SAN BENEDETTO IL FONDATORE

Dom Giovanni Spinelli O.S.B. – estratto da “L’umana avventura” ott. 1980 – Jaca Book

 

E' rimasto famoso il gesto di quel greco antico che, per passare alla storia, non trovò di meglio che incendiare il tempio di Diana ad Efeso, Santuario veneratissimo ed opera d’arte fra le più insigni dell'antichità. San Benedetto, al contrario, non ha fatto proprio nulla per passare alla storia: anzi ha cercato di nascondersi e di farsi dimenticare. La storia però gli ha attribuito il titolo di costruttore dell'Europa. In genere chi costruisce opera nel silenzio e nel nascondimento, mentre chi demolisce solleva un gran polverone e fa molto chiasso. 

MITO MONASTICO O PERSONALITA' STORICA?

Benedetto da Norcia è un nome molto celebre, ma di questa figura storica noi sappiamo molto poco. Non siamo in grado di precisare con certezza alcuna data della sua vita: egli nacque dopo il 480, fondò l’abbazia di Montecassino intorno al 529, morì tra il 545 ed il 555. Il suo ricordo è interamente affidato al ritratto piuttosto idealizzato, che di lui ci ha lasciato san Gregorio Magno nel II libro dei suoi « Dialoghi ». Nell’antichità scrivere la vita di un santo non significava ricostruirne con esattezza documentata la storia, collocandolo nel suo tempo e nel suo ambiente, ma narrarne i miracoli per celebrarne le virtù. Il santo era prima un eroe da ammirare e poi un modello da imitare. I « Dialoghi » di Gregorio Magno non si sottraggono a questa legge dell'agiografia medievale, anzi ad essa aggiungono un intento chiaramente propagandistico o, meglio, missionario.

Quando papa Gregorio scriveva quest’opera, tra il 593 ed il 594, l'Italia era invasa dai Longobardi, barbari di religione ariana, che alla loro atavica ferocia aggiungevano un odio settario per il cattolicesimo romano e tenevano sotto l'incubo del la loro costante minaccia la città eterna. Gregorio, scrivendo la vita di Benedetto e degli altri santi fioriti intorno a Roma nel corso degli ultimi tempi, voleva incutere in quei barbari un salutare rispetto per la religione cattolica, che aveva prodotto quei santi, e facilitare così la loro conversione. Partendo da queste considerazioni è stato fin troppo facile per la recente Critica storica screditare il racconto gregoriano e quindi relegare San Benedetto, che ne è il protagonista, nel limbo della mitologia.

Benedetto da Norcia sarebbe cosi, più che un personaggio storico, un mito creato per propagandare l’ideale monastico, che a Gregorio Magno, uscito dallefile del monachesimo romano, stava molto a cuore. Ma è sufficiente constatare che i miracoli di san Benedetto si ritrovano quasi tutti nelle pagine del Vecchio e del Nuovo Testamento e che da ogni episodio della sua vita Gregorio trae un insegnamento spirituale, per togliere a questa narrazione ogni valore storico? Non e forse più ragionevole pensare che Gregorio Magno, il quale nella sua azione di governo si lasciò sempre guidare da un grande scrupolo per la verità, abbia ricomposto in un quadro, il più vicino possibile al modello biblico, i pochi elementi storici da lui accertati? Anche l’ammaestramento ascetico che Gregorio trae da ogni episodio non è sufficiente per giudicare inventato l’episodio stesso. Dobbiamo piuttosto ritenere che Gregorio ha scelto e disposto con cura, arricchendoli di certi dettagli, gli episodi che servivano al suo scopo: scrivere un libro di edificazione popolare e fare nello stesso tempo una teologia della vita spirituale, ma specialmente di quella monastica.  Se lo guardiamo a fondo il racconto gregoriano non è cosi destituito di fondamento storico, come a prima vista potrebbe sembrare. I « Dialoghi » non ci riferiscono fatti lontani dal loro autore nel tempo e nello spazio. Si tratta quasi sempre di persone vissute nella zona di Roma e scomparse da pochi decenni. Di esse ci vengono riferiti con precisione i nomi sia quando si tratta dei protagonisti dei fatti narrati come dei loro relatori. In particolare per san Benedetto Gregorio ci avverte così all’inizio del suo racconto: « lo non so tutti i fatti della sua vita, ma i pochi che racconto li ho saputi da quattro suoi discepoli: Costantino, cioè, uomo rispettabilissimo, che gli succedette nel governo del monastero; Valentiniano, che resse per molti anni il monastero del Laterano; Simplicio, che terzo dopo di lui resse la sua comunità e Onorato, che governa ancora il monastero nel quale iniziò la vita monastica ». (Dialoghi, II, prol.). Gregorio allude qui alla colonia monastica cassinese, ospite in Roma del cenobio lateranense, dopo la distruzione di Montecassino ad opera dei Longobardi (577).

