GENESI DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO [1]

Adalbert de Vogüé O.S.B.

Estratto da “La Regola di San Benedetto” – Edizioni Scritti Monastici – Abbazia di Praglia 2002



[1] Questo saggio è già stato pubblicato in lingua italiana in M. Dell’Omo, ed., I Fiori e Frutti santi. S. Benedetto, la Regola, la santità nelle testimonianze dei manoscritti cassinesi, Milano 1998. Precedentemente era stato redatto anche in lingua francese (Genèse de la Règle bénédictine, Collectanea Cisterciensia, 59 (1997) 229-241) e catalana (Sant Benet de Nùrsia, Regla per als Monjos. Text llatl/català, Montserrat 1997 (Subsidia Monastica 21), 29-44).

 


 

 

Scritta verso la metà del VI secolo, la Regola di s. Benedetto non costituisce un inizio assoluto. Benedetto stesso non lo nasconde: egli ha dei predecessori che chiama con venerazione “i nostri santi Padri”. All’interno di questa tradizione monastica che l’ha preceduto, quali sono dunque gli scritti che più hanno influito sulla redazione della Regola? Se ne può descrivere la genesi a partire da documenti anteriori, e discernere in tal modo il suo apporto originale in seno alla letteratura cenobitica, di cui essa resterà il più insigne monumento?

La prima risposta a tale domanda oggi risulta ovvia: Benedetto dipende da un autore leggermente anteriore, posto nella stessa zona d’influenza romana, il quale nei primi decenni del secolo ha prodotto la voluminosa Regola del Maestro. Ma dietro quest’opera gigantesca - essa supera di un terzo la lunghissima Regula Basilii -, che Benedetto abbrevierà molto pur seguendola passo passo, si intravedono due specie di scritti, che hanno contribuito l’una e l’altra, benché in modi molto diversi, a prepararla. Da una parte conosciamo una serie di regole monastiche latine estremamente brevi ma piene di sostanza, che si scaglionano a partire dalla fine del V secolo fino all’epoca del Maestro. Dall’altra è evidente che quest’ultimo deve l’armatura della sua dottrina spirituale, come la espone all’inizio della sua Regola, alle opere dell’abate Giovanni Cassiano: le Istituzioni e le Conferenze.

 

Le Regole dei Padri

La prima categoria di scritti congiunti tra loro ha per capofila la Regola agostiniana, vale a dire l’Ordo monasterii di Alipio per la sua comunità di Tagaste e il Praeceptum dello stesso Agostino per il suo monastero laico di Ippona, datati rispettivamente al 395 e 397 all’incirca [1]. Una dozzina d’anni più tardi, lo stesso tipo di regolamento comunitario fa la sua apparizione in Gallia meridionale: è probabile che alla nascita di Lerino, tra il 400 e il 410, i fondatori - il vescovo Leonzio di Fréjus, il vecchio Caprasio e il giovane Onorato - abbiano composto la Regola detta dei Quattro Padri, attribuita ai grandi monaci egiziani Serapione, Macario e Pafnuzio [2].

A questa prima legislazione lerinese sembra essere succeduta, senza dubbio nel 427, la “Seconda Regola dei Padri”, dovuta alla penna di un diacono di nome Vigilio, ma opera sinodale come la precedente. Verso la fine del secolo, una nuova Regola detta “di Macario”, forse dovuta all’abate Porcario di Lerino, reimpiega la precedente e la completa attraverso considerazioni varie, spesso tratte da s. Girolamo. Infine - per attenerci ai documenti che ha potuto leggere il Maestro -, la Regula Orientalis prende di nuovo in prestito dalla Seconda Regola, ma soprattutto dai Praecepta egiziani di s. Pacomio tradotti da Girolamo nel 404, inserendo tali acquisizioni in una notevole serie di piccoli direttori per i diversi ufficiali del monastero. Questa “Regola Orientale” è stata composta senza dubbio verso il 515 nel monastero di Condat, nel Giura, per i monaci di Agauno (S. Maurizio nel Vallese), con dei documenti lerinesi.

Tanto la doppia Regola di Agostino quanto la serie delle Regole dei Padri non hanno lasciato impronta letteraria apprezzabile sull’opera del Maestro. Ma questa appartiene chiaramente, malgrado l’enorme differenza di dimensione, alla stessa famiglia. Gli argomenti trattati sono gli stessi: autorità ed obbedienza, spogliamento e cura degli oggetti, preghiere e pasti comuni, orario del lavoro e della lettura - avendo quest’ultima diritto a tre ore al giorno -, funzione permanente del cellerario e turni di servizio ebdomadario dei fratelli, accoglienza degli ospiti e probazione dei postulanti, infine punizione delle colpe - tutto ciò, e quanto resta, si trova già nelle piccole legislazioni africane e galliche, prima di apparire nella grande sintesi italiana del Maestro.

Per prendere due esempi, allorché la Regola del Maestro descrive in dettaglio l’Ufficio divino, essa non ha alcun precedente in Gallia, ma è sulla scia dell’Ordo monasterii africano; quando regolamenta l’accoglienza dei postulanti essa non può fare appello alle legislazioni africane, che ignorano tale questione, ma procede sulle tracce dei Quattro Padri provenzali e del loro epigono, lo Ps. Macario.

