S. BENEDETTO
Estratto da “Storia del monachesimo in Italia: dalle origini alla fine del Medioevo”,
Gregorio Penco -
Editoriale Jaca Book, 1995
Indice:
1. S. Benedetto e il secolo VI
2. Composizione e storia
testuale della Regola
1. S. Benedetto e il secolo VI
La fonte principale e pressoché unica per la
conoscenza della vita di S. Benedetto è costituita dal libro II dei Dialoghi di
S. Gregorio, composto tra il luglio 593 e l’ottobre del 594
[1]. Di epoca posteriore sono
i trentatré distici del poeta Marco, che pure si presenta come discepolo di S.
Benedetto, e poco aggiungono ai dati della biografia gregoriana
[2]. Il santo Pontefice ha invece
potuto attingere le sue informazioni da quattro testimoni diretti, Costantino,
secondo abbate di Montecassino, Valentiniano, già monaco cassinese e poi abbate
del Laterano, Simplicio, terzo abbate di Montecassino, ed Onorato, abbate di
Subiaco, mentre per singoli episodi vengono utilizzate notizie fornite anche da
altri informatori.
Grande è quindi il valore storico della narrazione gregoriana, pur priva di
indicazioni cronologiche vere e proprie, ma più grande è il suo valore
spirituale, tale da permettere una precisa ricostruzione della figura religiosa
del Santo. S. Gregorio non
è infatti
soltanto o
prevalentemente un agiografo, ma
in primo luogo un dottore della
mistica, testimone quindi egli stesso degli straordinari fatti narrati, esposti
certo secondo un già fissato schema, ma vivi di una superiore realtà che
soltanto i santi possono percepire e capire. Benché quindi, per lo stesso
particolare indirizzo dell’antico genere agiografico, non abbia voluto fare
opera di critica storica né esporre tutto quanto era a sua conoscenza intorno al
fondatore di Montecassino, egli si trovava nelle migliori condizioni per narrare
le principali vicende della sua vita, sicché il profilo biografico da lui
delineato merita piena considerazione
[3]. Il silenzio di altre fonti
contemporanee intorno a San Benedetto può forse essere dovuto alla circostanza
che il Santo non ebbe occasione di partecipare a vicende di interesse generale
che ne esigessero quindi il ricordo e ne tramandassero le imprese.
S. Benedetto nacque negli ultimi decenni del sec. V,
intorno al 480, a Norcia o nei suoi pressi (« ex provincia Nursiae »), da
famiglia di condizione agiata. Giovinetto, venne inviato a Roma per attendere al
perfezionamento degli studi ma, disgustato per il dilagare dei vizi, interrotti
i corsi scolastici, «soli Deo piacere desiderans» si ritirò ad Enfide (Affile),
ove per qualche tempo fece vita comune con altri, animati dal medesimo
proposito. Scoperto il suo primo miracolo, ritenne opportuno ritirarsi in un
luogo solitario, presso Subiaco, vivendo per tre anni in una grotta (Sacro
Speco). Gli aveva dato l’abito monastico il monaco Romano del vicino monastero
retto dall’abbate Adeodato, provvedendo inoltre al suo sostentamento in giorni
stabiliti. Finalmente un sacerdote dei dintorni, per divina ispirazione, si
mosse a visitarlo, annunziandogli la ricorrenza della Pasqua e recandogli un po’
di cibo. Anche i pastori lo ritrovarono, vestito di pelli caprine, e ne
ricevettero ammaestramento. Durissima senza dubbio era stata la sua vita nella
solitudine completa dello Speco, ma la prova più grave fu una tentazione che il
Santo superò avvolgendosi in uno spineto, riportando così vittoria completa
delle proprie passioni.
Molti, frattanto, attratti dalla sua fama, si mettevano alla sua scuola, ed
egli, « virtutum magister
», venne anche richiesto come abbate
dalla decaduta comunità del monastero di S. Cosimato di Vicovaro, presso Tivoli.
Accettato dopo lunga esitazione l’ufficio, tentò inutilmente di risollevare
l’osservanza disciplinare, fino a che quegli indegni monaci, scontenti del suo
governo, tentarono addirittura di avvelenarlo. Sfuggito miracolosamente a tale
tentativo, il Santo si ritirò nuovamente nella diletta solitudine, ove per altro
nuovi discepoli lo raggiunsero. Egli perciò li raccolse «ad omnipotentis Dei
servitium» in dodici monasteri, formati ciascuno di dodici monaci, ritenendone
alcuni presso di sé, per una più accurata formazione, nel monastero di S.
Clemente, in riva al lago di Nerone
[4]. L’esatta identificazione degli
altri dodici monasteri presenta qualche difficoltà, mentre la loro eredità
spirituale verrà raccolta dal solo monastero di S. Scolastica.
Nel clima di un simile fervore monastico anche alcuni « Romani urbis nobiles et
religiosi
» affidarono al Santo i loro figli per essere avviati alla vita
monastica. S. Gregorio ha cura di ricordare specialmente Mauro e Placido,
discepoli prediletti del Santo, associati, per le loro virtù, alle imprese
miracolose di S. Benedetto, come nella restituzione della roncola, caduta nel
lago, al monaco goto e nel salvataggio di S. Placido, già immerso nelle onde,
per opera di S. Mauro.
Ma lo sviluppo monastico nella valle dell’Aniene ed il
conseguente prestigio derivatone a S. Benedetto spiacquero ad un sacerdote di
una chiesa vicina, Fiorenzo, che cercò in ogni modo di opporvisi, dapprima
cercando di avvelenare il Santo stesso e poi, fallito tale tentativo,
minacciando con mezzi disonesti la virtù dei suoi discepoli. S. Benedetto,
allora, preferì cambiare sede, dopo aver proceduto ad un riordinamento delle
piccole comunità sublacensi. E poiché neppure la tragica fine del persecutore
valse a farlo ritornare sui suoi passi, si può pensare che, oltre codesto motivo
occasionale, un nuovo piano maturasse nel suo animo, per il quale si richiedeva
un altro ambiente ed un altro ordinamento, pur sapendo il Santo di non mutar
nemico con il mutar di luogo.
S. Benedetto era passato, a Subiaco, da un’esperienza
personale rigorosamente eremitica, intesa a riprodurre, durante la sua
permanenza allo Speco, gli ideali del più rigido anacoretismo di carattere
antoniano, ad una forma di organizzazione monastica ispirata, direttamente o
non, al sistema accentrativo pacomiano, attuato nel gruppo dei dodici piccoli
monasteri composti di un numero fisso di monaci. La parentesi cenobitica di
Vicovaro lo aveva indotto a diffidare, per il momento, dell’attuazione di un
pieno cenobitismo per il quale gli uomini e gli ambienti non erano ancora
preparati, preferendo perciò riservarsi la direzione generale di quel
raggruppamento monastico. L’esperienza però gli suggeriva, come ultima fase
della sua opera di fondatore, l’opportunità di distaccarsi più decisamente dalla
tradizione orientale per fondare un unico centro monastico, attuazione integrale
dell’ideale cenobitico, quale sarà appunto Montecassino. Quella di Subiaco era
stata una tappa necessaria e preziosa per arrivare alla costruzione definitiva,
frutto della sua lunga esperienza monastica e del suo genio organizzativo. Nulla
è mutato però nella fondamentale concezione ascetica che aveva già informato la
vita monastica dei piccoli monasteri sublacensi e che S. Benedetto stesso espone
nella sua Regola. Il perfezionamento consiste invece nel diverso tipo
d’organizzazione, più vicino all’ideale basiliano del monastero completamente
autonomo, che può essere piccolo o grande, ma che ha in se stesso ogni risorsa
necessaria alla propria vita economica e religiosa, gerarchica e disciplinare.
Sorge così Montecassino, cittadella del servizio di Dio
e modello del monachesimo medievale, ove monaci anglosassoni, sovrani longobardi
e franchi, pontefici romani, asceti bizantini saliranno per conoscere da vicino
l’ideale del Santo e cercarvi la pace dell’anima sopra le tempeste del mondo. In
mancanza di elementi più sicuri, la data tradizionale del 529 può essere
conservata con una certa approssimazione. Anche a Montecassino S. Gregorio ci
descrive S. Benedetto in continua, vittoriosa lotta con il demonio e tutto
impegnato alla costruzione del nuovo monastero. La località era ancora dedita a
culti pagani e precisamente nel tempio dell’acropoli intitolato a Giove Apollo
S. Benedetto costruì l’oratorio conventuale di S. Martino, ove egli stesso morì.
Tale primitiva chiesa si trovava nell’area del chiostro d’ingresso, in una zona
cemeteriale, presso cui sorgeva pure la torre abitata dal Santo. Più a
settentrione, sulla cima stessa del monte e presso l’ara del nume, S. Benedetto
costruì l’altra chiesa di S. Giovanni Battista, nella quale volle essere
sepolto.
Contemporaneamente si diede all’evangelizzazione di
quelle popolazioni idolatriche, non sappiamo se come sacerdote e investito di
una speciale missione da parte delle autorità ecclesiastiche; silenzio che le
fonti conservano pure circa il titolo giuridico con cui il Santo aveva preso
possesso dell’acropoli. Il Santo vigila alla conservazione della disciplina tra
i suoi monaci, accoglie quanti si rivolgono a lui chiedendo l’intervento della
sua carità o della sua azione taumaturgica, attende al consolidamento materiale
e morale della sua fondazione che si rispecchia in maniera inconfondibile nelle
pagine immortali della Regola. Questa è appunto la codificazione della matura
esperienza del Santo che, ripieno dello spirito di tutti i giusti, fissa nel suo
codice monastico la prassi seguita a Montecassino, destinato a diventare il
cenobio a cui si uniformeranno, per mezzo della Regola, tutti gli altri
successivi monasteri dell’Occidente.
Il piccolo monaco schiacciato dalla caduta di una
parete e risuscitato, le infrazioni prodigiosamente scoperte di alcuni alle
norme della Regola, la liberazione di indemoniati, la penetrazione delle
coscienze, la moltiplicazione dei mezzi necessari alla sussistenza sono
altrettanti episodi che indicano in quale clima soprannaturale il Santo vivesse
ed operasse. La sua vita, quale è descritta da S. Gregorio in una narrazione
piena d’incanto e di suggestività, è tutta contenuta in queste azioni prodigiose
che lo mostrano strumento docile e benefico della potenza divina. Accanto a lui
il biografo pone fugacemente la dolce figura della sorella Scolastica,
consacrata fin dai suoi primi anni al servizio di Dio, che una volta all’anno
era solita venire a rivederlo per intrattenersi con lui in sacri colloqui; e
quando il Santo, l’ultima volta, dal luogo dell’incontro, volle ritornare al
monastero, Scolastica, bramosa di continuare quei santi discorsi, ottenne da Dio
con le sue lacrime un’abbondante pioggia che le permise di trascorrere il resto
della notte « per sacra spiritalis vitae colloquia »
[5]. Tre giorni dopo, dalla sua
cella, S. Benedetto vedeva l’anima di Scolastica, sotto forma di colomba,
ascendere al cielo, disponendo poi che il corpo di lei venisse deposto nel
sepolcro che egli aveva preparato per sé.
« Quella vita senza date e senza riferimenti precisi,
quel distacco dagli uomini, dai fatti, dagl’interessi politici del tempo, non
sono un difetto della fonte agiografica; bensì la più profonda verità
dell’esistenza del santo e della sua fondazione »
[6]. Eppure, proprio a quanto si
può desumere dal testo dei Dialoghi gregoriani, S. Benedetto, a Montecassino,
appare in vari ed intimi rapporti con l’episcopato, sia della sua regione—con
Costanzo d’Aquino
[7], Germano di Capua
[8], forse anche Vittore di
Capua—sia di diocesi lontane—come Sabino di Canosa
[9]—segno che la più piena e
definitiva affermazione dell’ideale cenobitico sulla vetta di Cassino impose
anche relazioni più strette, tanto personali quanto collettive, con la gerarchia
della Chiesa. E precisamente a causa dei rapporti con codesti vescovi ben
conosciuti anche da altre fonti letterarie, possiamo inquadrare più storicamente
la vita e la personalità stessa di S. Benedetto, altrimenti destinate a rimanere
entro limiti cronologici molto vaghi ed incerti.
Senza che egli abbia mai lasciato il monastero,
Montecassino è divenuto un punto di convergenza di tanti uomini e di tanti
interessi che ruotano intorno a S. Benedetto: anche il re dei Goti Totila vuole
vederlo e, dopo aver vanamente tentato il suo spirito profetico, si prostra ai
suoi piedi, riconoscendone la santità e la virtù. Ciò accadeva sul finire del
546
[10]. Dopo aver preannunziato la
distruzione del suo monastero ed aver visto l’intero mondo nella luce del
Creatore, S. Benedetto, sentendo prossima la fine, si fece condurre
nell’oratorio di S. Martino ove rese l’anima a Dio: era il 21 marzo del 547 o di
un anno di poco posteriore
[11]. Come aveva predisposto, venne
sepolto nell’oratorio di S. Giovanni Battista, venuto in luce negli scavi del
1950.
In questa seconda fase della sua vita, oltre
Montecassino, S. Benedetto aveva curato pure la fondazione del monastero di S.