Si suole obiettare che la vita di Benedetto ci è nota solo attraverso il racconto gregoriano, mentre tutte le altre fonti contemporanee tacciono di lui. Non dobbiamo però dimenticare che Benedetto visse in una delle epoche più travagliate della storia d'Italia: quella delle guerre gotiche che, con alterne vicende, insanguinarono la nostra penisola tra la morte di Teodori co (526) e l’invasione dei Longobardi (568). Colui che ha narrato queste vicende fu lo storico bizantino Procopio di Cesarea, un autore di cui ancor oggi si dubita se sia stato cristiano. Cristo infatti non è mai nominato nella sua opera, cosi come non vi si trova alcuna menzione di monasteri e di abati. Nei «Dialoghi» di Gregorio Magno noi troviamo invece affermata l’esistenza di almeno ventiquattro monasteri, senza contare i dodici piccoli cenobi di Subiaco fondati da san Benedetto. E' quindi perfettamente logico che lo storico bizantino non parli dell’andata di re Totila a Montecassino e del suo colloquio con Benedetto: egli s'interessa solo di fatti politici e militari, non di questioni religiose. D'altronde noi conosciamo anche per altri personaggi il fenomeno del silenzio delle fonti storiche contemporanee, senza che questo infirmi la loro realtà storica. Nessun autore greco o romano del sec. I d. C. integra con altre testimonianze il racconto evangelico della vita di Gesù, così come nessun cronista medievale del primo Duecento ha preso in considerazione la figura di Francesco d’Assisi, che, pure, a detta dei suoi primi biografi, tutti francescani, impressionò grandemente le masse dell‘Italia centrale per quasi un ventennio.

Un'altra causa va infine tenuta presente per comprendere la scarsità di testimonianze storiche intorno alla figura di Benedetto. Circa vent’anni dopo la sua morte, Montecassino, com'egli stesso aveva previsto, fu distrutto dai Longobardi ed i suoi monaci ebbero a stento salva la vita. In quel frangente perì forse perfino il codice autografo della regola, che Benedetto aveva scritto, anche se una tradizione persistente vuole ch'esso sia stato portato in salvo a Roma dai monaci profughi, che lo consegnarono al pontefice. Se perciò esistevano di lui a Montecassino ricordi scritti, in quell’occasione andarono certo distrutti. Si salvarono soltanto i ricordi orali ed essi, sia pur con qualche amplificazione leggendaria, inevitabile ogni volta che una grande personalità impressiona fortemente i suoi contemporanei, furono consegnati alla storia dalla penna di Gregorio Magno.

Una volta stabilita la sostanziale veridicità del racconto gregoriano, la vita di san Benedetto ci appare d’una estrema linearità, pur nella varietà degli episodi che la compongono. Da Norcia, dove nacque poco dopo la caduta dell’Impero Romano di Occidente (476), Benedetto giunse adolescente a Ro ma, come tutti i figli di nobili, per compiervi i suoi studi. Alla decadenza politica e civile si era aggiunta per Roma, ormai in balìa dei barbari, anche una profonda crisi morale, di cui il giovinetto provinciale avvertì subito il pericolo. Egli si ritirò allora nella solitudine della valle che va da Roma verso l'Abruzzo. Il giovane eremita non rimase però a lungo nascosto: ben presto la sua fama di santità gli attrasse numerosi discepoli. Fu anche richiesto come abate da una comunità di monaci che si trovava nelle vicinanze, a Vicovaro. Ma fu un’esperienza negativa ed egli fu costretto a tornare nella sua grotta di Subiaco, attorno alla quale organizzò una colonia monastica, formata di dodici piccoli cenobi con dodici monaci ciascuno. L'invidia d'un prete del luogo lo indusse ad abbandonare anche Subiaco e coi discepoli più fedeli egli si recò verso sud, fermandosi a Cassino, sul cui monte fondò, in torno al 529, la celebre abbazia di Montecassino, in cui morì circa vent'anni dopo. Tutto ciò viene narrato in un contesto ricco di episodi straordinari, in cui abbondano miracoli, visioni e profezie, che danno la misura della personalità veramente eccezionale del santo. L’eccezionalità di tale figura è anche confermata dal fatto che ad essa Gregorio ha riservato l'intero II libro dei suoi « Dialoghi ». A tutti gli altri vescovi, abati, sacerdoti, monaci e laici di cui ha voluto tramandarci l'edificante ricordo, Gregorio Magno ha consacrato un breve capitolo, in cui è narrato per lo più un solo episodio, mentre per narrare la vita di san Benedetto ha scritto un intero libro con ben 37 capitoli!

