San Benedetto cita San Paolo...
Michèle-Marie Caillard, O.S.B.
Estratto e tradotto da “Collectanea Cisterciensia” 71 (2009), pp. 144-156.
Abbazia Sainte-Marie de La Pierre-qui-Vire 2009
Introduzione
La lettura della Regola di san Benedetto (RB) incontra citazioni di san Paolo, accanto a quelle di Matteo, e altre citazioni, soprattutto dell'Antico Testamento. Spesso difficilmente ci fermiamo a pensarci, accontentandoci di questa constatazione. Ma in quest’anno dedicato a San Paolo c’è l’obbligo di fermarsi lì: molti lo faranno e in diversi modi. Possiamo partire dal testo di san Benedetto e vedere come egli utilizza i riferimenti paolini, o ancora più in generale nei temi che costituiscono la dottrina spirituale di san Benedetto, cercare – e trovare facilmente – l'ispirazione paolina [1].
Possiamo fare il percorso inverso: individuare tutti i riferimenti a San Paolo della RB, e stabilire delle interessanti statistiche. Quindi Paolo viene citato più spesso del Vangelo. Ciò sembra del tutto logico in un testo, la RB, che è innanzitutto normativo, prima di essere un testo di dottrina spirituale. E qui una «piccola» deviazione è imposta dalla Regola del Maestro (RM). «Piccola» deviazione, perché il padre Adalbert de Vogüé ha fatto la maggior parte del lavoro e ha fornito gli strumenti che permettono i confronti.
Praticamente tutti i riferimenti espliciti a San Paolo nella RB sono già nella RM. Ma non è vero il contrario. I riferimenti diretti a San Paolo sono circa 35 in Benedetto, ma più di 180 nella Regola del Maestro; ricordando che la RM è oltre tre volte più lunga della RB. Benedetto però non riduce ogni capitolo del Maestro a un terzo. Egli aggiunge, sottrae, sposta. Sta di fatto che molti testi paolini sono presenti nel Maestro e assenti in Benedetto. Ciò che è vero per tutti i riferimenti che Benedetto fa al Maestro, il resto per quanto riguarda le citazioni di san Paolo: san Benedetto, infatti, si è riappropriato del testo della RM in modo tale da poterlo considerare come sua opera e le citazioni come una sua scelta. Chi vuole conoscere meglio le intenzioni profonde di Benedetto dovrebbe cercare il perché di ciò che ha eliminato... Ma si potrebbero trarre delle conclusioni attendibili da un'assenza? Eppure ci sono due «assenze» significative nella RB: non c’è la minima citazione della lettera ai Colossesi. Né della seconda lettera ai Tessalonicesi. D'altra parte, in tutti i capitoli dedicati all'Ufficio, san Benedetto non utilizza testi di Paolo. Tuttavia in RB 9, 9 e 10 dice: «Dopo queste tre lezioni accompagnate dalle loro risposte, si canteranno altri sei salmi con l'Alleluia. Seguirà: una lettura dell’Apostolo (Paolo), da recitare a memoria». E in RB 13,11: «poi vengono i salmi Laudate, una lezione dell'Apostolo (Paolo) recitata a memoria». Benedetto ha letto San Paolo, chiede di leggerlo e anche di impararlo a memoria.
Possiamo scegliere una terza strada: si tratterebbe allora, non di prendere in considerazione i temi paolini, presenti ovunque nella RB [2], ma di osservare più da vicino le citazioni di san Paolo, studiando sia il contesto di Benedetto sia forse ancor più quello di Paolo. Si tratta di cercare di incrociare due problematiche, quella di Paolo e quella di Benedetto.
I. IL BATTEZZATO, CREATURA PASQUALE:
GRAZIA E REQUISITI
Questo tema è sviluppato essenzialmente in due testi della RB, due testi che, per la maggior parte, non sono «originali» di san Benedetto, ma di cui egli si è appropriato in modo molto significativo, e che portano la sua impronta: il Prologo e il capitolo 4.
a) Il Prologo. La grazia del battesimo. Grazia di salvezza e di chiamata
Il Prologo di san Benedetto fa ampio uso di un testo del Maestro, una lunga catechesi battesimale. Benedetto ne conserva solo una parte [3], il commento ai Salmi 33 e 14, che lui incornicia con un'introduzione e una conclusione personale.