Stefano di Terracina, assegnandovi una colonia di monaci e fissando la
disposizione dell’edificio monasteriale, mentre leggendarie sono le tradizioni
relative alla missione di S. Mauro in Gallia e di S. Placido in Sicilia
[12]. La sua opera, come la sua
concezione, ebbe perciò il proprio coronamento sull’arce cassinese e a tale
periodo è senza dubbio riferibile la composizione della Regola quale è a noi
pervenuta. Con essa la vita monastica acquistava un nuovo indirizzo, possedendo
ormai quel codice legislativo che l’ambiente italico da tempo attendeva e in
mancanza del quale era ancora tributario delle tradizioni extraitaliche. I
contemporanei, compreso S. Gregorio, videro in S. Benedetto soprattutto il santo
ed il taumaturgo, non potendo forse prevedere quale capacità di adattamento era
contenuta nella nuova Regola, l’unica veramente di origine italica di cui
abbiamo notizia. Apparentemente quindi la fondazione di Montecassino costituiva
uno dei tanti esperimenti compiuti dal cenobitismo della Penisola, in cui certo
la vita monastica aveva raggiunto una notevole propagazione, mentre solo i
secoli successivi avrebbero rivelato tutta la fecondità del seme gettato da S.
Benedetto.
Precisamente per questa spontanea fioritura di cenobi
governantisi con regole proprie e per una simile condizione, sia pure esterna,
di parità con le altre fondazioni dell’epoca, meno plausibile sembra la nota
teoria, già avanzata dal Chapman
[13] e sostenuta poi calorosamente
dallo Schuster
[14], di un incarico papale a S.
Benedetto quanto alla composizione della propria Regola. E ciò parallelamente ad
un supposto, speciale programma, di cui però non si sa nulla, del pontificato e
dell’episcopato italico, inteso a ridurre ad unità di disciplina e di governo i
vari monasteri mediante l’imposizione autoritativa di un solo e medesimo codice
monastico. Il Santo si servì invece semplicemente del diritto, riconosciuto ad
ogni abbate anche dall’autorità episcopale, di proporre ai suoi monaci un codice
di vita cenobitica o proprio o desunto da altri testi preesistenti di
legislazione monastica.
Nella Regola di S. Benedetto non si parla affatto di
un tale incarico, né basta a farlo supporre il tono autoritativo, proprio di
ogni legislatore: si ha infatti motivo di credere che se il Santo lo avesse
effettivamente ricevuto non avrebbe mancato di farne esplicito ricordo come
un’opportuna ed autorevole conferma al proprio codice monastico—valida pure agli
occhi del suo biografo—imitando l’esempio di S. Cesario. In una simile ipotesi,
inoltre, non si spiega la lenta e graduale adozione della Regola nella stessa
Italia e perfino a Roma, né le successive imposizioni di essa da parte dei
Concili dell’epoca carolingia
[15]. L’unione tra la Regola di S.
Benedetto e la Sede Apostolica pare piuttosto un fatto posteriore, occasionato
in buona parte dalla fuga a Roma dei monaci cassinesi e soprattutto
dall’intervento di S. Gregorio che dalla bocca dei profughi poté raccogliere le
gesta del Santo e sentirsi spinto a narrarle. In tal modo, l’interesse dei
posteri si spostò facilmente dalla persona all'opera e alla Regola di S.
Benedetto, gradualmente adottata in tutta l’Europa occidentale.
Se nulla si sa, nemmeno sulla scorta di semplici indizi,
intorno alle effettive relazioni di S. Benedetto con il vescovo della regione
sublacense, facente parte della diocesi di Tivoli, né circa il titolo giuridico
con cui il Santo procedette alla fondazione dei vari monasteri della valle
dell’Aniene, prima, e di Montecassino, poi, bisogna ricordare l’indole
particolare dei Dialoghi che, a differenza dell’Epistolario del medesimo
Pontefice, sono poco solleciti di ricostruire tutto il quadro storico-giuridico
entro il quale vissero i singoli personaggi ricordati o di indugiarsi su aspetti
dell’organizzazione interna dei monasteri. La biografia di S. Benedetto
costituisce quindi un esempio tipico delle difficoltà e delle incertezze
presentate da uno studio integrale sulla costituzione monastica italica
dell’epoca pregregoriana, ed è evidente che a molti quesiti del genere non
potremo mai dare una risposta soddisfacente e definitiva, appunto per il
silenzio dei Dialoghi intorno a tal genere di problemi. Ma volendo limitare le
congetture all’analogia con casi più noti, si può concludere che anche per le
fondazioni di S. Benedetto, e specialmente per quella di Montecassino, se non
subito ed in maniera certa per la sua Regola, un’approvazione dell’autorità
ecclesiastica, almeno diocesana, dovette necessariamente esserci, come del resto
avveniva per le altre istituzioni analoghe di minore importanza e fortuna. Lo
stesso può supporsi anche riguardo all’assistenza ai monasteri femminili con cui
S. Benedetto appare in relazione probabilmente in seguito ad una delega
episcopale.
Nonostante queste lacune, noi siamo tuttavia sicuri
di possedere, nella narrazione di S. Gregorio, il vero volto di S. Benedetto,
quello più intimo e spirituale, pur mancandoci qualsiasi indicazione sul suo
aspetto fisico
[16]. Tale fedeltà è poi largamente
confermata dalla stessa Regola, pienamente conforme allo spirito della biografia
gregoriana e specchio fedele, al dire di S. Gregorio, della grande anima del
Santo. Essa quindi costituisce l’altra nostra fonte di informazione sul
carattere e sulla fisionomia morale di S. Benedetto, rendendo
così testimonianza sia alla propria autenticità
sia alla perfetta corrispondenza con la vita narrata da S.
Gregorio. E fu proprio questa
Vita
a perpetuare nei secoli il ricordo del fondatore di Montecassino e a favorirne
il culto anche fuori d’Italia, associando il suo nome a quello del pontefice
che, nei profondi sconvolgimenti del primo Medio Evo, trovava nella Regola di S.
Benedetto lo strumento più idoneo per la propagazione dello stesso messaggio
evangelico.
Risparmiato, vivente S. Benedetto, dalle stragi della
guerra greco-gotica, il monastero di Montecassino non sfuggì però alla
devastazione longobardica. Come egli aveva profetizzato, i barbari irruppero di
notte sull’arce, guidati dal duca Zotone, e depredarono il monastero: i monaci
però poterono fuggire a Roma, portando con sé il codice della Regola, il peso
del pane, la misura del vino ed alcuni di quei sarchi contenenti la farina che
in tempo di carestia il Santo aveva miracolosamente provveduto. Ciò accadeva nel
577
[17]. Stabilitisi presso il
monastero di S. Pancrazio al Laterano, essi trapiantarono quindi nel centro
della Cristianità quel germoglio che momentaneamente era stato sradicato dalla
sua terra e che in tal modo avrebbe potuto attecchire là dove l’autorità
apostolica lo avesse destinato. Il sec. VI si chiudeva perciò con un esilio, ma
anche con un’attesa e con una speranza di ritorno sulla sacra montagna ove
riposava il corpo del Santo Patriarca del monachesimo italico e occidentale, che
aveva preparato per i tempi nuovi il codice della nuova vita ed era destinato a
diventare il padre non solo delle genti latine, ma anche di quei popoli
germanici che stavano per entrare nella Chiesa e nella civiltà di Roma
[18].
2. Composizione e storia testuale della Regola
Il Santo ha lasciato come preziosa eredità ai monaci,
alla Chiesa tutta e alla stessa civiltà dell’Occidente una Regola, che S.
Gregorio definisce « discretione praecipuam, sermone luculentam »
[19]. Essa è l’opera più matura
della legislazione monastica antica, il codice di vita che, composto in un’epoca
di duro travaglio nel passaggio dal mondo romano a quello medievale, doveva
costituire il testo a poco a poco universalmente adottato dalla tradizione
religiosa latina fino alle soglie dell’età moderna. Opera profondamente imbevuta
della tradizione e, al tempo stesso, capolavoro del genio e della spiritualità
di S. Benedetto, essa costituisce uno dei pilastri su cui poggia la nostra
civiltà occidentale. Mentre il senescente ordinamento della società antica
crolla sotto i colpi dei barbari, nell’incertezza delle istituzioni e della
stessa esistenza, le supreme ragioni della vita paiono raccogliersi intorno
all’opera di S. Benedetto, speranza di avvenire migliore per le genti latine e
germaniche, le quali nel piccolo codice del monaco italico troveranno uno degli
strumenti più efficaci per l’edificazione della
respublica christiana,
ma soprattutto il mezzo più adatto per la loro ascesi verso Dio.
La Regola, che il Santo intitolò probabilmente
Regula
o
Sancta Regula
[20], si presenta innanzi tutto
come un testo legislativo, che perciò non è nato al- l’improvviso, ma è maturato
lentamente, frutto della quotidiana esperienza, a contatto con le mille diverse
circostanze ed esigenze che l’esistenza stessa porta e suggerisce. Non sappiamo
quale sia stato, in concreto, il codice monastico vigente nel raggruppamento dei
dodici piccoli monasteri sublacensi ed è certo difficile enucleare dall’attuale
testo della Regola la forma primitiva che poté esservi seguita, dato che,
eccetto le generali prescrizioni ascetiche universalmente valide,
quell’ordinamento non ha il suo riscontro nella costituzione da S. Benedetto
fissata nella Regola. Anche dal punto di vista redazionale—evoluzione del
testo—e da quello letterario—molteplicità e datazione delle fonti utilizzate—la
Regola sembra indicare un laborioso processo compositivo che induce ad
assegnarne la stesura all’ultima fase della vita del Santo. Si ha anzi
l’impressione che l’autore non abbia potuto apportarvi tutte quelle correzioni
che egli forse desiderava, non mancando tracce di una pluralità redazionale a
riguardo di questa o di quella norma.
Per quanto non si possa cercare in una regola monastica
antica una divisione minuziosa e sistematica dei vari argomenti trattati, si può
tuttavia osservare nella Regola di S. Benedetto un piano generale di
composizione. Dopo il Prologo, esortazione previa al candidato alla vita
monastica, il c. 1 tratta delle varie specie dei monaci, il c. 2 dell’abbate, il
c. 3 del consiglio di comunità, il c. 4 degli strumenti delle buone opere
(elenco generico di virtù da praticare e di vizi da evitare), il c. 5
dell’obbedienza, il c. 6 dell’amore al silenzio, il c. 7 dell’umiltà, con cui ha
termine la sezione iniziale; i cc. 8-18 dell’ufficio divino, i cc. 19-20 delle
disposizioni necessarie nella preghiera sia liturgica sia privata, i cc. 21-30
prevalentemente della disciplina esteriore e della prassi penitenziale, i cc.
31-34 dell'ordinamento materiale del monastero, i cc. 35-42 dell’orario e della
misura dei pasti, i cc. 43-47 delle mancanze durante gli atti comuni, i cc.
48-52 del lavoro, i cc. 53-57 dei rapporti con il mondo, i cc. 58-63 del
reclutamento e della gerarchia interna, il c. 64 dell’elezione dell’abbate, il
c. 65 del priore o preposito, il c. 66 (con cui probabilmente terminava una
primitiva stesura, tosto seguita dal c. 73) del portinaio, mentre i cc. 67-72
costituiscono un’aggiunta ulteriore su alcuni particolari punti della
disciplina.
Quando S. Benedetto, probabilmente negli ultimi anni
della sua vita, si accinse a comporre una regola per i suoi monaci, dando così
forma concreta e giuridica al suo insegnamento già, senza dubbio, seguito nella
pratica, trovava una copiosissima letteratura monastica, sia orientale che
occidentale, da cui non poteva prescindere e di cui, di fatto, si servì
largamente. Gli studi di questi ultimi decenni hanno dimostrato quanto appunto
egli abbia attinto a tale produzione non solo dal punto di vista ideologico, ma
anche da quello letterario. Spetta al Butler
[21]
il merito di aver iniziato la raccolta sistematica delle fonti patristiche e
monastiche della Regola, nel qual campo, nuovi, importanti contributi sono stati
portati dalle indagini posteriori. Qualunque sia stata la sua cultura classica,
che nella Regola non compare direttamente, S. Benedetto conosce e cita un numero
considerevole di autori, dai Padri Apostolici ai grandi Dottori ecclesiastici
dei secoli IV-V, dalle versioni latine delle regole monastiche orientali alla
più importante produzione ascetica a lui contemporanea, dimostrandosi poi
familiarissimo con la Sacra Scrittura, specialmente con il Salterio e con S.
Paolo. Da tutti questi autori S. Benedetto toglie citazioni, letterali o libere,
che egli fonde nel crogiuolo della propria personalità stilistica ed ascetica,
non arrestandosi per lo più al senso di un testo preesistente, cui, una volta
inglobato nella propria opera, comunica come una vita nuova ed un nuovo
significato.
Il Santo ha saputo assumere il meglio della
precedente tradizione ascetica, rifacendosi ai grandi maestri della spiritualità
monastica, tra i quali, in Occidente, un posto di prim’ordine spettava a
Cassiano. Tale autore è infatti più che utilizzato, addirittura posseduto da S.
Benedetto, che ricorre spessissimo all'insegnamento generale di quello, per
mezzo del quale ebbe occasione di conoscere la tradizione monastica dell’Oriente
già elaborata da uno spirito occidentale
[22]. I suoi scritti, poi, il Santo
raccomanda (c. 73) ai desiderosi di un ulteriore progresso nella vita della
perfezione. Tra le regole monastiche anteriori S. Benedetto si serve di quella
di S. Pacomio, di S. Basilio, della
Regula Orientalis, di quelle di S. Cesario
d’Arles, della I e della II
Regula Patrum,
del
De
Ordine monasterii, dell'Epistola
211 di S. Agostino; anche le
Vitae Patrum e la
Historia Monachorum tradotta da Rufino vengono abbondantemente utilizzate accanto
ad altre opere di minore importanza. Fra le opere patristiche egli cita
specialmente S. Cipriano, S. Girolamo, S. Leone, i testi dei sacramentari
romani. Dal punto di vista redazionale, va notato che alcune di queste fonti ci
riportano ad un’epoca abbastanza tardiva, al 534 la
Regula ad Virgines di S. Cesario, dopo il 536 la
versione latina del V libro delle
Vitae Patrum
per opera del diacono Pelagio, confermando la posteriore composizione e
datazione del codice benedettino.
