LA SANTA
REGOLA DI SAN BENEDETTO
Un grande giurista europeo:
San Benedetto da Norcia
Gérard D. GUYON
Professore di Storia del Diritto e di Diritto Romano
Università Montesquieu - Bordeaux IV
Pubblicato su Cuadernos de Historia del Derecho
2003, 10, p. 49-70.
Rivista dell'Università Complutense di Madrid
(Libera
traduzione dal francese)
Sintesi dell'articolo
L'autore, dopo averci ricordato alcuni dati biografici riguardanti la persona di
san Benedetto, richiama la nostra attenzione sull'aspetto giuridico della Regola
Benedettina. Per fare ciò si sofferma su due aspetti: la comunità ed il potere
all'interno della congregazione monastica ed, al secondo posto, il ruolo del
giudice e della giustizia (la penalità) all'interno di questa comunità.
SOMMARIO:
- Introduzione.
- I. La Comunità ed il potere, secondo San Benedetto.
A. Il primo principio giuridico su cui insiste San Benedetto è
la costituzione della Comunità mediante la legge che la organizza.
B. La concezione giuridica del potere dell'Abate: il modello di
una regalità che si riferisce a Cristo secondo San Benedetto.
- II. Il giudice e la giustizia nella concezione benedettina
della pena.
A. Il modello benedettino della colpevolezza e del suo
giudizio.
B. L’eredità religiosa del perdono nella penologia
(settore della criminologia che ha per oggetto il recupero ed il reinserimento
sociale del condannato)
benedettina.
Introduzione
«E’
soprattutto lui (San Benedetto) ed i suoi figli che portarono con la Croce, il
libro e l'aratro, il progresso cristiano nelle popolazioni disseminate dal
Mediterraneo alla Scandinavia e dall’Irlanda alle pianure della Polonia»
[1].
«La
regola di San Benedetto ha ispirato la disciplina dei rapporti umani, anche
nella comunità civile»
[2].
Può
sembrare strano situare, tra i grandi giuristi europei, un uomo di Chiesa che è
tradizionalmente considerato come il vero fondatore del monachesimo - il
Patriarca dei monaci d’Occidente, secondo l'espressione usata da Papa san
Gregorio Magno - e che è stato dichiarato «padre dell'Europa»
[3], riguardo alla sua civilizzazione ed alla
sua cultura, accanto a san Cirillo e san Metodio.
Infatti San Benedetto figura come tale solo molto modestamente e, se gli storici
del diritto tradizionalmente gli dedicano alcuni paragrafi o poche righe, è meno
quanto giurista e legislatore che come fondatore, spesso associato a san
Colombano, dell’universo monastico medievale. Tuttavia questi storici mostrano,
in modo inequivocabile, che la Regula
Benedicti
[4]
è diventata rapidamente una sorta di legislazione regolare universale e che ha
servito potentemente la riforma delle strutture del clero, in primo luogo sotto
gli ultimi Merovingi
(La Dinastia dei Merovingi governò i franchi dal 481 al 751, includendo gran
parte dell'odierna Francia e parte della Germania).
La sua fama e le sue eminenti qualità sono emerse con tanta forza che Carlo
Magno aveva persino considerato di farne una guida spirituale per la propria
vita. Essa si impose in Occidente, come regola principale, se non unica,
associata alla regola di san Colombano sotto la forma della
Regula mixta, nel VII secolo e poi,
intellettualmente e legalmente, con Benedetto di Aniane nel IX secolo. Infine, è
sotto la sua legge che le abbazie organizzeranno le loro istituzioni in
grandi Ordini. E fino ai giorni nostri gli si attribuisce di diritto la
paternità delle opere cenobitiche europee, poi di quelle occidentali ed oltre
ancora in una gran parte del mondo
[5].
La densità spirituale e l'unità che segnano l'opera del monaco di Monte Cassino
prevalgono ampiamente su ogni altra espressione
[6].
Esse spiegano da sole il relativo
disinteresse dei giuristi e, a contrario
[7], la particolare attenzione
dei canonisti. Le grandi opere canoniche non dimenticano il diritto monastico,
anche se lo trattano in modo piuttosto accessorio, menzionandone le regole solo
indirettamente
[8]. I concili, a partire dal VI secolo, non
hanno mancato di moltiplicare gli interventi nella vita monastica, non come
parte di una rivalità tra il coenobium
ed il vescovo (che non è all'ordine del giorno) ma, più in generale, per
stabilire un modus vivendi giuridico
tra i monasteri e la Chiesa in cui non dobbiamo dimenticare il sicuro sostegno
dei Pontefici romani
[9].
Occorre aggiungere a queste osservazioni generali che la
Regula benedicti è conosciuta solo
attraverso un testo tardivo, a partire dal 625, ovvero circa 100 anni dopo la
data della sua composizione. Il manoscritto conservato a San Gallo è solo una
copia di quello inviato dall'abate Teodomaro a Carlo Magno nel 787 e, secondo
alcune fonti, il testo autografo della
Regula sarebbe stato distrutto nell’incendio del monastero di Teano
nell'896.
[10]
Queste incertezze hanno condotto ad ogni sorta di ipotesi, con alcuni
commentatori che arrivarono a negare che san Benedetto potesse essere stato il
redattore della Regola. Secondo questa tesi egli sarebbe l'autore di un altro
scritto chiamato Regula Magistri, che
un compilatore sconosciuto avrebbe in seguito migliorato per arrivare infine al
testo della Regola. Questa tesi è stata abbandonata, perché gli studi sulla
lingua latina del manoscritto di San Gallo mostrano chiaramente che appartiene
senza dubbio al VI° secolo. Tuttavia rimangono dubbi riguardo alla relazione tra
questi due testi. Gli ultimi esegeti propendono per uno sviluppo della
Regola del Maestro da parte di san
Benedetto, che ne avrebbe utilizzato un certo numero di disposizioni,
aggiungendo all’insieme della Regola dei caratteri molto più originali. Questa
argomentazione è anche pienamente in accordo con l'idea di una catena della
Tradizione monastica, poiché essa è anche perfettamente inclusa nella linea
ortodossa dell’eredità spirituale e canonica del cristianesimo
[11].
Il
movimentato contesto del tempo in cui visse san Benedetto va ricordato molto
brevemente. Infatti, se l'Italia ha ritrovato un po’ di pace e di prosperità
dopo le miserie del V° secolo: i fallimenti che liquidano il Regno di Teodorico,
le persecuzione correlate alle liti ariane ed i tentativi falliti di riconquista
dell'Italia da parte dell'imperatore Giustiniano di fronte alle forze barbariche
dei Goti, lasciano il territorio in rovina e le popolazioni ridotte alla fame.
Queste giungono a preferire i disciplinati Goti ai Bizantini (secondo la
tradizione, san Benedetto riceverà anche l’omaggio personale del re dei Goti,
Totila). In questo periodo inizia la lunga storia della decadenza della città di
Roma - da dove ne uscirà soltanto con i Papi del Rinascimento - e la situazione
generale della Chiesa Romana non è brillante. Papi ed antipapi si disputano il
potere. Le pretese imperiali priveranno del Pontefice la stessa Roma per diversi
anni. Il periodo di San Gregorio Magno non fa eccezione a questa insicurezza ed
a queste violenze. D’altronde, è anche l'obbligo dei Papi garantire la sicurezza
e l’approvvigionamento di Roma che sarà all'origine della loro indipendenza di
fatto e dell'esercizio del loro potere temporale
[12].
Il poco che si conosce della vita di san Benedetto è tratto dai
Dialoghi scritti da san Gregorio
Magno tra l’estate del 593 e l’estate del 594
[13].
L’opera appartiene al genere agiografico tradizionale. Vale a dire che essa è
molto lontana dai canoni della biografia moderna. Per l'autore si tratta di
mostrare che l'Italia non è abbandonata al suo destino, ma che Dio veglia ancora
su di essa e le invia anche degli uomini eccezionali: grandi figure della fede,
specie di eroi provvidenziali destinati a ridare speranza a delle popolazioni
che potrebbero sentirsi abbandonate. Questo ruolo di operatore di miracoli
assegnato a san Benedetto ha lungamente oscurato la sua vera statura. Ciò spiega
anche la cura nel mettere l’accento su alcuni aspetti della sua personalità e
della natura del suo lavoro. Su questo punto, il redattore dei
Dialoghi svolge lo stesso ruolo verso
san Benedetto così come Cassiano nelle sue
Conferenze verso i Padri del deserto
o Sulpicio Severo nei suoi Dialoghi
nei confronti di san Martino di Tours. Tuttavia, è possibile fare emergere dal
testo di san Gregorio Magno degli elementi storici indiscutibili, perché egli è
preoccupato di raccogliere il più alto numero possibile di testimonianze; egli
scrisse poco dopo la morte di san Benedetto e, pertanto, gli risulta difficile
travisare gravemente la verità. Infine, le sue alte funzioni di Pontefice romano
gli hanno permesso di conoscere, meglio di chiunque altro, gli eventi del suo
tempo.