Nell'introduzione composta da Benedetto, il «chiunque tu sia» del versetto 3 del Prologo potrebbe essere un'allusione alla lettera ai Romani, Rm 2,1: «Perciò chiunque tu sia, o uomo che giudichi, non hai alcun motivo di scusa». Il «chiunque tu sia» è tanto un catecumeno o un neofita proveniente dall'ebraismo o dal mondo pagano, greco o latino, quanto un candidato alla vita monastica. E questo ci dice subito che il monaco è innanzitutto un battezzato e che il senso della sua vita non è diverso da quello dei suoi fratelli cristiani. L'obiettivo è lo stesso, la direzione del viaggio è la stessa, solo il percorso stesso è particolare.
Il linguaggio del Prologo è esplicitamente quello pasquale: temi della notte e del passaggio alla luce, del risveglio e quindi sia della Resurrezione, sia di questa veglia che è una conversione, della necessità di rialzarsi (rialzarsi è anche risuscitare nel linguaggio del Nuovo Testamento). Potremmo identificare in questo Prologo alcuni elementi che rimandano alla celebrazione della Veglia Pasquale, con sullo sfondo i grandi testi di San Paolo, in particolare Rm 6 anche se questo capitolo della lettera ai Romani non è citato da Benedetto. D'altra parte, quattro citazioni di Paolo sono esplicite nel Prologo.
Il primo testo di Paolo citato da san Benedetto (Prologo 8) è Rm 13,11 [4]: «È ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti». Il contesto di Romani: Paolo ha appena detto che la carità, l'amore sono il riassunto e il compimento della Legge. E che il comportamento del cristiano, del battezzato figlio della luce, deve essere nella logica di questa luce proveniente da Cristo. Deve rivestirsi di Cristo. Benedetto dirà qualcos'altro a proposito del monaco? L'impegno di fede (questo «momento in cui diventammo credenti», più o meno lontano da quest'ora presente che ci chiama a risvegliarci) porta all'amore, e questa è la conversione che dobbiamo compiere. Di conversione in conversione, come Abramo, «da un accampamento all’altro». Itinerario cristiano, anche itinerario monastico. Fin dai primi versetti il voto di conversione è forse così giustificato da San Paolo.
Un po' più avanti (Prologo 31) troviamo una citazione dalla Prima lettera ai Corinzi, 1 Cor 15,10: «Per grazia di Dio sono quello che sono». Il contesto paolino della citazione è particolarmente importante: è il primo kérygma, il primo Credo, quello che Paolo ha ricevuto e che ogni battezzato riceve nella notte di Pasqua, l'annuncio della morte e risurrezione di Cristo. La fede si riceve, si trasmette. La vita monastica sarà la stessa. Benedetto lo dice: «Paolo non attribuiva a sé stesso il successo della sua predicazione», tutto ciò che egli è e fa è opera della grazia. Questo punto all'inizio di una Regola monastica era importante in un'epoca di pelagianesimo. Benedetto è in pieno accordo con San Paolo: le nostre opere rispondono e corrispondono solo alla grazia di Dio.
Il versetto 32 cita 2 Cor 10:17: «Chi si vanta, si vanti nel Signore». Nel passo parallelo di RM (Commento ai Salmi 28) abbiamo 2 Cor 12,1: «Anche se è giusto gloriarsi, a me non conviene di farlo». Benedetto lo ha sostituito con un altro versetto di Paolo, più cristologico, come tutta la Regola e che annuncia il famoso: «affinché in ogni cosa sia glorificato Dio» di RB 57,9.
Nel versetto 37, Benedetto cita Rm 2,4: «O disprezzi la ricchezza della sua bontà, della sua clemenza e della sua magnanimità, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione?» Questo tempo della conversione - nel contesto paolino, corrisponde a quello della liberazione portata da Cristo, liberazione dalla schiavitù del peccato - dalla perseveranza nella fede, che non basta proclamare, ma che bisogna vivere. Ascoltare e agire. Questo versetto parzialmente citato da Benedetto si trova in una sezione della Lettera ai Romani sulla giustificazione tramite la fede. I pagani come gli ebrei sono sotto «l’ira di Dio» e devono essere perdonati, giustificati, cioè «resi giusti» da Dio. C'è una tendenza abbastanza ricorrente nella storia del monachesimo ad «aggiungere» opere, a moltiplicare le pratiche, al punto che alcuni si sono chiesti: è il monaco che realizza la sua salvezza o è Cristo che gliela porta? È interessante che nel Prologo l'appello alla conversione – e in tutta la RB, poiché san Benedetto ne farà oggetto di uno dei voti – sia collocato nel quadro della riflessione di Paolo sulla giustificazione. Ciò significa che la conversione è molto più di una conversione morale. È la conversione alla fede e alla salvezza che riceviamo da Dio come grazia. Ma questa accettazione dell’idea di «convertire» la nostra stessa fede è già una conversione. La salvezza è donata da Cristo. Non si diventa monaco per «lavorare alla propria salvezza [5]». Occorre continuare a ripensarci e a svegliarsi. Dire «svegliarsi» significa usare il linguaggio pasquale.
b) Capitolo 4: Gli strumenti dell'arte spirituale o le prescrizioni.