Questa vicinanza della Regula Magistri rispetto a quelle precedenti non si nota solo nel confronto dei testi. Essa appare all’interno stesso della tradizione manoscritta. Di origine italiana, i due testimoni antichi della Regola del Maestro (intorno al 600) associano l’uno e l’altro, ciascuno a suo modo, questa grande opera alla piccola Regola dei Quattro Padri. L’uno, il manoscritto Parigino lat. 12205, dà in successione, senza soluzione di continuità, le legislazioni dei Quattro Padri e del Maestro, unendole sotto il titolo comune di Regula sanctorum Patrum. L’altro, il Parigino lat. 12634, che contiene una regola-centone probabilmente composta dall’abate napoletano Eugippio, comincia col riprodurre la Regola di s. Agostino al completo, poi fornisce una quarantina di capitoli tratti da opere diverse. Ora il primo di tali capitoli - sul cellerario - esordisce con un estratto dei Quattro Padri e si conclude con uno del Maestro.

La parentela tra la Regola del Maestro e quelle di minori dimensioni che la precedono appare anche nel momento in cui la si mette a confronto con una di esse: la “Regola Orientale”. Entrambe sono strutturate allo stesso modo. Cominciando col trattare dell’abate, esse continuano percorrendo dall’alto verso il basso la gerarchia del monastero: “anziani” o “prepositi”, che sono i collaboratori immediati dell’abate, cellerario, settimanari, portinaio. Senza concordare su tutti i punti - l’Orientale ammette uno il quale faccia da assistente dell’abate, che il Maestro respinge, e pone i settimanari dopo il portinaio -, le due legislazioni hanno la stessa maniera di porre in rilievo le funzioni dei superiori e di polarizzare su tali Uffici la loro esposizione circa i doveri dei fratelli, tenuti prima di tutto ad obbedire.

 

Le opere di Cassiano

Tra la Regola dei Quattro Padri e la Seconda Regola, nella stessa regione mediterranea, la redazione delle Istituzioni e delle Conferenze di Cassiano ha posto la seconda base maggiore delle Regole del Maestro e di Benedetto. Cominciando col descrivere, nei primi quattro libri delle sue Istituzioni cenobitiche, gli usi delle comunità egiziane e palestinesi che egli aveva visitato, l’abate di Marsiglia, riferisce in seguito, nelle sue ventiquattro Conferenze, i colloqui che egli ha avuto con quattordici anacoreti incontrati nei deserti d’Egitto. Ciascuna di queste opere ha fornito al Maestro un pezzo essenziale della sua dottrina spirituale. Dalla diciottesima Conferenza, quella dell’abate Piamun, egli mutua una classificazione delle specie di monaci, che diviene il capitolo primo della sua Regola. Dal quarto libro delle Istituzioni egli prende un itinerario spirituale - dal timore dei principianti alla carità dei perfetti, passando attraverso l’umiltà - che serve da disegno al suo grande capitolo decimo “Dell’umiltà”.

A guardare più da vicino la parte dottrinale del Maestro e di Benedetto, ci si accorge che questi due prestiti da Cassiano non contrassegnano solamente i suoi due estremi - essa ha inizio col descrivere le diverse specie di monaci e si conclude analizzando la virtù dell’umiltà -, ma che essi ne ordinano tutto lo svolgimento. Nel definire il cenobitismo per mezzo di tre note - il monastero, la regola e l’abate -, il capitolo “Delle specie dei monaci” introduce la figura dell’abate, che sta per essere oggetto del capitolo seguente. Terminato da un’appendice sul consiglio dei fratelli, questo capitolo “Dell’abate” conduce esso stesso al trattato della “santa arte”, vale a dire ad un catalogo di buone opere da compiere, di virtù da coltivare e di vizi da combattere, che deve servire da programma per l’insegnamento e l’azione pastorale dell’abate. È così che i primi sei capitoli del Maestro, ai quali corrispondono i quattro primi di Benedetto, si ricollegano strettamente alla definizione iniziale dei cenobiti, che deriva da una Conferenza di Cassiano.

Dal canto suo, il grande capitolo dell’umiltà, che conclude la sezione dottrinale delle nostre Regole, serve da matrice a quanto lo precede immediatamente. Il Maestro e Benedetto, in effetti, raccomandano in successione le virtù di obbedienza, di taciturnità e di umiltà. Allorché i nostri legislatori elevano la loro “scala di umiltà”, essi pongono all’inizio dell’ascesa tre gradini che riguardano l’obbedienza, e verso la fine altri tre relativi alla taciturnità. Un tale ordinamento che era già quello di Cassiano, si ritrova nei capitoli precedenti. Nel trattare in primo luogo dell’obbedienza, poi del silenzio, questi capitoli non fanno che sviluppare la materia contenuta nei primi e negli ultimi gradini della scala.