Nonostante queste assicurazioni, non ci si può appoggiare sulle tracce storiche
lasciate da san Benedetto per andare oltre la semplice raccolta di alcune
caratteristiche importanti della sua vita ed arrivare a fare emergere qualcosa
che possa riferirsi alla questione che ci interessa.
La lettura dei Dialoghi consente di
constatare che la vita di San Benedetto è suddivisa in tre periodi: la sua
infanzia e la sua giovinezza, la sua vita a Subiaco, la sua residenza a Monte
Cassino. Tuttavia essi apportano scarse informazioni biografiche affidabili. È
possibile farne una rapida sintesi.
Quanto alla nascita (verso il 480 o forse un decennio più tardi), Benedetto
appartiene ad una famiglia nobile provinciale della regione di Norcia, nella
Sabina del nord. È nella sua famiglia che egli riceve i primi rudimenti di
studio delle lettere, poi il giovane patrizio è inviato a Roma, con la sua
nutrice, per studiare retorica. In questa fase terminale della civiltà romana la
letteratura non aveva ancora perso la sua attrattiva, al contrario. Il suo
biografo lo presenta molto presto consapevole dei pericoli che corre nei
corrotti ambienti studenteschi e, sempre accompagnato dalla sua nutrice, lascia
la città per fermarsi nei pressi di un antico palazzo di Nerone situato sul
bordo di un lago creato dal fiume Anio. In fuga da Roma, Benedetto conclude
brutalmente i suoi studi, come pure la prospettiva di una brillante carriera,
poiché abbandona anche la sua casa ed i suoi beni paterni. Egli giunge poi a
Enfide, dove gli abitanti del villaggio lo persuadono a stabilirvisi, ma da cui
egli fugge, all'insaputa di sua nutrice, per vivere una vita eremitica, durante
tre anni, in una grotta (Sacro Speco)
situata in un luogo deserto chiamato Subiaco. Dopo aver cercato di riformare i
monaci del monastero di Vicovaro senza successo, decide di raggruppare i suoi
seguaci, diventati numerosi, nella valle dell'Aniene, in dodici priorati di
dodici monaci ognuno e guidato da un superiore locale. Infine, per sottrarsi
alla persecuzione di un sacerdote geloso del suo successo, egli lascia Subiaco,
intorno al 529, per recarsi a Monte Cassino dove fonda il grande monastero che
egli governerà fino alla sua morte, dopo essere stato all'origine della
creazione di altre due case (a Roma, San Pancrazio del Laterano, ed a
Terracina). Morì un 21 di marzo, probabilmente nel 547.
Il risultato delle notizie ricavate dal testo di San Gregorio Magno è dunque
molto ridotto se lo si spoglia dei suoi aspetti spirituali ed agiografici
[14].
Esso ci obbliga, per trattare più rigorosamente delle qualità di giurista di san
Benedetto, a prestare tutta l’attenzione sulle caratteristiche ed il valore del
contenuto giuridico della sua opera. Ma questo approccio ci obbliga a porre una
semplice domanda introduttiva: possiamo davvero trovare qualcosa di diritto
nella Regola benedettina? È possibile evidenziare i suoi punti di supporto
teorico, le sue modalità di espressione, sapendo che egli agisce spesso
attraverso un vocabolario che li occulta e che l'oggetto proprio della Regola
non è niente di giuridico: «essere la
santità essenziale della Chiesa»? Nel caso di una risposta
positiva, il suo alto valore spirituale si troverebbe così unito a delle
caratteristiche giuridiche particolari, ed è questa combinazione che ne
spiegherebbe il successo e l’eccezionale longevità
[15].
Il problema non è banale, perché questo angolo di vista giuridico può sembrare
condurre - in base ai commenti teologici classici - ad una ristretta concezione
della natura e della forza spirituale propria della Regola benedettina. Ma, dal
punto di vista storico ed istituzionale più generale, è possibile osservare che
egli arricchisce anche il testo di una materia che non si suppone vi appaia,
mentre essa trova comunque spazio per esprimersi in ambiti così vari come la
forma dell’autorità, il posto del legislatore, le norme giuridiche che
disciplinano la professione di fede monastica, le questioni patrimoniali,
l'attuazione della disciplina della legge, così come le sanzioni, a tal punto
che possiamo verificare che la Regola si situa in una certa eredità del diritto
romano, tanto per lo stile che per il pensiero
[16].
Alcuni di questi problemi sono stati affrontati dai pochi autori che hanno
studiato la Regola benedettina da un punto di vista giuridico: l'oblazione
[17], i voti, la somiglianza
dell'organizzazione nella gerarchia monastica e feudale, i poteri dell'abate, le
elezioni, lo stato del religioso o l’esenzione monastica
[18]. Tuttavia, sono state considerate solo
parti isolate delle istituzioni monastiche e soprattutto secondo criteri di
influenza nella storia monastica o nel diritto canonico
[19].
Fatte queste considerazioni, se vogliamo impegnarci in una dimostrazione più
completa, sembra possibile individuare con precisione i due terreni dove San
Benedetto situa più fortemente le esigenze del diritto e che possiamo definire
come quello della costituzione della comunità e quello dove si afferma il potere
del giudice. Per iniziare, la mescolanza del diritto e della giustizia trova la
sua giustificazione nella funzione specifica dell'abate. Figura incarnata di
Cristo e servitore della Regola, l'abate ne manifesta allo stesso tempo
l'autorità, in quanto Legislatore supremo, poiché egli è anche giudice dei
membri di questa singolare comunità fraterna che si trova
«sub
Regula vel abbate».
Rimangono da illustrare gli aspetti chiave nelle due aree principali:
I. La Comunità ed il potere secondo san Benedetto
II. Il giudice e la giustizia nella concezione benedettina della penalità.
I. La Comunità ed il potere secondo san Benedetto
La lettura della Regula Benedicti
lascia al lettore giurista un senso di coesione e di unità. Questa constatazione
non è solo il risultato della forza dello sfondo spirituale, così come non
deriva solo dalla certezza, storicamente fondata, del successo del lungo cammino
dell'istituzione. Perché questo passa attraverso innumerevoli aggiunte
personalizzate e statuti caratteristici che mostrano come il tempo e lo spazio
hanno contribuito ad introdurre nella Regola numerose varianti
[20]. Tutte mirano, tuttavia, a fare in modo
che siano rispettati i valori della Tradizione ed il riferimento al testo
originale di san Benedetto. Questa preoccupazione di unità trova la sua prima
legge nell'esperienza del fondatore che ha saputo raggruppare degli elementi
eterogenei presi nelle istituzioni dei suoi predecessori e che li ha riuniti
attorno a semplici principi giuridici. Inoltre, mentre le regole precedenti
cadevano facilmente nella prolissità e nella confusione, dove troppi dettagli
circonstanziati permettevano loro solo un'applicazione limitata nello spazio e
nel tempo, la Regula Benedicti
raggiunge senza difficoltà l'universale
[21].
A.
Il primo principio giuridico su cui insiste san Benedetto è la costituzione
della comunità tramite la legge che l’organizza.
Questa questione è determinante. Essa si basa su di una concezione specifica
della legge e dell'autorità che essa presuppone. L'idea di un essere giuridico
proprio al monastero è centrale. Tuttavia esso non assume la forma di una estesa
costruzione di tipo giuridico ed istituzionale poiché l'unica vera unità è il
monastero. San Benedetto si inserisce, al contrario, in una visione tanto
minimalista quanto generalista delle istituzioni, all’opposto dei suoi
predecessori (ad esempio la Regula
Magistri), ma per ciascuna di tali istituzioni il collegamento spirituale è
particolarmente importante. Questo equilibrio iniziale, similmente molto
paradossale, si spiega con il fatto che furono degli abati carismatici (ciò che
fu lui stesso) gli inventori della regolarità giuridica e che la Regola è nata
anche da una necessaria reazione giuridica contro l'anarchia delle prime forme
di monachesimo, i suoi derivati ascetici, gnostici e pneumatici
[22].
La lezione più illuminante è, in primo luogo, quella che scaturisce dalla
struttura organizzativa e dall'asse verticale del
coenobium. Questa questione ha
assunto un valore estremamente significativo, non solo nell’universo monastico,
ma nel quadro di un disegno sociale generale. Essa amplifica, grazie al suo
eminente modello, l'eredità della romanità imperiale. Essa nutre tutta la
tradizione carolingia dell’autorità politica. Grazie ad essa, la comunità si
organizza intorno alla Regola, che ne è la legislazione, ed all'abate, che ne è
il capo per tutta la sua vita
[23].