Il problema delle fonti e della composizione della Regola è tuttavia apparso in
una luce nuova in seguito allo studio dei rapporti tra tale Regola e la
cosiddetta
Regula Magistri, una regola di ignoto autore così
intitolata da S. Benedetto d’Aniano nel sec. IX e che, già ritenuta una prolissa
amplificazione della prima, è stata invece recentemente indicata come sua fonte
[23]. Di essa S. Benedetto
utilizza in modo particolare ed in forma quasi letterale la sezione
corrispondente al Prologo ed ai cc. 1-7, ove si enunziano i principi più
generali dell’ascesi monastica; la corrispondenza, però, prosegue anche in
seguito, sebbene sotto forma di parallelismo ideologico, fino al capitolo
trattante del portinaio, con il quale, come abbiamo ricordato, si arrestava una
prima stesura della Regola benedettina. Le due Regole hanno quindi in comune lo
schema generale della composizione, pur possedendo ciascuna una propria
fisionomia, conseguenza di due diverse mentalità.
Mentre si riteneva comunemente che codesta
Regula Magistri
dipendesse da quella di S. Benedetto e dovesse essere datata al sec.
VII,
nel 1938 cominciarono ad apparire i primi studi
prospettanti un inverso rapporto di dipendenza. La questione, sollevata da D.
Agostino Genestout di Solesmes
[24], venne dibattuta assai
accanitamente e con alterne vicende tra i sostenitori della nuova teoria e i
difensori della posizione tradizionale, costituendo una delle più importanti
controversie del campo storico-patristico di quest’ultimo secolo ed avviandosi,
nella sua ultima fase, verso un più netto e generale riconoscimento della
dipendenza di S. Benedetto. Essa, ad ogni modo, ha notevolmente accresciuto le
nostre conoscenze non solo su questo aspetto particolare, ma un po’ su tutti i
problemi riguardanti l’origine e le fonti della Regola nonché sulle istituzioni
del monachesimo antico, per cui oggi non è più possibile avere una comprensione
adeguata del testo di S. Benedetto e della sua genesi letteraria senza tener
conto, per i capitoli comuni e anche per quelli paralleli, della
Regula Magistri. Senza dubbio, il testo della Regola di S. Benedetto presenta
molti problemi anche prescindendo dalla questione dei suoi rapporti con la
Regula Magistri;
ma tale questione, in un certo senso, li abbraccia e li comprende tutti, sia
quello strettamente testuale—come è visibile nella duplice finale del Prologo
secondo le diverse classi di manoscritti e nella redazione terminante al
capitolo dei portinai—sia quello delle fonti, dato che conseguentemente molte di
esse derivarono a S. Benedetto per tramite di quella Regola, della liturgia,
della spiritualità stessa.
Gli argomenti più forti in favore della dipendenza di S. Benedetto dalla
Regula Magistri sono costituiti dal fatto che codesta Regola presenta, nei
passi comuni, un testo più primitivo e fedele al testo delle fonti utilizzate,
in particolare i Salmi e Cassiano, laddove S. Benedetto si discosta spesso dal
loro senso letterale. Tale Regola, poi, benché infarcita di innumerevoli
digressioni, testimonianti una complessa storia testuale, rivela sotto certi
aspetti una sua struttura più unitaria non solo quanto all’uso o all’esclusione
di certe determinate formule, ma anche quanto alla concezione generale della
schola e del
magister,
che S. Benedetto invece adotta solo in parte, precisamente nella sezione comune
iniziale. La
Regula Magistri si presenta insomma come il blocco omogeneo ma informe da cui
S. Benedetto ha saputo trarre il proprio capolavoro, il quale tuttavia permette
ancora di scorgere le tracce di tale derivazione e le aggiunte personali del
santo Legislatore.
A questa constatazione porta l’esame dei testi nella loro redazione attuale e da
ciò ha tratto precisamente motivo la mutata considerazione del rapporto di
dipendenza fra le due Regole. Altre soluzioni del problema sono state cercate,
partendo proprio da quella constatazione, in una supposta, duplice redazione
della Regola di S. Benedetto, dalla cui forma primitiva dipenderebbe la
Regula Magistri stessa che ne conserverebbe perciò
il testo più arcaico, poi riveduto e modificato da S. Benedetto nella stesura
definitiva della propria opera
[25], ipotesi non richiesta dalla
condizione verificabile dei testi che suggeriscono invece una soluzione più
ovvia e documentabile. A tale teoria conservatrice altre hanno fatto seguito.
Insistendo sul carattere interpolatorio di molti capitoli della
Regula Magistri,
alcuni studiosi hanno semplicemente ribadito l’opinione tradizionale della sua
posteriorità e dipendenza nei riguardi di S. Benedetto. Sennonché, proprio i più
antichi manoscritti della
Regula Magistri
presentano già un testo interpolato, nel senso che si pongono al termine di un
lungo processo testuale alla cui origine deve supporsi un testo molto più
ridotto.
Ad ogni modo, S. Benedetto sembra dipendere da un testo di quella Regola
sostanzialmente identico a quello giunto fino a noi, con tutte le sue
interpolazioni, che, stucchevoli quanto si vuole dal punto di vista stilistico,
rendono tuttavia ragione dei paralleli e semplificati passi del codice
benedettino. Dopo la parte comune iniziale—Prologo e primi sette capitoli—S.
Benedetto ha anticipato la sezione dedicata al codice liturgico, togliendo poi
in genere « il troppo e il vano » dalle macchinose e complicate prescrizioni
della
Regula Magistri. Tale nuovo rapporto di dipendenza
sembra talmente fondato e oggettivo che si è perfino giunti ad attribuire
entrambe le Regole al medesimo autore, S. Benedetto, il quale avrebbe composto
in età giovanile l'opera più prolissa ed in seguito, con il maturarsi
dell’esperienza, ne avrebbe curato egli stesso un compendio, più chiaro e
sintetico
[26]. Esclusa però, a causa della
differente levatura morale che traspare nelle due diverse Regole, l’identità
d’autore, anche codesta teoria conferma la necessità di considerare la
Regula Magistri
come anteriore a quella di S. Benedetto e sua fonte primaria.
Grande è quindi il contributo che la
Regula Magistri
reca alla comprensione dei precedenti testuali dell’opera di S. Benedetto,
inducendo anche per tale via a ritardarne la redazione verso gli ultimi anni
della vita del Santo. Più che le fonti letterarie, meno recenti specialmente
nella sezione iniziale, sono soprattutto alcune prescrizioni liturgiche, come la
recita di Prima ed il tempo di Sessagesima, a fissare la redazione definitiva di
quella Regola verso gli anni 530-540, assegnando perciò un
terminus post quem alla stesura della Regola
benedettina che dipende da un testo in cui tali prescrizioni figurano. Come
abbiamo visto, verso tale epoca ci sospingono pure altre fonti —S. Cesario ed il
libro V delle
Vitae Patrum—utilizzate dalla Regola benedettina indipendentemente, mentre
la
Regula Magistri, nel caso, sembra non conoscerle ancora. Soltanto poi nei
passi comuni—altro indizio di omogeneità redazionale in questa e di
discontinuità in quella—vengono citate espressioni appartenenti alle
Passiones apocrife dei martiri che la Chiesa
Romana non accettava e che infatti S. Benedetto, nelle parti proprie, non cita
più
[27].
Notevole pure la circostanza che i pochi, ma assai antichi manoscritti della
Regula Magistri sono databili ad appena alcuni
decenni dalla morte di S. Benedetto, recando quindi, anche da questo punto di
vista, un prezioso contributo allo studio del testo e della lingua del santo
Patriarca, la cui Regola è invece trasmessa da manoscritti ben posteriori. Il
più antico codice di quella Regola anonima è stato infatti datato al 580 circa
(Cod. Paris. Lat. 12634), presupponendo inoltre, a causa del suo carattere
antologistico, un testo integrale redatto molti decenni prima, con notevoli
varianti nei confronti dell’altro antico e pressoché unico manoscritto, il Cod.
Paris. Lat. 12205, dell’anno 600 circa
[28]. Se quindi la controversia
circa la priorità dell’una o dell’altra Regola non è risolta semplicemente dalla
datazione di codesti manoscritti, posteriori, in ogni caso, alla morte di S.
Benedetto, la loro alta antichità ed il loro distacco di oltre un secolo dal più
antico codice della Regola benedettina, il Cod. Oxoniensis 48, impone certo un
complesso di problemi tra l'altro anche a riguardo della prima propagazione del
testo di S. Benedetto. Esso, perciò, negli ultimi decenni del sec. VI, era
ancora alla pari o in second’ordine nei confronti di quella Regola anonima
[29].
Come S. Benedetto poté venire a conoscenza della
Regula Magistri, ossia da quale ambiente geografico e monastico essa proviene?
Un complesso di indizi, letterari e dottrinali, dopo una supposta origine
dacica, ispanica, lombarda o provenzale, sembra fondare sufficientemente
l’ipotesi di una sua provenienza dall'ambiente romano o da una regione assai
prossima a Roma; i suoi più antichi manoscritti provengono ad ogni modo
dall'Italia meridionale e ci riportano ad un’epoca di poco posteriore a quella
di S. Benedetto. A causa di quest’ultima circostanza si è voluto vedere
precisamente in tale Regola anonima l'opera stessa del grande Patriarca italico,
la Regola ricordata da S. Gregorio e caduta ben presto in dimenticanza,
soppiantata da quella che poi
tutto il Medio Evo chiamò
Regula S. Benedicti, la quale sarebbe sorta in
ambiente gallico, nei primi decenni del sec.
VII,
come un compendio di quella
[30]. Ma, a parte la priorità
letteraria della
Regula Magistri, un complesso di prove convergenti conferma l’autenticità del
codice benedettino che può essere attribuito solo a S. Benedetto e non ad altri.
La questione della priorità cronologica e dei rapporti letterari con la
Regula Maestri ha quindi sollevato, sia pure per un momento e solo
accidentalmente,
il
problema dell’autenticità stessa
della
Regola
benedettina, indipendentemente
da ogni ricerca sulle sue fonti. L’occasione non ha avuto altra conseguenza se
non di confermare più saldamente la paternità di S. Benedetto a riguardo della
Regola che porta il suo nome e che tutta la posterità medievale gli ha
attribuito senza esitazione, circostanza di fronte a cui la stessa dipendenza
letteraria dalla
Regula Magistri appare come un particolare secondario. Quale sia stato perciò
l’apporto di fonti e di regole anteriori, la Regola rimane sostanzialmente opera
di S. Benedetto: oltre le indubbie analogie tra le sue stesse prescrizioni ed i
particolari della biografia gregoriana alludenti a peculiari norme della Regola,
talvolta in contrasto con quelle della
Regula Magistri, ne costituisce una valida conferma
la lingua, del tutto corrispondente all’evoluzione raggiunta, nel sec. VI, dal
latino cristiano, nonché l’unanime ed antica attribuzione a S. Benedetto da
parte della tradizione manoscritta
[31].
Il problema delle fonti, di cui la
Regula Magistri
costituisce senza dubbio una delle principali, riguarda però prevalentemente la
preistoria del testo della Regola benedettina e la sua redazione letteraria, ma
non ne spiega l'incomparabile superiorità nei confronti di tutta la letteratura
monastica anteriore e contemporanea, che essa ha saputo appunto selezionare ed
assimilare giungendo ad una sintesi che lascia indietro di parecchio le altre
regole monastiche, iniziando una via nuova nella storia del monachesimo e della
spiritualità dell'Occidente. Proprio il confronto con la
Regula Magistri, istituendo un termine di paragone, permette di constatare
l’enorme progresso compiuto da S. Benedetto, più che se egli non avesse
conosciuto ed utilizzato alcuna opera anteriore. Sacrificando ogni
convenzionalismo retorico ed artificiale, egli è giunto ad una costruzione tutta
sua, nella quale, se sono ancora materialmente riconoscibili gli elementi
desunti dalle varie fonti, uno spirito nuovo vivifica ogni prescrizione ed ogni
ordine, ma soprattutto una concezione equilibrata e sapiente rende la precedente
esperienza del monachesimo più fruttuosa e feconda.
La costituzione del cenobio è, tra l’altro,
particolarmente propria a S. Benedetto, il quale, forse più che al suo
temperamento romano, deve alla propria indole meditativa e ordinata la solidità
di un edificio che doveva sfidare i secoli. Lo studio delle fonti letterarie,
riconoscendo i propri limiti, non spiega quindi veramente l'intima natura della
Regola, che, come il suo autore, appare quasi al di fuori di ogni decisivo
influsso esterno, traendo solo dalle sorgenti dell’anima l’ispirazione suprema
dei suoi ordinamenti.
