persino chi è all’inferno, di fronte a Dio che vi
scende e «lo saluta con il suo santo bacio» (cfr.
1 Ep. Cor.
16, 20), riceva il segno della pace, così come chi è in cielo, quando egli
vi sarà ritornato, partecipi alla sua eterna dolcezza.
9. Siamo giunti alla conclusione. Riassumendo per sommi capi quello di cui
si è trattato, è ben chiaro che questo santo bacio è stato necessariamente
concesso al mondo per due ragioni, per donare la fede anche agli incerti e
per soddisfare il desiderio dei perfetti. Questo bacio non è altro che «il
mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù»
(1 Ep. Tim. 2, 5), che vive e regna con il Padre e con lo
Spirito santo, Dio per tutti i secoli dei secoli. Amen.
SERMONE VENTESIMO
1. Prendiamo lo spunto per iniziare questo sermone dalle parole del Maestro:
«Se qualcuno non ama il Signore Gesù, sia su di lui l’anatema» (7
Ep. Cor. 16, 22). Devo amare con la massima intensità colui
grazie al quale esisto, vivo e conosco. Se sono ingrato, non sono neppure
degno di lui. E degno di morte chi rifiuta di vivere per te, Signore Gesù,
anzi è come già morto; chi non ti conosce è uno stolto; chi si preoccupa di
vivere per sé stesso e non per te, non conta nulla, non è nulla. «Che cosa è
dunque l’uomo se non ti ha conosciuto?» (Ps.
143, 3). Tu, o Dio, hai creato ogni cosa per te stesso; chi vuole esistere
per sé stesso e non per te, non è altro che un nulla in mezzo a tutte le
realtà. «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti; questo è», dice, «l’uomo
nella sua pienezza.» (Eccl.
12, 13). Pertanto, se questo è l’uomo nella sua pienezza, senza questa
qualità l’uomo è nulla. Rivolgiti, o Signore, verso quella minuscola
creatura che sono, per tua concessione. Da questa mia misera esistenza,
prendi, ti prego, «il resto dei miei anni» (Is.
38, 10); per quegli anni che ho sciupato vivendo nella perdizione, «non
disdegnare, o Dio, il mio cuore contrito e umiliato»
(Ps. 50, 19). «I miei giorni sono declinati come le tenebre»
(Ps. 101, 12), sono trascorsi senza frutto. Non posso più
richiamarli indietro: lascia che io te li «ricordi nell’amarezza della mia
anima»
(Is. 38, 15). E la sapienza («ogni mio desiderio», ogni
proposito del mio cuore «sta davanti a te»)
(Ps. 37, 10), se ne avessi un po’, questa la dedicherei a te.
Ma, «Dio, tu sai che sono ignorante» (Ps.
68, 6), forse la mia unica sapienza è la consapevolezza di essere ignorante,
e questo, in verità, per tua concessione. Fai crescere quel dono dentro di
me: non sarò ingrato per la sua piccolezza, anzi mi darò pena per avere ciò
che manca. Per tutto questo io ti amo con tutte le mie forze.
2. Ma c’è qualcosa che mi dà più slancio, più forza, più ardore. Al di sopra
di tutte le cose suscita in me un motivo di amore per te, buon Gesù, il
calice che tu hai bevuto, artefice della nostra redenzione. Quel calice ha
il diritto di pretendere per sé tutto il nostro amore. Quel calice, vi dico,
lega il nostro affetto nel modo più dolce, lo pretende nel modo più giusto,
lo stringe nel modo più stretto e lo suscita nel modo più intenso. Il
Salvatore ha molto sofferto in quell’atto: in confronto, durante la
creazione del mondo, Dio non ha faticato così tanto. Dio «ha pronunciato una
parola e quelle cose sono state compiute, ha dato l’ordine e quelle cose
sono state create.»
(Ps. 32, 9; 148, 5). Cristo invece ha dovuto ribattere con le
parole a chi lo accusava, difendersi con le azioni da chi lo sorvegliava,
sopportare chi lo scherniva durante la passione e chi lo calunniava al
momento della mone. Ecco in che modo ci ha amato. E questo amore non era
dovuto, ma era un suo dono spontaneo. «Chi mai lo ha preceduto nel donare
l’amore, tanto che egli dovesse poi contraccambiarlo?» (Ep.
Rom. 11, 35). Come dice san Giovanni evangelista: «Non siamo
stati noi ad amare Dio, ma è Dio che ci ha amato per primo»
(1 Ep. Io. 4, 10). Ci ha amato quando ancora non esistevamo e
ci ha amato anche quando ci siamo ribellati a lui, come testimonia Paolo:
«Quando eravamo ancora nemici, ci siamo riconciliati con Dio, grazie al
sangue del suo Figlio»
(Ep. Rom. 5, 10). Se non ci avesse amato, mentre eravamo
nemici, non ci avrebbe poi avuto come amici; se non ci avesse amato quando
non esistevamo ancora, non avrebbe avuto nessuno da amare.
2, 3. Ci ha amato con dolcezza, con sapienza, con forza. Ho detto con
dolcezza, perché si è incarnato; con sapienza, perché non si è macchiato di
peccato; con forza, perché ha affrontato la morte. Infatti coloro con cui
entrò in rapporto nella sua vita carnale, non li amò mai di un amore
carnale, ma sempre con la saggezza dello spirito. «Cristo nostro Signore è
davvero Spirito» davanti ai nostri occhi
(Lam. 4, 20), e ci ha amato di un amore divino, e non umano,
più casto di quello che Adamo provò per Eva, sua sposa. Si è fatto uomo
nella carne, ha amato l’uomo nello spirito e lo ha redento nella virtù. Che
dolcezza infinita vedere sotto forma umana il creatore dell’uomo! Con la sua
sapienza ha rimosso la colpa dalla natura umana, con la sua potenza ha
affrancato la natura umana dalla morte. Incarnandosi mi ha concesso una
grazia; evitando il peccato, si è conservato intatto; accettando la morte,
ha obbedito al Padre: amico premuroso, saggio confidente, energico
soccorritore. Mi affido con la massima serenità a lui, che ha voluto
salvarmi, che ha saputo e potuto farlo. E andato in cerca dell’uomo e lo ha
chiamato nella sua grazia: come «potrebbe respingere chi viene a lui» (cfr.
Ev. Io. 6, 37)? Non temo certo che violenze e inganni mi
«possano strappare dalle sue mani»
(Iob 10, 7), perché egli vince anche la morte che pur vince su
tutto, e grazie alla sua arte divina si è preso gioco anche del serpente
seduttore del genere umano: egli è più astuto del demonio, più potente della
morte. Pur incarnandosi in un corpo reale, del peccato assunse solo
l’apparenza, offrendo con la sua incarnazione gradita consolazione al debole
e celando accorta- mente in quella apparenza il laccio dell’inganno per il
demonio. Per riconciliarci col Padre, con la sua forza ha subito e
soggiogato la morte, versando il suo sangue come riscatto per la nostra
redenzione. Se non mi avesse amato con dolcezza, la sua maestà non sarebbe
venuta a cercarmi dentro questa prigione; ma ha sommato la sua sapienza
all’amore e con essa ha ingannato il tiranno; poi ha sommato anche la
sopportazione con cui ha placato Dio Padre che era stato offeso.