San Benedetto vi introduce una creazione normativa singolare, secondo la quale
non ci può essere separazione tra la legge (cioè la Regola) e l'abate. Per delle
ragioni che dipendono allo stesso tempo dalla natura scritta della legge
evangelica e dalla centralità di Cristo - legge vivente – la forma del potere
assume una duplice espressione: quella di un testo scritto e quella di una
persona eletta a vita. L'espressione
«militans
sub Regula vel abbate»
[24]
appare nel primo capitolo della Regula
Benedicti. Essa non è accidentale. Perché si ritiene, infatti, che l'abate
tenga il posto di Cristo nel monastero.
L'idea del redattore è quella di far prevalere la persona sulla lettera della
legge, non in un spirito nuovo, semplicemente allontanato delle antiche
pratiche, che farebbe del capo della comunità un
pius Pater compassionevole, ma per
effetto di un forte interesse per la soggettività. Questa è una delle grandi
originalità giuridiche di san Benedetto. Senza dubbio egli si ricongiunge ad una
forma del potere molto antica e durevole. Questo viene visto, nell'antichità,
solo nella fondamentale forma di un individuo che lo esercita
[25].
Nella Regola benedettina l'autorità si inserisce molto più pienamente in una
relazione interpersonale. Secondo l'esempio dei Vangeli, l'obbedienza - che è la
prima delle obbligazioni (l'incipit
del testo inizia con
«la
Regola si chiama così poiché governa i costumi di coloro che obbediscono»
[26])
- può essere richiesta da chiunque, non in virtù della legge scritta, ma a causa
del legame d’amore, molto più esigente, che unisce tutti a Cristo e gli uni agli
altri. San Benedetto ne deriverà una serie di misure, tra cui penali, talvolta
gravi, ma sempre segnate dalla preoccupazione che siano le più adatte per gli
individui coinvolti. Questa soggettività rende sopportabile il giogo grave
«della
disciplina regolare».
Essa inserisce l'obbedienza alla legge all'interno di un atto di acquiescenza
molto più consapevole e sempre accondisceso dalla libertà umana, poiché questo
atto consegue da un dono totale della persona
[27].
Questo regno della legge viene implementato in modo molto dettagliato: non
dobbiamo pensare che l’ampiezza dei riferimenti spirituali dispensi il
legislatore dal prestare tutta la sua attenzione agli aspetti ordinari della
vita comunitaria. Al contrario, la comunità monastica deve essere, ai suoi
occhi, costruita come un universo, complesso ma ordinato, di relazioni:
relazioni gerarchiche stabilite con la massima cura ed il cui rispetto è oggetto
di più regole; semplici rapporti umani dei monaci tra di loro che sono esposti
con una grande ricchezza di dettagli e prendendo in considerazione le più comuni
esigenze materiali. L’insieme si basa sull'edificio della Chiesa, concepita in
modo agostiniano, come un corpo organico che riunisce tutti i cristiani in una
universitas impostata secondo i gradi
di perfezione degli uomini e rapportata alla gerarchia celeste che ne è il
modello
[28].
San Benedetto non è tra coloro che vengono trasportati da un accecante ideale.
Egli è molto pessimista sulla natura umana di cui egli misura i rischi. Il suo
pessimismo non è generico, ma è piuttosto storico e sociale. Egli ha potuto
valutare, grazie alla sua conoscenza della storia dei popoli e delle esperienze
delle regole monastiche precedenti, la difficoltà di fare coabitare gli uomini
tra di loro, ma la sua lettura delle società lo porta ad un giudizio più severo
sulle comunità che sull'uomo. Ciò spiega la cura quasi pignola che egli pone
nell'organizzare la struttura del potere.
Questo modo giuridico in cui
si ordina la distribuzione dell'autorità appare a san Benedetto come il primo
dei requisiti sociali e la Regula
Benedicti è particolarmente chiara ed innovativa su questo punto. È anche a
questo titolo che di solito le si riconosce una «natura
giuridica», perché questo sviluppo istituzionale rompe con gli scritti
normativi precedenti. Là dove le comunità monastiche erano semplicemente
collocate in piccoli gruppi sotto il governo di un rispettivo capo, san
Benedetto concepisce una nuova struttura dell’autorità basata sul rango
determinato dall’anzianità nella professione. Questo ordine non è certamente del
tutto immutabile. Esso può subire alcune modifiche a seguito delle prerogative
dell'abate, ma è considerato come un principio di base che, con rare eccezioni,
determina tutta la vita ed il funzionamento della comunità
[29].
L'errore sarebbe quello di vedere in questa organizzazione una pura e semplice
gerarchia, mentre essa porta anche a rapporti orizzontali. Per san Benedetto
l’uguaglianza non è semplicemente di tipo sociale e civico ed ancora meno
economica. Essa procede molto più da un’esigenza morale comune che ordina le
relazioni sociali. Poiché la costruzione della struttura comunitaria non
disgiunge la preoccupazione per il bene comune dal sostegno fraterno che è
responsabilità di tutti. Quando viene raccomandato di «obbedirsi
a vicenda», questo significa che i più giovani devono mutuare la loro
lezione dai più anziani che ne hanno la responsabilità. Così il monastero è una
società in cui l’attenzione di ognuno è rivolta a tutti, a seconda che il
medesimo abbia progredito nella conoscenza della Regola e della sua obbedienza
[30].
Come vedremo più tardi, la correzione fraterna (questa prospettiva doppiamente
interessata
«alla
propria edificazione ed a quella di tutta la comunità»),
diretta verso gli altri non ha alcun altro valore. Le altre istituzioni sono
solo aggiunte in più come un apparato umano di controllo sociale. Ma tuttavia
questo non significa che non abbiano funzioni religiose particolari, anche
economiche
[31].
B.
La concezione giuridica del potere dell'abate: il modello di una regalità che si
riferisce a Cristo secondo San Benedetto.
Quando si tratta di esaminare più attentamente il direttorio esecutivo
dell'abate, questo appare di un'altra natura. È già stato detto che esso si
impone come l'espressione della legge vivente. E ci sono note le precedenti
metafore nelle loro denominazioni greche e latine
[32].
Tant'è che siamo di fronte ad una relativa restrizione del potere normativo
della Regola in molti ambiti, come se san Benedetto (secondo
A. de Vogüé)
avesse voluto indebolire la sua azione e lasciare una vasta area di libertà
all'abate che è in carica, al di là di questo campo giuridico, di eseguire
personalmente la conversio morum di
ciascuno dei suoi monaci
[33].
Non c'è dubbio che nella società secolare, la forma spirituale e giuridica
assunta dal potere abbaziale ha costituito un potente esempio. Almeno per le
epoche in cui la base ideologica cristiana era il fondamento delle istituzioni
politiche
[34].
A questo proposito, l'eredità propria della Regola di san Benedetto dovrebbe
essere ulteriormente misurata, anche se si situa nel prolungamento dell'eredità
di sant’Agostino, quello del:
«non
praeesse sed prodesse»
(non comandare, ma essere utile)
[35].
Si cercherebbero invano nella Regola di san Benedetto dei termini che esprimono
l'autorità dell'Abate come: praeesse,
dominare, premere (comandare,
dominare, reprimere) che qualificano un tipo autoritario di governo. Nessuna
libido dominandi (smania di dominare),
o dominationis (di dominazione),
nessuna elatio (orgoglio)
per designare lo stato d'animo di colui che governa il monastero a vita ed in un
modo che può sembrare, a prima vista, senza limite.
Queste osservazioni possono essere correlate ad un problema che pensiamo
essenziale, per quanto riguarda il quadro giuridico e ideologico del modello
monastico di san Benedetto. Considerando i numerosi lavori che si sono sforzati
di mostrare la formazione, durante il VI secolo ed oltre, dei principali
elementi di una dottrina cristiana della regalità
[36],
ci si accorge che, nelle varie fasi di questa coerente costruzione, l’apporto
esterno dei grandi chierici canonisti o teorici del potere, come san Gregorio
Magno o sant’Isidoro di Siviglia, e la loro rapida e duratura diffusione in
tutta l’Europa cristiana è sottolineato magistralmente. Ma non è possibile
aggiungervi – come semplice interrogazione - il posto che potrebbe occupare il
modello ideologico e giuridico incluso nella Regola benedettina? In particolare,
si può fare come se la dottrina del
regimen (governo) cristiano fosse
interamente uscita dalle concezioni dei
Moralia, della Regula Pastoralis
o delle Sentenze senza essere per
nulla passata attraverso l’universo monastico e la concezione benedettina del
potere abbaziale, pur conoscendo l'estensione della cultura di questi due
autori?