Questa semplicissima constatazione è sufficiente a dimostrare che san Benedetto è realmente esistito e fu talmente grande da superare tutti i suoi contemporanei. Il racconto gregoriano, quindi, è l'eco dell'impressione destata da una grande personalità religiosa, vissuta in tempi calamitosi. A comprovare la veridicità di tale racconto sta anche il fatto che Benedetto non è soltanto un taumaturgo ed un asceta, ma anche un uomo prudente, delicato, pieno di buon senso, oltre che di spirito soprannaturale. Gregorio ci ha riferito di lui, anche episodi di vita quotidiana umile e semplice, rivelatori d'una profonda umanità, quale mirabilmente traspare, colle sue doti di saggezza ed equilibrio, anche dalla Regola monastica, che san Benedetto ci ha lasciato.

IL LEGISLATORE DEL MONACHESIMO OCCIDENTALE

Gregorio Magno ha scritto di san Bene detto: « L'uomo di Dio tra i tanti prodigi per cui ebbe fama nel mondo, brillò anche non poco per la sua dottrina: scrisse infatti la Regola per i monaci, notevole per la sua discrezione, chiara nella espressione. E se qualcuno vuole conoscere più a fondo i suoi costumi e la sua vita, negli insegnamenti della Regola può trovare tutti gli atti del suo magistero, perché il sant'uomo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse ». (Dialoghi, II, 36). Questo abbinamento di vita e di regola, fissato da Gregorio Magno, è ormai diventato classico: non si contano più le edizioni della Regula Benedicti precedute nel medesimo volume dal solo II libro dei « Dialoghi ».

E' alla Regola che la fama storica dl san Benedetto è soprattutto affidata; per essa egli è chiamato il patriarca ed il legislatore dei monaci d'Occidente. Gli elogi di questa Regola hanno riempito intere biblioteche e nella storia della civiltà europea le è stato assegnato un posto secondo solo al Vangelo. Ma anche qui siamo ormai alle prese con un mito. San Benedetto non fu l’iniziatore del monachesimo latino, come il titolo di patriarca vorrebbe insinuare, così come non fu né l'unico né il primo né l’ultimo legislatore della vita monastica nella Chiesa latina. Anche se trascuriamo i grandi legislatori del monachesimo orientale (Basilio e Pacomio), le cui regole tuttavia, subito tradotte in latino, stanno all'origine anche della legislazione monastica occidentale insieme alla Regola di sant'Agostino (+430), dobbiamo ammettere che san Benedetto compare sempre piuttosto tardi nel vasto e complesso panorama della storia monastica. Le regole latine sono circa una trentina, di varia natura e di diversa lunghezza, tutte però in qualche modo collegate fra loro da influssi e derivazioni. Uno specialista di questi studi, il de Vogué, ha suddiviso in otto generazioni, che vanno dall'anno 400 circa a poco dopo il 650, i legislatori monastici dell'Occidente: san Benedetto fa parte della quinta generazione. La sua opera non ha quindi posto fine alla fioritura delle regole monastiche, dal momento che dopo di lui sant'Isidoro ( +636), in Spagna, e san Colombano (+615), in Gallia, pur conoscendo il codice benedettino, scrissero a loro volta delle regole per i monaci.

Si potrebbe pensare almeno che la regola benedettina in rapporto alle altre abbia avuto caratteri talmente originali da soppiantarle tutte, come di fatto avvenne, sia pur molto lentamente, a partire dalla fine del sec. VII. Nulla di più falso di tutto ciò.

Il mondo monastico antico, pur così vario, aveva delle costanti, che in misura diversa si ritrovano tutte nella Regula Benedicti. C’è anzitutto una tradizione comune che sgorga dalla Bibbia: i legislatori monastici si rifanno sempre ai medesimi versetti delle Sacre Scritture, interpretandoli in modo analogo, per esaltare il valore di certe virtù indispensabili a chi vuol condurre vita ascetica in una comunità fraterna. Umiltà ed obbedienza, carità e pazienza sono le virtù basilari, al cui mantenimento sono finalizzate tutte le altre osservanze particolari richieste al monaco: digiuni e veglie, preghiera assidua e silenzio contemplativo, rinuncia alla proprietà privata e lavoro disinteressato. Ma al di là di questo quadro dottrinale di fondo, che risulta dalla tradizione biblica e patristica profondamente assimilata da tutto il mondo monastico, la Regula Benedicti è debitrice a quelle che l’hanno preceduta di molti dettagli, spesso ripresi alla lettera, soprattutto da un ampio e prolisso codice monastico che va sotto il nome di Regula Magistri.