3. Questi sono i modi dell’amore, che vi avevo promesso; ve li ho presentati
nella persona di Cristo, perché voi li consideraste con maggiore riguardo.
4. Impara, o cristiano, dal Cristo in che modo devi amare il Cristo. Impara
ad amarlo con dolcezza, ad amarlo con sapienza, ad amarlo con forza; con
dolcezza, per non lasciarti sedurre dalle tentazioni; con sapienza, per non
cadere vittima degli inganni; con forza, per non lasciarti indurre dalla
violenza a rinunciare al- l’amore del Signore. Perché la gloria del mondo o
i piaceri della carne non ti portino sulla cattiva strada, ti sia più
gradito il Cristo, che è sapienza; per non lasciarti ingannare dallo spirito
della menzogna e dell’errore, risplenda per te il Cristo, che è verità; per
non lasciarti piegare dalle avversità, ti dia forza il Cristo, che è potenza
di Dio. La carità accenda il tuo ardore, la sapienza lo plasmi, la fermezza
lo consolidi. Sia impetuoso, attento, invincibile. Non conosca tepidezza,
non manchi di giudizio, non sia timoroso. Guarda che forse questi tre
precetti ti sono stati tramandati anche nella Legge, quando Dio dice: «Ama
il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con
tutte le tue forze»
(Deut. 6, 5). Mi sembra, se in questa triplice distinzione non
si riesce a trovare un significato più pertinente, che l’amore del cuore
designi l’ardore dell’affetto, l’amore dell’anima invece l’acume e l’ingegno
della ragione, l’amore della forza poi si riferisca alla fermezza e al
vigore. Ama dunque il Signore Dio tuo con tutto l’affetto del cuore, amalo
con tutta l'attenzione e la cura della ragione, amalo poi con tutte le tue
forze; non aver timore di morire per amor suo, come sta scritto in queste
parole: «Perché l’amore è forte come la morte, la gelosia è tenace come
l’inferno»
(Cant. 8, 6). Il Signore Gesù sia dolce e soave verso il tuo
amore, contro gli allettamenti piacevoli ma rovinosi della vita carnale; la
dolcezza vinca la dolcezza, come chiodo scaccia chiodo. Sia anche luce che
previene il tuo intelletto e guida la tua ragione, per proteggerti dalle
insidie dell’eresia, per conservare pura la tua fede contro le loro astuzie
e anche perché tu impari a controllare il tuo comportamento, evitando così
di cadere in un eccesso di impeto irrazionale. Il tuo amore sia inoltre
intenso e costante, non si lasci piegare dalla paura e non si lasci
abbattere dalla fatica. Amiamo dunque con affetto, con sapienza e con forza:
ora sappiamo che l’amore del cuore, che chiamiamo anche affettuoso, senza
quello che chiamiamo amore dell’anima, è dolce certamente, ma soggetto alle
seduzioni; quello poi, che è privo dell’amore della virtù, è razionale, ma
fragile.
4, 5. Considera ora alcuni esempi ben evidenti, per vedere che le cose
stanno come ho detto. Quando i discepoli si lamentavano, perché avevano
appreso da Cristo che egli li avrebbe abbandonati per ascendere al cielo, si
sentirono rispondere: «Se mi amaste, vi rallegrereste senz’altro, perché io
vado al Padre mio»
(Ev. Io. 14, 28). Dunque? Non amavano forse il Cristo se si
addoloravano proprio per la sua partenza? Certo, ma lo amavano solo in un
certo modo, e quindi non lo amavano. Lo amavano con dolcezza, ma senza
sapienza; lo amavano nella carne, ma non con la ragione; lo amavano con
tutto il cuore, ma non con tutta l’anima. Il loro affetto si rivolgeva
contro la loro salvezza, per cui Cristo disse: «È bene per voi che io vada»
(Ev. Io. 16, 7), rimproverando le loro menti, non i loro
sentimenti. Quando poi parlava della sua morte, ormai imminente, Pietro, che
lo amava teneramente, cercò di ribellarsi, ma Gesù lo riprese - come
certamente ricordate -, mettendolo a tacere: di che lo rimproverava, se non
della sua sconsideratezza? Che significano infine le parole: «Tu non conosci
le cose di Dio»
(Ev. Matth. 16, 23;
Ev. Marc. 8, 33), se non che Pietro lo amava senza sapienza,
seguendo l’istinto umano contro i piani divini? Cristo lo chiamò persino
Satana
(ibid.), perché, anche senza volere, si opponeva alla
salvezza, cercando di impedire la morte del Salvatore. Dopo che Gesù lo ebbe
rimproverato e gli ebbe ripetuto quella triste parola, Pietro non si ribellò
più alla sua morte, anzi gli promise che avrebbe affrontato la morte insieme
a lui. Non mantenne però la promessa, perché non era ancora giunto al terzo
livello, in cui, cioè, si ama con tutte le forze. Sapeva amare con tutta
l’anima, ma era ancora una creatura debole; era bene istruito, ma dotato di
poca forza; era a conoscenza del mistero, ma non aveva ancora il coraggio di
affrontare la morte. Quel suo «amore» non era allora «forte come la morte» (Cant.
8, 6), perché alla morte aveva ceduto; lo divenne in seguito, quando per la
promessa di Gesù Cristo fu rivestito di forza dall’alto; allora cominciò ad
amare con tanta forza, che quando nel sinedrio gli fu impedito di predicare
il santo nome del Cristo, Pietro, a chi glielo proibiva, rispose con
fermezza: «E meglio obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (Act.
Ap. 5, 29). Allora davvero amò con tutte le forze e in virtù
di questo amore non risparmiò neppure la sua vita. «Non esiste amore più
grande che dare la vita per i propri amici»
(Ev. Io. 15, 13): se in un primo momento non diede la propria
vita, in seguito fece dono di essa.
5. Amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze
significa dunque non lasciarsi allettare dalle seduzioni, ingannare dalle
insidie o abbattere dalle sopraffazioni.
6. Prestate attenzione: l’amore del cuore è in un certo senso un amore
carnale, perché il cuore dell’uomo entra in relazione piuttosto con il corpo
del Cristo, o con quelle cose che il Cristo ha compiuto od ordinato durante
la sua permanenza terrena. Il cuore ricolmo di questo amore si lascia
facilmente muovere a compassione ascoltando ogni discorso su questi
argomenti. Non c’è nulla che il cuore ascolti con maggior gioia, legga con
maggior desiderio, studi con maggior applicazione e mediti con maggior
piacere; e riempie le preghiere sacrificali, come si ingrassa un vitello.