[37]
La risposta non è ovviamente semplice, né soprattutto inclusa in queste poche
righe, ma la lettura della Regola benedettina illumina comunque alcuni punti che
consentono di fare un ponte tra le proposizioni contenute nella Regola pastorale
di san Gregorio Magno, per esempio, e in san Benedetto. È possibile mostrare la
stretta relazione tra le modalità di governo delle anime presso l'uno e l'altro
autore, la continuità delle vedute teologiche a partire dai Padri della Chiesa,
come pure l'originalità della Regola.
La cura
animarum
è una sorta di medicina delle anime e dei corpi. Essa deve assumere la forma di
una pedagogia individuale. L'abate
«che
porta il nome stesso dato al Signore, secondo queste parole dell'Apostolo...
abba, pater»
agisce come un padre su ognuno dei suoi figli; conoscendoli in profondità e
agendo in modo appropriato secondo il loro carattere e le loro esigenze. Il
testo è molto chiaro:
«Meminisse debet semper abbas quod est,
meminisse quod dicitur et scire, quia cui plus committitur plus ab eo exigitur.
Sciatque quam difficilem et arduam rem suscipit, regere animas et multorum
servire moribus…et secundum uniuscuiusque qualitatem vel intelligentiam ita se
omnibus conformet et aptet… »
[38].
Le reiterazioni della Regola su questo argomento mostrano il posto che occupa il
«rector» del monastero nello spirito
di san Benedetto. Egli è l'unico a farsi Padre ed a porre coloro che gli devono
obbedienza nella situazione di figli adottivi. Così la preminenza del capo non
risulta solo, come in san Gregorio Magno, da una superiorità morale, né da un
sacerdozio universale - il popolo di re, unito nella regalità di Cristo -
secondo sant’Isidoro
[39].
Questa preminenza non sorge neanche da un’uguaglianza di condizione - come
quest'ultimo lo ricorda ai governanti della terra. Certamente l'abate condivide
la comune umanità. Egli è solo stato considerato il più degno di governare. Ma
qui ci troviamo in un universo che non è ovviamente quello dell'ordine del
contratto sociale e che non sorge neanche da una consacrazione dell'autorità
civile per grazia di Dio. Il potere abbaziale è costruito all'interno di un
ordine soprannaturale da cui è inseparabile. Il potere dell'abate è divino. E’
ciò che gli conferisce il suo carattere di paternità divina, ancora molto di più
di quella di una patria potestas di
cui san Benedetto conosce bene le regole. Egli non può essere arbitrario
semplicemente perché la sua propria natura glielo impedisce e poiché egli dovrà
dare un conto esatto di due cose: della sua dottrina e dell'obbedienza dei suoi
discepoli
[40].
Per questi motivi, l'abate non è solo vicario. Non detiene il suo potere
semplicemente
«jure
vicario»
(con la facoltà di vicario).
Egli lo detiene da una surrogazione divina che non può essere completamente
assimilata all’unzione reale, perché la sua funzione teleologica abbraccia il
corpo di tutta la comunità, nel senso
della Chiesa: (come Cristo è il capo del corpo della Chiesa, l'abate è il
Cristo della comunità di coloro che sono impegnati nel cammino della santità).
Egli non è stato assorbito nella comunità dei membri del corpo di Cristo, allo
stesso titolo del re e di qualsiasi battezzato appartenente alla comunità
politica. Perché, sant’Isidoro lo dice bene: la regalità non fa che servire Dio,
essa non è il riflesso della monarchia divina
[41].
Ma la funzione dell'abate è di un ordine sacramentale più elevato e attraverso
di essa si arriva molto vicini al modello divino.
Date queste premesse il legislatore non viene dispensato dall’organizzare
attentamente le modalità di accesso e di esercizio del potere abbaziale. Noi
conosciamo le successive eredità e le ulteriori trasformazioni che daranno alla
luce le forme giuridiche delle moderne pratiche elettorali. È così che, molto
certamente, il
«quod
omnes tangit (quello che riguarda tutti)»
(principio del Codice di Giustiniano)
trae le sue radici dalla lettera stessa di san Benedetto
«de adhibendis
ad consilium fratribus (dell'adunare
i fratelli a consiglio)»
[42].
San Benedetto è stato su tutti i punti del diritto un abile costituente.
Istituendo un'autorità, tramite gli stessi interessati (elezione), egli ha
consegnato nelle mani dell’eletto un potere di un’estrema estensione, ma lo ha
anche racchiuso in una garanzia che gli sembrava la migliore di tutte: la
responsabilità davanti a Dio stesso, direttamente. La Regola iscrive formalmente
«memor sit
semper (si ricordi sempre)»
[43],
non solo come un filo conduttore, ma come espressione dell’altro ordine del
mondo di cui la Regola racchiude i valori e che l'abate deve costantemente
tenere a mente, perché il monastero è (ben più di qualsiasi altra comunità
umana)
«Casa
di Dio»
[44].
In modo che, anche se i poteri dell'abate sono molto estesi, egli agisce sempre
a titolo di servitore e maestro della Regola, come deve ben ricordare.
La Regula Benedicti offre infatti un
singolare esempio di rapporto tra la legge ed il governo, poiché essa sviluppa,
a modo suo, un modello di conciliazione tra le esigenze del potere ed il
necessario rispetto per la libertà, apportando una soluzione derivata dalla
convinzione che è nell'intimo della coscienza umana che risiedono i freni sui
quali occorre agire, perché la coscienza è il luogo dove si applica,
in fine, la regola del diritto.
Il primo punto può sembrare strano, dal momento che la legge in questione poggia
sulla base intangibile del messaggio evangelico. Ma dobbiamo ricordare che
l'autorità abbaziale è la figura costituita dell'autorità divina. Pertanto essa
è naturalmente custode ed interprete dell'autorità della Regola. Oltre ai motivi
precedentemente indicati, san Benedetto aggiunge un argomento basato sulla sua
lunga esperienza: qualsiasi legge è anche un insegnamento pratico. I precetti
sono fatti per essere accolti e vissuti nel modo più intimo possibile,
altrimenti essi sono solo l’oggetto di un’adesione superficiale e fragile.
La missione dell'abate è pertanto di essere, partendo dal suo modo di vita, un
esempio di applicazione della legge. E’ così che le sue esortazioni potranno
essere a volte severe, a volte piene di misericordia, a seconda che egli stesso
avrà sperimentato le difficoltà ad obbedire rigorosamente alla legge. Il governo
del monastero può pertanto aggiungere o sottrarre, a seconda del tempo, gli
obblighi. La funzione della legge è quella di essere indicativa, per dare delle
linee guida, ma in molte occasioni ci si può scostare dalla lettera della
regola, perché la complessità della vita delle comunità si oppone alla rigidità
del testo scritto
[45].
L’esigenza fondamentale, ricordata a tempo debito e che segnerà fortemente il
diritto canonico ed il diritto civile, vale a dire
la reverentia
legum,
assume pertanto la forma di un richiamo solenne alla coscienza piuttosto che la
cieca sottomissione ad un pacchetto di regole.
II. Il giudice e la giustizia nella concezione benedettina della penalità.
È abbastanza comune vedere messo in luce, tra i pochi autori che sono
interessati alla materia giuridica della Regola benedettina, una specie di
diritto penale monastico, ovvero un codice di penalità. Il riferimento al giogo
della Regola, il vocabolario che tratta della disciplina regolare, la portata e
la varietà dei termini latini presi in prestito al linguaggio del diritto romano
forniscono, a prima vista, un materiale che sembra immediatamente accessibile e
che corrisponde ai modelli teorici familiari dei giuristi contemporanei. Ciò
dimostra per lo meno la particolare attenzione e l'interesse di san Benedetto
per le questioni giudiziarie.
Tuttavia, questa versione giuridica della
Regula pecca spesso per il suo carattere restrittivo, perché essa trascura
di porre l’accento su ciò che rende l'originalità del punto di vista
benedettino. Lungi dal fare del giudice-abate
(«in Abbatis
pendeat judicio»)
un magistrato rinchiuso in una stretta logica – quella della Regola - (dunque in
una rigorosa relazione giuridica), il legislatore monastico ha sempre in mente
la stretta relazione (quasi connaturale) che collega l'abate a colui di cui è
l'immagine vivente nel monastero e questa relazione lo rende allo stesso tempo
un giudice ed un pastore. Inoltre, san Benedetto pone l'esercizio della
giustizia all'interno di un quadro generale di natura teleologica. Egli
riunisce, nella loro propria unità, le persone e le cose. Egli pone la
preoccupazione per i deboli alla pari con la severità necessaria contro coloro
che sono riluttanti all'obbedienza alla Regola. La rigidità e la durezza
coincidono con la mitezza. E se occorre amputare alcuni vizi, intollerabili ai
suoi occhi, come quello della proprietà, è per il motivo che occorre colpire
velocemente ed in modo duro, fin dall'inizio dell’errore
[46].