A lungo ignorata o per lo più considerata come un tardivo rifacimento della Regula Benedicti, da quarant’anni a questa parte la Regola Magistri ha attirato su di sé l'attenzione degli studiosi, che l’hanno fatta oggetto di accurate indagini, giungendo, dopo accanite discussioni, a stabilirne la precedenza sulla Regula Benedicti, senza però riuscire a sollevare il velo di mistero che nasconde l’identità del suo autore. In questo innominato « Magister » che scrisse in una zona assai prossima a Roma nei primi decenni del sec. VI qualcuno ha voluto, forse non a torto, scorgere lo stesso san Benedetto nella prima fase della sua esperienza cenobitica: quella di Subiaco. Se così fosse, l’originalità dell’opera di Benedetto sarebbe sufficientemente salva ed egli apparirebbe ai nostri occhi in una luce di ulteriore saggezza: quella del grande maestro spirituale, il cui pensiero matura lentamente sotto lo stimolo dell'esperienza quotidiana e si evolve dalla prolissità artificiosa di norme troppo dettagliate alla luminosa essenzialità di alcuni principi facilmente applicabili nelle circostanze più svariate. Ma anche se così non fosse, nonostante la sua clamorosa dipendenza letteraria dalla Regula Magistri, la cui concezione verticale del monastero viene temperata da san Benedetto con un orizzontalismo fraterno di chiara derivazione agostiniana, la Regula Benedicti presenta un carattere di sintesi così equilibrato e sapiente, che ne spiega a sufficienza il sia pur tardivo successo.

Quando pensiamo agli antichi autori cristiani, specialmente a quelli fioriti nel mondo monastico, dobbiamo spogliarci dal moderno preconcetto che il valore consista nell'originalità. Ai tempi di San Benedetto uno scritto era considerato tanto più valido quanto più era inserito nella corrente viva della tradizione. Non esistevano allora i diritti d'autore: la tradizione biblico-monastico-patristica era un patrimonio comune, cui tutti attingevano a piene mani. Così fece anche san Benedetto: lo fece consapevolmente, com’egli stesso dichiara nel capitolo finale della sua Regola. « Questa Regola poi l’abbiamo abbozzata affinché con l'osservarla nei monasteri diamo prova in qualche modo di avere almeno dignità di costumi e un certo avviamento di vita monastica. Ma per chi vuol procedere celermente verso la perfezione di tale vita, vi sono i precetti dei santi Padri, che fedelmente osservati sono ben atti a condurre l'uomo al culmine della virtù. Quale pagina infatti e quale parola d’autorità divina del Vecchio e del Nuovo Testamento non è rettissima norma per la vita umana? O qual libro dei santi Padri cattolici non ci esorta con insistenza a correre per via diritta verso il nostro Creatore? Cosi pure le Conferenze, le Istituzioni e le Vite dei Padri, e la regola del nostro santo padre Basilio, che altro sono se non strumenti di virtù per i monaci buoni ed obbedienti. Noi invece, fiacchi, cattivi e negligenti, abbiamo di che arrossire e confonderci. Chiunque pertanto tu sia che t'affretti alla patria celeste, poni in pratica coll'aiuto di Cristo questa minima regola per principianti appena delineata; e allora a quelle più alte vette di dottrina e di virtù, che abbiamo sopra menzionate, potrai certo facilmente giungere con la protezione di Dio. Amen ». (RB, c. 73) « Minima regola per principianti »: così san Benedetto concepì la sua opera. Egli non volle sostituirsi ai grandi Padri del monachesimo che l’avevano preceduto. In un momento particolarmente difficile per la vita monastica, epoca di crisi, in cui si notava un certo scadimento del fervore primitivo, più volte denunciato da lui stesso (si veda, ad es., il brano sopra citato), Benedetto da Norcia, volle ridare nuovo vigore al monachesimo, incoraggiando anche i più esitanti ad intraprendere « il duro ed aspro cammino che conduce a Dio » (RB, c. 58).