L’uomo in preghiera tiene davanti agli occhi la sacra immagine del Dio-uomo,
o quando nacque, o mentre suggeva il latte, o nell’atto di insegnare, o al
momento della morte, o della resurrezione o dell’ascensione. Quale che sia,
tale immagine deve legare l’animo all’amore delle virtù, distruggere i vizi
della carne, scacciare le tentazioni e spegnere le passioni. Questo è, a mio
avviso, il motivo fondamentale per cui il Dio invisibile ha voluto mostrarsi
nella carne e vivere come uomo tra gli uomini, cioè per spingere tutti gli
affetti delle creature carnali, che non potevano amare se non nella carne,
verso l’amore salvifico della sua carne, per indurli così a poco a poco
verso l'amore spirituale. Non si trovavano forse a questo livello coloro che
dicevano: «Ecco, abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito» (Ev.
Matth. 19, 27)?. Avevano abbandonato tutto, è chiaro, solo per
il desiderio della sua presenza fisica, tanto che non tolleravano di
sentirgli pronunziare alcuna parola relativa alla sua passione e alla sua
morte imminente, per quanto questa dovesse apportar loro la salvezza, così
come in seguito avrebbero assistito con grave afflizione alla sua gloriosa
ascensione. Diceva loro: «Poiché io vi ho detto questo, la tristezza ha
invaso il vostro cuore»
(Ev. Io. 16, 6). In questo modo Cristo li aveva liberati da
ogni amore carnale soltanto con la grazia della sua presenza carnale.
7. Indicava loro poi un più alto livello di amore, quando diceva: «E lo
Spirito che vivifica, la carne non porta a nulla»
(Ev. Io. 6, 64). Era già asceso a questo grado, io credo,
l’apostolo Paolo, quando disse: «Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo
la carne, ora non lo conosciamo più cosi»
(2 Ep. Cor. 5, 16). Forse anche il profeta si trovava a questo
livello, quando diceva: «Cristo nostro Signore è davvero Spirito davanti ai
nostri occhi», e aggiunge: «all’ombra di lui vivremo tra le genti»
(Lam. 4, 20). Direi che qui si è rivolto a chi si trova ancora
al primo livello, di coloro cioè che non sentendosi ancora in grado di
sopportare l'ardore del sole, hanno bisogno di riposare un poco all’ombra e
devono nutrirsi della dolcezza della carne, poiché non sono ancora in grado
di «ricevere ciò che è proprio dello Spirito di Dio»
(1 Ep. Cor. 2, 14). Ma l’ombra di Cristo è, io credo, la sua
stessa carne, da cui fu adombrata anche Maria, perché come uno schermo la
proteggesse dall’ardore abbagliante dello Spirito. Nell’amore della carne
può dunque trovare conforto chi non ha ancora raggiunto lo Spirito
vivificante, come lo hanno raggiunto coloro che possono esclamare: «Cristo
nostro Signore è davvero Spirito» davanti ai nostri occhi (Lam.
4, 20) e inoltre: «Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora
non lo conosciamo più così»
(2 Ep. Cor. 5, 16). Infatti anche secondo la carne non si può
amare mai il Cristo senza l’intervento dello Spirito santo, benché si tratti
soltanto di un intervento parziale. L'intensità dell’amore è tale che invade
tutto il cuore con la sua dolcezza e lo rivendica a sé interamente,
sottraendolo all’amore e alle passioni carnali. Questo significa amare con
tutto il cuore. Altrimenti se preferisco l’amore per i parenti o il piacere
fisico alla carne del mio Signore, io non realizzo ciò che egli mi ha
insegnato con le sue parole e con il suo esempio durante la sua presenza
carnale. In questo caso evidentemente non lo amerei con tutto il cuore,
perché è come se io tenessi diviso il mio cuore e una parte la votassi alla
carne del Cristo, una parte fosse rivolta alla mia. Dice infine: «Chi ama il
padre o la madre più di quanto ami me, non è degno di me; e chi ama il
figlio o la figlia più di quanto ami me, non è degno di me»
(Ev. Matth. 10, 37). Dunque, per dirla in breve, amare con
tutto il cuore significa preferire l’amore della sacrosanta carne del Cristo
a tutto ciò che costituisce una lusinga per la vostra carne o per quella
altrui: in questo includo anche la gloria del mondo, perché la gloria del
mondo è la gloria della carne; coloro che si lasciano sedurre dalla gloria
del mondo sono inevitabilmente prigionieri della carne.
8. Sebbene questo amore verso la carne del Cristo sia un dono davvero grande
dello Spirito, definirei questo amore come carnale, rispetto a quell’amore
che non ha semplicemente per oggetto il Verbo fatto carne ma il Verbo che è
sapienza, giustizia, verità, santità, pietà, virtù e tutte le altre cose
simili che si possono aggiungere. Il Cristo è tutte queste cose insieme,
egli «che per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia,
santificazione e redenzione»
(1 Ep. Cor. 1, 30). Ti sembrano forse animati dallo stesso
sentimento due uomini, di cui il primo si commuove e si addolora per la
passione di Cristo, si strugge quando pensa alle sofferenze che Cristo ha
dovuto subire, si pasce della dolcezza di questa sua devozione e trova la
forza di votarsi alle opere buone, oneste, devote; mentre il secondo è
sempre infiammato dal desiderio di giustizia, ricerca sempre la verità, arde
per il desiderio di sapienza; ama la vita santa e gli onesti costumi;
rifugge la presunzione, detesta l’oltraggio, ignora l’invidia, odia la
superbia; non soltanto evita ogni gloria terrena, ma la disprezza e la
aborre; rifiuta e condanna su di sé ogni impurità della carne e del cuore;
respinge, in una parola, il male e abbraccia il bene? Se confronti i due
tipi di affetto, non ti pare che il primo sia, per così dire, quasi un amore
carnale rispetto al secondo?
9. Lodevole è tuttavia questo amore carnale, attraverso il quale si rinuncia
alla vita carnale, si disprezzano e si vincono i piaceri del mondo. Si
migliora in esso, se è razionale; si migliora, quando diventa anche
spirituale. Diventa razionale, quando in tutto ciò che bisogna conoscere di
Cristo, si nutre con la ragione una fede così salda che non si scosta mai
dalla genuina dottrina ecclesiastica per una qualche apparenza di verità,
per eresia o per qualche inganno diabolico. E così pure quando ci si
comporta con accortezza, in modo da non travalicare mai i limiti del
discernimento per una qualche superstizione, per leggerezza o per eccessivo
fervore dell’animo. Questo, come ho detto prima, è amare Dio con tutta
l’anima. Se poi lo Spirito, venendo in nostro aiuto, ci dona tanta forza da
renderci capaci di non abbandonare mai la giustizia, neppure se spossati
dalle fatiche e dai tormenti, o per paura della morte, in questo caso si ama
anche con tutte le forze: questo è l’amore spirituale. Il nome mi sembra si
adatti in modo particolare a questo tipo di amore grazie alla pienezza
concessa dallo Spirito, per la quale esso risulta superiore agli altri.
Tutto questo basti a commento di ciò che dice la sposa: «Per questo le
fanciulle ti hanno amato molto» (Cant.
1, 3). Nelle parole che seguono Gesù Cristo nostro Signore si degni di
svelarci i tesori della sua misericordia, lui che ne è il custode, Dio che
vive e regna in unità con lo Spirito santo per tutti i secoli dei secoli.