Pertanto, due direttive guidano il giudice secondo san Benedetto:
La prima contiene una forte lezione sulla colpevolezza, tanto che si può parlare
di un modello benedettino di colpa la cui eredità si farà sentire in tutta la
successiva storia penale
[47].
Questa lezione è certamente molto personale, segnata da una costante
preoccupazione di prendere in considerazione tutti i generi di esigenze di
natura psicologica o fisica. Ma essa è anche
«sociale»,
nella misura in cui, per il legislatore monastico, non c'è nessuna colpa
individuale – per quanto riconosciuta - che non richieda un’attiva e
riconosciuta partecipazione della comunità.
La seconda direttiva rientra nel campo della grazia e della necessità di guidare
l'autore del reato attraverso le difficili esigenze della ricerca di Dio
(traduzione letterale "santificazione")
e del progresso spirituale, per mezzo della pena. Anche in questo caso, non solo
il colpevole stesso è interessato, ma l'intera comunità. Non è mancata
un'interpretazione laica di questa penologia, ancora ai nostri giorni; ciò è la
prova della ricchezza e della pertinenza di un ragionamento dove è possibile
raccogliere un'eredità religiosa benedettina del perdono
[48].
A.
Il modello benedettino della colpevolezza e del suo giudizio.
La colpevolezza non fa parte praticamente del dominio del diritto penale antico
[49].
Essa implica, in effetti, volontà e libertà, e ciò è estraneo a questo diritto.
Inoltre, essa è raramente affrontata nei vari studi e, a prescindere dalle
questioni di teologi e filosofi, è molto difficile trovare convincenti argomenti
storici. Quindi conviene soffermarsi brevemente sul vocabolario della
colpevolezza nella Regula per
evidenziarne sia la propria diversità che la ricchezza giuridica. In seguito
sarà poi possibile studiare il campo di applicazione pratica di una giustizia in
cui la misura della colpevolezza prende il significato di un’approfondita
ricerca individuale, combinata con la preoccupazione di coinvolgere nel modo più
stretto possibile la comunità che non può mai pretendere di non avere alcuna
parte di responsabilità nell'errore.
La questione del vocabolario è di per sé difficile da trattare. Le parole
colpevolezza e
colpevole non appaiono che nei secoli
XII° e XIII° nel diritto penale laico e più tardi ancora per quanto riguarda la
responsabilità alla fine del XVIII°
secolo. Al contrario, i termini culpa,
culpabilis
(colpa, colpevole) sono antichi. Essi
appaiono sia nel diritto romano che negli scritti cristiani dei primi secoli
(Tertulliano, Clemente Alessandrino, Origene). Sant’Ambrogio di Milano e
Cassiano, che sono i riferimenti specifici per san Benedetto, enumerano gli otto
vizi capitali attorno ai quali si organizza la colpevolezza monastica
[50].
San Benedetto si situa quindi in un momento chiave, tra la fine della Roma
occidentale (della sua cultura e della sua esperienza giuridica) e l’epoca dei
grandi canonisti, ciò che spiega il suo ruolo in una nuova letteratura
giuridica: si tratta di sviluppare un genere morale che appaia come la guida di
una società passata quasi tutta sotto l'obbedienza alla legge divina. E’ così
che la Regola benedettina contiene un reale diritto della colpevolezza penale,
alla confluenza delle eredità obiettive del diritto romano
[51],
delle lezioni dei Padri della Chiesa e dei
casus penitenziali
[52].
Il suo autore lo attua in una maniera paterna, esigente e severa, diversa dai
suoi successori: i teologi e canonisti medievali che avevano una maggiore
fiducia nella ragione e nella consapevole responsabilità.
Nel mondo religioso di san Benedetto, la vita è un combattimento cruciale e
continuo tra l'amore di Cristo ed il peccato. La Regola riflette la forza di
questo sentimento di una colpevolezza onnipresente, ravvivata da una lettura
escatologica della storia. Si spiega così l'accuratezza con cui vengono create
le condizioni di un'educazione alla colpevolezza. Questi sono i passi
fondamentali per un giudizio degli atti e della loro intenzione soggettiva.
Determinati termini ivi contenuti sono, ovviamente, presenti nel linguaggio
giuridico romano: la nozione di voluntas,
di animus, di
mens, di
diligentia, ad esempio
[53].
Ma la Regula, a partire dalle
comprovate esperienze concrete, elabora anche i suoi propri criteri di
colpevolezza. Essi sono rapportati alla legge benedettina che imposta la norma
legale ed alla particolare personalità di colui che ne è coinvolto. Essa
contiene una distinzione ordinata e metodica della colpa. Sistematizza la
distinzione tra colpa lieve e colpa grave, scartando fin dall'inizio qualsiasi
connessione immediata tra la colpevolezza e la punizione. Del resto, è una
caratteristica originale del testo quella di respingere costantemente la
sanzione e di dare alla colpevolezza una quasi assoluta autonomia
[54].
Il metodo di misura
della colpevolezza prende in considerazione gli elementi interni di una persona
considerata nei suoi aspetti più intimi. Questo metodo riflette una costante
preoccupazione di soggettività nel legislatore monastico per il quale,
contrariamente dai suoi predecessori, è la natura dell'autore del reato che
richiede il trattamento penale e non la natura della colpa a cui consegue la
punizione. Nella sua Regola, san Benedetto ha implementato una vera e propria
pianificazione della ricerca e della misura della colpevolezza. Non c'è soltanto
una totale assenza di previa sistematizzazione del grado di coscienza criminale
ma, al contrario, una preoccupata attenzione in ciò che riguarda l'intenzione
colpevole stessa (si è parlato di "terapeutica dell'ansia"
[55]) o meglio, se questa intenzione rimane
nascosta, un'attenzione agli elementi di fatto ed alle circostanze particolari.
L’esame del reato è sempre al secondo posto. L'obiettivo principale è quello di
promuovere le migliori condizioni per una
conversio morum (che agisce sulla coscienza), garanzia della rieducazione e
della reintegrazione del colpevole. Qui, la parola latina
emendatio è usata in un senso diverso
dal corrente linguaggio penale di correzione, punizione. Essa ha un significato
riflessivo: è il dovere per il colpevole di correggersi
[56].
La dignità della persona richiede che l'autore del reato possa capire la sua
colpa per liberarsene.
La
colpevolezza,
il suo esame, il metodo utilizzato per la sua istituzione devono servire ad uno
scopo diverso da quello vendicativo. La
colpevolezza
è concepita come una spiritualizzazione della responsabilità penale, non solo
individuale, ma comunitaria. Ciò richiede diverse condizioni: spiegare l'atto
delittuoso, portare l'autore del reato a dichiararsi colpevole in modo che la
pena possa effettivamente agire in un ambiente comunitario che ha bisogno di
questo riconoscimento, di questa accettazione, per riconoscerlo come tale e
prendersi cura di lui
[57].
Il delicato compito di verifica dell’intenzione colpevole appartiene all'abate.
Ciò dipende dalle sue attribuzioni giudiziarie, ma soprattutto dalla sua
funzione di custode della Regola e di padre dei suoi monaci. Egli la realizza
superando la lettera della legge e prestando attenzione alla
discretio (discernimento). Vale a
dire che il capo della comunità deve tener conto del fatto che alcune colpe
devono rimanere nascoste, che non possono essere divulgate né pubblicate, perché
queste devono essere ricevute e giudicate solo da colui che possa ascoltarle e
comprenderle. Senza dubbio è possibile ravvisarvi un patrimonio agostiniano, ma
san Benedetto ha soprattutto voluto rompere un legame troppo fortemente
apparente tra la pena e la colpa. Egli si preoccupa più di distruggere le radici
del male che di imporre sanzioni immediate e concrete
[58].
Infine, il posto del giudizio a cui partecipa la comunità si spiega con il fatto
che la colpa è al di là della persona dell'autore del reato. La
culpa meritissima è un affronto a
tutti nel loro bene più prezioso: l'accesso al Regno. Siamo lontani dalle
concezioni contemporanee che riducono la
colpevolezza
al suo semplice senso penale o anche morale. Per questi motivi, la Regola
benedettina fa dell’ammissione di colpa davanti alla comunità un obbligo
generale che utilizza delle forme prese in prestito dallo stile giuridico di
Roma
[59].
Questa presa in carico del colpevole da parte della comunità non si limita al
fatto di ricevere la dichiarazione di colpevolezza (il famoso capitolo delle
colpe), ma essa si manifesta con una generosa accoglienza. In uno spirito
paolino da cui san Benedetto riprende alla lettera il testo (consolentur)
[60],
la soddisfazione richiesta si inserisce in un dolore condiviso da tutti. È solo
a questo prezzo che questa raggiunge il suo fine.