Questo capitolo, a parte le poche modifiche apportate da san Benedetto, è tratto da un testo molto antico, il Didaché, costituito da un elenco che veniva affidato ai futuri battezzati per specificare loro tutto ciò che dovevano fare, non fare, evitare, se avessero voluto vivere nella verità il loro battesimo. Ad esempio alcune professioni ormai erano loro vietate, alcuni comportamenti vietati, altri diventavano obbligatori. Benedetto prende questo elenco che inizia semplicemente con il Decalogo e lo corregge secondo le particolarità della vita monastica. Essere battezzato, essere monaco impegna in un cammino particolare. Esiste una necessaria concordanza tra la professione battesimale [6] e la vita successiva del battezzato, come tra la professione monastica e la vita del monaco. Alcune di queste correzioni sono belle e tipicamente benedettine, come «non disperare mai della misericordia di Dio»». Ma diversi «strumenti» sono di ispirazione paolina: possiamo citare qui due esempi.
Nel versetto 32 c’è un’allusione a 1 Cor 4,12: «siamo maledetti e benediciamo, soffriamo persecuzioni...» (maledicimur et benedicimus) e Benedetto corregge: maledicentes se non remaledicere, sed magis benedicere. Quando siamo maledetti, non «malediciamo di nuovo», ma benediciamo di più. È un tema caro a Benedetto, che riprenderà altrove, ma era prima di tutto un tema caro a Paolo. In questo capitolo 4 della prima lettera ai Corinzi si tratta dei predicatori del Vangelo e, più in generale, di tutti i servi di Cristo. È il ritratto del discepolo di Cristo che imita il suo Maestro.
Troviamo nel versetto 73 il secondo degli «strumenti» che porta un segno allo stesso tempo molto paolino e molto benedettino: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira» che troviamo in Ef 4,26. Benedetto allarga la prospettiva che diventa sintesi di quanto Paolo dice in tanti altri luoghi: «Ritorna alla pace prima del tramonto con chi hai dissentito»
Nel versetto 77, Benedetto cita 1 Cor 2,9: «Ma, come sta scritto, quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano». Il Maestro non cita questo versetto, ma descrive abbondantemente la Gerusalemme celeste. Benedetto giustifica, con questo ricorso a san Paolo, il suo rifiuto di descrivere la Gerusalemme celeste, perché come possiamo descrivere ciò che non abbiamo né visto né udito?
II. IL FONDAMENTO TEOLOGICO DELLA VITA MONASTICA E IL RUOLO DELL'ABATE (RB 2)
Nel primo capitolo non vi è alcun riferimento scritturale alle varie categorie di monaci. L'ispirazione per questa descrizione potrebbe essere paolina e la troviamo subito nel capitolo 2. Questo secondo capitolo è in continuità con RB 1,2 che definisce i cenobiti: «...quelli che vivono in comune, in un monastero, e combattono sotto una regola e un abate». Nessuna di queste caratteristiche sarebbe sufficiente, da sola, a definire la vita monastica. Possiamo vivere in comune, senza essere monaci e nemmeno cristiani: i comunitarismi sono emersi in tutte le epoche. Possiamo convivere nello stesso posto senza essere monaci: gli utopisti ci hanno provato, e i falansteri [7] hanno visto la luce, non molto tempo fa. Si può vivere secondo una Regola – un regolamento – senza essere monaco: le sette e gli altri gruppi fanno altro? Si può vivere sotto un leader, un superiore, una sorta di guru o dittatore, senza essere monaco.
È la combinazione di queste tre componenti che definirà il monachesimo benedettino. Insieme, in un unico posto: non è difficile capirlo. Benedetto dovrà raccontare le condizioni di questa convivenza, cosa la impedisce e cosa permette di ripristinarla. E darà molti dettagli sui luoghi della comunità. Queste non sono le preoccupazioni dell'apostolo Paolo. La Regola inizierà affrontando la questione dell'abate. Il capitolo 2 spiega, in gran parte, l'essenza dell'essere monastico, ciò che giustifica un monastero, una regola, un abate. In questo capitolo di 40 versetti, Benedetto farà ampio uso di san Paolo.