Amen.
SERMONE QUARANTACINQUESIMO
6. Non credo, fratelli miei, non credo affatto che questa visione sia
ordinaria e comune a tutti, anche se inferiore a quella attraverso cui il
Cristo si manifesterà nella vita futura. Prestate attenzione alla frase che
segue.
4. La sposa continua: «Ecco, come sei bello, mio amato, come sei bello!» (Cant.
1, 15). Vedi a che grado di altezza si è innalzata la sposa, a quale sublime
vertice dell’anima è giunta, lei che rivendica a sé stessa in proprietà,
come il suo amato, il Signore dell’universo. Vedi infatti come lo chiama,
non semplicemente «amato», ma «mio amato», per affermarlo come suo proprio.
Davvero grandiosa è questa visione, grazie alla quale la sposa si è spinta a
un punto tale di confidenza e di ardimento da non riconoscere più il Signore
di tutto il creato come suo signore, ma come suo amato. Non penso proprio
che in questo caso siano state presentate ai suoi sensi immagini corporee o
della croce od ogni altra simile che alluda alla debolezza della carne; in
queste immagini, infatti, secondo le parole del profeta, «non aveva bellezza
né leggiadria» (Is.
53, 2). Ma la sposa, dopo averlo visto, lo chiama bello e leggiadro,
dimostrando così di aver ricevuto una visione di lui più sublime. Dio parla
viso a viso con la sposa, come un tempo fece con Mosè, e la sposa vede Dio
chiaramente, non celato dietro immagini confuse o simboliche. Lo chiama con
le labbra come lo contempla con la mente, in una visione assolutamente dolce
e sublime. «I suoi occhi hanno contemplato il re nella sua bellezza»
(Is. 33, 17), non come re ma come amato. Uno lo vide assiso su
un trono altissimo, un altro dichiarò che gli era apparso viso a viso;
tuttavia, mi pare, il privilegio più grande lo ha la sposa, perché negli
altri passi si legge che è apparso il Signore, qui si parla dell’amato.
Isaia dice: «Ho visto il Signore seduto su un trono altissimo» (Is.
6, 1) e Giacobbe: «Ho visto il Signore faccia a faccia e la mia anima si è
salvata» (Gen.
32, 31); ma dice il Signore: «Se io sono il Signore, dove è il timore che mi
è dovuto?»
(Mal. 1, 6). A loro Dio si è rivelato nel timore, perché dove
è il Signore lì c’è il timore; ma io, se potessi scegliere, accoglierei ben
più volentieri e con gioia la visione della sposa, perché la sento ispirata
da un sentimento migliore, quale è l’amore. Il timore porta con sé la
sofferenza, mentre «la perfetta carità bandisce il timore»
(1 Ep. Io. 4, 18). C’è una grande differenza fra mostrarsi
«terribile nei propri giudizi verso i figli degli uomini» (Ps.
65, 5) e mostrarsi «bello davanti ai loro occhi»
(Ps. 44, 3). «Ecco, come sei bello, mio amato, come sei
leggiadro!»
(Cant. 1, 15). Queste parole sono ispirate all’amore, non al
timore.
5, 7. Può accadere che domande assalgano la vostra mente e vi chiediate
dubbiosi: «Come potrà il Verbo rivolgere queste sue parole all’anima e
viceversa come potrà l’anima rispondere al Verbo? Come potrà l’anima sentire
la voce del Verbo, mentre le parla e celebra la sua bellezza, e a sua volta
rispondere con una lode a chi la loda? "Come può tutto questo avvenire?”
(Ev. Io. 3, 9). Noi parliamo per mezzo delle parole, ma il
Verbo non parla; analogamente l’anima non può parlare, a meno che non
articoli le parole attraverso il corpo, con la bocca». La vostra domanda è
pertinente, ma non dimenticate che è lo Spirito a parlare e che è necessario
interpretare spiritualmente quello che dice. Tutte le volte che senti o
leggi che il Verbo e l’anima discorrono tra loro e si guardano a vicenda,
non credere che scambino realmente tra loro delle parole, e neppure che
mentre comunicano appaiano sotto forma di immagini corporee. Ascolta invece
in che modo si debba qui interpretare: il Verbo è spirito, e spirito è
l’anima, e hanno un proprio linguaggio, con cui comunicano tra loro e
manifestano la loro presenza. Il linguaggio del Verbo è il dono della sua
misericordia, quello dell’anima è l’ardore della devozione.
L’anima che non conosce questo linguaggio è come un neonato che non parla e
che non può tenere alcun colloquio con il Verbo. E quando il Verbo comincia
a esprimersi in questo linguaggio, poiché vuole comunicare con l’anima, essa
non può non prestare la sua attenzione. «La parola di Dio è viva, efficace e
più tagliente di ogni spada a doppio taglio, e penetra fino al punto di
divisione dell’anima e dello spirito.» (Ep.
Hebr. 4, 12). Quando poi l'anima comincia a esprimersi, il
Verbo non la può ignorare, non solo perché è presente ovunque, ma
soprattutto perché la lingua della devozione nell’anima non si mette a
parlare se non quando è il Verbo a stimolarla.
8. Spetta dunque al Verbo dire all’anima «sei bella» e chiamarla «amica»
(Cant. 1, 14), spetta a lui avviare il processo per cui essa
cominci ad amare e presuma di essere amata; l’anima, per parte sua, si
rivolge al Verbo chiamandolo «amato», e lodandolo in quanto «bello»,
riconosce al Verbo il merito per cui lei ama ed è amata senza finzione e
inganni, si meraviglia per la condiscendenza, e si stupisce per la grazia
del Verbo. La bellezza del Verbo risiede nell'amore dell’anima ed è tanto
più grande in quanto lui la precede nell'amore. Nel fondo del suo cuore e
con la voce dei suoi sentimenti più intimi l'anima grida il suo bisogno di
amarlo con intensità e ardore tanto maggiori, quanto più sente che il Verbo
la ama più di quanto lei ami lui. Il linguaggio del Verbo è dunque il dono
della sua grazia; la risposta dell’anima è stupore misto a gratitudine.
L’anima ama di più in quanto si sente inferiore nell’amore, e se ne stupisce
in quanto sa di essere stata preceduta. Per questo non si accontenta di dire
una volta soltanto «bello», ma ripete anche «leggiadro»
(Cant. 1, 15), volendo indicare con quella ripetizione
l’eccezionalità della bellezza del Verbo.
6, 9. L’anima ha lodato la bellezza del Verbo, degna di ogni ammirazione, in
entrambe le nature del Cristo: in una la bellezza della natura, nell’altra
la bellezza della grazia. Quanto sei bello agli occhi dei tuoi angeli, o
Signore Gesù, «nella tua forma divina» (Ep.
Phil. 2, 6), nella dimensione della tua eternità, tu,
«generato prima dell’alba nello splendore dei santi» (cfr.
Ps. 109, 3), «luminosa figura della stessa sostanza» del Padre
(Ep. Hebr. 1, 3), «bagliore di vita eterna» (cfr.