In tal modo tutta la parte spirituale delle nostre Regole proviene da due brani, presi da Cassiano, che la inaugurano e la concludono. Dalla classificazione delle specie dei monaci dipendono il direttorio abbaziale, il regolamento per il consiglio e la lista delle buone opere. Alla scala dell’umiltà si ricollegano i trattati dell’obbedienza e della taciturnità. Le Conferenze e le Istituzioni del vecchio maestro provenzale hanno generato tutto questo complesso dottrinale col quale esordiscono le nostre Regole italiane del VI secolo. Nel Maestro esplicite articolazioni segnano la concatenazione dei diversi brani. La sezione che dipende dalle Conferenze e quella che deriva dalle Istituzioni sono esse stesse collegate tra loro grazie ad un punto di sutura: alla fine della prima sezione, la lista delle virtù, verso il suo inizio, annunzia la serie “umiltà, obbedienza, taciturnità”, alla quale corrisponde, in testa alla lista dei vizi, la triade “orgoglio, disobbedienza, loquacità”.

 

Struttura della Regola del Maestro: la scuola e il suo dottore

Questo prospetto dello sfondo letterario del Maestro ha già messo in luce molti tratti della sua opera. Resta da cogliere una veduta d’insieme di quest’ultima, la cui organizzazione annunzia e spiega le grandi linee della Regola benedettina.

La prima preoccupazione del Maestro è di porre ad uno ad uno i tre pilastri del cenobitismo, che sta per enumerare nella sua esposizione sulle specie di monaci: dapprima la regola, presentata, al termine del prologo, come una parola di Dio; quindi il monastero, definito, alla fine della lunga introduzione del Thema, come una “una scuola del servizio del Signore”; infine l’abate, che la pagina finale del capitolo primo presenta come un “dottore”, vale a dire uno dei portavoce che il Cristo invia alla sua Chiesa, dopo i profeti dell’Antico Testamento e gli apostoli del Nuovo. Quello che il vescovo è per la Chiesa secolare, l’abate è per la “scuola” monastica: un maestro di dottrina e di vita. Come una madre, la Chiesa dà vita ai credenti per mezzo del battesimo, insegnando loro i rudimenti della fede. Questi fanciulli sono quindi condotti alla pienezza del Vangelo nella scuola di perfezione che è il monastero.

Quest’immagine della “scuola” e del suo “dottore”, che serve a definire teologicamente il monastero e l’abate, è troppo importante perché non ci si fermi qualche attimo. L’abate “tiene il posto del Cristo”, afferma il Maestro all’inizio del suo direttorio abbaziale. Di fatto il Cristo è stato anch’egli, prima di tutto, un “dottore”, un maestro che insegna, e il gruppo dei discepoli riuniti intorno a lui costituiva proprio una “scuola” nello stesso momento in cui rappresentava il primo nucleo della Chiesa. Quando il Maestro applica questi termini al monastero e al suo capo, egli può pensare ai Dodici che circondavano Gesù e formavano la sua scuola itinerante. Il monastero è la continuazione di questa scuola evangelica, dove il Maestro, ormai asceso ai cieli, è sostituito, o piuttosto reso presente, dal vicario visibile che parla a suo nome.

Scuola e Chiesa insieme, il gruppo dei discepoli, dopo la dipartita di Gesù, è continuato innanzitutto nella primeva comunità di Gerusalemme, dove le migliaia di nuovi credenti non erano che un cuor solo e un’anima sola, grazie alla rinunzia alla proprietà e alla divisione dei beni. La Chiesa restava una scuola di perfezione. Ma poco dopo, come notano Girolamo, Cassiano ed altri, tale rinunzia alle cose della terra cessò d’essere la norma di tutti. Allorché la massa dei fedeli e i loro pastori ebbero così abbandonato il completo distacco dei primi discepoli, la scuola di vita perfetta, fondata sulla rinunzia, dovette costituirsi in modo separato. Restando in comunione con la Chiesa, il monachesimo se ne separò per praticare i consigli evangelici.

Tale sarebbe stata, secondo Cassiano, l’origine del cenobitismo, nato sin dall’età apostolica. Una tale presentazione dei fatti molto semplificata, che dipende meno dalla storia che dal mito, ne racchiude pur sempre una profonda verità: se il monachesimo cenobitico non appare, in effetti, che nel IV secolo, esso rappresenta propriamente una rinascita della comunità primitiva degli Atti — e, possiamo aggiungere, della scuola dei discepoli riuniti intorno a Gesù. Queste opinioni di Cassiano, che egli espone nella sua diciottesima Conferenza, sono tanto più utili, nel momento in cui si vuol comprendere il Maestro, ché questi ha preso per l’appunto da questa Conferenza la sua classificazione delle specie dei monaci e la sua definizione dei cenobiti.

 

L’insegnamento del dottore e il suo governo

Non è necessario ritornare sulla parte dottrinale del Maestro, la cui struttura è stata esposta più sopra. È sufficiente notare che questi primi capitoli costituiscono un programma d’insegnamento per l’abate. Nel momento in cui questi è stato presentato alla comunità, al termine del capitolo primo, e istruito circa i suoi doveri dal direttorio del capitolo secondo, egli riceve come missione quella d’insegnare, nel “laboratorio del monastero”, “l’arte santa” delle buone opere, con gli utensili delle virtù, di cui le tre più importanti sono l’obbedienza, la taciturnità e l’umiltà. Quest’ultima virtù conduce direttamente al cielo. Allorché il Maestro ha finito di tracciare questo itinerario che ciascun fratello deve seguire, egli passa alla seconda parte della sua Regola, quella che promulga le norme comunitarie destinate a sostenere il cammino dei singoli verso la perfezione.