La prima citazione nel capitolo 2 al versetto 3 - si potrebbe quasi dire il primo ricorso scritturale per presentare la vita monastica - è una citazione dalla lettera ai Romani 8,15 (e questa espressione è presente anche in Galati 4,6): «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Il problema del contesto paolino è denso. Questo capitolo 8 della Lettera ai Romani è il cuore di tutta la teologia di San Paolo, il testo biblico più spesso citato da Sant'Agostino e da molti altri autori, tra cui Lutero e Calvino. Anche Benedetto ne fa buon uso. Si tratta di lasciarsi abitare dallo Spirito di Cristo, di condurre una vita nuova in Lui e grazie a Lui. Si tratta di passare dalla morte alla vita, dalla carne allo Spirito, con Cristo risorto. È all'abate che Benedetto si rivolge, ma offrendogli il testo di Paolo, gli dà, senza dirlo, una lezione di umiltà. Questo capitolo 2 potrebbe intitolarsi: «Sull'umiltà dell'abate». Perché? La fede. La fede dei fratelli che danno al loro superiore questo nome che è quello di Cristo. La fede dell'abate che deve ricordarsi che il vero abate è Cristo. E tutti devono ricordare, come invita Paolo, che, per grazia, siamo tutti figli di Dio, diventati eredi di Dio, coeredi di Cristo e che, avendo condiviso le sue sofferenze, condivideremo anche la sua gloria. La prima chiave della vita monastica è la fede, poiché è la chiave della vita del battezzato. Innanzitutto è la fede nella Presenza di Cristo nell'abate a fondare la vita cenobitica: è questo fatto che fa in modo che le tre caratteristiche insieme - la vita comune in uno stesso luogo, una regola, un abate - determinano una vita cristiana particolare, la vita monastica cenobitica.
Se il contesto in cui Paolo scrive questo versetto nella lettera ai Romani è il tema della giustificazione per fede, della liberazione operata solo da Cristo, nel parallelo della lettera ai Galati (Gal 4,6: «E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!») la problematica è quasi la stessa cosa: siamo, attraverso Cristo, passati dalla schiavitù alla libertà. Questo ci impegna, ma noi portiamo nel cuore lo Spirito di Cristo. Benedetto, infatti, inviterà i suoi monaci, in molti capitoli, a vedere Cristo non solo nell'abate, ma anche nei fratelli, nei malati e negli ospiti.
Nel versetto 13, una nuova citazione di Paolo, 1 Cor 9,27: «Anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato”. Non sono solo consigli pastorali e di psicologia elementare quelli che Benedetto dà qui. Si tratta di una fedeltà, di Paolo e di Benedetto, al Primo Testamento: è necessaria la coerenza tra l’ascolto e l’azione («lo ascolteremo e lo faremo», Dt 5,27), o tra la parola e l’azione. Parola di chi ha la missione di insegnare, ascolto da parte di colui al quale spetta diventare discepolo. Il contesto del versetto di Paolo evoca la sua disponibilità verso tutti, ebrei e non ebrei, forti o deboli, e la necessità per lui di lottare, come un vero asceta.
Nel versetto 20, due testi di Paolo vengono accostati da Benedetto: «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù [8]« (Gal 3,28) e « Dio infatti non fa preferenze di persone» (Rm 2,11). Anche qui per Paolo la dialettica è tra l'uomo libero e lo schiavo, tra l'ebreo e il pagano, tra la salvezza che si trova solo nella legge e la salvezza donata dalla grazia. «Essere tutti uno in Cristo», come dice san Benedetto, è il fine della vita cristiana, è il senso della vita monastica: l'abate deve già, da parte sua, vedere tutti i monaci, anziani schiavi o uomini liberi, come «uno» in Cristo. In fondo, gli viene chiesto nientemeno che questo: vedere già lui stesso - almeno nella speranza - ciò che Benedetto vuole far vedere, a poco a poco, a tutti i monaci, prima che, "tutti insieme" noi perveniamo...
La combinazione dei testi di Paolo in questo capitolo mostra che non si tratta solo di reminiscenze, ma di una riflessione maturata sul ruolo della grazia nella vita cristiana e monastica.