Sap. 7, 26), perpetuo e per nulla offuscato. Quanto sei bello
ai miei occhi. Signore, nella stessa deposizione della tua bellezza!
infatti, quando incarnandoci ti sei umiliato e hai deposto «la tua luce
immortale»
(Sir. 24, 6) per esponi ai raggi del sole, allora la tua pietà
rifulse ancor più luminosa, il tuo amore brillò ancor più radioso e la tua
grazia si irradiò ancor più splendente. Ai miei occhi sorgi luminoso come la
stella di Giacobbe, ti ergi splendente come il fiore dalla radice di lesse.
Con che gioia la tua luce mi ha visitato nelle tenebre, «nascendo dall’alto»
(Ev. Luc. 1, 78)! Anche le virtù angeliche ti contemplano
stupite per il tuo concepimento a opera dello Spirito santo, per la tua
nascita dalla Vergine, per l’innocenza della tua vita, per il profluvio
della tua dottrina, per lo splendore dei tuoi miracoli, per la rivelazione
dei tuoi misteri! Dopo il tuo tramonto risorgi abbagliante, «sole della
giustizia»
(Mal. 4, 2), «dal seno della terra»
(Ev. Matth. 12, 40)! Come «sei bello quando avvolto dal tuo
manto»
(Is. 63, 1) ascendi, «re della gloria»
(Ps. 23, 8), nell’alto dei cieli! Di fronte a tutte queste
manifestazioni della tua bellezza, tutte le mie fibre canteranno: «O
Signore, chi è simile a te?»
(Ps. 34, 10).
10. Queste manifestazioni della tua bellezza e altre ancora vedeva la sposa,
mentre contemplava il suo amato e diceva: «Ecco, come sei bello, mio amato,
come sei leggiadro!»
(Cant. 1, 15). Non queste qualità soltanto, ma senza dubbio
coglieva anche qualcosa della bellezza della sua natura superiore, che
travalica la nostra comprensione e sfugge alla nostra esperienza. La
ripetizione si riferisce appunto alla bellezza delle due nature. Ascolta ora
come esulti di gioia, contemplando e parlando all’amato, e come celebri
davanti a lui nel suo canto nuziale le gioie dell’amore. Continua infatti:
«Il nostro letto è coperto di fiori, le travi della nostra casa sono di
cedro, i soffitti di cipresso» (Cant.
1, 15-6). Ma riserviamo alla prossima volta il canto della sposa, perché
noi, resi più operosi dopo il riposo, «esultiamo più lieti e ci rallegriamo
per lei» (Ps.
117, 24), a lode e gloria del suo sposo Gesù Cristo nostro Signore, «che è
Dio benedetto nei secoli. Amen»
(Ep. Rom. 1, 25).
SERMONE CINQUANTASETTESIMO
1, 1. «È il mio amato mi parla.»
(Cant. 2, 10). Osservate il progressivo avanzamento della
grazia, cogliete i diversi gradi della divina condiscendenza. Prestate
attenzione all’amore e alla premura della sposa, con che occhio vigile spia
l'arrivo dello sposo e guarda attenta tutti i gesti di lui, uno dopo
l’altro. Lo sposo viene, si affretta, si avvicina, è presente, guarda,
parla: all’accortezza della sposa non sfugge nessuna di queste azioni, ed
ella ne avverte subito il senso. Il Verbo viene negli angeli, si affretta
nei patriarchi, si avvicina nei profeti, è presente nella carne, guarda nei
suoi miracoli, parla negli apostoli. Oppure: viene per amore e per desiderio
di misericordia, si affretta per ansia di venire in nostro soccorso, si
avvicina umiliando sé stesso, è presente per assistere l’umanità, guarda
alle generazioni future e «parla del regno di Dio per ammaestrarci e per
convertirci» (Act.
Ap. 19, 8). Tale dunque è l’avvento dello sposo. Lo
accompagnano i benefici e i doni della salvezza; tutto ciò che proviene da
lui trabocca di felicità, è colmo di misteri gioiosi e salvifici. La sposa
innamorata sta vigile e osserva. Ed è beata, perché «il Signore la troverà
desta e in attesa»
(Ev. Luc. 12, 37). Non le passerà accanto ignorandola, anzi si
fermerà e le parlerà, le rivolgerà parole d'amore: le parlerà perché lei lo
ama. La sposa dice infatti: «E il mio amato mi parla». È giusto chiamarlo
amato, perché viene a parlarle d’amore, non a rimproverarla.
2. La sposa infatti non è tra quelli che il Signore rimprovera giustamente,
perché, «pur sapendo scrutare la volta del cielo» (Ev.
Matth. 16, 4), non avevano però riconosciuto il momento della
sua venuta. La sposa invece è accorta, solerte e ben desta, lo vede arrivare
quando ancora è lontano, lo guarda salire in fretta, lo osserva attenta,
mentre scavalca i superbi e con umiltà si avvicina a lei, altrettanto umile.
E quando già si trova lì, nascosto dietro al muro, la sposa ne avverte la
presenza e si accorge che sta spiando attraverso le finestre e le
inferriate; ora, in cambio di tanto amore e di tanta devozione religiosa, lo
ascolta parlare. Se lui l’avesse guardata, ma non le avesse rivolto la
parola, forse sarebbe nato in lei il sospetto che quello sguardo non fosse
d’amore, ma di sdegno. Una volta Cristo «volse il suo sguardo a Pietro»
(Ev. Luc. 22, 61) e non gli disse nulla; e certo questo fu il
motivo per cui Pietro «scoppiò a piangere»
(Ev. Luc. 22, 62), quando lo guardò, senza dire una parola. La
sposa invece, poiché dopo lo sguardo si è anche sentita rivolgere la parola,
non solo non scoppia in lacrime, ma si gloria, gridando di gioia: «E il mio
amato mi parla»
(Cant. 2, 10). Vedete come lo sguardo del Signore, pur
rimanendo in sé sempre lo stesso, non provoca gli stessi effetti, ma si
conforma ai meriti di coloro ai quali rivolge il suo sguardo; ad alcuni
incute paura, ad altri apporta consolazione e serenità. Infine egli «guarda
la terra e la fa tremare»
(Ps. 103, 32), ma al tempo stesso guardò Maria e infuse in lei
la grazia: «Ha guardato l’umiltà della sua serva; d'ora in poi tutte le
generazioni mi chiameranno beata»
(Ev. Luc. 1, 48). Queste non sono le parole di chi piange o
trema, ma di chi esulta. Lo stesso sguardo rivolge qui alla sposa ed ella
non ha tremato e neppure è scoppiata a piangere, come invece fece Pietro,
perché la sposa non è attaccata alla terra come lui; invece «dona gioia al
suo cuore»
(Ps. 4, 7), provando con le sue parole che l'ha guardata con
amore. 3. Ascolta ora le parole che dice lo sposo, parole d’amore e non di
sdegno. [...]
SERMONE CINQUANTANOVESIMO
1, 1. «La voce della tortora si fa sentire nella nostra terra.» (Cant.