Nel prologo Benedetto scrive: « Noi vogliamo costituire una scuola di servizio del Signore e nel costituirla noi speriamo di non stabilire nulla di penoso, nulla di pesante » (RB, prol.). Bisogna ammettere che egli c'è veramente riuscito: la sua sapiente moderazione, che lo distanzia tanto dall'austerità degli asceti orientali che l'hanno preceduto come dall'estrema durezza della tradizione irlandese, per la quale il monaco resta sempre un peccatore da castigare, e la sua larghezza di vedute, che lo induce a contemplare diverse possibilità d’osservanza a seconda del numero della comunità e del posto in cui risiede, resero Benedetto maestro indiscusso della vita monastica e la sua regola, grazie al prestigio di santità dell’autore, finì per imporsi a tutti i monasteri di Europa, soprattutto per opera di Carlo Magno e dei suoi successori.

LA DIFFUSIONE DELLA REGOLA BENEDETTINA

 « La RB non ottenne affatto, agli inizi, quell’adozione cosi rapida, vasta ed unanime quale si riteneva qualche tempo fa: la sopravvivenza, nelle singole regioni, dell'elemento monastico locale dovette infatti durare ancora qualche secolo. Se poi la RB fu conosciuta nei monasteri romani pochi decenni dopo la morte del Santo, non si deve pensare che essa vi sia stata adottata in maniera esclusiva, giacché, data la mentalità e la costituzione monastica del tempo, essa sarà stata considerata soltanto come uno dei tanti testi di perfezione ascetica » (G. Penco, S. Benedicti Regula, Introduzione..., Firenze 1958, p. CIV).

Il cammino del codice benedettino nella storia monastica dell'Europa medievale può tuttavia venir così rapidamente delineato. La permanenza a Roma dei monaci cassinesi negli ultimi decenni del sec. VI ed in quelli del secolo successivo favorì certamente la conoscenza della RB, dal momento che monaci ed abati, sia per devozione alle tombe degli apostoli e dei martiri che per motivi politico-ecclesiastici, si recavano di frequente nella capitale della cristianità. L'abate inglese Benedetto Biscop (628-690) visitò Roma ben cinque volte, ritornando ogni volta in Inghilterra carico di libri destinati ai due monasteri da lui fondati: Wearmouth e Jarrow, Nella seconda metà del sec. VII si cominciano a trovare allusioni varie alla RB, in documenti relativi alla fondazione od alla riforma di monasteri, che fino ad allora avevano seguito la regola di san Colombano o la Regula Magistri. Quest'ultima viene ad essere soppiantata dalla ben più breve RB anche per motivi pratici: nei centri di produzione libraria, quasi tutti monastici, la scrittura onciale, solenne e maestosa, viene abbandonata per adottare l’assai più semplice e sbrigativa scrittura minuscola e cosi, parallelamente, anche la RM, lunga e prolissa, non viene più trascritta.

Il sec. VIII, che vede nel 717 la restaurazione di Montecassino ad opera di monaci longobardi capeggiati dal bresciano Petronace, deve considerarsi giustamente come il primo dei secoli d'oro della storia benedettina. Il culto del santo legislatore si diffonde in tutta Europa in concomitanza all’adozione della sua Regola da parte di fondazioni monastiche antiche, come Bobbio, o nuove, come quelle favorite dai sovrani longobardi nell’alta Italia: Sesto al Réghena (740) presso Pordenone, Nonantola (753) presso Modena, Leno (758) presso Brescia, S. Salvatore del Monte Amiata (774) presso Siena, ecc. In questo secolo l’attività degli « scriptoria » monastici assume un’importanza primaria nella circolazione dei testi letterari, antichi e recenti, guadagnando ai monaci di san Benedetto la fama di amanuensi e di conservatori del patrimonio culturale dell’antichità classica.

Il Sec. IX costituisce una tappa fondamentale nella storia dell'ordine benedettino a causa dell’interessamento dimostrato nei suoi confronti dai sovrani carolingi. Carlo Magno, trattenendo sul suolo francese il monaco anglosassone Alcuino, fa di lui il protagonista della rinascita carolingia attraverso la riorganizzazione del le scuole del regno franco. Monasteri come S. Martino di Tours (dove Alcuino era abate), Reichenau (sul lago di Costanza), S. Gallo (nel cuore della Svizzera), Fulda (reso famoso da Rabano Mauro, il miglior discepolo di Alcuino) inaugurano la tradizione delle grandi scuole monastiche, molte delle quali sono ancora  fiorenti soprattutto nei paesi di lingua tedesca. Il figlio di Carlo Magno, Ludovico il Pio, porta a compimento il disegno paterno di unificare tutti i monasteri dell'Impero sotto la regola benedettina, mediante l‘opera riformatrice del santo abate Benedetto di Aniano (+821). Il sinodo di abati riunitosi ad Aquisgrana nell'817 sotto la presidenza di quest'ultimo fu il primo tentativo serio d’una centralizzazione dell’ordine monastico, sempre auspicata e mai perfettamente raggiunta: tuttavia è da quell'anno che si può cominciare a parlare con una certa proprietà di un « ordine benedettino ».