Molto più lunga della precedente, questa parte legislativa (RM 11-95) ha il nome di Ordo monasterii, che richiama la Regola agostiniana. Come la funzione dell’abate imponeva l’esposizione dottrinale, così quella dei “prepositi” introduce la legislazione: in ragione di due per ogni gruppo di dieci fratelli, questi officiali di secondo grado sono incaricati di richiamare ai loro uomini, nei particolari dell’esistenza, l’insegnamento abbaziale e di vegliare sulla sua applicazione. Sempre presenti ai loro subordinati, questi ripetitori-sorveglianti hanno in particolare un ruolo da giocare la notte nel dormitorio. Perciò come il capitolo dell’abate si concludeva con un’appendice pratica sul consiglio, così quello dei prepositi termina con un’appendice sul dormitorio.

Educativo, il compito dei prepositi comporta inevitabilmente un aspetto repressivo. Il direttorio che li riguarda è dunque seguito da alcuni capitoli sulle sanzioni, ai quali si aggiunge uno speciale dispositivo per soccorrere i fratelli tentati. In tal modo si conclude la sezione che tratta di questi ufficiali subalterni, strettamente associati al ministero spirituale dell’abate (RM 11-15).

Con i due collaboratori dell’abate che seguono, il cellerario e colui che custodisce gli utensili, si passa dallo spirituale al materiale. Amministratore permanente del celliere, il primo è assistito, per il servizio della cucina e del refettorio, da due ebdomadari, che si danno il cambio di settimana in settimana. Inoltre un lettore, anch’egli di settimana, assicura al refettorio il ristoro spirituale dei fratelli. Intorno a questi servizi, il Maestro regola tutto quanto concerne la lista e l’orario dei pasti (RM 16- 28).

Essendo il pasto seguito dalla siesta, si passa allora dal refettorio al dormitorio. Due settimanari assicurano il risveglio notturno, così come l’annuncio delle diverse ore dell’Ufficio nella giornata (RM 29-32). Si entra così in una lunga serie di capitoli sul ciclo delle preghiere notturne e diurne, che si conclude con la grande vigilia della domenica (RM 33- 49).

Tra questi Uffici in cui si salmeggia e si prega, i fratelli si occupano sia nella lettura che nel lavoro. Occorre dunque precisare l’orario di tali occupazioni, che varia a seconda delle stagioni (RM 50). E come, in Quaresima, si fa un’orazione silenziosa in ogni intervallo che separa due ore canoniche, una “regola della Quaresima” segue il capitolo dell’orario. Il Maestro vi precisa non solamente questo sistema di “orazioni pure” caratteristico della Quaresima, ma anche tutto ciò che concerne le restrizioni alimentari in preparazione alla Pasqua e alle distensioni che fanno seguito alla festa (RM 51-53).

Molto semplice e fin qui chiara, la concatenazione dei temi diventa più incerta nella trentina di capitoli che seguono. Dopo due piccoli cenni sul passaggio dal lavoro all’Ufficio (54-55), si trova una dozzina di capitoli sulle uscite (56-58), ai quali corrisponderanno molti gruppi di capitoli sull’arrivo e l’accoglienza degli ospiti (71-72, 76-79, 83-84). Ma a tali questioni connesse si mescolano, senza evidente ragione, svariati soggetti: i fratelli infermi (69-70), i ritardi all’Ufficio e al refettorio (73), le manifestazioni di indipendenza individuale e la libertà accordata a tutti la domenica (74-75), la comunione quotidiana (80). Infine due coppie: le vesti e la rinunzia alla proprietà (81-82); il lavoro artigianale e quello agricolo (85-86).

Nel concludere la sua Regola, il Maestro ritrova la sua inclinazione a creare lunghi trattati saldamente congiunti. Nello stesso tempo, come si addice alla fine di un’opera, egli guarda verso l’avvenire. Le due grandi questioni che tratta sono quelle del rinnovamento della comunità, tanto nei suoi membri che nel suo capo. Trattando dapprima della probazione dei postulanti e della loro professione (87-91), egli regola poi la nomina del nuovo abate (92-94). Quest’ultima visione concernente l’abbaziato corrisponde al direttorio abbaziale che ha aperto la Regola. L’abate è all’inizio e alla fine dell’opera, essendo egli l’alfa e l’omega del sistema educativo che essa organizza. Infine il capitolo dei portinai chiude perfettamente tale legislazione, tanto più che questi due vecchi hanno per consegna, ripetuta cinque volte, di tener sempre la porta chiusa (95). Stando all’interno della loro clausura, i fratelli vi saranno in qualche modo “racchiusi con il Signore, separati dal mondo a causa di Dio, nei cieli”.