Va inoltre ricordato di quale fondamentale importanza fosse per gli antichi il
concetto di tradizione, valido non solo nel campo ideologico, ma anche in quello
letterario, specialmente in opere che, come le regole monastiche, non mirano ad
una particolare originalità formale, ma tendono ad inserirsi nel vivo della
precedente esperienza ascetica, assumendo uno speciale atteggiamento per lo più
soltanto nell’ordinamento concreto della comunità. Ma anche sotto tale aspetto
la Regola benedettina si presenta veramente come qualche cosa di nuovo, tale
cioè da costituire il confluente di tutta la tradizione monastica rielaborata da
una personalità così vigorosa che traspare attraverso ogni pagina ed ogni
prescrizione. La Regola di S. Benedetto rimane perciò come una delle opere più
originali di tutta la letteratura patristica e monastica e ad
essa soltanto fa capo l'immensa progenie
del
monachesimo
medievale.
Un atteggiamento analogo a quello assunto nei riguardi
delle fonti letterarie è dato scorgere in S. Benedetto quanto ai personali mezzi
espressivi, ossia alla lingua. Essa, nella Regola, è quella resa tradizionale
dall’uso monastico innestatosi sull’evoluzione del latino cristiano: come S.
Benedetto si è servito della letteratura monastica contemporanea, cosi si è
espresso nella lingua del suo tempo e del suo ambiente. Tale lingua da tempo non
era più la lingua della tradizione letteraria classica, dalla quale, se non si
era ancora separata in maniera definitiva come accadrà di lì a qualche decennio,
differiva tuttavia notevolmente, avvicinandosi sempre più al latino vivente e
semplice della tradizione monastica. Quest’ultimo è, a sua volta, largamente
debitore delle antiche versioni latine della Bibbia, di cui, per le particolari
esigenze della vita religiosa, ha sviluppato specialmente alcuni vocaboli ed
alcune espressioni.
Solo quindi prescindendo da un purismo linguistico
irragionevole ed antistorico è possibile rendersi conto del posto occupato dalla
lingua di S. Benedetto nell’ambito dell’evoluzione linguistica del sec. VI,
quando cioè vengono a cessare non solo le leggi ma il senso stesso ed il gusto
della grammatica « tradizionale », disperatamente ma vanamente difesa dagli
scrittori puristi dell’epoca, come Cassiodoro. I nominativi assoluti, la
prevalenza dell’accusativo, la libertà nell’uso delle preposizioni indicano che
i fenomeni morfologici stanno cercando una via propria, mentre anche la sintassi
va adeguandosi alle nuove tendenze sorte in seno alla lingua corrente, più viva
che mai negli ambienti monastici. Pure l’ortografia si adatta alla fonetica
usuale che aveva in gran parte perduto il concetto della funzione distintiva
delle terminazioni, avviandosi verso una grande indipendenza, giunta poi al suo
culmine nelle lingue romanze.
Lo stesso fenomeno, in maniera ancor più evidente perché meno soggetto a
varianti nella tradizione manoscritta e più facilmente riconoscibile, si
verifica nel campo lessicale, in cui l’uso monastico possiede ormai una
terminologia caratteristica, particolarmente abbondante nel settore liturgico.
Ed infatti i cc. 8-18 del codice liturgico di S. Benedetto presentano la maggior
parte di tali nuove forme oltre che sintattiche anche lessicali, diffuse e rese
immutabili dalla prassi quotidiana. S. Benedetto offre, poi, come nel caso di
missae,
interessanti esempi di polisemia causata da una
differenziazione linguistica che talvolta si basa anche su di una identità
etimologica fortuita. Un esempio tipico è quello di
conversatio, cui S. Benedetto annette alcuni particolari significati,
oltre quelli già accolti negli ambienti monastici, in conformità con la generale
tendenza della terminologia monastica di considerare come propri anche termini
già in vigore, con un senso più largo, nel latino cristiano
(Fratres, servus Dei, militia).
Una nota di schiettezza e di virilità distingue in sostanza la lingua di S.
Benedetto, il cui spirito ordinatore si rivela spesso in formule di sapore
giuridico, alcune delle quali suggerite dai testi della liturgia romana. Una più
diretta preoccupazione di eleganza stilistica compare poi nelle assonanze del
cursus metrico e ritmico affioranti
frequentemente, anche se non dappertutto, nella sua prosa, il cui contenuto
tuttavia egli non subordina mai all’armonia estrinseca di tali clausole
[32].
Codeste osservazioni fatte a riguardo della lingua
sono tanto più valide in quanto, per un caso davvero eccezionale nella storia
dei testi antichi, possiamo risalire ad un esemplare della Regola distante
soltanto di una copia intermedia dall’autografo, salvato dai monaci cassinesi
durante la prima distruzione di Montecassino (a. 577) ma andato poi distrutto in
un incendio a Teano nell’896. Infatti nel 787 Carlo Magno, desideroso di
risalire all’originaria tradizione benedettina a cui tutti i monasteri del suo
impero avrebbero dovuto uniformarsi, chiedeva ed otteneva dall’abbate di
Montecassino Teodemaro una copia dell’autografo. Benché anche questa copia sia
andata in seguito perduta, due monaci di Reichenau ne traevano verso l’820 una
nuova copia, fedele fino allo scrupolo, il celebre Cod. Sangallese 914, che
fornisce quindi un ottimo fondamento per la ricostituzione del testo primitivo
[33]. Tale derivazione pressoché
diretta dall’autografo è stata esposta in uno studio tuttora fondamentale da
Ludwig Traube
[34], studio che, se appare ben
saldo sul terreno storico-paleografico, ancor maggiore solidità rivela su quello
filologico-linguistico, giacché il Codice di Sangallo riproduce le esatte
caratteristiche del latino cristiano e monastico del sec. VI e le sue presunte «
sgrammaticature » non possono in alcun modo venire attribuite all’imbarbarimento
dei secoli posteriori
[35].
Su di un piano parallelo al Codice di Sangallo vanno posti, benché di non eguale
autorità, altri codici che trasmettono un testo molto simile a quello in quanto
anch’essi dipendono dalla copia imperiale, il Vindobonense 2232, il Monacense
28118 contenente il
Codex Regularum
di S. Benedetto d’Aniano, il Monacense 19408 di Tegernsee, tutti del sec. IX e
rappresentanti, come il Sangallese, il testo « puro ». A codesta classe « pura »
appartengono inoltre i codici della tradizione cassinese, tra i quali il più
fedele è il Cod. 175, trascritto durante l’esilio a Capua agli inizi del sec. X.
Nulla di preciso si sa sulla diffusione della Regola
per opera di Simplicio, secondo successore di S. Benedetto a Montecassino, come
vorrebbe una posteriore tradizione rappresentata da alcuni versi che rivendicano
appunto tale merito a quell’abbate
[36]. È certo che molto presto ebbe
corso nei monasteri un’altra recensione della Regola, tendente a modificare
alcuni particolari sia di carattere istituzionale che stilistico, a mano a mano
che le esigenze esterne richiedevano tale trasformazione: è questo il cosiddetto
testo « interpolato »
rappresentato già dal più antico manoscritto a noi
noto della Regola, il Cod. Hatton 48 della Bodleiana di Oxford, trascritto
probabilmente a Canterbury intorno al 700. Anche questa seconda classe, di
origine probabilmente romana, comprende numerosi codici. Una correzione ancor
più sistematica del testo « puro » dal punto di vista linguistico ha dato
origine, verso l'epoca carolingica, al cosiddetto
textus receptus,
di quasi generale adozione, che fa la sua più antica comparsa nel Commentario
alla Regola attribuito a Paolo Diacono e le cui singole lezioni furono segnalate
in margine dai due monaci trascrittori del Codice di Sangallo. Benché la
provenienza storica del testo « interpolato » e quindi i suoi rapporti con
quello « puro » non siano ancora del tutto chiari, l’autorità della tradizione
testuale rifacentesi al Codice Sangallese è tale che dà pieno affidamento per la
ricostituzione del testo genuino, confermando anche sotto questo punto di vista
la sua discendenza dall’autografo. Pure dal lato storico-liguistico, tra
l’enorme quantità di manoscritti della Regola, è perciò possibile risalire
all’originale uscito dalle mani stesse di S. Benedetto e poi diffuso,
interpolato, modificato, riprodotto in oltre mille edizioni, attraverso i lunghi
secoli della sua storia
[37].
È probabile che, se non tutte, parecchie almeno delle
Regole anteriori utilizzate da S. Benedetto nella stesura del proprio codice
monastico fossero osservate in quell’epoca nei vari centri monastici della
Penisola. Nessuna di esse, però, poteva fornire un organico e solido ordinamento
monasteriale, in quanto prive, quale più e quale meno, di una vera concezione
giuridicamente fondata, come invece l’ambiente e la mentalità latina sembravano
richiedere. S. Benedetto si accinse perciò alla composizione di una Regola con
lo scopo senza dubbio di fissare in maniera stabile quelle norme che egli aveva
elaborato e che in parte erano già osservate nelle sue fondazioni.
Anche non ammettendo un incarico dell’autorità ecclesiastica, S. Benedetto
giunse ad una costruzione notevolmente evoluta nei riguardi degli ordinamenti
monastici allora in vigore ed è precisamente per il suo nuovo ordinamento che la
Regola otterrà nei secoli successivi una così vasta diffusione, sostituendo a
poco a poco, in Italia e fuori, sia pure talvolta con una forma di compromesso,
tutte le altre regole. Il successo ottenuto dal codice benedettino, destinato in
origine come tutte le regole antiche principalmente alla comunità del
legislatore, è quindi storicamente da ricercare nelle sue doti intrinseche, in
primo luogo nella sua armonica costruzione della comunità monastica, ben
articolata nella sua varia e pur semplice gerarchia. Precisamente alla comunità
in quanto tale S. Benedetto indirizza la sua Regola, non ai singoli monaci e
nemmeno all’abbate, giacché « tutti, in tutto devono seguire la regola » (c. 3).
S. Benedetto vuole legiferare solo per i cenobiti (c. 1), i quali hanno bisogno
di un codice appunto per le esigenze ordinative del cenobio e per la funzione
pedagogica che ivi esercita il legislatore. Anzi, il ricordo delle altre
categorie di monaci, in tale primo capitolo, sembra dovuto piuttosto alla
fedeltà verso un tradizionale schema letterario tanto esse ormai sono superate
dal nuovo ordinamento cenobitico. Il codice di S. Benedetto è quindi veramente la « Regola dei monaci
», anche se tale titolo non è certo dal punto di vista
filologico. Retto e governato da questa Regola, il monastero acquista una sua
precisa fisionomia, quella per cui esso diventa il cenobio benedettino.
Ogni categoria di persone, liberi e servi, fanciulli e adulti, ne può far parte
e a tutti l’abbate comunica le cure della sua paternità. Il monaco è tale in
virtù della sua professione, il cui rito S. Benedetto stabilisce nel c. 58
De disciplina suscipiendorum fratrum.
Il postulante, accolto nel monastero e, sotto la guida di un monaco
esperimentato, provato nelle varie virtù che dovrà praticare, al termine
dell’anno di noviziato promette nell’oratorio del monastero la stabilità, la
conversione dei suoi costumi e l’obbedienza, facendone una
petitio
scritta da riporre sull’altare: il versetto
Suscipe me Domine
chiude il rito che consacra il monaco al servizio di Dio nel monastero. La
frequenza, però, di postulanti ancora fanciulli ha indotto il santo Legislatore
ad aggiungere un apposito capitolo, il c. 59, a riguardo della professione di
chi è ancora « puer minori aetate », in cui vece la
petitio è fatta dai genitori. Circa il vincolo giuridico, secondo una
consuetudine già diffusa, la
petitio
redatta dai genitori ha il valore definitivo ed irrevocabile di quella del
novizio già adulto, per cui il fanciullo, offerto—« oblato »—al monastero, è
impegnato alla vita monastica per sempre ed anche nel resto della Regola viene
per altro considerato come un vero monaco
[38].
Oltre gli elementi già ricordati, anche sacerdoti (c. 60) e monaci di altri
monasteri (c. 61), benché con alcune cautele, possono entrare a far parte della
comunità, nella quale per altro i sacerdoti non sono ancora molto numerosi (c.
62) e la maggior parte dei monaci non ascende agli ordini sacri. Per tale motivo
si comprende come il monastero di S. Benedetto non abbia molte occasioni di
contatti con l’esterno, non prevedendosi nella Regola una particolare attività
di cura d’anime o di partecipazione alla gerarchia ecclesiastica. È invece
accuratamente stabilita e descritta una gerarchia interna, un
ordo congregationis,
determinato dall’anzianità monastica o dalla libera scelta dell’abbate (c. 63).
A capo del monastero è l’abbate, elemento centrale di tutta la concezione
monastica di S. Benedetto, padre dei monaci e responsabile delle loro anime più
che incaricato del buon andamento amministrativo ed economico della comunità. La
figura dell’abbate, anche fuori dei due capitoli espressamente dedicatigli (cc.
2 e 64), è continuamente presente nella Regola: egli presiede la celebrazione
liturgica, stabilisce per i colpevoli la misura del castigo, nomina i vari
ufficiali del monastero che sono soltanto dei suoi rappresentanti ed hanno
perciò un potere derivato e limitato. Egli è eletto dal seno della comunità in
base ai meriti e alla dottrina spirituale: l’intervento del vescovo diocesano è
previsto soltanto in caso di abusi, mentre normalmente non viene supposta alcuna
particolare ingerenza di quest’ultimo nell’andamento della comunità, per cui la
congregatio dei monaci, ossia la comunità
monasteriale, è completamente autonoma
[39].