L'opera riformatrice di Benedetto di Aniano si rivelò effimera, cosi come effimera fu la durata delle strutture unitarie create da Carlo Magno, ma nel secolo successivo i grandi abati di Cluny perseguirono con maggiori risultati lo stesso disegno, riuscendo a creare il primo esempio di congregazione religiosa accentrata sotto l’autorità d'un superiore generale. Un gran numero di monasteri rimase però al di fuori dell'ordine cluniacense, pur recependo molte delle osservanze di Cluny, specialmente a livello liturgico. La solennità delle cerimonie e la lunghezza delle preghiere in uso a Cluny si diffusero in tutto il mondo monastico occidentale e da allora, soprattutto, i benedettini si fecero la fama di essere degli specialisti della liturgia, fondati per officiare grandiose basiliche con riti e canti di squisita perfezione. Si tratta anche qui d'un mito, che ha avuto una particolare fortuna nell'epoca romantica, per merito di dom Guéranger, fondatore dell'abbazia francese di Solesmes, pioniere del movimento liturgico e restauratore del canto gregoriano.

Al ritualismo cluniacense reagì verso la fine del sec. XI un nuovo movimento monastico, che ebbe il suo centro irradiatore nell'abbazia borgognona di Citeaux. dal cui nome latino (Cistercium) i nuovi monaci, biancovestiti, presero il nome di Cisterciensi. Essi si diffusero in tutta l'Europa con una rapidità meravigliosa, dovuta in gran parte allo straordinario prestigio di cui godette in tutta la cristianità occidentale il più convinto assertore di quel la riforma monastica: san Bernardo di Clairvaux ( + 1153). I cisterciensi propugnavano il ritorno integrale alla regola di san Benedetto colle sue fondamentali esigenze di povertà, di semplicità, di duro lavoro manuale. Installatisi di preferenza in valli paludose o boscose, essi le trasformavano in fertili terreni agricoli ed in paradisi di quiete contemplativa, cui alludevano anche i nomi di sapore mistico e poetico insieme ch'essi solevano dare alle loro fondazioni: Chiaravalle, Settefonti, Morimondo (= « muori al mondo! » ), Acquafredda, Acquabella, Fontefredda, Tre Fontane, ecc. Le loro chiese, costruite con uno stile solenne e disadorno e caratterizzate dall'alto tiburio che fonde in un solo elemento architettonico la cupola ed il campanile, segnano nella storia dell'arte il passaggio dall'architettura romanica (legata soprattutto alla spiritualità cluniacense) a quella gotica.

La riforma cisterciense fu l'ultima primavera monastica nella storia della Chiesa latina: per la sua eccezionale fioritura essa frazionò l'unità del mondo monastico, creando a fianco del tradizionale ordine benedettino (i cosiddetti benedettini neri, di cui i cluniacensi erano gli esponenti più numerosi ed illustri) un nuovo organismo con costituzione giuridica e caratteristiche proprie, sia pure sulla base della comune regola di san Benedetto. Nello stesso secolo XII, che vide la prodigiosa espansione dei monaci di Citeaux, si consolidarono e si diffusero l'ordine certosino, fondato da san Bruno (+1101) ed ispirato alla forma di vita degli antichi Padri del deserto, e l'ordine dei canonici regolari, dediti alla cura d'anime ed all’ufficiatura solenne secondo i principi della regola di sant'Agostino. Era un evidente ritorno a formule giuridiche ed ascetiche anteriori a san Benedetto.

IL PATRONO D’EUROPA

La straordinaria diffusione del monachesimo benedettino nei secoli cruciali della storia europea, quelli cioè che vanno dalla ricostituzione dell'Impero Romano d'Occidente al sorgere degli stati nazionali, spiega il titolo di «Padre dell'Europa» dato a san Benedetto da Pio XII nel 1947. Questo titolo è stato poi ufficialmente sanzionato colla proclamazione a Patrono d'Europa da parte di Paolo VI, durante la solenne consacrazione della ricostruita basilica di Montecassino (24 ottobre 1964). Il documento pontificio emanato in quella circostanza giustifica così la scelta di san Benedetto: « Messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà, e soprattutto araldo della religione di Cristo e ordinatore della vita monastica in Occidente: questi i giusti titoli della esaltazione di san Benedetto abate. Al crollare dell’Impero Romano, ormai esausto, mentre alcune regioni d'Europa sembravano cadere nelle tenebre ed altre erano ancora prive di civiltà e di valori spirituali, fu lui con costante ed assiduo impegno a far nascere in questo nostro continente l’aurora di una nuova era. Principalmente lui e i suoi figli portarono con la croce, con il libro e con l’aratro il progresso cristiano alle popolazioni sparse dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall'Irlanda alle pianure della Polonia» (Breve Pacis nuntius di Paolo VI).