L'ultimo riferimento paolino in questo capitolo ha un significato pastorale. Nel versetto 23, Benedetto cita 2 Tm 4,2: «Annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento”. Benedetto conserva solo i tre verbi e commenterà ampiamente queste raccomandazioni, sia in questo capitolo che in altri e particolarmente in RB 64 (L’elezione dell’abate).
III. NON ANTEPORRE NULLA ALL'AMORE DI CRISTO
Il grande capitolo 7 sull'umiltà presenta questa scala che, in un certo senso, è più da scendere che da salire. Dopo la battaglia delle tenebre e della luce, della notte e del giorno che viene, ecco la battaglia di cui le altre erano solo un'immagine, quella della morte e della vita. In filigrana, l'immagine teologica di Cristo, disceso, abbassato nella sua Passione fino alla morte di Croce e salito verso il Padre, da Lui esaltato. Anche se Benedetto non parla mai di «Gesù», è l'incarnazione di Cristo che termina in questo abbassamento della morte sulla Croce e nell'esaltazione della Risurrezione. Abbassamento, sottomissione, «umiltà», «umiliazione», discesa verso la terra, l’humus. Il grande riferimento paolino è il capitolo 2 della lettera ai Filippesi. Benedetto ricorda solo un versetto ma che dice tutto. E nemmeno l'intero versetto, solo il cuore: questo bastava ai suoi primi lettori, che conoscevano bene i testi, per riferirsi all'insieme del capitolo: «Umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8), citato in RB 7,34.
Nel versetto 38 ritroviamo Romani: «Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo considerati come pecore da macello”. (Rm 8,36). E Benedetto prosegue nel versetto 39: «Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (Rm 8,37).
Nel versetto 43 riconosciamo 2 Cor 11,26: «pericoli dai miei connazionali, [...], pericoli da parte di falsi fratelli» e un'allusione a 1 Cor 4,12: «Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo».
Sembra che, riunendo i riferimenti paolini concentrati in queste poche righe di san Benedetto, si abbia un'intera presentazione in cinque punti del senso della vita monastica.
- Lui, Cristo.
- Per te, Cristo, questo è ciò che soffriamo: la morte.
- Per te, Cristo, siamo vittoriosi.
- Con te, e come te, vogliamo benedire e non maledire.
- Sostenere i falsi fratelli (come quelli di Paolo, come quelli di Cristo). Anche noi potremmo incontrare o essere questi falsi fratelli.
L'umiltà è quindi molto di più e qualcosa di diverso da un'esigenza morale. Ha una dimensione teologica, cristologica e pasquale. È l'itinerario della morte e risurrezione di Cristo: per lui, con lui, come lui. Anche se, con Lui, diventiamo pecore da condurre al macello, la nostra lotta è la sua: come lui, la accogliamo per amore. Lui è già vittorioso. Per grazia noi lo siamo con lui.
È significativo che Benedetto, tra il versetto 36 di Rm 8 («siamo considerati pecore da macello») e il versetto 37 («in tutte queste prove noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati»), introduca queste parole: «con la sicurezza che nasce dalla speranza della divina retribuzione, costoro soggiungono con gioia». Questa apparizione della «gioia» in un luogo del tutto inaspettato potrebbe essere incongrua, tuttavia è nello spirito del capitolo 8 della Lettera ai Romani e di molti altri testi di Paolo. «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti» (Cfr. Fil 4,4): lo ripetiamo durante tutto il tempo pasquale. Anche se, in certi momenti, il monaco, come la Chiesa, preferisce credersi nel Triduum, vivendo una sorta di perpetuo Venerdì Santo, noi siamo già, e per sempre nel tempo pasquale, vittoriosi, pieni di speranza e gioiosi, per usare i termini di Paolo e Benedetto.
Del resto questa «gioia» ispirata da Paolo la ritroviamo in altri passi della Regola. Così nel versetto 16 del capitolo 5, sull'obbedienza, troviamo un'allusione a 2 Cor 9,7: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia”. L'utilizzo di questo testo è tanto più interessante perché il suo contesto paolino non ha nulla a che vedere con l'obbedienza. Il tema dei capitoli 8 e 9 di 2 Corinzi è la colletta organizzata da Paolo a beneficio delle comunità della Macedonia. Ciò significa che qui Benedetto inverte il rapporto che molto ordinariamente è vissuto nell'obbedienza. Un rapporto «discendente», si potrebbe dire, da chi detiene l'autorità (la fonte, l'autore, l'auctoritas), a chi deve eseguire. Benedetto presenta l'obbedienza dall'altro lato, vista dal basso, come un dono. Un'offerta paragonabile alla colletta per i fratelli, un dono agli altri, ai fratelli del monastero, un servizio reso loro. Dono che è il mio piccolo obolo, quello della vedova (cfr. Mc 12, 38-44), nella colletta comunitaria, anche ecclesiale. Un dono proteso verso chi apparentemente detiene l'autorità, ma in realtà offerto al Signore stesso che egli rappresenta. La gioia ne è il segno, anche se possiamo... essere riluttanti (vedi capitolo 68 Delle cose impossibili), Benedetto non si lascia ingannare.