Tutto dipende dall’abbate, sulle cui doti S. Benedetto insiste lungamente,
affinché si dimostri veramente degno del nome di « padre » che egli porta: tutte
le doti si riassumono infatti in quella della paternità spirituale, per cui i
monaci, mediante la loro fede, devono riconoscere in lui il Cristo. In
conseguenza di ciò l’ufficio abbaziale è perpetuo, conferendo alla vita della
comunità una continuità che la pone fuori di continui cambiamenti d’indirizzo.
Non sembra che S. Benedetto abbia desunto propriamente il suo concetto
dell’abbate da quello del romano
pater familias,
poiché, oltre il diverso ambito di codeste due funzioni, per il Santo, come per
tutta la tradizione monastica antica, il monastero non è principalmente una
famiglia, bensì una riproduzione della primitiva comunità cristiana dell’età
apostolica o addirittura di quella di Gerusalemme, a cui in modo aperto egli si
riferisce (cc. 34 e 55).
Altri monaci partecipano in qualche modo del potere
dell’abbate: in primo luogo S. Benedetto nomina i decani (c. 21) cui sono
affidate le singole decanie, raggruppamenti di monaci divisi forse secondo le
arti e i mestieri esercitati. Unicamente a loro il Santo vorrebbe affidare la
sorveglianza immediata di tutta la comunità, accettando malvolentieri
l’istituzione del preposito o priore (c. 65), che, per essere solo tra l’abbate
ed i monaci, può più facilmente insuperbirsi e considerarsi quasi un altro
abbate. Al fine di evitare tali « scandala gravia » anche il preposito deve
essere eletto dall’abbate e può essere rimproverato fino a quattro volte—mentre
i decani solo fino a tre volte—dopodiché può venir destituito e, in caso
d’incorreggibilità, anche espulso. Da ciò si vede con quanta esitazione S.
Benedetto si sia indotto ad accettare la carica del preposito, preferendo
personalmente—« si potest fieri »— che alle varie necessità del monastero si
provveda mediante i soli decani.
Dell’amministrazione propriamente detta è incaricato il cellerario che deve
interessarsi di tutto dimodoché, per la sua cura, nessuno abbia a rattristarsi
nella casa di Dio (c. 31); anch’egli, però, è sottomesso all’abbate e se le
ristrettezze non gli permettono di accontentare tutti, saprà con un « sermo
bonus
» dare prova della sua umiltà e buona volontà, facendo in modo
che tutto venga dato e richiesto a tempo debito, « horis competentibus
». Il medesimo spirito viene chiesto anche a chi ha cura dei
malati (c. 36) e degli ospiti « i quali non mancano mai in monastero
» (c. 53), suggerendo perfino l’istituzione di una mensa a
parte, per l’abbate e per gli ospiti (cc. 53 e 56). Il servizio di cucina è
affidato a due monaci a turno per un intero anno, mentre quello della mensa è
settimanale (c. 35); alla mensa, poi, non deve mai mancare la lettura,
evitandosi ogni discorso e rumore (c. 38).
Inquadrata in codesto ordinamento, di cui abbiamo esposto soltanto le grandi
linee, la comunità monastica può svolgere la propria attività nell’ambito del
monastero, cui ogni monaco è legato dal vincolo della stabilità. I « claustra
monasteri » (c. 4) costituiscono infatti l’ambiente naturale entro il quale i
monaci devono operare, secondo un orario fissato minutamente a riguardo sia
delle ore di preghiera che di quelle di lavoro, in armonia però con la diversa
durata delle giornate nelle differenti stagioni. In media, la levata viene
fissata alle ore 2 (mezz’ora più tardi d’inverno) per la celebrazione
dell’ufficio notturno, seguito, dopo un breve intervallo, dall’ufficio
dell’aurora (le Laudi); dopo un altro intervallo, dedicato alla
lectio
e alla
meditatio, segue l’ora di Prima, cui, in estate, tengono dietro
parecchie ore di lavoro manuale e, durante la Quaresima, la lettura. Alle ore 9
viene celebrata la breve ora di Terza seguita dal lavoro manuale e, in estate,
dalla lettura; alle 12 Sesta, poi il pranzo ed un po’ di riposo. D’inverno però
e nei mercoledì e venerdì d’estate il pranzo è ritardato dopo Nona (ore 14) e in
Quaresima dopo Vespro (ore 17), tra le quali ore i monaci attendono alle loro
diverse occupazioni. Il Vespro deve celebrarsi alla luce del giorno, seguito
dalla cena, se il periodo dell’anno, tempo pasquale ed estate, lo permette. La
lettura in comune delle Collazioni di Cassiano e l’ora di Compieta chiudono la
giornata, verso le 19,30 d’estate e le 17,30 d’inverno. Quanto alle altre
occupazioni giornaliere, il monaco deve attendere per sei o addirittura otto ore
al lavoro e per altre quattro alla lettura.
Il cibo è costituito da due pietanze cotte e da verdura,
con una misura sufficiente di pane e di vino, particolare, quest’ultimo, in cui
S. Benedetto si discosta consapevolmente dalla tradizione monastica orientale
(cc. 39 e 40). Circostanze speciali di lavoro o di stagione possono poi indurre
l’abbate ad aumentare la razione affinché i monaci lavorino senza lamentarsi.
Una analoga norma di discrezione assegna al monaco, come vestito, due tuniche e
due cocolle, oltre allo scapolare per cingersi durante il lavoro e alle
opportune calzature; in viaggio gli abiti devono essere un po’ migliori di
quelli portati abitualmente, ma il monaco deve ricevere tutti codesti oggetti
dal superiore, non essendogli assolutamente permesso riceverli da altri.
Per le questioni di maggior importanza, l’abbate deve radunare tutti i monaci a
consiglio, decidendo poi come gli parrà più opportuno; per altre d’interesse più
limitato è sufficiente il consiglio degli anziani (c. 3). I contatti con
l’esterno devono essere ridotti al minimo, evitando non solo di uscire dal
monastero (c. 66), ma anche di intrattenersi senza permesso con gli ospiti (c.
33). Il monastero deve quindi trovarsi fornito di ogni mezzo necessario alla sua
vita ed al suo sostentamento; da queste « artes diversae » è nato o meglio è
stato incrementato un tipo di economia che può già ben dirsi curtense, in quanto
che la comunità tende a rendersi indipendente anche sul piano della produzione,
limitando così le proprie esigenze a ciò che può essere prodotto nell'ambito del
monastero stesso. È un piccolo mondo chiuso, di scarsa importanza ed influenza
alle sue origini, ma ricco di conseguenze per l’attività economica dei secoli
successivi, allorché i monasteri rimarranno i più validi centri di produzione e
di scambio nonché di intenso sfruttamento agricolo. Già S. Benedetto suppone
l’esistenza di coloni addetti al lavoro nelle terre del monastero, coadiuvati
solo eccezionalmente dai monaci i quali sono piuttosto impegnati nelle varie
artes
del monastero. I proventi derivano, oltre che dalle donazioni degli aspiranti
alla vita monastica che possono legare al monastero le proprie sostanze, anche
dalle diverse occupazioni monastiche che hanno quindi pure un utile economico.
La celebrazione dei divini uffici, la
lectio
comune e privata, l'istruzione ai
pueri oblati
suppongono un adeguato materiale librario e l'esistenza di una biblioteca (c.
48), costituita certo quasi esclusivamente di commentari biblici e di opere
ascetiche, piccolo germe delle future grandiose biblioteche monastiche che,
dalla rinascita carolingica agli albori dell’Umanesimo, rappresenteranno, con
poche altre, le uniche raccolte librarie, moltiplicate e diffuse dalle scuole
scrittorie sorte negli stessi ambienti monastici.
Io quanto codice legislativo di una vita minutamente
determinata in tutti i suoi aspetti, la Regola contiene pure un’apposita sezione
disciplinare e penale, costituita dai cc. 23-30, oltre le sanzioni
occasionalmente fissate a riguardo di tutte le altre prescrizioni regolari. La
stessa vita comune esige che un saldo ordinamento penitenziale la preservi dagli
arbitri e dagli abusi sempre facili ad infiltrarsi in ogni convivenza umana. La
maggiore parte dei capitoli (cc. 23-29) riguarda i monaci adulti per i quali
viene stabilita la pena della scomunica (c. 23). Questa, proporzionalmente alla
colpa, può essere lieve, consistendo nell’esclusione dalla mensa comune e nel
ritardo del pasto, finché il colpevole non abbia dato congrua soddisfazione (c.
24); può anche essere più grave, portando come conseguenza l’esclusione dalla
mensa e dall’oratorio e l’isolamento completo del colpevole « persistens in
paenitentiae luctum » (c. 25). Gli effetti di tale scomunica toccano anche
coloro che senza autorizzazione si associano agli scomunicati (c. 26),
sollecitando tuttavia vivamente l’interessamento dell’abbate il quale in ogni
modo deve cercare di salvare il gregge affidatogli (c. 27) e ricorrere alla
definitiva espulsione solo in caso estremo (c. 28). I fuggitivi possono venire
riammessi nella comunità fino a tre volte (c. 29), mentre per i fanciulli ed i
più giovani il castigo consiste prevalentemente in digiuni e in battiture (c.
30).
L’aspetto storicamente più importante di tutto il
codice penitenziale stabilito da S. Benedetto consiste nella precisa
determinazione del valore giuridico di tali pene ed in modo particolare della
scomunica. Benché questo termine possa far pensare ad una censura ecclesiastica
analoga a quelle stabilite dalla suprema autorità religiosa, con gravissimi
effetti pari a quelli causati dalla scomunica canonica, è più probabile che la
scomunica prevista da S. Benedetto costituisse soltanto una pena puramente
monastica, dato che l’abbate può conferire anche ad altri la facoltà di
infliggerla (c. 70), mentre solo il vescovo ha il potere di comminare vere pene
canoniche: né è da presumere che nel sec. VI una simile delega di poteri agli
abbati, per lo più semplici laici, costituisse una prassi normale, tanto più che
anche secondo la Regola il monastero non appare affatto esente dalla
giurisdizione episcopale
[40]. Anche da codesta parte
apparentemente più severa della Regola traspare però tutta la larghezza di cuore
del Santo che, mentre si preoccupa dell’eliminazione dei difetti nei monaci e
della punizione dei colpevoli rei di aver violato le norme della Regola, non
meno insistentemente raccomanda all’abbate di usare tutti i rimedi dell’arte
spirituale per la salvezza delle anime inferme.
Per la comunità S. Benedetto ha minutamente fissato anche le norme riguardanti
la celebrazione del divino ufficio, che risulta quindi stabilito in base ad un
ordinamento particolare contenuto nei cc. 8-18 del codice liturgico, non
sappiamo se inizialmente separato, come forse anche quello penitenziale, dal
resto della Regola. La costruzione a cui, in questo campo, è giunto S. Benedetto
è opera di una geniale ed armonica elaborazione di già esistenti elementi o
formulari eucologici, da lui ordinati in un
cursus
che, con quello della Chiesa Romana, doveva conseguire la più grande, anche se
diseguale, diffusione e adozione durante il Medio Evo. Di altri ordinamenti
liturgici in vigore a quell’epoca nei monasteri italici non abbiamo notizie
precise, ma è probabile che, pur nella multiforme varietà, venisse elaborandosi
una tradizione comune mediante una unificazione il cui risultato finale è
appunto costituito dal codice liturgico di S. Benedetto. Più che
dall’adeguamento ad un
cursus preesistente, sia pure quello della Chiesa Romana, il
criterio di scelta e di sistemazione di un materiale così abbondante venne a S.
Benedetto dal suo personale gusto e discernimento per cui codesti elementi
vennero riuniti in un ben articolato
corpus
liturgico.
S. Benedetto ha diviso e distribuito la preghiera liturgica lungo il corso del
giorno e della notte in sette ore diurne ed un'ora notturna, rifacendosi per
quelle al Salmo 118,164 (Septies
in die laudem dixi tibi)
e per questa al Salmo 118,62 (Media
nocte surgebam ad confitendum tibi).
Codesta assegnazione, stabilendo in modo chiaro non solo il numero ma la
funzione stessa delle diverse ore canoniche, benché già imperfettamente e
confusamente adottata da anteriori regole monastiche, fa compiere un grande
progresso a tutto l’ordinamento liturgico, destinato a passare alla posterità in
forma inalterata. Ciò il Santo espone nel c. 16 che considera il « septenarius
sacratus numerus » come riferentesi esclusivamente alle ore diurne, nelle quali
è definitivamente compreso l’ufficio delle Laudi, mentre l’ufficio notturno
viene considerato a parte. A questo il Santo dedica i cc. 8-11, assegnandogli,
dopo due Salmi introduttori, dodici Salmi nei giorni feriali ed altri tre
cantici in quelli festivi, nei quali l’ufficiatura notturna è chiusa dal canto
del
Te Deum, dalla lettura del Vangelo e dal canto del breve inno
Te decet laus.
Tre lezioni per i giorni feriali e dodici per quelli festivi, seguite dai
relativi canti responsoriali, si intercalano al canto dei Salmi; codeste letture
sono costituite dai libri del Vecchio e del Nuovo Testamento e dai commenti
composti dai Padri « ortodossi e cattolici ». L’ufficio dell’aurora, le Laudi, è
costituito da un Salmo introduttorio, da altri tre Salmi, da un cantico secondo
l’uso della Chiesa Romana e dai Salmi 148-150, le
Laudes
che dànno il loro nome a tale ora, chiusa da un inno e dal cantico
Benedictus.