2, 12). Non posso fare a meno di notare che già per la seconda volta lo
sposo, che pure discende dal cielo, parla della terra: ne parla con tanta
simpatia, con tanta tenerezza, come se fosse una creatura terrestre. Lo
sposo, quando prima ha detto che erano apparsi i fiori sulla terra, ha
aggiunto «nostra», e ora di nuovo: «La voce della tortora si fa sentire
nella nostra terra». Mancherà forse di motivo un’espressione così insolita
per Dio, per non dire indegna di Dio? In nessun punto, a quanto mi risulta,
si troverà che abbia detto lo stesso del cielo e in nessun altro punto,
tranne qui, lo dice della terra. Senti quanta dolcezza! Il Dio del cielo che
dice: «nella nostra terra»! «Ascoltate, voi, creature terrestri, figli degli
uomini»
(Ps. 48, 3. 2): «grandi cose ha fatto il Signore per noi»
(Ps. 125, 3). Molto ha fatto per la terra, molto per la sposa,
che ha voluto scegliere per sé fra le creature della terra. «Nella nostra
terra»: queste parole non hanno il suono della sovranità, ma dell’amicizia,
dell’intimità. Le pronunzia in quanto sposo, non in quanto signore. Ma come?
È il creatore, eppure si considera un nostro compagno? È l’amore a parlare,
l’amore che non conosce il dominio. Questa è una poesia d’amore e non può
che comporsi di parole d’amore. Anche Dio ama e il suo amore non trae
origine da altri, ma da sé stesso. Dio ama molto più intensamente, perché
non «ha» l’amore: Dio è l’amore. Coloro che ama, non li tiene alla stregua
di servi, li considera amici: da maestro si rende amico. Non chiamerebbe
amici i suoi discepoli se non lo fossero davvero.
2. Capisci dunque che anche la maestà cede di fronte all’amore? È proprio
così, cari fratelli: l’amore non esalta e non disprezza nessuno. Guarda
sullo stesso piano tutti coloro che si amano in modo perfetto e rende uguali
i potenti e gli umili; non solo uguali, li rende una cosa sola. Credi forse
che Dio si sottragga a questa legge dell’amore? Ma «chi si unisce a Dio,
forma con lui un solo spirito»
(1 Ep. Cor. 6, 17). Che c’è da stupirsi? Dio «è diventato come
uno di noi»
(Gen. 3, 22). No, ho detto troppo poco: non come uno di noi, è
diventato uno di noi. È insufficiente dire «uguale agli uomini»: è un uomo.
Perciò rivendica a sé la nostra terra, non come una proprietà ma come la sua
patria. E perché non dovrebbe? Dalla terra viene la sua sposa, dalla terra
viene la sostanza del suo corpo: dalla terra viene anche lui in quanto
sposo, dalla terra «due in una carne sola»
(Ep. Eph. 5, 31). Se la carne è una sola, perché non anche una
sola patria? «I cieli al Signore dei cieli, ma ha dato la terra ai figli
dell’uomo.»
(Ps. 113, 16). Pertanto in quanto figlio dell’uomo eredita la
terra, in quanto signore la domina, in quanto creatore la governa, in quanto
sposo prende parte a essa. Dicendo «nella nostra terra», rinuncia a essere
il solo padrone e acconsente a possederla in società. Questo a spiegazione
di quell’espressione tanto felice pronunciata dallo sposo, giacché si è
degnato di dire: «nella nostra terra». Ma ora vediamo il resto. [...]
SERMONE SESSANTADUESIMO
5. Bisogna dunque temere di scrutare la maestà di Dio; invece scrutarne la
volontà è cosa per nulla rischiosa, anzi è cosa santa. Perché non dovrei
sforzarmi con tutto il mio impegno a scrutare il glorioso mistero della sua
volontà, alla quale so bene di dover obbedire in tutto? Dolce è questa
gloria, che non ha altra fonte se non la contemplazione della sua dolcezza,
dei tesori della sua bontà e della sua infinita misericordia. «Noi vedemmo
la sua gloria, gloria come di figlio unigenito dal Padre.» (Ev.
Io. 1, 14). Tutto quel che è apparso di questa gloria era
davvero buono e degno di un padre. È una gloria che non mi opprime, per
quanto mi protenda con tutte le mie forze verso di lei; vorrei piuttosto
sprofondare in lei. Infatti «a viso scoperto, riflettendola come in uno
specchio, veniamo trasformati in quella stessa immagine, di gloria in
gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore.»
(2 Ep. Cor. 3, 18). Veniamo trasformati, poiché ci conformiamo
a lei. L’uomo si guardi però dal presumere di conformarsi a Dio, guardando
alla gloria della sua maestà, invece che alla modestia della sua volontà.
Motivo di gloria sarà se un giorno sentirò dire di me: «Ho trovato un uomo
conforme al mio cuore» (cfr.
Act. Ap. 13, 22). E il cuore dello sposo, il cuore del Padre.
In che senso? «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro»
(Ev.
Luc. 6, 36). Questa è la bellezza che lo sposo desidera
vedere, quando dice alla Chiesa: «Mostrami il tuo viso» (Cant.
2, 14), la bellezza della bontà e della misericordia. E la
sposa può levare fiduciosa il suo volto verso la Pietra, alla quale può
essere assimilata. «Accostatevi a lui e verrete illuminati; i vostri volti
non saranno confusi.»
(Ps. 33, 6). In che modo un’anima umile, devota e modesta
potrebbe venir confusa da lui, che è umile, santo e dolce? La purezza del
viso della sposa non contrasta con la purezza del viso della Pietra, non più
che la virtù con la virtù, o la luce con la luce. [... ]
SERMONE SESSANTAQUATTRESIMO
10. «Catturate per noi le volpi.»
(Cant. 2, 15). Vedi che tono amichevole usa colui che non ha
chi gli stia a pari? Avrebbe potuto dire «per me» e invece ha preferito dire
«per noi», felice di quella compartecipazione. Che dolcezza! Che grazia! Che
forza dell’amore! L’essere più alto di tutti è diventato uno come tutti? Chi
ha fatto questo? L’amore ha fatto questo, l’amore che disprezza gli onori, è
ricco di misericordia, è forte nel sentimento, è efficace nella persuasione.
Che c’è di più violento? L'amore trionfa anche su Dio. Al tempo stesso
niente è meno violento, in quanto è amore. Che cosa è mai questa forza,
tanto violenta da riportare la vittoria, tanto inoffensiva da subire la
violenza? Il Cristo si è annichilito incarnandosi, perché si sapesse che la
perfezione dell’amore si era riversata su di noi, che il vertice dell’amore
si era abbassato fino a noi, che l’esclusività dell’amore si era consociata
a noi. Con chi, sposo meraviglioso, hai stretto un’unione tanto intima?
«Catturatele per noi» risponde. Per chi, oltre che per te? Per la Chiesa
delle genti? Ma essa è composta di uomini mortali e peccatori, sappiamo bene
in che condizioni sia. Ma «chi sei tu» (Ev.