La gioia è presente anche altrove e sempre in connessione con san Paolo, così nel capitolo 49, Sulla Quaresima, così essenziale, poiché Benedetto afferma che tutta la vita del monaco dovrebbe essere come una Quaresima; possiamo ribaltare la proposizione e notare che ciò che è detto della Quaresima – se non ciò che di essa è vissuto – dovrebbe essere un'immagine, un concentrato in quaranta giorni di un'intera vita monastica. E ci colpisce che la parola «gioia» appaia due volte in questo capitolo. Gioia pasquale, gioia del desiderio spirituale. Ma uno dei due utilizzi (RB 49,6) di questa parola viene da Paolo (1 Ts 1,6): «avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo”. Paolo ringrazia per l'effetto della sua predicazione, effetto che è quello del Vangelo. Il Vangelo risveglia la fede, l’amore, ci fa perseverare [oltre la Quaresima, speriamo] nella speranza, nonostante le difficoltà. Tutto questo è opera di Dio, opera dello Spirito.
Quando la gioia non è possibile, o quando non è ancora la sua ora, Benedetto è attento a fornire al monaco, in tutti i servizi, in tutte le occasioni, i mezzi e l'aiuto perché non sia triste. Anche lo scomunicato, il punito, Benedetto non vuole che sia ancor «più triste». Il che significa, d’altronde, che lo era già ed è forse per questo che ha commesso delle stoltezze. Il rimedio è più amore: « confermatore in eo caritas (far prevalere nei suoi riguardi la carità) » (RB 27,4) (Cfr. 2 Cor 2,8). Dimostrargli che è amato. È solo per l'abate che Benedetto sembra non pensare alla sua gioia! Tuttavia gli dà degli aiuti per portare una parte del suo fardello e gli raccomanda, non di essere gioioso, né nemmeno di non essere triste, ma di non essere né inquieto né sospettoso [9].
IV. ESSERE CENOBITA, CON I FRATELLI
Anche qui san Benedetto si avvale di san Paolo – e del Vangelo – per sostenere la sua presentazione della vita propriamente cenobitica. Lo fa in due modi. Un modo negativo e un modo positivo.
Non maschera gli ostacoli e nemmeno i fallimenti della vita comunitaria. Partendo da questi egli parla della necessità e descrive le condizioni della conversione, del ritorno alla vera vita fraterna, al tessuto comunitario lacerato dalla nostra colpa. Colpe leggere, «spine di contesa» quotidiane, e più che quotidiane poiché la preghiera del Padre Nostro, ad ogni Ufficio, invita a chiedere perdono. Colpe anche gravi e sanzioni che possono arrivare fino alla scomunica. Questo per quanto riguarda il polo negativo. Ad esso vengono dedicati diversi capitoli. È del tutto naturale che Benedetto tragga dalle due lettere di Paolo alla tumultuosa comunità di Corinto i necessari riferimenti biblici. Terribile città di Corinto il cui stesso nome aveva dato la radice di un verbo che significava «comportarsi male, nella dissolutezza». Ma comportarsi male significa anche, nel linguaggio biblico, scegliere altri dei. Se Paolo parlava di esclusione, di scomunica, è perché la stessa comunità cristiana, la Chiesa locale, si trovava in pericolo. Pericolo di ritorno agli idoli. È su questo che san Benedetto si basa, come ha fatto e farà per secoli la Chiesa, per giustificare le sanzioni.