E' storicamente esatto attribuire al solo san Benedetto tutto questo? Certamente no. Lo stesso documento papale lo insinua, allorché dice: « Principalmente lui e i suoi figli portarono... », Dunque proclamando Benedetto da Norcia Patrono di Europa Paolo VI intese rendere omaggio non solo ai meriti del grande santo, ma anche a quelli di molti suoi figli noti ed ignoti. Tale senso della proclamazione appare chiaramente anche dalle numerosissime lettere che, tra il 1947 ed il 1964, furono inviate alla S. Sede per sollecitarla. Quasi tutte insistono più sull'opera svolta dai monaci nei secoli immediatamente precedenti il 1000 che non su quanto fu compiuto personalmente dal fondatore di Montecassino. Il rettore dell'Università Cattolica di Tolosa scriveva, per esempio, al Papa nel 1947: « Il faut remarquer que le Législateur des moines d'Occident a été, grâce à ses  fils spirituels répandus partout, un des grands bienfaiteurs de l'Europe ». I meriti dei figli sono dunque rifluiti sul padre, specialmente per quanto riguarda l’evangelizzazione dei popoli europei.

Benedetto visse tutta la sua giovinezza ai margini della comunità ecclesiale: soltanto dopo la sua partenza da Subiaco, Gregorio ce lo mostra in rapporto con alcuni vescovi circostanti, come Germano di Capua e Sabino di Canosa. Così come solo in occasione della sua andata a Montecassino Benedetto appare impegnato nella distruzione degli ultimi resti del paganesimo e nella conseguente diffusione del Vangelo: « V’era lassù un tempio vetustissimo in cui, secondo il costume degli antichi pagani, la stolta popolazione venerava Apollo. All'intorno poi erano cresciuti i boschi per il culto dei demoni, dove la stolta moltitudine degli infedeli, ancora a quel tempo si affaticava nell'immolare vittime sacrileghe. Giunto adunque lassù, l'uomo di Dio distrusse l’idolo, abbatté l'ara, tagliò i boschi, e proprio nel tempio di Apollo costruì un oratorio a S. Martino e, dove si trovava l’ara, quello di S. Giovanni. Quindi con una predicazione ininterrotta cercava di attrarre alla fede le moltitudini che abitavano nei dintorni » (Dialoghi, II, c. 8). Queste poche righe hanno un valore simbolico: san Benedetto è passato alla storia soprattutto per questo aspetto, marginale ed episodico nella sua vita, ma fondamentale e preminente nella attività dei suoi figli. Anche Dante ha ricordato di san Benedetto quasi soltanto i suoi meriti di evangelizzatore, riprendendo alla lettera il testo di Gregorio Magno e ponendolo sulle labbra di Benedetto stesso: « Quel monte a cui Cassino è nella costa fu frequentato già in su la cima da la gente ingannata e mal disposta;. e quel son io che su vi portai prima lo nome di Colui che in terra addusse la verità che tanto ci sublima; e tanta grazia sovra me rilusse,  ch’io ritrassi le ville circostanti dall'empio culto che 'l mondo sedusse » (Par., XXII, 37-45).

Il mito di Benedetto evangelizzatore era dunque già ben consolidato nel pieno medioevo, nonostante che la sua regola non dica assolutamente nulla in proposito. In essa il monastero appare come un mondo chiuso in se stesso ed i monaci che lo abitano sono quasi esclusivamente dei laici, solleciti soltanto della propria personale salvezza. Nessun cenno invece ad una possibile opera missionaria e pastorale nei confronti della popolazione circostante: solo verso gli ospiti ed i pellegrini Che sempre affluiscono al monastero, Benedetto prescrive alcune attenzioni di carattere apostolico (lettura della Bibbia, invito ad associarsi alla preghiera della comunità, ecc.), miranti alla loro edificazione spirituale.