 

Dal Maestro a Benedetto: continuità e cambiamenti

Tale è il vasto insieme che Benedetto si è messo a compendiare. Riducendo di due terzi l’opera del Maestro, egli non la tratta allo stesso modo nelle sue due parti: per cominciare, egli ricopia; in seguito, riscrive. Si sarà a poco a poco svincolato dal suo modello? Sembra piuttosto che la differenza dei trattamenti che egli fa subire alla Regola del Maestro dipenda dalla diversità delle materie. La dottrina del suo predecessore gli si confà meglio laddove lo interessa di meno: egli la riproduce quasi senza alterazione. La legislazione lo soddisfa meno dove maggiormente lo preoccupa: egli la rifà a modo suo.

Così sembra spiegarsi il cambiamento di metodo redazionale che si osserva dopo il capitolo dell’umiltà (RM 10; RB 7). La nuova maniera che Benedetto adotta nell’affrontare la parte pratica del Maestro è stata d’altronde inaugurata da lui, di sfuggita, sin dal capitolo del consiglio (RB 3). Dopo aver riprodotto la conclusione del direttorio abbaziale, il fondatore di Montecassino si è trovato in presenza di un’appendice sul consiglio che non trattava più soltanto del comportamento e dei sentimenti dell’abate, ma anche di una istituzione comunitaria molto importante e delicata, che fa intervenire tutti i fratelli e che mette in causa la loro relazione d’obbedienza al superiore. A partire da questo primo incontro con un passaggio legislativo, Benedetto mostra il suo interesse per la questione riscrivendone il testo interamente e staccandolo dal direttorio abbaziale di cui faceva parte, per erigerlo come capitolo distinto. Ugualmente dal capitolo dei decani egli staccherà l’appendice del Maestro sul dormitorio per farne un capitolo a parte (RB 22). Anche là si intravede la cura particolare che egli ha per le istituzioni comunitarie.

Pur ricopiando abitualmente la parte dottrinale del Maestro, Benedetto vi inserisce alcuni brani redatti da lui. Tali inserzioni sono spesso dovute all’abbreviamento: si tratta di riassumere un testo troppo lungo. È così che l’ampio prologo del Maestro viene sostituito, all’inizio della Regola benedettina, da alcune righe di introduzione. La prima parola (Obsculta, “Ascolta”), viene dal testo-fonte, e vi si ritrova l’invito a seguire l’appello di Dio per andare a lui, ma la presentazione formale della Regola, che era l’esito e il fine del prologo del Maestro, sparisce interamente. Dei tre pilastri dell’istituzione cenobitica — la Regola, il monastero e l’abate —, sussiste solo la presentazione del secondo, che Benedetto, come il Maestro, chiama “scuola del servizio del Signore”, aggiungendo a questa definizione, recepita dal suo predecessore, un commento personale di grande interesse (RB, Prol., 45-49).

Tra le numerose ed importanti riduzioni che subisce l’esposizione del Maestro relativa alla spiritualità, ve ne sono due che meritano una particolare menzione. Prima di tutto l’omissione delle visioni escatologiche che coronano, presso il Maestro, il catalogo delle buone opere e la scala dell’umiltà. In luogo del paradiso di tutti che ricompensava nell’aldilà lo sforzo terreno delle buone opere, Benedetto fa solamente sperare, in termini isaiani e paolini, “quel che occhio non vide”. Quanto all’ascesa dell’umiltà, essa si arresta alla “carità perfetta che scaccia il timore”, cioè al limite terreno che le fissava Cassiano, senza attendere fai di là radioso al quale conduceva la “scala celeste” del Maestro.

L’altra omissione considerevole verte sulla distinzione tra discepoli perfetti ed imperfetti, che il Maestro stabiliva in materia di obbedienza e di silenzio. Stando a lui, l’abate doveva essere più o meno esigente, in questi due campi, a seconda che i fratelli fossero più o meno avanti nella virtù. Ne risultava una casistica che sparisce in Benedetto. Questi si contenta di proporre a tutti l’ideale superiore dell’obbedienza immediata, e di raccomandare a tutti un’umile sottomissione nei loro rapporti verbali con l’abate.

Ora non bisognerebbe concluderne che la nuova Regola è meno preoccupata circa la differenza delle persone e dei livelli spirituali. Al contrario, Benedetto si mostra tra i più sensibili circa questo soggetto. Già il Maestro, nel suo direttorio abbaziale, faceva all’abate obbligo di trattare in modo diverso i diversi caratteri. Riproducendo le due raccomandazioni del suo predecessore circa questo tema, Benedetto ne aggiunge altre due molto lunghe. Tale insistenza, che rimescola alquanto l’armonioso ordinamento del trattato dell’abate, rivela una maggiore preoccupazione del nuovo legislatore. Lungo tutta la sua Regola, egli mostrerà una personalissima premura di aiutare i più deboli.