Io. 1, 19), che ami con tanta devozione, con tanto ardore
questa sposa etiope?. Di certo non sei un secondo Mosè: tu sei più di Mosè.
Sei forse «il più bello tra i figli dell’uomo» (Ps.
44, 3)? Non basta: tu sei «bagliore di vita eterna»
(Sap. 7, 26), «splendore e immagine della sostanza di Dio» (Ep.
Hebr. 1, 3) e, per finire, «Dio su tutte le cose, benedetto
nei secoli. Amen»
(Ep. Rom. 9, 5).
SERMONE OTTANTATREESIMO
1, 1. Abbiamo impiegato tre giorni, cioè tutto il tempo che la nostra regola
ci concede per il sermone, per dimostrare l’affinità esistente tra il Verbo
e l’anima. A che scopo tutta questa fatica? Ebbene, abbiamo dimostrato che
tutta l'anima, per quanto «gravata dai peccati»
(2 Ep. Tim. 3, 6), irretita dai vizi, facile preda delle
lusinghe, prigioniera ed esiliata, reclusa nel carcere del corpo, coperta di
sporcizia, immersa nel fango, vincolata alla carne, tormentata dagli
affanni, assillata dalle occupazioni, stretta dalle paure, vessata dai
dolori, dubbiosa per i suoi errori, angustiata dalle preoccupazioni, resa
inquieta dai sospetti, e infine straniera in terra nemica, secondo le parole
dei profeti «corrotta insieme con i morti»
(Bar. 3, 11) e condannata insieme con i dannati; per quanto,
dicevo, così abietta e disperata, tuttavia abbiamo dimostrato che essa può
ancora concentrarsi in sé stessa, per poter rivivere nella speranza del
perdono e della misericordia, e anche perché osi aspirare alle nozze con il
Verbo, senza esitare a stringere la sua alleanza con Dio e senza temere di
portare «il dolce giogo»
(Ev. Matth. 11, 30) dell’amore del re degli angeli. Perché non
dovrebbe sentirsi sicura e ardimentosa con lui, quando si vede bella,
giacché creata a immagine di lui, e si sente nobilitata dalla somiglianza
con lui? Perché mai, dicevo, dovrebbe temere qualcosa da parte della maestà
divina, se fin dal principio le è stato accordato quell’ardimento? È
sufficiente che si preoccupi di conservare integra la sua natura con
l’onestà della vita e che si sforzi di abbellire e di ornare con la nobiltà
dei suoi costumi e dei suoi sentimenti quella bellezza divina, che è in lei
fin dal principio.
2. Perché mai dovremmo permettere che l’anima impigrisca? L’operosità è
senza dubbio un grande dono della natura dentro di noi; se essa non assolve
i suoi compiti, non accadrà forse che la natura restante in noi ne subirà un
danno e, con il passare del tempo, si ricoprirà interamente di una specie di
ruggine? Questo sarebbe commettere un torto contro il creatore. Per questo
Dio creatore ha voluto nella sua misericordia che si conservasse
continuamente nella nostra anima questa operosità, perché riceva
continuamente dal Verbo l’ammonimento di rimanere presso di lui o di far
ritorno a lui, quando se ne sia allontanata. Allontanarsi non significa
cambiar luogo o andarsene via; allontanarsi, intendo, come si può
allontanare una sostanza spirituale, quando, per così dire, inclina al
peggio con le sue affezioni, o meglio, con le sue manchevolezze, e quando
degenera, rendendosi dissimile da sé stessa per la sua cattiva condotta.
Questa dissimiglianza non cancella la natura: è una malattia che,
rapportandosi al bene originario, Io fa ancor più risaltare, ma al tempo
stesso lo intacca, venendo a contatto con esso. Ecco però che l’anima fa
ritorno al Verbo, si convene a lui, si corregge grazie a lui, si conforma a
lui. In che modo? Con l’amore. Sta scritto infatti: «Siate imitatori di Dio,
come figli affezionati, e camminate nell’amore, esattamente come Cristo ha
amato voi» (Ep.
Eph. 5, 1-2).
3. È questa conformità che unisce in matrimonio l’anima al Verbo; siccome
l’anima è simile al Verbo nella natura, risulta simile a lui anche nella
volontà e lo ama allo stesso modo in cui è amata: se lo ama in modo
perfetto, allora si concludono le nozze. Che c’è di più bello di questa
conformità? Che è più auspicabile dell’amore, grazie al quale accade che
l’anima, non paga della scienza umana, si avvicini piena di fiducia nel
Verbo, si tenga costantemente vicina a lui, lo interroghi con famigliarità e
lo consulti per ogni dubbio, mostrandosi tanto ardente nel desiderio quanto
è capace nell’intelletto? Questo è davvero come il contratto di un
matrimonio santo e spirituale. Non basta: è più di un contratto, è un
fondersi insieme, è un fondersi dove il volere le medesime cose, e
ugualmente il dissentire sulle medesime cose, formano un solo spirito di due
che erano. E non bisogna temere che il diverso livello dei due contraenti
possa in qualche modo incrinare l’armonia delle due volontà, perché l’amore
non conosce la soggezione. Amore deriva dal verbo amare, non dal verbo
onorare. La soggezione è un sentimento che nutre chi ha provato orrore,
stupore, timore o ammirazione, sensazioni queste del tutto sconosciute a chi
ama. L’amore basta sempre a sé stesso; quando esso si mostra, trascina e
ingloba in sé tutti gli altri sentimenti. La sposa ama ciò che ama e non sa
altro. Lo sposo, al quale sono dovuti giustamente l’onore e una stupita
ammirazione, ama piuttosto essere amato. Questi sono lo sposo e la sposa.
Che altro rapporto, che altro legame si può cercare tra lo sposo e la sposa,
se non l’amore reciproco?
2. Questo legame supera anche il vincolo naturale dell’amore fra genitori e
figli. «Per questo» sta scritto «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si
unirà alla sposa.» (Gen.
2, 24;
Ev. Matth. 19, 5;
Ev. Marc. 10, 7). L’amore che lega gli sposi, dunque, non solo
risulta più forte di tutti gli altri affetti, ma anche più forte di sé
stesso.
4. Lo sposo, nel nostro caso, non è solo colui che ama, ma lui stesso è
l’amore. E non è anche l’onore? Così sostenga pure chi vuole. Io non l’ho
mai letto (nella Scrittura). Ho letto invece che «Dio è amore»
(1 Ep. Io. 4, 16), non che è onore. Questo non perché Dio non
pretenda onore; egli dice infatti: «Se io sono il Padre, dov’è l’onore che
mi è dovuto?»
(Mal. 1, 6). Ma questo è il Padre. Se si dovesse presentare
come sposo, io credo, cambierebbe parole e direbbe: «Se io sono lo sposo,
dov’è l’amore che mi è dovuto?». Prima infatti aveva detto: «Se io sono il
Signore, dov’è il timore che mi è dovuto?»