Quindi non grazie alla regola di san Benedetto, ma malgrado essa e riallacciandosi a tradizioni del monachesimo prebenedettino, i monaci dell'alto medioevo si consacrarono alla evangelizzazione dei barbari. Quest’opera grandiosa, che facendo entrare nuovi popoli nell'ambito della Chiesa romana, poneva le basi d'una nuova unità dell'Occidente ben più vasta e profonda di quella creata dall'Impero romano, iniziò assai prima di san Benedetto. San Martino di Tours (+397) e san Patrizio d’Armagh (+461), l'uno nelle Gallie e l'altro nell'Irlanda, fondarono monasteri che furono centri d'espansione missionaria e si dedicarono personalmente alla predicazione del Vangelo tra i pagani. San Benedetto era ancora fanciullo, allorché, nel 496, il battesimo del re Clodoveo, ad opera di san Remigio, vescovo di Reims, segnò l’ingresso nella Chiesa del popolo che avrebbe giocato un ruolo primario nella storia religiosa dell'Europa: i Franchi.

Anche dopo san Benedetto si ebbero notevoli episodi di monachesimo missionario non riconducibili però alla corrente propriamente benedettina. Così, pressapoco negli stessi anni in cui Montecassino veniva distrutto dai Longobardi, l'abate irlandese Colombano con dodici discepoli sbarcava sul continente (575), iniziando un pellegrinaggio missionario, che avrebbe costellato la Francia, la Svizzera e l’Italia settentrionale di fondazioni monastiche (Luxeuil, S. Gallo, Bobbio). Quest’uomo rude, ma imbevuto di cultura classica ed all’occasione anche poeta ad imitazione d'Orazio, nato agli estremi confini d'Europa e morto tra i Longobardi della val Padana, alla cui conversione e civilizzazione non poco contribuì colla fondazione dell'abbazia di Bobbio (613), è, come personalità europea, certamente superiore al mite Benedetto da Norcia, che visse sempre nei dintorni di Roma e non frequentò le corti dei re, non ebbe relazioni coi papi, né intervenne nelle questioni teologiche, così come fece san Colombano (540-615).

Anche il drappello di monaci romani, capeggiati dall'abate Agostino, che Gregorio Magno, nel 597, inviò in Inghilterra allo scopo di riannodare i legami tra Roma ed i popoli di quell’isola lontana, non era costituito, propriamente parlando da discepoli di san Benedetto. Benedettini furono invece i monaci missionari che, partendo proprio dall'Inghilterra, dalla  fine del sec. VII in poi, evangelizzarono i popoli dell'Europa settentrionale: san Willibrordo (+739), apostolo dell’Olanda e fondatore del vescovado di Utrecht; san Bonifacio (+754), riorganizzatore della Chiesa nel regno dei Franchi, arcivescovo di Magonza e martire tra i Frisoni; santo Anscario (+865), primo arcivescovo di Amburgo ed iniziatore delle missioni tra i popoli scandinavi. Accanto a costoro operarono però anche vescovi e sacerdoti, che non sempre provenivano dall'ambiente monastico: ma i monasteri dimostrarono sempre, anche grazie alla salda organizzazione loro data dalla regola benedettina, di essere i più efficaci centri d’irradiazione religiosa e culturale.

Alla vigilia dell’anno 1000, quando sedeva sulla cattedra di Pietro l'ex monaco benedettino Silvestro II, l'uomo più dotto dei suoi tempi, l'Europa occidentale era ormai tutta cristiana. I secoli della barbarie, in seguito alla rinascita carolingia, di cui fu protagonista il celebre abate Alcuino, un benedettino inglese divenuto il ministro degli affari culturali di Carlo Magno, erano ormai lontani. In quest'epoca, soprattutto per merito della riforma monastica di Cluny che diede nuovo splendore all’osservanza della Regula Benedicti, il fondatore di Montecassino apparve a tutti come l’incarnazione più perfetta dell'ideale monastico. Fu quindi spontaneo non solo attribuire a lui i meriti di civilizzazione accumulati in molti decenni dai suoi eredi spirituali, ma vennero automaticamente considerati benedettini tutti i grandi spiriti religiosi dell’età tardoantica, a cominciare da Gregorio Magno e da Isidoro di Siviglia, che benedettini non furono. Cosi san Benedetto è divenuto un simbolo nel senso più profondo del termine. Simbolo è tutto ciò che raccoglie sotto di sé una molteplicità d’aspetti nella forma più unitaria ed al livello più significativo. Per l’eccezionale santità della sua vita, in cui la ricerca di Dio detiene un primato assoluto, per la sapienza della sua regola, in cui la preghiera ed il lavoro coesistono in perfetto equilibrio, per la pace operosa che dai suoi monasteri s'irradiò sulla società circostante, suscitando molteplici fatti economici, culturali ed artistici, Benedetto da Norcia riassume perfettamente in sé tutti quei valori cristiani ed umani che, attraverso il monachesimo, la Chiesa trasmise all'Europa di ieri e ripropone al mondo di oggi.       


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14 febbraio 2015                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net