Così, il retaggio della colpevolezza e del suo giudizio si basa su dei
realistici schemi casistici ereditati dal diritto romano, ma esso si impone
soprattutto grazie ad una crescente soggettività. La colpa non è negata. Essa è
anche una tensione feconda, un’inquietudine creatrice essenziale per lo sviluppo
della responsabilità
[61]. Essa accresce la ricchezza della
persona poiché prende in considerazione tutto l’essere e poiché san Benedetto
supera ed unisce in un obiettivo generale le funzioni che le sono
tradizionalmente attribuite. Il pentimento che vi è incluso è anch’esso
positivo. Contrariamente al rimorso rivolto verso il passato - luogo dello
scrupolo e della disperata condanna di sé - il pentimento è rivolto verso il
futuro e trascende il tempo della pena quando il perdono è venuto a dargli la
sua accettazione finale
[62].
B.
L’eredità religiosa del perdono nella penologia benedettina.
Il perdono è così insito nel cristianesimo che questo perderebbe ogni
significato se gli si togliesse la sua funzione riparatoria e redentrice. Ma,
tenendo conto delle lezioni più generalmente antropologiche ed etnologiche,
molti autori hanno anche messo l'accento sul fatto che il perdono, nelle sue
forme giudiziarie, si inserisce in un criterio comunitario, strettamente
solidale, ed in un ordine metalogico (che
concerne i fondamenti, i principi e le strutture)
del diritto, stando alle parole di S. Goyard-Fabre
[63]. La principale preoccupazione delle
religioni, come delle mitologie è, infatti, la concordia, la pace. La giustizia
è la condizione della pace. Ma questo obiettivo non è separabile dai presupposti
della riconciliazione. La sua attuazione è legata alla volontà di stabilire un
ordine giuridico ideale, permanente e giusto.
L'eredità giuridica del cristianesimo più antico -
denuntiatio evangelica, dichiarazione
evangelica - , non solo ha
apportato un vocabolario religioso molto vasto (confessione,
pentimento, perdono, assoluzione, espiazione, emendamento, penitenza,
redenzione, correzione, mortificazione, redenzione, riconciliazione,
soddisfazione, conversione), in cui la confessione occupa un posto
fondamentale, ma offre l'esempio, fin dalle prime forme istituzionali delle
chiese cristiane, di una giustizia che si esercita in un quadro pedagogico
strettamente comunitario. L'umiliazione delle pene, inseparabile dall'espiazione
e dal perdono, è un esempio vivente, che intimorisce ed è utile a tutti. Questo
significato del perdono è interamente contenuto in una frase di san Paolo:
« Tis ászenei
kai ouk’ászenoo - quis infirmatur, et ego non infirmo?
Chi è debole, che anch’io non lo sia?»
(2 Cor 11,29).
Senza dubbio, la concezione agostiniana del dolore non manca da questa
costruzione dei rapporti tra l’espiazione ed il perdono, nella stessa
applicazione dell’azione penitenziale delle prime epoche cristiane. Tuttavia, la
lezione teologica del perdono è radicata anche tra il I° ed il V° secolo, in
forme di exomologesi
(stato di penitenza)
(ad esempio nel trattato de poenitentia
di Tertulliano
[64]
- o il Sermone 179 di san Cesario
d'Arles
«Poiché
è giusto che colui che si è perso trascinando con sé molti altri si redima
tramite il buon esempio dato alla comunità»)
che contengono diversi significati di cui la Regola benedettina riassumerà i
punti principali e li consegnerà alla storia attraverso delle pratiche
monastiche
[65].
La lettera stessa della Regula ci
illustra la messa in opera di un vero processo giudiziario del perdono nei
capitoli 23-30. Esso comprende dapprima l’ingresso in penitenza, con la
confessione fatta in pubblico oppure no, nel dolore e nelle lacrime (idea
ripresa nel Decreto di Graziano con
la celebre formula:
«Culpam
lacrimis diluat,
la colpa sia sciolta con le lacrime»)
[66], una pratica penitenziale di espiazione
sotto la supervisione di membri particolarmente scelti della comunità
[67]
ed infine la riconciliazione che si verifica quando l'abate ha ritenuto
opportuno che il colpevole possa essere riunito alla comunità senza rischio per
quest'ultima.
I termini utilizzati da san Benedetto
(confessio,
emendatio, correptio, intercessio, acceptatio poenitentiam, satisfactio,
remedium, remissiones, etc…)
costituiscono la base del vocabolario dei penitenziali e, quindi, secondo le
consuetudini giuridiche usuali e romane, quello del diritto penale
inquisitoriale.
Ciò che sembra essere la cosa più originale in questa rigorosa dimostrazione è
la cura addotta dal legislatore monastico per tenere le due estremità di una
catena di ragionamento apparentemente contrarie, senza cadere in una casistica
irrealistica. Da un lato egli costruisce un edificio giuridico e giudiziario del
perdono, dai contorni molto chiari e terribilmente esigenti, ma d'altra parte
egli sottolinea che non può esserci questione di punizione senza tener conto
della natura medicinale della pena. San Benedetto supera anche la classica
concezione attuata, più tardi, nel
Corrector sive medicus di Burchard di Worms, inserito nel
Decreto e che è pertanto considerato
l'archetipo del modello canonico
[68].
La sinderesi e la parenesi sono considerate da lui inseparabili dalla sua
penologia. Vale a dire il tormento della coscienza e l'esortazione al
pentimento, senza il quale la pena non può essere efficace. È all'abate
(giudice) che spetta di utilizzarli nel migliore interesse del colpevole e della
comunità. Egli deve farlo prendendo in considerazione la persona del colpevole,
delle sue forze fisiche e morali, delle sue capacità intellettuali di capire la
gravità del suo atto, le ragioni e la natura della punizione inflitta. Egli deve
stare attento a che la pena non lo opprima oltre misura. Questa preoccupazione
di proporzionalità, tanto cara ai moderni penalisti, è letteralmente scritta
nella Regola
[69].
La nozione di colpa imperdonabile che impedisce ogni perdono non appartiene al
sistema penale benedettino. E la scomunica stessa è solo una dichiarazione di
cautela che lascia intatte le successive possibilità di ritorno.
Si vede così che san Benedetto ha preso molte precauzioni nel realizzare il suo
edificio giudiziario. La pace di una comunità riposa meno, ai suoi occhi, sul
rispetto di rigorose regole che su uno spirito di mitigazione indispensabile al
quale il giudice deve lavorare instancabilmente. Ciò che preoccupa
essenzialmente il legislatore è di impedire la volontà ribelle di esprimersi con
troppa libertà. Le deviazioni sono sempre perdonate. La
disciplina è meno una punizione che
una linea di condotta pratica. Infine, il perdono è un pegno (segno) di
riconciliazione che trascende le relazioni umane. Esso supera di gran lunga i
bisogni collettivi, sociali o economici sviluppati dalle tesi non cristiane dei
teorici della rigenerazione, perché la complementarità della pena e della grazia
del perdono costituisce un insieme di una grande coerenza religiosa e giuridica
[70].
Per san Benedetto ed i suoi eredi monastici (come Dom Mabillon,
monaco benedettino medievista e teologo francese, 1632-1707),
si tratta di una completa riconciliazione. Poiché, sull'esempio di Cristo,
questo perdono è senza limite umano, geografico, storico. La sua dimensione
trascende le relazioni umane e comprende un’attiva accettazione della comunità
[71].
Questa affermazione degli stretti legami tra la spiritualità ed il diritto
consente, così sembra, di capire meglio l'influenza, così particolarmente forte,
che la Regola benedettina e la persona del suo autore hanno esercitato sulla
società medievale e ben oltre su tutto il mondo occidentale. Questa autorità
deve essere compresa, non solo a partire dagli elementi spirituali che contiene,
ma tenendo conto del valore della sintesi giuridica che vi si trova inclusa. E’
a questo titolo che l'opera di san Benedetto è un modello per un'intera società
e che egli appare come un eminente giurista. Allo stesso modo che questa sintesi
non è solo un breve riassunto delle idee del suo tempo, il valore della Regola
supera di gran lunga il ridotto mondo dei Regolari (sacerdoti
che seguono la Regola di sant'Agostino).
Nella sua filiazione agostiniana essa ha costruito un tipo politico, sociale ed
economico che unisce, il più vicino possibile, le esigenze della Città terrena e
della Città celeste. Essa ha inscritto il nome e le prerogative del servitore
della legge sulla vetta più alta, dandogli il pesante fardello della
responsabilità delle anime, delle persone e dei beni. Il diritto vi assume un
significato plenario che è stato considerato, per lunghi secoli e per tutta la
società occidentale, come non appartenente alla semplice utopia giuridica. Al
contrario, la Regola di san Benedetto ha ispirato la disciplina dei rapporti
degli uomini tra di loro, non solo nel ristretto mondo della società monastica
ma anche all'interno di tutta la comunità civile. Per quanto riguarda questo
significato teleologico del diritto e delle istituzioni (qui considerato
specialmente dal punto di vista della giustizia), la Regola ha dato all'Europa
delle fondamenta religiose decisive in cui è radicata la sua storia e che
sarebbe opportuno e giusto includere nella stessa lettera della sua nuova legge
fondamentale.