Benedetto inizia raccontando in due capitoli (RB 23 e 25) la sequenza degli avvertimenti e poi delle sanzioni adottate contro il fratello colpevole. Nel capitolo 25,4 cita 1 Cor 5,5: «Questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore”. Notiamo che san Benedetto ha fatto precedere questo riferimento con un'espressione che dice molto sulle sue intenzioni: «Il frate resterà solo […] rimanendo nel lutto della penitenza, e meditando questa terribile frase dell'Apostolo”. (25, 3). C'è una sorta di apprezzamento dato al versetto di San Paolo. E Benedetto ha cancellato il riferimento a Satana [10], attenuando ulteriormente la tragicità della sentenza. Il peccato commesso non è il risultato di una possessione satanica, ma di una complicità con il male che è in noi, la concupiscenza, e di questo conflitto dentro di noi tra carne e spirito. Il tema diventa, nella Regola, un avvertimento, dello stesso ordine di quelle che un po' goffamente chiamiamo le «maledizioni» di Gesù e che sono piuttosto dei lamenti. Dire a un bambino: «stai attento al fuoco» non significa condannarlo a bruciarsi, è addirittura il contrario di una minaccia. «La perdita della carne, la morte della carne», è ciò che diventerà nel successivo vocabolario monastico ed ecclesiale la «mortificazione», il digiuno e la penitenza. Resta il fatto che Benedetto, attraverso tutti questi passaggi, mostra che la persona scomunicata si è autoesclusa dalla comunione fraterna: è lo stesso insegnamento di Paolo. A riprova di ciò, quanto dice san Benedetto nel capitolo 27, basandosi prima sull'esempio e sulle parole di Cristo (Mt 9,12, versetto 1): «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati», poi su san Paolo ancora: « Voi dovreste piuttosto usargli benevolenza e confortarlo, perché egli non soccomba sotto un dolore troppo forte. Vi esorto quindi a far prevalere nei suoi riguardi la carità [11]» (2 Cor 2,7-8, citato nei versetti 3 e 4). Arriva però un momento, o un certo grado di gravità, in cui il Vangelo avverte che davanti a una porta chiusa sentiremo: «In verità non vi conosco» (Mt 25,12). Nel capitolo 28 della Regola, san Benedetto cita a sua volta due versetti di Paolo che sembrano inflessibili come queste parole di Cristo: 1 Cor 5,13 «Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete il malvagio di mezzo a voi » (1 Cor 5,13 al versetto 6) e «Ma se il non credente vuole separarsi, si separi » (1 Cor 7,15 al versetto 7). Un testo del resto dove non si tratta affatto di scomunica, ma del matrimonio e del caso di una coppia dove la fede non è condivisa. È stata mantenuta solo la formula, che è piuttosto tagliente. Questi testi non tradiscono una particolare severità di san Benedetto, ma la sua preoccupazione di condurre alla meta l'intera comunità di cui è responsabile. Certamente, come il Buon Pastore, è importante avere sollecitudine per la pecora smarrita (cfr. RB 27,8), ma l'abate, come il responsabile di Chiesa, non può, con un eccesso di indulgenza, mettere in pericolo l'intero gregge (cfr. RB 28,8). Questa è una delle pesanti responsabilità del suo ministero. Molto più avanti nella Regola, Benedetto pensa a coloro che si potrebbero credere autorizzati ad agire come correttori di colpe e offre loro una sorta di piccola appendice al capitolo dell'umiltà; è il capitolo 70, «Nessuno si permetta in ogni caso di percuotere gli altri». Nel versetto 3, Benedetto spiega molto brevemente, con un versetto di un’epistola pastorale (1 Tm 5,20), il significato di questi capitoli sulle sanzioni: «Quelli poi che risultano colpevoli, rimproverali [dice Benedetto: saranno rimproverati ] alla presenza di tutti, perché anche gli altri abbiano timore”. Il testo resta quello di una Regola monastica, che dovrebbe condurre gli uomini verso Dio, e non un codice penale.
L'aspetto positivo della vita cenobitica è proposto, a dire il vero, in tutta la Regola, ma negli ultimi capitoli sembra che Benedetto moltiplichi le raccomandazioni affinché diventino realtà. Se Benedetto non cita l'inno alla carità di 1 Cor 13, alcune citazioni di Paolo giustificano il proposito.