 

Le modifiche della parte pratica

Quando si passa dalla dottrina alla legislazione, si constata di primo acchito un mutamento di grande portata. Non solo, come abbiamo detto, Benedetto riscrive a suo modo, ma inoltre sposta. Anziché trovare, dopo il capitolo dell’umiltà, quello dei “prepositi” o capi di decine, con il quale aveva inizio la parte legislativa del Maestro, il lettore incontra in Benedetto un capitolo “Degli Uffici divini durante le notti”, seguito da tutta la regolamentazione della preghiera corale (RB 8-20). E soltanto dopo questa sezione liturgica che si presenteranno i capitoli sui decani e sul dormitorio, che corrispondono al trattato dei prepositi del Maestro (RB 21-22).

Cosa significa questo massiccio spostamento? Nel Maestro, lo si ricorda, la sezione sull’Ufficio occupava una posizione differente e meno rilevata. Invece di seguire immediatamente la sezione dottrinale e d’inaugurare la parte pratica, essa si presentava al centro di quest’ultima, dopo i capitoli sul refettorio e il dormitorio. Dopo i pasti, la siesta e il riposo notturno, si passava dal coricarsi al levarsi, cioè al risveglio per l’Ufficio della notte. Condotta così per via di successione cronologica, la questione dell’Ufficio si concludeva allo stesso modo: dalle preghiere che segnano la giornata, si passava alle occupazioni dei fratelli — lettura e lavoro manuale - che arricchiscono gli intervalli tra gli Uffici.

Anziché quindi collocare l’Ufficio nel suo quadro esistenziale - lo svolgimento della giornata monastica -, Benedetto gli conferisce un posto d’onore. Prima di tutto e soprattutto, sembra egli dire, bisogna celebrare la lode divina. E di fatto, egli dirà in termini propri, come già faceva la Seconda Regola dei Padri: “Non si preferisca nulla - praeponatur, messo avanti - all’opera di Dio” (RB 43, 3). Dopo aver tracciato il cammino che conduce ogni monaco al Signore, la Regola nulla ha di più urgente che di istituire il programma delle ore di preghiera, dove la comunità intera si presenta davanti a Dio:

In seguito Benedetto opera altri spostamenti o raggruppamenti, ma le sequenze del Maestro restano abitualmente riconoscibili nella trama della nuova Regola. Quel che tende a sfumare è il motivo per il quale ogni capitolo segue quello precedente. Spesso nel Maestro l’ordine delle materie è esplicitamente indicato o chiaramente visibile. Riassumendo il testo-fonte, Benedetto più volte fa sparire tali legami. Ed è perciò che risulta così utile, per comprendere la struttura della sua opera, far riferimento al suo modello.

Quanto alla legislazione stessa, uno dei punti più importanti sui quali Benedetto si allontana dal Maestro è la nomina dell’abate. Questa, nel Maestro, era riservata al precedente abate: vedendo avvicinarsi la morte, doveva designare lui stesso il suo successore. Questi due modi di procedere corrispondono alla prassi coeva della Chiesa romana. Nei tre primi decenni del VI secolo, difficoltà locali condussero alla sospensione del normale sistema di elezione del vescovo da parte del popolo e del clero: ciascun papa si assunse l’incarico di nominare il suo successore. Ma a partire dal 530 circa, il sistema tradizionale dell’elezione rientrò in vigore. Scritte l’una e l’altra nell’orbita territoriale di Roma, le nostre due Regole riflettono queste vicissitudini relative alla nomina del pontefice romano. Il Maestro si conforma all’uso della sua epoca, Benedetto a quello della propria.

A tale divergenza se ne aggiunge un’altra nello stesso ambito. Per ragioni pedagogiche molto particolari, che egli espone a lungo, il Maestro fa divieto all’abate di darsi un luogotenente. I “prepositi” (capi di dieci) sono molti e si succedono uno alla volta al fianco dell’abate. Nessun ufficiale occupa in permanenza il secondo posto. Benedetto, al contrario, autorizza la nomina di un “preposito” unico, vero assistente dell’abate. Pur desiderando che si possa fare a meno di tale ufficio, nei confronti del quale ha forti prevenzioni, egli l’ammette in caso di necessità.

Si potrebbe continuare a confrontare così su ciascun punto la disciplina delle due Regole. Contentiamoci di rilevare, a titolo di campione, tre innovazioni considerevoli di Benedetto: la recita settimanale del Salterio, l’adozione del lavoro agricolo e l’ammissione di preti in comunità.

 

Innovazioni liturgiche

Nella nuova Regola l’Ufficio divino non è soltanto messo in rilievo dal posto assegnato ai capitoli che lo descrivono. La sua stessa struttura è profondamente modificata. Nel Maestro si recitava il Salterio di seguito, riprendendo all’inizio di ogni ora nel punto in cui ci si era fermati alla fine dell’Ufficio precedente. Questo sistema antico del psalterium currens, dove ciascuna ora, salvo il Mattutino, non aveva dei salmi determinati, fa posto alla ripartizione fissa dei centocinquanta salmi nel corso di una settimana.

A tal riguardo, Benedetto segue un modello romano, ma con importanti modifiche. La più considerevole di esse è la destinazione dei primi diciannove salmi all’ora di Prima, che prende così un’importanza singolare. Per conseguenza la vigilia della domenica perde i salmi 2 e 15, che l’Ufficio romano le assegnava a buon diritto a causa del loro carattere eminentemente pasquale (At 2, 25-28; 13, 33-35). Nondimeno tale vigilia domenicale conserva o acquista, in Benedetto, altri canti molto appropriati, come i salmi 21 e 30.