L’ora di Prima, che fa la sua comparsa solo pochi anni avanti, in S. Cesario
d’Arles, è accolta anch’essa nella Regola di S. Benedetto, a cui senza dubbio si
deve la sua definitiva assegnazione a tutti i giorni della settimana: alla
domenica verranno recitate quattro strofe del Salmo 118 e nei giorni feriali tre
Salmi interi, come è stabilito pure per le ore di Terza, Sesta e Nona. Ciascuna
di queste ore possiede inoltre un proprio inno ed una formula conclusiva. Al
Vespro vengono assegnati quattro Salmi, oltre l’inno, il responsorio, il
Magnificat ed una formula finale comprendente, come alle Laudi, anche il
Pater noster. L’ultimo ufficio della giornata, quello di Compieta, è
costituito di tre Salmi invariabili, non intercalati, a differenza di tutte le
altre ore, da antifone, per ragione di brevità, dato che tale ufficio, concluso
dall’inno e dalle solite formule finali, veniva recitato non nell’oratorio,
bensì nel dormitorio. Nel rimanente dell’ufficio, invece, i Salmi sono sempre
diversi secondo i diversi giorni, distribuzione settimanale che costituisce una
delle principali caratteristiche del
cursus
liturgico di S. Benedetto in confronto di quello delle regole anteriori.
Vari altri elementi eucologici—il
Deus in adiutorium
che apre le singole ore eccetto le vigilie notturne, i versetti, gli inni,
l’Alleluia, le preci litaniche—conferiscono
al
cursus
liturgico di
S.
Benedetto una ricchezza ed una
organicità veramente uniche. L’uno o l’altro di essi era certo
già in uso nelle liturgie monastiche, ma solo con S. Benedetto si ha un
ordinamento equilibrato ed armonico nella sua complessità, testimoniante
anch’esso la discrezione
del Santo. Egli infatti concede all’abbate di mutare
eventualmente la distribuzione dei Salmi,
purché nel corso della settimana venga recitato l'intero Salterio di 150 Salmi
(c. 18). Analogamente semplifica la salmodia stessa, da cui ha eliminato le
orazioni salmodiche intercalari, permettendo che nelle comunità meno numerose
essa venga eseguita non in maniera antifonica, bensì di rettanea, e abolendo
infine la prolungata salmodia responsoriale
[41].
Anche l’anno liturgico, allora in procinto di
raggiungere la forma definitiva. è contenuto entro il quadro più opportuno per
una regola monastica, con particolare risalto unicamente al tempo quaresimale e
l’esclusione di quelle altre settimane prequaresimali che, pur già accolte in
qualche altra regola, non costituiscono un periodo liturgico essenziale,
seguendo in ciò le sobrie linee dell’anno ecclesiastico allora in vigore nella
Chiesa Romana. Tutto l’interesse di S. Benedetto è rivolto alla Pasqua, senza
indugio su altre solennità per altro celebrate anch’esse secondo l’uso comune.
Come per le fonti letterarie, anche per l’ordinamento liturgico della Regola è
possibile constatare il vario e molteplice apporto di altri ordinamenti—romano,
gallicano, ambrosiano, orientale—di cui però non appare sempre facile stabilire
l’effettiva ed esatta misura, e per conseguenza la portata stessa delle
innovazioni introdotte da S. Benedetto. Ciononostante, a differenza di tutti gli
altri, il suo codice liturgico è notevole anche per la chiarezza e la
perspicuità delle singole prescrizioni, nonché per la matura e definitiva
formulazione di esse, non ultimo coefficiente della sua futura propagazione
[42].
Sia però a causa della facoltà concessa all’abbate sia in seguito all’unione con
altri ordinamenti monastici e liturgici, specialmente celtico-irlandesi. il
cursus di S. Benedetto non ottenne una rapida e generale diffusione
neppure nei monasteri che, per altri aspetti, si rifacevano alla sua Regola,
dato che, anche
in Italia, varie altre correnti liturgiche prevarranno per qualche tempo
sul codice fissato dal santo
Legislatore: la corrente bobbiese, l’uso romano dominante e l'influenza
ambrosiana ne ritarderanno l’adozione integrale fino all’epoca carolingica,
allorché per altro, a tale codice si affiancheranno le consuetudini particolari
dei diversi centri monastici
[43].
La costruzione unitaria di S. Benedetto, che delle varie
prescrizioni monastiche, penitenziali e liturgiche ha saputo fare un corpo
legislativo pratico ed attuale, aveva in se stessa l’efficienza e la vitalità
atte ad assicurare la vittoria su tutti gli altri ordinamenti monastici
contemporanei. Ciò senza godere di alcuna condizione esterna di privilegio nei
confronti di questi, ma superandoli unicamente in forza della propria
equilibrata discrezione, così apprezzata dalle genti latine. Con la sua Regola
S. Benedetto ha fornito veramente uno strumento insostituibile alla formazione
della nuova civiltà, la quale proprio dal saggio ordinamento monastico del Santo
ha attinto le forze e le norme per costituirsi e svilupparsi attorno alle
migliaia di monasteri che la osserveranno e la custodiranno attraverso i secoli.
L'assimilazione di tutta la precedente esperienza
monastica nel campo letterario, liturgico, disciplinare porta S. Benedetto ad
elaborare una sua sintesi anche in quello più specifico della spiritualità.
Oltre i capitoli di esclusivo contenuto ascetico, formanti come l’annunzio
programmatico e la base di tutta la Regola, anche nei capitoli apparentemente
più disciplinari e dedicati all'ordinamento esteriore, il Santo ha cura di
inserire preziosissime osservazioni e raccomandazioni che riportano ogni cosa ed
ogni norma al profitto spirituale e alla pratica delle virtù, poiché ogni
aspetto della vita monastica è da lui visto nella luce della fede e come
riflesso di una particolare concezione religiosa della vita.
Si è spesso agitata la questione se esista, in senso
proprio, una spiritualità della Regola di S. Benedetto e in che cosa essa
consista, così come si è discusso sull'esistenza di una cultura « monastica »
nel Medio Evo o sulla validità del concetto di arte « benedettina » nei secoli
che preparano l’avvento dell’arte italiana. Per rispondere alla questione
bisogna osservare innanzitutto il carattere stesso della Regola al fine di
coglierne l'atteggiamento fondamentale Va notato in primo luogo che essa, pur
presentandosi nelle parti giuridico-normative come un testo avente stretto
valore di legge, non pretende però istituire una nuova corrente di spiritualità,
rinviando anzi apertamente, nel c. 73 alla S. Scrittura e alle opere dei Santi
Padri e riservando per sé l'appellativo di « minima inchoationis Regula », quasi
un semplice abbozzo per principianti
[44].
È quindi esatta, anche in tale senso più preciso,
l’affermazione di Bossuet secondo cui la Regola di S. Benedetto costituirebbe «
un dotto e misterioso compendio di tutta la dottrina del Vangelo »
[45]. Allo sguardo pieno di fede e
di amore del Santo la vocazione monastica appare semplicemente la forma suprema
della più generale vocazione cristiana, un invito ed un impegno seguiti e
vissuti in una maniera più intensa e completa, un ritorno a Dio dopo il peccato,
lungo la via faticosa dell’obbedienza e della rinunzia a se stessi. Ciò appare
già in maniera chiarissima all’inizio del Prologo, allorché il Santo si rivolge
al candidato esortandolo a rispondere con la sua buona volontà alla divina
chiamata; la Regola quindi non intende sostituirsi al Vangelo, fonte primaria di
ogni perfezione e di ogni spiritualità, ma vuole soltanto condurre la coscienza
di quell’impegno gravissimo che è la professione cristiana alle sue ultime
conseguenze.
Per tale ragione si comprende come S. Benedetto
ricordi, fra gli strumenti delle buone opere, anche i doveri fondamentali della
vita cristiana, come il non uccidere e il non commettere adulterio (c. 4),
rivissuti in una consacrazione totale al servizio di Dio. Alla luce di questa
visione generale, anche le singole prescrizioni disciplinari hanno un valore
molto relativo, emanando dal precetto principale dell’amore di Dio e del
prossimo
[46], ed infatti S. Benedetto
ammette che si modifichino, per giustificate ed imprevedibili esigenze
particolari, alcuni punti secondari da lui fissati riguardanti sia l’ufficiatura
sia l’orario.
Un requisito fondamentale richiesto da S. Benedetto al candidato come impegno
costante per tutta la vita consiste nella sincera ricerca di Dio: « si revera
Deum quaerit » (c. 58), assillo che si manifesta nella prontezza all’ufficio
divino, all’obbedienza e alle inevitabili asprezze che la vita monastica porta
con sé. All’inizio del processo del ritorno a Dio sta il riconoscimento della
propria miseria, un interiore ed esteriore atteggiamento d’umiltà che pone
l’uomo al suo giusto posto di fronte alla presenza e alla potenza divina. Ogni
buona azione che il monaco possa compiere ha la sua radice in questa virtù,
traendone per ciò stesso una netta impronta soprannaturale. Chiamato da Dio al
suo servizio,
il
monaco dovrà tuttavia considerarsi sempre un
operaio cattivo ed indegno che riconosce apertamente tutti i
propri peccati manifestandoli al padre spirituale.
Tutto il c. 7, nei suoi dodici gradini dell’umiltà
[47], ha lo scopo di portare il
monaco al raggiungimento della perfetta carità che ha ormai superato il timore
servile, in un’azione ispirata unicamente dall’amore al Cristo. Nondimeno S.
Benedetto, erede anche in questo dello spirito del monachesimo antico, sprona
con grande energia la cooperazione dell’uomo che può, mediante la grazia divina,
elevarsi sopra il suo stato di peccato: più che alcune espressioni occasionali,
le quali potrebbero far pensare ad un influsso della terminologia «
semipelagiana », bilanciate per altro da non poche espressioni di sapore
nettamente « agostiniano »
[48], è l’energico e virile concetto della vocazione monastica ad
imporre un ardente slancio verso la perfezione: « currendum et agendum est »
(Prol.). Deve iniziarsi quindi nel monaco una « conversatio morum », una
rinuncia alla propria personalità affinché il Cristo ne prenda pieno possesso.
Il Santo è però ben conscio che i grandi privilegi spirituali sono riservati a
pochi e quindi si dimostra di notevole indulgenza verso la comune infermità,
largheggiando in concessioni dalle quali traspare tutta la sua paterna e saggia
discretio. I fanciulli, i vecchi, i malati, i pellegrini costituiscono
l’oggetto particolare della sua sollecitudine perché più vicini al Cristo
paziente, vivo e presente mediante loro nella comunità monastica. Anche le
mortificazioni esteriori non assumono quell’importanza che vi annettevano i
primi padri del monachesimo orientale. S. Benedetto vede molto più in
profondità: è la volontà propria, radice di ogni male e di ogni disordine, che
deve essere abbandonata o addirittura « odiata », mentre non tutti possono
compiere straordinarie mortificazioni fisiche. Ciò che S. Benedetto concede al
monaco, per il quotidiano ristoro delle forze, non è molto lontano dalla misura
seguita allora, pur in condizioni economiche sempre più disagiate, dalla comune
dei fedeli. Il Santo rivela in questo tutta la sua conoscenza dell’uomo, delle
sue possibilità e dei suoi limiti, in un sapiente equilibrio fra le inderogabili
esigenze ascetiche e l’esercizio della discrezione, « madre di tutte le virtù »
(c. 64). S. Benedetto non si illude sugli elementi naturali dei quali deve
servirsi per la sua costruzione spirituale: sa bene che accanto ai
capaces, intelligibiles, bonestiores, fortes, sapientes, oboedientes, mites,
patientes, utiles, ci sono pure i
simpliciores, infirmi, delicati, pusillanimes, imbecilles, inutiles,
contemnentes, duri corde, improbi, superbi, inoboedientes, iniuriosi;
ma gli uni e gli altri egli deve condurre alla salvezza eterna
per ducatum Evangelii, adattandosi a tutti, come
l’Apostolo, per guadagnare tutti a Cristo.
Per tutti però esiste una Regola che ha valore di legge,
come afferma esplicitamente S. Benedetto nel capitolo trattante dell’ammissione
dei nuovi candidati alla vita monastica: « Ecce lex sub qua militare vis » (c.
58). È un impegno solenne che il monaco non potrà più scuotere perché
liberamente assunto dopo matura deliberazione, ma soprattutto dopo
l’inestimabile bene della chiamata divina. Solo in tal modo può esplicarsi
quell’incessante sforzo della ricerca di Dio che è lo scopo ultimo del
monachesimo in ogni sua forma e organizzazione: tutti gli altri obblighi e tutte
le altre norme—clausura, separazione dal mondo, mortificazione dei
sensi—costituiscono semplicemente dei mezzi che devono portare più facilmente
all’unione con Dio sotto la guida e il primato della carità.
L’odio
al
peccato
e
la lotta contro
i
propri vizi hanno anch’essi
questo solo scopo: è l'« abnegare
semetipsum
sibi ut sequatur Christum » (c. 4). Proprio per questa più piena ed efficace
espansione della carità verso Dio e verso il prossimo S. Benedetto si è ormai
definitivamente staccato, come nella sua vita, così nella sua Regola,
dall’ideale eremitico, checché sia dell’importanza teorica o anche pratica che
esso abbia potuto rivestire in correnti ascetiche del tardo Medio Evo: la
fraterna acies (c. 1) e la
stabilitas in congregatione
(c. 4) costituiscono beni troppo preziosi perché il Santo
possa sacrificarli a ideali difficilmente raggiungibili dalla comune degli
uomini.
In questo suo amore verso il cenobio, casa comune di tutti i fratelli, S.