Nel capitolo 63,17: «L'amore fraterno vi leghi con affetto reciproco; gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10). Nel capitolo 72,4 Benedetto cita una seconda volta lo stesso versetto della Lettera ai Romani, trasformandolo in un augurio «che gareggino». E il versetto 7 di questo capitolo 72 è strettamente ispirato a due espressioni di Paolo: «Nessuno cerchi il proprio interesse, ma quello degli altri» (1 Cor 10,24) e: «Come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1 Cor 10,33). L'insieme di due capitoli da cui sono tratte queste citazioni ha visibilmente ispirato RB 72. Emmanuel Lévinas diceva che tutta l'etica si riassumeva nell'espressione «Dietro di te ». Pensiamo giustamente che il buon zelo secondo san Benedetto porti in gran parte l'impronta di tutto il capitolo 12 della Lettera ai Romani: la carità reciproca, l’amore fraterno, il «non essere pigri nel fare il bene» (Rm 12,11) e molti altri consigli donati da Paolo si ritrovano sotto i 12 brevi versetti di San Benedetto. Allo stesso modo il «Tutto è lecito! […] ma non tutto edifica» di 1 Cor 10,23 potrebbe essere una massima del buon zelo.
Conclusione
Senza dubbio questo saggio non va considerato conclusivo poiché le letture sempre più attente della Regola di san Benedetto sicuramente faranno emergere i collegamenti a tante altre reminiscenze paoline. Amare Cristo, non preferire nulla a Cristo, seguire Cristo, venerare Cristo, accogliere Cristo, adorare Cristo, continuare con l'aiuto di Cristo… e tante altre espressioni di san Benedetto altro non fanno che declinare l'affermazione di Paolo: «Per me il vivere è Cristo» (Fil 1,21), testo peraltro che Benedetto non cita?
Il breve capitolo 68 di san Benedetto «Se si prescrivono cose impossibili a un fratello» non cita alcun testo biblico, ma come non leggere tra le righe la confidenza di Paolo: «Ho pregato il Signore che allontanasse da me [la spina nella mia carne]. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,8-9).
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[1] Questo è apparentemente ciò che fa il padre abate Étienne nel numero di Renaissance de Fleury dedicato a San Paolo e San Benedetto, e da me ricevuto dopo la stesura di questo lavoro.
[2] Ad esempio, tutto ciò che Paolo dice sulla necessità di pregare in ogni momento, in ogni occasione, in inni, salmi e cantici ispirati, deve aver sicuramente incontrato una risposta favorevole da parte di Benedetto; ma, nei numerosi capitoli che dedica all'ufficio, non c'è la minima citazione di Paolo.
[3] Il testo della RM aveva 179 versetti, quello della RB ne ha solo 50.
[4] In grassetto le parole riprese dalla RB nei versetti di Paolo utilizzati.
[5] Cfr. ciò che diceva Lutero in risposta a delle strane presentazioni della vita monastica che erano correnti al suo tempo.
[6] Non si dimentichi che il Battesimo non è solo un'immersione in acqua, ma è esplicitamente una professione: rinuncia pubblica a determinati comportamenti e pubblica proclamazione della propria fede, impegno davanti alla Chiesa.
[7] (Ndt. Con il termine falansterio il filosofo e politologo francese Charles Fourier, agli inizi del XIX secolo, indicava la struttura abitativa in cui si svolgeva la vita dei membri dell'unità sociale di base prevista nelle sue teorie e da lui denominata "falange".)
[8] Il nome «Gesù» non viene mai utilizzato da Benedetto, che lo cancella nelle citazioni scritturali.
[9] Possiamo segnalare qualcosa di interessante riguardo al significato della vita monastica secondo Benedetto. Nel capitolo 48, sul lavoro manuale, ci aspetteremmo facilmente la citazione di 2 Ts 3,10: «Chi non vuole lavorare, neppure mangi.» Questa frase fu ampiamente ripetuta e commentata nei primi tempi del monachesimo. Il Maestro stesso cita questo testo circa otto volte. San Benedetto non lo cita né qui né altrove. D’altra parte, questo capitolo 48 «devia» verso problemi cari a Benedetto, quello dell’organizzazione della giornata e dei tempi di lavoro, attorno ai tempi di preghiera (e non il contrario) - come i periodi dell’anno attorno alla Festa di Pasqua - e quello della lettura, la lectio.
[10] Benedetto ha soppresso il riferimento a Satana che è contenuto nel testo dalla Vulgata. Ma le citazioni latine della Scrittura nella RB non sono necessariamente tratte dalla Vulgata. Non dobbiamo quindi concludere troppo in fretta che Benedetto ha corretto il testo e interpretare queste «modifiche».
[11] Il testo della Vulgata dice: «Confermate in lui la carità». Benedetto dice «che l’amore sia confermato in lui». Confirmetis in illum caritatem (Vg); Confirmetur in eo caritas (RB 27, 4).
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11 novembre 2023 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net