In relazione con la recita ebdomadaria del Salterio, Benedetto adotta, per l’Ufficio notturno, il numero immutabile di dodici salmi, che contrasta con le variazioni stagionali del Maestro. Tale quantità fissa, già assunta come norma dall’Ufficio romano, è di origine egiziana: Cassiano ha riferito, nelle sue Istituzioni, come essa fosse stata imposta ai primi monaci d’Egitto da una visione angelica. Dalla stessa tradizione egiziana veicolata da Cassiano viene una pratica per la quale Benedetto si distacca in una volta dalla Regola del Maestro e dall’Ufficio romano: la divisione dei salmi lunghi, destinata a favorire l’attenzione.

 

Il lavoro e il digiuno

In materia di attività manuale, Benedetto si allontana ancora dal Maestro per l’autorizzazione, che egli dà, di lavorare nei campi. Se il Maestro vietava i lavori agricoli, era per timore di compromettere l’osservanza fondamentale del digiuno regolare. Tutti i giorni, salvo la domenica e il giovedì, i fratelli dovevano prendere un solo pasto, a metà o alla fine del pomeriggio. Le fatiche del lavoro dei campi rischiavano, agli occhi del legislatore, di rendere impossibile il mantenimento di quest’orario del digiuno.

Di fatto, la Regola benedettina abbandona tutt’insieme la proibizione dei lavori agricoli e il digiuno quotidiano in estate. L’adozione del lavoro dei campi è senza dubbio dovuto, in larga misura, alle difficoltà economiche risultanti dalla terribile guerra che oppose nel corso di quasi vent’anni (535-553) Bizantini e Goti. Quanto alla mitigazione del digiuno, limitato ai mercoledì e venerdì in estate, si tratta qui di un fatto generale a metà del VI secolo, ma che sembra essere legato, nel caso di Benedetto, al nuovo programma di lavori. Il legislatore sembrava d’altronde averne cattiva coscienza, come suggerisce la sua attitudine restrittiva a riguardo della lista dei cibi e del bere. Se egli menziona molte volte, con nostalgia, l’esempio oggi inimitabile dei “nostri santi Padri”, è probabilmente, per una buona parte, a motivo di un cedimento recente dell’osservanza, che lo lascia profondamente insoddisfatto.

 

L’ammissione dei preti in comunità

Nell’ambito del reclutamento, Benedetto semplifica il sistema probatorio del Maestro, imponendo a tutti i postulanti un anno di noviziato, diviso in tre periodi di due, sei e quattro mesi. Ma la sua innovazione più importante consiste nel ricevere in comunità i preti e i chierici, che il Maestro ammetteva solamente a titolo di ospiti. Di più, egli autorizza l’abate a far ordinare taluno dei suoi monaci. La comunità monastica non è più dunque puramente laica, come lo era stata nel Maestro. Ne consegue che l’eucaristia può essere celebrata, in modo stabile, nell’oratorio del monastero. Invece d’essere obbligati ad uscire, le domeniche e le feste, per ascoltare la Messa nella chiesa, i monaci hanno a loro disposizione uno o più preti e diaconi, atti ad officiare sul posto.

Questo mutamento non comporta, di per sé, una più grande frequenza della celebrazione eucaristica, ma rende possibile un’evoluzione in tal senso. Ogni giorno della settimana, nel Maestro, i fratelli ricevevano dall’abate, pure laico, la comunione sotto le due specie, alla fine della piccola ora dell’Ufficio che precedeva il pasto. Nulla indica che le cose stiano diversamente in Benedetto. Ma la presenza di un clero all’interno del monastero stava per avere come risultato, a partire dal secolo successivo, la moltiplicazione delle messe, con una o anche due celebrazioni conventuali quotidiane.

 

Dalla scuola alla comunione

Per finire, bisogna prendere atto di un’altra trasformazione capitale, che tocca l’insieme della vita cenobitica. Il monastero del Maestro, l’abbiamo detto, era essenzialmente una “scuola”, retta da un “dottore” che rappresentava il Cristo. Egli anzi non era che questo. L’assoluto interesse del legislatore era preso dalla relazione maestro-discepolo. Direttamente o attraverso i suoi prepositi, l’abate non cessava di formare l’uomo “spirituale” che ogni fratello doveva diventare. Si trattava dunque prima di tutto, anzi esclusivamente, di obbedire ad una tale guida designata da Dio: “Chi ascolta voi, ascolta me”. Quanto alle relazioni dei discepoli tra di loro, il Maestro praticamente non accordava ad esse alcuna attenzione.