Benedetto vuole che esso sia anche esteriormente curato e ordinato, consapevole
che il buon andamento di esso dipende da tante piccole cose, « affinché nessuno
si turbi o si rattristi nella casa di Dio » (c. 31) e « affinché la casa di Dio
sia amministrata da saggi e saggiamente » (c. 53).
Chiave di volta di tutto l’edificio è l’abbate, giacché
l’ordinamento monasteriale è fondato sul concetto della sua paternità
spirituale, paternità che, in base ad un tipo di esegesi allora molto diffuso,
S. Benedetto fa derivare prossimamente da quella di Cristo stesso: l’abbate deve
quindi, come rappresentante del Signore, insegnare con la parola e più ancora
con l’esempio, trattando tutti con imparzialità « quia omnes in Christo unum
sumus » (c. 2). Egli è il padre spirituale dei suoi monaci e l’unico superiore
del monastero. Tutto in monastero dipende da lui; egli deve essere sempre
presente e seguire tutto l'andamento della vita cenobitica perché « egli è
responsabile di ogni eventuale fallo commesso dai discepoli » (c. 36), in modo
particolare nutrire una grande sollecitudine verso gli « scomunicati », ossia
verso quei monaci i quali, per mancanze più o meno gravi, non vengono ammessi
durante qualche tempo alla partecipazione agli atti comuni (c. 27). Dopo i
consueti provvedimenti disciplinari e tutte le risorse della prudenza umana, il
Santo sa però che il mezzo più efficace è quello della preghiera, dell’abbate e
di tutta la comunità
Tutta la vita del monaco deve svolgersi in questa atmosfera soprannaturale. Egli
ha il compito di rivestirsi dell’uomo
nuovo
non solo allontanandosi dal peccato e spogliandosi del proprio egoismo, ma
conformando tutte le proprie azioni alla volontà di Dio nella progressiva
assimilazione al Cristo. L'obbedienza è una delle manifestazioni più sicure di
questo rinnovamento interiore al quale il monaco si è impegnato per tutta la
vita, « perché l’obbedienza che si presta ai superiori si presta a Dio stesso »
(c. 5): anche in ciò il supremo modello è il Cristo, «fatto obbediente fino alla
morte » (c. 7). Della sua passione il monaco sarà reso partecipe mediante la
pazienza e la sofferenza (Prol.), per poter diventare partecipe anche del suo
Regno.
In una simile visione nettamente cristocentrica della vita interiore e
dell'attività ascetica, l‘Opus
Dei ha appunto il compito di associare il monaco al
perfetto
sacrificio di lode che il Cristo tributa al Padre da tutta l’eternità: il monaco
deve perciò partecipare agli uffici liturgici—la Messa aveva luogo probabilmente
solo alla domenica e nelle feste—con la coscienza di compiere un’azione
altissima, « in conspectu angelorum » (c. 19). Il rispetto ai valori oggettivi
della virtù della religione, implicito nella funzione e nel termine stesso di
Opus Dei, di un mistero di salvezza che Dio compie in noi e con noi
prima ancora che noi lo compiamo in Lui, non fa però dimenticare la
partecipazione intima ai misteri celebrati nella liturgia di lode, affinché
l’animo segua con tutte le sue forze la recitazione fissata con tanta precisione
dal santo Patriarca: « ut mens nostra concordet voci nostrae » (c. 19). Il
monaco è così inserito in questo grandioso movimento di ascensione verso le
verità supreme ed eterne, appunto come sono presentate e vissute nella sacra
liturgia, mezzo primario e più efficace di ogni santificazione.
« Nihil Operi Dei praeponatur » (c. 43) è la massima famosa che determina ed
esprime l’atteggiamento preferenziale nei riguardi della preghiera liturgica, la
preghiera ufficiale della comunità monastica in quanto
domus Dei,
la più importante, anche se non esclusiva, attività del monaco. L’anima in tal
modo aderisce nella maniera più intima al Cristo, al quale nulla deve essere
preposto: « nihil amori Christi praeponere » (cc. 4 e 72). A questa scuola di
santità si sono formati i maestri stessi dell’ascetica benedettina che hanno
plasmato la propria anima secondo lo spirito della sacra liturgia. S. Benedetto
non ignora però l’orazione privata che si compie « non in multiloquio, sed in
puritate cordis et compunctione lacrimarum » e che abitualmente deve essere «
brevis et pura » (c. 20), a meno che non venga protratta per una speciale grazia
divina.
Nutrito di questo sostanzioso alimento d’orazione, il
monaco vive nella comunità, che è divenuta, per il voto di stabilità, la sua
vera famiglia, una vita d’obbedienza, giacché lo spirito di fede, che gli fa
vedere ogni cosa con occhio soprannaturale, lo aiuta a scorgere il Cristo nel
proprio padre, l’abbate, e nei propri fratelli, i monaci. Diverrà allora una
gioia abitare nel monastero, amando tutti di casta dilezione, in una pienezza di
carità di cui tutta la Regola è imbevuta, in modo particolare il c. 72,
probabilmente l'ultimo a cui S. Benedetto pose mano: dopo aver esortato,
seguendo l’espressione di un’antica orazione liturgica, a temere Dio nell’amore,
esso termina con l’augurio che il Cristo conduca tutti insieme (« omnes pariter
») alla vita eterna.
Fuori dei mezzi più diretti di santificazione—la preghiera di lode in unione con
la Santa Chiesa—il monaco, da buon operaio di Dio, esercita tutti quegli
strumenti che possono giovargli nel servizio divino, rendendosi pure utile verso
il prossimo. La
lecito divina non ha, propriamente, nell’intenzione del Legislatore, un
mero scopo intellettuale o scientifico, ma da essa è nata indirettamente una
ratio studiorum monastica ben definita, nello
studio serio ed approfondito (« per ordinem ex integro », c. 48) della
tradizione ecclesiastica
[49]. Tale lettura spirituale
costituisce in ogni caso, insieme con la
meditatio, un ottimo ponte fra la liturgia di lode e lo studio vero e
proprio, giacché si esercita anch’essa sui testi sacri e sulle opere dei Santi
Padri—la Sacra Scrittura e la tradizione—quelle opere cioè che devono fornire al
monaco l’abituale nutrimento dello spirito.
Nelle ore non occupate dall’ufficiatura, che S. Benedetto suppone sempre solenne
e quindi abbastanza impegnativa anche fisicamente, o dalla
lectio divina, il monaco deve attendere a quei lavori che l’abbate, tenendo
conto delle sue capacità e inclinazioni, penserà opportuno affidargli. Pure il
lavoro, sia manuale sia intellettuale, rivalutato non solo dal punto di vista
sociale ma anche da quello ascetico, diventa così un potente mezzo di elevazione
e di santificazione per l’edificazione della Città di Dio in mezzo al mondo. Il
lavoro risulterà tanto più generoso ed efficace in quanto che il monaco, con il
vincolo della professione monastica e della stabilità nel monastero, si è
impegnato a perseverare fino alla morte in una particolare comunità: egli quindi
si sente membro di una determinata famiglia alla quale porta, anche sul piano
umano, il contributo di tutte le sue energie e capacità.
Una grande preoccupazione del Santo, che egli tiene ad
inculcare ai suoi monaci, è quella dell’ordine e della puntualità, non soltanto
nella celebrazione dei divini uffici o degli atti a cui interviene tutta la
comunità, ma anche in ogni altra circostanza ed in ogni incombenza assegnata ai
singoli individui. Ogni pretesto di personalismo deve essere bandito dal
cenobio, che agisce nella Chiesa e nella società come un ente totale, mai come
una manifestazione di individui più dotati. Il Santo mette in guardia contro
ogni forma di amor proprio e di superbia che può insinuarsi come nelle pratiche
ascetiche individuali, ad esempio nelle mortificazioni volontarie durante la
Quaresima (c. 49), così nell’esercizio di un’attività o di un’arte, fino
all'eventualità che il monaco ne sia allontanato (c. 57). Ogni azione deve
svolgersi alle ore determinate, senza improvvisazioni o ritardi; ogni oggetto
del monastero deve poi essere guardato come i vasi sacri dell’altare (cc. 31 e
32). Appunto per questo senso sociale della vita monastica, al sommo « bene »
dell’obbedienza e al fervore della carità si oppone il sommo danno della
mormorazione (cc. 40 e 53), per quanto la larghezza di spirito di S. Benedetto
ammetta anche la possibilità di una « iusta murmuratio » (c. 41).
Il Santo non concepisce la propria paternità spirituale sui suoi monaci in una
maniera rigidamente programmatica: anche la tanto spesso citata espressione «
dominici schola servitii » del Prologo costituisce qualche cosa di isolato e di
estrinseco, giacché nel rimanente della Regola tale formula, appartenente ad un
passo comune con la
Regula Magistri, non ricompare più. La spiritualità monastica nasce piuttosto
dal complesso e dallo spirito delle prescrizioni che largamente e continuamente
rinviano alle massime evangeliche. È il monastero stesso che esige, da parte del
« coenobitarum fortissimum genus » (c. 1), la pratica di tutte queste virtù
inerenti allo stato monastico. Ciò non toglie che la Regola di S. Benedetto
abbia informato di sé profondi strati della società medievale anche fuori dei «
claustra monasteri » (c. 4), ma ciò è avvenuto più per l'esempio di cristiani
liberamente votatisi al servizio integrale di Dio nel monastero, quasi
rappresentazione più visibile della Chiesa, che non mediante un influsso del
codice monastico stesso.
S. Benedetto è così diventato padre e maestro di una
moltitudine infinita di genti e di popoli che con l’esempio dei suoi monaci ha
portato al Cristianesimo e alla civiltà. Se infatti si può discutere
sull’esistenza di una spiritualità benedettina in senso esclusivo e moderno del
termine, non bisogna dimenticare che esiste una forma caratteristica di
spiritualità suggerita dalla Regola di S. Benedetto, secondo cui aderire al
Cristo nella celebrazione dei grandi misteri dell’anno liturgico,
nell'orientamento delle facoltà intellettuali verso l’approfondimento della
Parola di Dio, nel lavoro compiuto con spirito di comunità e nella stessa
attività pastorale. È la spiritualità del monachesimo antico, rielaborata da uno
spirito latino essenzialmente ordinatore e chiarificatore e messa a disposizione
di tutti coloro che « non stimano nulla più caro di Cristo » (c. 5)
[50].
Sotto la guida dello Spirito Santo, il quale compirà tali cose nell’animo del
monaco (c. 7), il cuore si dilata nel servizio di Dio, l’optimum di tutta l’esistenza terrena, in
attesa che la vita eterna coroni l’opera iniziata quaggiù: « vitam aeternam omni
concupiscentia spiritali desiderare » (c. 4). Di qui la fondamentale nota di
gioia che distingue la spiritualità di S. Benedetto da altre forme e correnti
meno aperte a tale aspetto della ricerca di Dio. L’anima si apre alla letizia
della speranza, « inenarrabili dilectionis dulcedine » (Prol.), e, nell’attesa
del Cristo Signore, si illumina di un confidente abbandono. La rinuncia ed il
distacco, mezzi indispensabili dell’ascesi monastica a cui mirano tutte le
singole pratiche esteriori, rendono in tal modo più facile e pronta l’adesione
alla volontà divina e più generoso lo slancio al servizio di Cristo vero Re
[51].
[1]
Gregorii Magni,
Dialogi, libri IV,
ed. U. Moricca
(Fonti per la storia d'Italia,
57), Roma, 1924; ed. A. De Vogüé, 3 voll., in
Sources chrétiennes,
251, 260, 265, 1978-1980.
[2]
S. Brechter,
Marcus Poeta von Montecassino,
in
Benedictus der Vater des Abendlandes,
München, 1947, pp. 341-359.
[3]
Ha dimostrato la sostanziale attendibilità storica di tale biografia,
nonostante il suo particolare scopo edificatorio, C. Lambot, La vie
et les miracles de S. Benoît racontés par S. Grégoire le Grand, in
Rev. Liturg. et Monast., 19 (1933-34), pp. 137-165.
[4]
P. Carosi. Il primo monastero benedettino (Studia Anselmiana,
39), Roma, 1956.
[5]
Dial. II, 33.
[6]
G. Falco, La santa romana repubblica, Milano-Napoli, 1967, p. 95.
[7]
Dial. II, 16.
[8]
Dial. II, 35.
[9]
Dial. II, 15.
[10]
A. Mundó, Sur la date de la visite de Totila à S. Benoît, in Rev.
Bénédictine, 59 (1949), pp. 203-206; T. Leccisotti, Montecassino,
Badia, 19799.
[11]
La datazione della visita di Totila e dell’incontro con il vescovo
Sabino, a cui S. Benedetto predisse la distruzione di Roma, costringono
ad abbandonare la data, un tempo generalmente seguita, del 543. La
visione (Dial. II, 35), in cui si presentò al Santo « omnis etiam
mundus, velut sub uno solis radio collectus » giacché « videnti
Creatorem angusta est omnis creatura
»,
divenne celebre nella storia della mistica: cfr. J. P. Muller, La
vision de S. Benoît dans l’interprétation des théologiens scolastiques,
in Mélanges bénédictins, S. Wandrille, 1947, pp. 145-201; P.
Horger, « Extra mundum fuit ».
Die Vision des heiligen Benedikt nach Gregor dem Grossen,
in Benedictus der Vater des Abendlandes, cit., pp. 317-340; A.
Schaut, Die Vision des heiligen Benedikt, in Vir Dei
Benedictus, Münster in W., 1947, pp. 207-253.
[12]
L. Halphen, La «Vie de S. Maur », in Rev. historique. 88
(1905), pp. 287-295; U. Berbere, Le culte de S. Placide, in
Rev. Bénédictine, 33 (1921), pp. 19-45.