NOTE: (Le note ed il testo in
carattere sottolineato sono state aggiunte dal traduttore).
[1]
Paolo VI, Pacis Nuntius, Acta
Apostolicae Sedis 56, (1964), p. 1965.
[2]
Mgr J.-L.
Tauran, «Conferenza tenuta al Symposium di Monte Cassino sul Trattato
costituzionale europeo», pubblicato sull'Osservatore
Romano (n. 14), 8 aprile 2003, p. 7.
[3]
1 Cfr. H. S. Brechter (ed.), Benedictus,
der Vater
des Abendlandes
(Il Padre dell'Occidente),
547-1947, München, 1947
La proclamazione è stata fatta dal Papa Pio XII, il 18 novembre 1947.
[4]
Gli studi sulla Regola di san Benedetto sono oggi immensi. Il
riferimento di base è A. M. Albareda,
Bibliografia de la Regla
benedictina, Monserrat, 1933, continuato da J.
Damascène
Broekaert e B. Jaspert. A cui deve essere aggiunta l’Internationale
Bibliographie
zur Regula benedicti pubblicata nelle
Regulae Benedicti Studia II,
1973 e nel Bulletin d’histoire bénédictine (Bollettino di storia
benedettina) che tiene aggiornato tutto ciò che riguarda la vita e
l'opera di san Benedetto in
Revue Bénédictine
e permette un costante aggiornamento. È anche possibile isolare i volumi
delle
Mélanges bénédictins
pubblicate nel 1947, nel 14° centenario della morte di san Benedetto.
[5]
Cfr. L'introduzione alla Regola di san Benedetto di
dom A. de Vogüe,
volume I, (in collaborazione con J. Neufville, collezione
«Sources chrétiennes n° 181-186 bis»,
6 volumi, Parigi, ed. Cerf, 1972) ed i commenti della traduzione
spagnola di J. Aranguren, La
Regla benedictina,
B.A.C.
406, Madrid, 1979.
[6]
Dom Paul Delatte, Commentaire sur
la Règle de Saint Benoît (Commento
alla Regola di san Benedetto), Parigi, Mame,1969, p. 11.
[7]
"a
contrario":
locuz. lat. («[movendo] dal contrario»). – Nella logica, ragionamento
a contrario, argomentazione
dialettica di tipo analogico che consiste nel ricavare da ipotesi
contrarie conseguenze contrarie.
Si contrappone al ragionamento a
pari. (Da "Vocabolario
Treccani")
[8]
Graziano
(Monaco
benedettino, giurista, fondatore del diritto canonico, 1075/80-1145/47)
dedica ai monaci solo una piccola sezione del
Decreto (Le
Cause dalla 16 alla 20 e la
Causa 27 q. 1 che si occupa
del voto. I Decretali vi si
interessano molto di più, si veda
Dom J. Hourlier, L’Âge classique (L’Età classica) 1140-1378, Les
Religieux (I Religiosi), in G. Le Bras,
Histoire du droit et des
Institutions de l’Eglise en Occident (Storia del diritto e delle
Istituzioni della Chiesa in Occidente), volume X, Cujas, 1971, p.
27- 32.
[9]
P. Cousin, Précis d’histoire
monastique (Compendio di
storia monastica),
Parigi, 1956, p. 191.
[10]
Cl.- J. Nesmy,
Saint Benoît et la vie monastique
(San Benedetto e la vita
monastica),
Parigi, 1958, p. 21.
[11]
Sul linguaggio di san Benedetto, si veda
Chr. Mohrman,
« Etudes sur la langue de st Benoît
(Studi
sulla lingua di san Benedetto)»,
in Dom Ph. Schmitz, Regula
benedicti, Maredsous, 1945, p. XIII. Sullo stato delle questioni a
patire dal 1954, I. M. Gomez in
Hispania Sacra, 9 (1956) I, p. 5-59 e
A. de Vogüe, ibidem, I,
p. 20 s.
[12]
S. Zincone, «articolo
Benedetto da Norcia», in A. Di Bernardino, Fr. Vial,
Dictionnaire encyclopédique du christianisme ancien
(Dizionario enciclopedico del cristianesimo antico),
I,
éd.
Cerf, 1990, p. 369.
[13]
Può essere utilizzato per affrontare la traduzione del libro II dei
Dialoghi di san Gregorio,
Saint Grégoire le Grand, Vie et
miracles du Bienheureux Père Saint Benoît (San
Gregorio Magno, Vita e miracoli
del Beato Padre san Benedetto),
ed. de la Source,
Parigi, 1952.
[14]
Si può prendere una più equa misura del tempo di san Benedetto nei
capitoli a lui dedicati da
G. Schnürer
nell’opera
L’Eglise et la civilisation au Moyen Âge
(La Chiesa e la civilizzazione
nel Medioevo), Parigi, 1934, I, p. 167-205 e soprattutto
E. Delaruelle,
Le christianisme et l’Occident barbare
(Il cristianesimo e l’Occidente barbarico),
Parigi, 1945.
[15]
Dom J. Hourlier,
«La Règle de st Benoît, source du droit monastique (La
Regola di san Benedetto, fonte del diritto monastico)»,
Études de droit canonique
dédiées à (Studi di diritto canonico
dedicati a)
Gabriel Le Bras, Parigi,
1962, p. 157 s.
[16]
G.-D. Guyon,
«La Règle de st Benoît, analyse juridique et évolution des origines à la
réforme cistercienne (La
regola di San Benedetto, analisi giuridica ed evoluzione dalle origini
alla riforma cistercense)»,
Revue juridique et économique du Sud-Ouest
(Rivista giuridica ed economica
del Sud-Ovest), n. 3-4, 1969.
[17]
L'oblazione è presente
nella Regola Benedettina in una forma un po' diversa da come si intende
oggi. Nella Regola si parla di figli di nobili o di altra condizione
sociale offerti a Dio nel monastero (RB 59). Con l'andare dei secoli
l'oblazione venne ad indicare l'atto con cui uomini e donne offrivano se
stessi e i propri servizi al monastero e si mettevano sotto la sua
protezione.
[18]
L'esenzione monastica
consente ad un ordine ed ai suoi monasteri di dipendere direttamente
dalla Santa Sede, e non dal Vescovo, in campo liturgico, pastorale e
spirituale.
[19]
Alcuni esempi: Dom F. Chamard,
«Les abbés au Moyen Âge (Gli
abati nel Medioevo)»,
Revue des Questions Historiques,
(Rassegna di Questioni Storiche),
1885, p. 71-108. Dom Besse,
«Du droit d’oblat dans les anciens monastères (Del
diritto di oblato negli antichi monasteri)»,
Revue Mabillon, 1907, pp.
1-17; 116-133 H. Lévy-Bruhl,
Les élections abbatiales
(Le elezioni abaziali),
Parigi, 1913. Dom U. Berlière,
L’ordre monastique
(L'ordine monastico),
Maredsous, 1924; Dom Butler,
Le monachisme bénédictin
(Il monachesimo benedettino),
Parigi, 1924. G. le Bras,
«Origines de l’oblature bénédictine (Origini
dell’oblatura benedettina)»,
RHD, 1930. M. Joliot,
La condition juridique du religieux, Thèse droit
(Lo status giuridico del religioso, Tesi di diritto),
Bordeaux, 1942. C. Capelle,
Le voeu d’obéissance des origines au XIIe siècle, (Il
voto di obbedienza dalle origini al XII° secolo),
Parigi, 1959.
Dom A. de Vogüe, La communauté et
l’abbé dans la Règle de st Benoît,
(La comunità e l'abate nella Regola di san Benedetto),
Parigi, 1961. Dom P. Salmon,
L’abbé dans la tradition monastique,
(L'abate nella tradizione monastica),
Parigi, 1962.
[20]
Si vedano le pagine dedicate alle regole, così come l’orientamento
bibliografico molto chiaramente esposto da Dom J. Hourlier,
Les Religieux,
(I religiosi),
op. cit., p. 34-35 (costumi) e 42-44, nonché la sintesi finale sul
valore del diritto monastico.
[21]
D. Renaudin,
Saint Benoît dans l’histoire,
(San Benedetto nella storia),
Clairvaux, 1924 che include molti testi di Papi, sovrani, storici e
numerosi autori spirituali.
[22]
Cfr. Le pagine di R. Aigrain, in A. Fliche e V. Martin,
Histoire de l’Eglise,
(Storia della Chiesa),
volume 5, Bloud e Gay, Parigi, 1947, p. 17-54.