Questa struttura verticale del coenobium resta in Benedetto, ma egli l’arricchisce di una rete di relazioni che si può qualificare come orizzontali, tendenti a fare della scuola una comunione. Avviata, a partire dalla sezione liturgica, dalla recitazione del Pater per il perdono reciproco delle offese, questa tendenza si afferma nel direttorio del cellerario, che deve guardarsi dal “contristare i fratelli” e beneficiare reciprocamente dei loro riguardi di carità. Un po’ più oltre, il capitolo sulla distribuzione del necessario “secondo i bisogni”, alla maniera della Chiesa primitiva, riconduce la premura della concordia tra tutti in una prospettiva nettamente agostiniana. Ciò che qui dice Benedetto circa i differenti bisogni, egli lo ripete a proposito delle differenze di età e di anzianità: il capitolo “Dell’ordine della comunità” non ristabilisce solamente, come abbiamo detto, il rango di anzianità tra i fratelli. Esso li esorta anche a rispettarsi e ad amarsi.

Questa preoccupazione circa i rapporti interpersonali, culmina nell’appendice che Benedetto aggiunge al suo compendio della Regola del Maestro. Dopo il capitolo dei portinai, che concludeva probabilmente la prima redazione della Regola benedettina così come il suo modello, molti addenda ritornano sulle relazioni fraterne: non è permesso né difendere un altro fratello contro le sanzioni inflitte dall’autorità, né batterlo di propria iniziativa; ciascuno deve obbedire ai suoi anziani e ricevere umilmente i loro rimproveri. Infine lo stupendo capitolo “Dello zelo buono che devono avere i monaci” generalizza questa consegna di obbedienza fraterna non menzionandone più il rango di anzianità, e Benedetto vi aggiunge il mutuo rispetto, la pazienza che sopporta le infermità, la rinunzia agli interessi egoistici per il bene altrui, così come la parola che riassume tutto: carità. Questa corrente di amore avvolge anche le relazioni con l’abate, che i monaci devono “amare di una carità sincera e umile”.

Questa trasformazione della scuola in comunione non si compie solamente sotto l’influenza visibile di s. Agostino. Essa riproduce la genesi della Chiesa di Cristo. Il gruppo dei Dodici riuniti intorno a Gesù, l’abbiamo detto, era una scuola, vale a dire una società costituita dalla relazione di ciascun discepolo nei confronti del maestro. Ma questi, prima di morire, dà ai suoi un comandamento nuovo: essi si ameranno gli uni gli altri. Tali relazioni affettuose dei discepoli tra di loro testimonieranno la loro relazione nei confronti del maestro, ormai invisibile e come assente. E di fatto, la Chiesa di Gerusalemme, pur restando una scuola, sarà ancora di più: non facendo che “un’anima sola e un cuor solo”, tutti saranno “assidui all’insegnamento degli Apostoli e alla comunione”.

Benedetto non è il primo legislatore monastico che abbia conferito in tal modo un particolare tono ad un tipo di società puramente scolastica all’origine. Egli ha avuto dei predecessori, in Egitto prima di tutto, poi in Gallia. La Regola di s. Pacomio è fatta di quattro successive raccolte, delle quali la prima in ordine di tempo (Instituta) e le due seguenti (Iudicia et Praecepta) non propongono molto se non l’obbedienza, senza dire quasi nulla delle relazioni fraterne. Ma la sua ultima raccolta, le Leges, mostra una insolita premura per la pace e la concordia fra tutti, aggiunta ad una preoccupazione nuova circa le disposizioni intime di colui che obbedisce. A Lerino, similmente, la Regola iniziale, quella dei Quattro Padri, si contenta di porre una struttura verticale, dove tutto converge verso il superiore. È soltanto con la Seconda Regola che appare l’interesse primordiale per la carità - una parola che i Padri fondatori neppure pronunziavano - e per la comunione dei beni che ne è il segno.

Alla luce di queste tre parallele evoluzioni, si vede disegnarsi una sorta di legge genetica dei monasteri, iscritta nella loro stessa natura di comunità cristiane. Innanzi tutto occorre innalzare l’asse verticale che collega gli uomini a Dio, per mezzo del suo inviato, il Cristo, lui stesso rappresentato da un padre spirituale autorizzato. In seguito la parola del Cristo opera, in seno a questo gruppo religioso gerarchizzato, la fusione di tutte le volontà in una comunione.

 

(Traduzione dal francese di Mariano Dell’Omo)

Cf.: Bozzi I; Bozzi-Grilli II; Coorreao-Vogué, I; Courreau-Vogué, II; Dekkers-Gaar, Clavis Patrorum Latinorum-, Ledoyen, La Règle de saint Benoît dans la législation monastique, Mundò, I corpora e i codices regularum nella tradizione codicologica delle regole monastiche, Pricoco; Turbessi, Regole monastiche antiche, Verheijen, La Règle de saint Augustin, I; Vogué, Le Regole monastiche antiche, Vogué, Nouveau recueil; Vogué, Il monachesimo prima di san Benedetto-, Vogué: Regala Magistri-, Vogué I.II; Vogué, Commento dottrinale, Vogué, Les Règles des Saints Pères-, Vogué, Regole cenobitiche d’Occidente, Vogué, Les Régles monastiques anciennes-, Vogué, La comunità.



[1] L. Verheijen, La Règle de saint Augustin, 148-152, 417-437.

[2] A. De VoguÉ, Les Règles des Saints Pères.


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1 luglio 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net