[13]
Chapman. op. cit., p. 203 (v. n. 18).
[14]
Schuster, op. cit., p. 158 (v. n. 18).
[15]
G. Penco, La prima diffusione della Regola di S. Benedetto, in
Studia Anselmiana, 42, Roma, 1957, pp. 321-345.
[16]
La sua più antica raffigurazione pittorica (sec. VIII) si trova nelle
catacombe romane di S. Ermete. Per altre rappresentazioni v. E. Dubler,
Das Bild des heiligen Benedikt bis zum Ausgang des Mittelalters,
St. Ottilien, 1953; S. Gregorio Magno, Vita di S. Benedetto, con
un saggio iconografico a c. di. I. Boccolini, Roma, 1954.
[17]
S. Brechter, Monte Cassinos erste Zerstörung. Kritische Venuch einer
zeitlichen Fixierung, in Studien und Mitteilungen, 56 (1938),
pp. 109-150.
[18]
Tra le moderne biografie sono da segnalare: L. Salvatorelli, S.
Benedetto e l’Italia del suo tempo, Bari, 1929, di tendenze però
razionalistiche; J. Chapman, St. Benedici and the sixth century,
London, 1929, raccolta di materiali per ulteriori studi stilla biografia
e sulla Regola di S. Benedetto; I. Herwegen, Der heilige Benedikt.
Ein Charakterbild, Dusseldorf, 19514 (trad. ital. Montecassino,
1932), approfondimento psicologico della spiritualità del Santo; I.
Schuster, Storia di S. Benedetto e dei suoi tempi, Viboldone,
1965, vasto inquadramento storico-ambientale; A. Lentini, s.v., in
Bibliotheca Sanctorum, II, 1962, 1104-1171.
[19]
Dial. II. 36.
[20]
S. Brechter,
Zum authentischen Titel der Regel dei heiligen Benedikt,
in
Studien und Mitteilungen,
55 (1937), pp. 157-229.
[21]
C. Butler, S. Benedicti Regula Monasteriorum, Freiburg Br., 1935;
la prima edizione è del 1912.
[22]
B. Capelle, Les oeuvre de Jean Cassien et la Règle bénédictine,
in Rev. Liturg. et Monast., 14 (1929), pp. 307-319.
[23]
Ed. A. De Vogüé, 3 voll., in Sources chrétiennes, 105-107,
1964-1965.
[24]
A. Genestout, La Règle du Maître et la Règle de S. Benoît, in
Rev. d’Ascét. et de Myst., 21 (1940), pp. 51-112.
[25]
B. Capelle,
Cassien, le Maître et S. Benoît,
in
Recherches de Théol. anc. et médiév.,
11 (1939), pp. 110-118;
Aux origines de la Règle de S. Benoît,
ibid. pp. 375-388.
[26]
O. J. Zimmermann, The Regula Magistri: the primitive Rule of St
Benedict, in American Benedictine Review, 1 (1950), pp.
11-36; I. M. Gómez, El problema de la Regla de S. Benito, in
Hispania Sacra, 9 (1956), pp. 5-59.
[27]
In tal senso vanno modificate le conclusioni del notevole studio di F.
Vandenbroucke, Sur les sources de la Règle bénédictine et de la
Regula Magistri, in Rev. Bénédictine, 62 (1952), pp. 216-273.
[28]
V. l'edizione diplomatica di codesti due antichi mss. in Regula
Magistri, a c. di H. Vanderhoven, F. Masai e P. B. Corbett (Publications
de Scriptorium, 3), Bruxelles-Paris, 1953.
[29]
Per i vari aspetti del problema ed il commento ai testi comuni v. S.
Benedicti Regula, a c. di G. Penco, Firenze, 1958 (ristampa 1970);
B. Jaspert, Die Regula Benedicti- Regula Magistri-Kontroverse.
Hildesheim, 1975.
[30]
J. Froger, La Règle du Maître et les sources du monachisme bénédictin,
in Rev. d'Ascét. et de Myst., 50 (1954), pp. 275 288.
[31]
A Mundó, L’authenticité de la Regula S. Benedicti, in Studia
Anselmiana, 42, Roma, 1957, pp. 105-158.
[32]
I più recenti ed utili contributi allo studio della lingua di S.
Benedetto sono quelli di A. Lentini, Il ritmo prosaico nella Regola
di S. Benedetto (Miscell. Cassin. , 23), Montecassino, 1942;
Chr. Mohrmann, La latinité de S. Benoît, in Rev. Bénédictine,
62 (1932), pp. 108-139; Ead., La langue de S. Benoît, in
Benedicti Regula, ed. Ph. Schmitz, Maredsous, 1962, pp. XI-XLI.
[33]
V. l’edizione diplomatica curata da G. Morin.
Regulae S. Benedicti traditio codicum mss. casinensium a praestantissimo
teste usque repetita codice Sangallensi
914, Montiscasini, 1900; P. Meyvaert, Problems concerning the «
Autograph » Manuscript of St. Benedict’s Rule, in Revue
Bénédictine, 69 (1959), pp. 3-21.
[34]
L. Traube, Textgeschichte der Regula S. Benedicti, München, ed.
H. Plenkers, 1910; P. Meyvaert, Toward a History of the Textual
Transmission of the « Regula S. Benedicti », in
Scriptorium, 17 (1963), pp. 83-110.
[35]
E' perciò fallito il tentativo in questo senso di B. Paringer, Le
manuscrit de Saint-Gall 914 représente-t-il le latin originai de la
Règle de S. Benoît?, in Rev. Bénédictine, 61 (1951), pp.
81-140 tendente a rivalutare piuttosto la tradizione cassinese.
[36] N. Huyghebaert, Simplicius, « propagateur » de la Règle bénédictine. Légende ou tradition?, in Revue d'Histoire ecclésiastique, 73 (1978), pp. 45-34.
[37] II più antico commento
alla Regola è quello attribuito a Paolo Diacono (†c. 799), Montecassino,
1880, da cui dipendono, nel sec. IX, quello di Ildemaro (Ratisbona,
1880) e di Smaragdo
(pl
102, 689-932). Notevoli pure quelli di Bernardo Cassinese († 1282),
Montecassino 1894 e del Card. De Torquemada († 1468). I commenti
successivi cominciano a far largo posto all’indagine erudita: dopo le
Notae et observationes
di H. Ménard (1638), vanno segnalati i
Disquisitionum monasticarum libri XII
di B. Haeften (1644). Ben noto il
Commentaire sur la Règie de S. Benoît,
Parigi, 1689 del maurino A. J. Mège, in polemica con il Commento
rigoristico dell’abbate Rancé; l’equilibrio venne ristabilito dal
commento dell’altro celebre maurino E. Mortène (1690), che, considerato
come il commento ufficiale della Congregazione di S. Mauro, fu incluso
nella
pl
66, 219 segg. Più aperto alle considerazioni ascetiche il Commentario di
A. Calmet (Parigi, 1732) tradotto pure in latino ed in italiano. Tra i
moderni un posto preminente è occupato dal
Commentaire sur la Règle de S. Benoît par l’abbè de Solesmes
di P. Delatte (Paris, 1913; trad. ital. Bergamo, 1951). Benché non abbia
la forma esterna di commento, va segnalato il fondamentale
Benectine Monachism
di C. Butler (London. 1919; trad. franc. e ted.), vasta analisi dei vari
aspetti del monachesimo benedettino. Ottimo commento filologico è quello
di B. Linderbauer,
S. Benedicti Regula Monachorum,
hrsg. und philologisch erklärt, Metten, 1922, da aggiornare però con i
successivi studi sul latino cristiano e monastico. Privo del testo, che
tuttavia commenta seguendo l’ordine dei capitoli, è il commento di I.
Herwegen,
Sinn und Geist der Benedikinerregel.
Einsiedeln-Köln, 1944. il quale tende a porre in risalto l’aspetto «
pneumatico » della Regola. In Italia ricordiamo il testo con commento
del Card. I. Schuster (Alba. 1945) e specialmente quello di A. Lentini
(Montecassino. 1980), pregevole per chiarezza e completezza di
trattazione: al testo, diviso in
versetti,
è affiancata una elegante versione italiana. Di un commento inteso
a
mettere in luce i rapporti con il monachesimo antico è autore B.
Steidle,
Die Regel St. Benedikts,
Beuron, 1952, mentre per le varie questioni storico-ascetiche
interessanti la figura e la Regola di S. Benedetto è raccomandabile il
volume curato da G. Colombàs, L. Sansegundo e O. Cunill,
San Benito. Su Vida y su Regla, Madrid, 1968, contenente pure
il libro Il dei Dialoghi, con amplissima bibliografia.
Per le edizioni (l’editio princeps è di Venezia, 1489), oltre quelle già ricordate, vanno tenute presenti quelle di B. Linderbauer, S. Benedicti Regula Monasteriorum (Fiorilegium Patristicum, 17), Bonnae, 1928, con ampio apparato critico, di R. Hanslik in csel 75, 1977 e di A. De Vogüé, 6 voll., in Sources chrétiennes, 181-186, 1971-1972, il cui lavoro era stato preceduto dal volume La communauté et l’abbé dans la Règle de S. Benoît, Bruges, 1961 e seguito da un VII vol. di commento spirituale, Paris, 1977; sulle edizioni in genere (1239 fino al 1929) v. A. Albareda, Bibliografia de la Regla benedictina, Montserrat, 1933; J. Broekaert, Bibliographie de la Règle de Saint Benoît, 2 voll. (Studia Anselmiana, 77-78), Roma, 1980; per gli studi più recenti v. la rassegna di G. Turbessi in La Scuola Cattolica, 101 (1973), pp. 479-510.
[38] A. Lentini, Note sull’oblazione dei fanciulli nella Regola di S. Benedetto, in Studia Anselmiana, 18-19, Roma, 1947, pp. 193-225.
[39]
K. Hallinger,
Das Wahlrecht der Benediklusregula,
in
Zeitschrift für Kirchengeschichte,
76 (1965), pp. 233-245; H. Grundmann,
Zur Abt-Wahl nach Benedikts Regel. Die
«
Zweitobern
»
als
«
senior pars
»?;
ibid., 77 (1966), pp. 217-223; R. Somerville, «
Ordinatio abbatis
»
in the Rule of St. Benedict,
in
Revue Bénédictine,
77 ( 1967), pp. 246-263.
[40]
G. Oesterle, De codice poenali in Regula S. Benedicti, in
Studia Anselmiana, 18-19. Roma, 1947, pp. 173-193.
[41]
Per la salmodia antifonica v. i cc. 11, 13, 15, 17; per quella
direttanea i cc. 9, 10, 12.
[42]
C. Callewaert, Sacris Erudiri. Steenbrugis.
1940; C. Gindele. Die römische und monastiche Ueberlieferung im Ordo
officii der Regel St. Benedikts in Studia Anselmiana, 42,
Roma, 1957, pp. 171-222; A De Vogüé, Le sens de l'office divin
d'après la Règle de S. Benoît, in Revue d'Ascètique et de
Mystique.
42 (1966), pp. 389-404; 43 (1967), pp. 21-33.
[43]
G. Penco, Per la storia liturgica del monachesimo italico nei secoli
VII-IX. Correnti ed influssi, in Rivista Liturgica. 44
(1957), pp. 168-181.
[44]
Cfr. G. Penco, Ricerche sul capitolo finale della Regola di S.
Benedetto, in Benedictina, 8 (1954), pp. 25-42.
[45]
Panégyrique de S. Benoît, ed. P. Renaudin.
S. Benoît dans la chaire française.
Clervaux, 1932, p. 19.
[46]
Cfr. J. Leclercq,
La vie parfaite,
Turnhout-Paris, 1948, pp. 114-121.
[47]
Furono commentati anche da
S.
Tommaso,
Summa Theol.,
II, IIae, q. 161, a. 6.
[48]
C. Vagaggini,
La posizione di S Benedetto nella questione semipelagiana,
in
Studia Anselmiana,
18-19, Roma, 1947, pp. 17*83.
[49]
M. Van Assche, «
Divinae vacare lectioni
», in
Sacris Erudiri,
1 (1948), pp. 13-34.
[50]
G. Penco,
S. Benedetto nella storia della Cristianità occidentale,
in
Studium,
76 (1980), pp. 311-327; per l’immagine del Santo nella tradizione
medievale v. Id..
S. Benedetto nel ricordo del Medio Evo monastico,
in
Benedictina,
16 ( 1969), pp. 173-187.
[51]
Tra le varie esposizioni della dottrina ascetica di S. Benedetto sono da
ricordare C. Marmion,
Le Christ idéal du moine,
Maredsous, 1939 (trad. in varie lingue); V. Stebler,
Der benediktinische Weg zur Beschauung,
Olten, 1947 ed i saggi di O. Lottin,
Considérations sur l’état religieux et la vie bénédictine,
Mont-César. 1946 e di F. Vandenbroucke,
Le moine dans l’Eglise du Cbrist,
Louvain, 1947; in generale v. G. Penco,
Gli studi degli ultimi treni’anni intorno alla spiritualità della Regola
di S. Benedetto,
in C. Vagaggini e Collaboratori,
Problemi e orientamenti di spiritualità monastica, biblica e liturgica,
Roma, 1961, pp. 201-234; Id.,
Il concetto di
«
spiritualità benedettina
»
nelle riflessioni storico-dottrinali dell'epoca contemporanea,
in
La Scuola Cattolica,
109 (1981), pp. 191-209.
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13 ottobre 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net