(Mal. 1, 6). Dio dunque vuol essere temuto in quanto Signore,
onorato in quanto Padre, amato in quanto sposo. Timore, onore, amore. Quale
dei tre è superiore agli altri? L’amore, naturalmente. Senza l’amore «il
timore genera angoscia»
(1 Ep. Io. 4, 18) e l’onore non porta con sé alcuna
riconoscenza. Il timore è servile, finché non viene affrancato dall’amore. E
l’onore che non nasce dall’amore, non è vero onore, bensì adulazione. Certo
«al solo Dio onore e gloria»
(1 Ep. Tim. 1, 17); ma Dio non gradirà nessuno dei due, se non
saranno conditi con il miele dell’amore. L’amore basta a sé stesso, piace
per sé e a causa di sé. E compenso e premio di sé. L'amore non ha una causa
e non produce frutti al di fuori di sé. Lui stesso è il suo frutto. Amo
perché amo, amo per amore. Grande cosa è l’amore, se soltanto si rivolge
indietro verso il suo principio, se ritorna alla sua origine, se si riversa
nella sua sorgente, se attinge sempre alla fonte da cui sgorga
continuamente. Fra tutte le affezioni, i moti e le sensazioni dell’anima,
l’amore è il solo in cui la creatura, anche se non alla pari, può
corrispondere il suo creatore e contraccambiarlo a sua volta. Ad esempio, se
Dio è adirato con me, potrò forse anch’io adirarmi con lui? Certamente no,
anzi avrò paura, terrore, scongiurerò il suo perdono. Così se mi
rimprovererà, io non lo rimprovererò certo, piuttosto cercherò di
giustificarmi. E se mi giudicherà, io non lo giudicherò a mia volta, bensì
lo adorerò; se mi salverà, non chiederò certo che sia io a salvare lui e
analogamente non ha bisogno di qualcuno che lo liberi, perché è lui che
libera tutti. Siccome egli è il Signore, è giusto che io sia il suo servo; è
Dio che comanda, ed è giusto che sia io ad obbedire; viceversa, io non posso
pretendere che Dio sia al mio servizio o ai miei ordini. Le cose vanno ben
diversamente per quanto riguarda l’amore: quando Dio ama, non vuole altro se
non essere amato, anzi non ama per nessun altro motivo se non per essere
amato, sapendo che chi lo amerà, riceverà beatitudine da quello stesso
amore.
5. Grande cosa è l’amore. Se ne riconoscono diversi gradi. L’amore della
sposa sta in quello più alto. Anche i figli infatti amano il padre, ma
tuttavia hanno in mente l’eredità e siccome temono di perderla in qualche
modo, provano più un sentimento di reverenza che di amore verso il padre,
dal quale sperano di ricevere l’eredità. Per me è davvero sospetto questo
amore, che sembra originato dalla speranza di conseguire qualcos’altro. E un
amore da poco se, venuta meno quella speranza, si spegne o si affievolisce.
E un amore impuro, perché ambisce a qualcos’altro. L'amore puro non è
interessato, l’amore puro non trae forza dalla speranza e non è assillato
dalla diffidenza. Tale è l’amore della sposa, perché lei è comunque la
sposa. Per la sposa i beni e la speranza consistono esclusivamente
nell’amore. La sposa è ricca di amore e lo sposo ne è contento. Lo sposo non
chiede altro e la sposa non possiede altro. Grazie all’amore egli è lo sposo
e lei la sposa. Questo amore è privilegio degli sposi e non riguarda nessun
altro, neppure i figli.
3. Infatti quando si rivolge ai figli, grida: «Dov’è l'onore che mi è
dovuto?»
(Mal. 1, 6) e non «dov’è l’amore?», perché riserva questo
privilegio alla sposa. Inoltre comanda all’uomo di onorare il padre e la
madre, ma non menziona l’amore, non perché i figli non debbano amare i
genitori, ma perché molti figli sono portati ad onorare i genitori più che
ad amarli. Tenete in conto che «l'onore del re ama la giustizia»
(Ps. 98, 4); ma l'amore dello sposo, anzi, lo sposo che è
amore, chiede soltanto di essere corrisposto con sincerità in questo suo
amore. La sposa può dunque corrispondere al suo amore. E la sposa come
potrebbe non amare, visto che è la sposa dell’amore? Come potrebbe non amare
l’amore?
6. Giustamente la sposa rinunzia a tutti gli altri sentimenti, per votarsi
interamente ed esclusivamente all’amore, perché ha la possibilità di
corrispondere all'amore con un amore vicendevole. Ma anche se si profonderà
interamente nell’amore, che cosa sarà il suo amore, se confrontato con il
fiume eterno che scaturisce dall’altra sorgente? Certo non si possono
paragonare per fecondità l’amante e l’amore, l’anima e il Verbo, la sposa e
lo sposo, la creatura e il creatore, non più, almeno, che l’assetato e la
sorgente. E allora? Forse per questo si perderanno o cadranno nel vuoto le
speranze della sposa, che sospira per il desiderio, arde d’amore e osa
agire, piena di ardimento? È impossibile vincere nella corsa un gigante, o
contendere con il miele in dolcezza, in mitezza con l’agnello, in candore
con il giglio, in splendore con il sole, in amore con colui che è l’amore.
No, non è così. Infatti anche se la creatura ama meno, perché inferiore,
tuttavia, se ama con tutta sé stessa, nella totalità non si avverte nessuna
mancanza. Inoltre, come ho detto, questo amore corrisponde a un matrimonio,
perché non è possibile che, amando così intensamente, l’anima non sia
riamata in egual misura, dal momento che nel consenso dei due contraenti sta
un matrimonio completo e perfetto. E a nessuno nasca il dubbio che l'anima
non sia amata prima e di più dal Verbo: il Verbo la previene e la supera
nell’amore. Felice l’anima che ha meritato «di essere prevenuta in quella
benedizione tanto dolce» (cfr.
Ps. 20, 4)! Felice l’anima cui è stato concesso di provare un
abbraccio tanto soave! Questo è l’amore santo e casto, dolce e soave,
infinitamente sereno e sincero, reciproco, intimo e forte, che congiunge i
due amanti non «in un solo corpo» (Gen.
2, 24;
Ev. Matth. 19, 5;
Ev. Marc. 10, 7), ma in un solo spirito, e li. rende non più
due, ma una sola cosa; come dice Paolo: «Chi si unisce a Dio, forma con lui
un solo spirito»
(1 Ep. Cor. 6, 17). Ma su questo piuttosto ascoltiamo colei
che la grazia e un’esperienza ripetuta hanno reso più esperta di tutti gli
altri. O meglio: conserviamo questo argomento come avvio per un altro
sermone, altrimenti saremo costretti a concentrare un soggetto tanto sublime
nelle poche, ultime parole di questo sermone. E se me lo concedete, metto
fine al sermone, ancor prima di avere esaurito l’argomento perché, assetati,
domani ci raduniamo per tempo, per apprendere le gioie dell’anima santa,
quali delizie può godere con il Verbo e dal Verbo, suo sposo, che è Gesù
Cristo, nostro Signore, «che è Dio di tutte le cose, benedetto nei secoli.
Amen»
(Ep. Rom. 9, 5).
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16 aprile 2022 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net