[23]
Cfr. L'introduzione di G.
Le Bras,
in Dom P. Salmon,
L’abbé dans la tradition monastique,
(L'abate nella tradizione monastica),
op. cit. p. 5s.
[24]
Regula Benedicti
1, 2
« Monachorum quattuor esse genera
manifestum est ; primum coenobitarum : hoc est monasteriale, militans
sub regula vel abbate.
Deinde secundum genus est anachoretarum… Tertium vero monachorum
teterrimum genus est sarabaïtarum...
Quartum vero genus est monachorum quod nominatur gyrovagum.. (E' noto
che ci sono quattro categorie di monaci. La prima è quella dei cenobiti,
che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate. La
seconda è quella degli anacoreti... La terza categoria di monaci,
veramente detestabile è formata dai sarabaiti…
C'è infine una quarta categoria di monaci, che sono detti girovaghi...)».
[25]
Pierre Legendre a questo riguardo parla del
«terzo
inaugurale di tutta la costruzione giuridica».
Questo tramite della persona dell’imperatore romano (del re o del capo)
è essenziale per la comprensione dell'ordine giuridico e politico e del
suo funzionamento.
Sur la question dogmatique en Occident,
(Sulla questione dogmatica in Occidente),
Parigi, 1999, p. 237.
[26]
«Incipit textus regulae: regula
appellatur ab hoc quod oboedientium dirigat mores (Inizia il testo della
regola: si chiama Regola poiché dirige la vita di quelli che obbediscono».
[27]
Su questo punto i ricchi commenti di A. Linage Conde,
«Antropologia de la Regla de san Benito»,
Asclepio 20 (1968), p. 135-163.
[28]
Regula
Incipit Prologus 106
« Constituenda est ergo nobis
Dominici scola servitii : in qua institutione nihil asperum, nihil grave
nos constituturos speramus. Sed et si quid paululum restrictius,
dictante aequitatis ratione, propter emendationem vitiorum vel
conservationem caritatis processerit, non ilico pavore perterritus,
refugias viam salutis, quae non est nisi angusto initio incipienda
(Bisogna dunque istituire una scuola del servizio del Signore nella
quale ci auguriamo di non prescrivere nulla di duro o di gravoso; ma se,
per la correzione dei difetti o per il mantenimento della carità, dovrà
introdursi una certa austerità, suggerita da motivi di giustizia, non ti
far prendere dallo scoraggiamento al punto di abbandonare la via della
salvezza, che in principio è necessariamente stretta e ripida)».
Quanto alla gerarchia, essa è stabilita nei capitoli LXIII «de
ordine congregationis (l’ordine della comunità)» e LXIV «de
ordinando abbate (l’elezione dell’abate».
[29]
Questo ordine è essenzialmente previsto nei capitoli LXIII «
de ordine congregationis :
ordines suos in monasterio ita conservent, ut conversationis tempus, ut
vitae meritum discernit utque abbas constituerit (l’ordine della
comunità: nella comunità ognuno conservi il posto che gli spetta secondo
la data del suo ingresso o l'esemplarità della sua condotta o la volontà
dell'abate
» e LXIV «de ordinando abbate
(l’elezione dell’abate)».
[30]
Regula LXXI «ut oboedientes sibi
sint invicem (l’obbedienza fraterna)».
Secondo i commentatori della Regola, la perfezione è un reale obbligo di
coscienza che i voti hanno solennemente consacrato e la Regola ne è la
stessa forma giuridica. Cfr. P. Delatte,
Commentaire, op. cit. p. 447.
[31]
Si vedano a questo riguardo le riflessioni esposte da Dom J. Leclercq
«Les paradoxes de l’économie monastique (I paradossi dell’economia
monastica)»,
in
Inspirations religieuses et structures temporelles, (Ispirazioni
religiose e strutture temporali),
Parigi, 1948, p. 211, 212 ed in
Economie et Humanisme (Economia e Umanesimo) n ° 17, (gennaio 1958).
[32]
Su questo tema della personalizzazione del potere, pagani e cristiani
seguono la stessa direzione e le formule (a partire dal
Pater legum – dall’origo
romana), lo scritto vivente «nomos
émphikos», la
«omnia habet in scrinio pectoris
sui, contiene nel suo corpo tutte le leggi» si inscriveranno
al cuore delle idee monarchiche costituzionali.
Giustiniano, Codex 6, 23, 19.
J. R. Fears,
Princeps a diis electus.
The Divine Electio of the Emperor as a Political Concept at Rome
(Papers and Monographs of the American Academy in Rome 26).
(La
divina elezione dell'imperatore come concetto politico a Roma)
(Articoli e Monografie dell'Accademia Americana di Roma, 26), Roma,
1977, ha ben evidenziate le questioni legate al concetto che esprime la
legittimità del potere politico ed il suo rapporto con la religione.
[33]
La Regola di san Benedetto,
op. cit. Introduzione, volume I.
[34]
J.-Fr. Lemarignier et J. Gaudemet,
in
F. Lot et R. Fawtier, Histoire
des Institutions françaises au Moyen Âge, III, Institutions
ecclésiastiques,
(Storia delle Istituzioni francesi nel Medioevo, III, Istituzioni
ecclesiastiche),
le pagine sulla Chiesa regolare, 26-41 ed il capitolo V sugli ordini
religiosi, p. 220-242.
[35]
Regula
LXIV, 23
«sciatque sibi oportere prodesse
magis quam praeesse (e sia consapevole che il suo dovere è di aiutare,
piuttosto che di comandare)».
[36]
Ad esempio, P. M. Ascari, Idee e
sentimenti politici dell'Alto Medievo, Giuffrè, 1968; P. D. King,
«Les royaumes barbares, (I
regni barbarici)
»,
in J.H.Burns,
Histoire de la pensée politique médiévale
(Storia del pensiero politico medievale),
Parigi, 1993; M. Senellart,
Les arts de gouverner : du « regimen » médiéval au concept de
gouvernement
(Le arti di governare: dal
« regimen »
medievale al concetto di governo),
Parigi, 1995.
[37]
Cfr M. Reydellet,
La royauté dans la littérature latine de Sidoine Apollinaire à Isidore
de Séville
(La regalità nella letteratura latina da Sidonio Apollinare a Isidoro di
Siviglia),
Parigi, 1981, p. 505-597; J. Fontaine,
Isidore de Séville et la culture classique dans l’Espagne Wisigothique
(Isidoro di Siviglia e la cultura classica nella Spagna Visigota),
Parigi, 1959, così come l'opera collettiva pubblicata per il XIV°
centenario della sua nascita:
Isidoriana.
Estudios sobre san Isidoro de Sevilla,
Leon, 1961; C. Dagens, Grégoire
le Grand.
Cultures et expérience chrétienne
(Gregorio Magno.
Culture ed esperienza cristiana),
Parigi, 1977 e J. Fontaine, R. Gillet, S. Pellistrand (ed.),
Grégoire
le Grand,
Parigi, 1986.
[38]
Regula 2, 81-89.
«L'abate
deve sempre ricordarsi quel che è e come viene chiamato, nella
consapevolezza che sono maggiori le esigenze poste a colui al quale è
stato affidato di più. Bisogna che prenda chiaramente coscienza di
quanto sia difficile e delicato il compito che si è assunto di dirigere
le anime e porsi al servizio dei vari temperamenti, ... perciò si
conformi e si adatti a tutti, secondo la rispettiva indole e
intelligenza».
[39]
Si vedano le pagine estremamente ricche scritte da Y. Sassier, sulla
costruzione degli elementi della dottrina cristiana della regalità e
quella del rettore cristiano,
Royauté et idéologie au Moyen Âge. Bas-empire, monde franc, France
(Regalità e ideologia nel Medioevo. Basso impero, mondo franco, Francia
(IV° - XII° secolo), Parigi,
2002, p. 96-102.
[40]
Regula 2,3-4
«Christi enim agere vices in
monasterio creditur …memor semper abbas, quia doctrinae suae vel
discipulorum oboedientiae…, utrarumque rerum in tremendo iudicio Dei
facienda erit discussio (Sappiamo infatti per fede che in monastero egli
tiene il posto di Cristo, poiché viene chiamato con il suo stesso
nome... Si ricordi sempre che nel tremendo giudizio di Dio dovrà rendere
conto tanto del suo insegnamento, quanto dell'obbedienza dei discepoli)».
Questi dati costituiranno dei parapetti per l'ulteriore autorità
politica medievale. Cfr O. Guillot,
«Le concept d’autorité dans l’ordre politique issu de l’an mil (Il
concetto di autorità nell’ordine politico sorto nell'anno 1000)
»,
nel testo
La notion d’autorité au Moyen Âge, Islam, Byzance, Occident
(La nozione di autorità nel Medioevo, Islam, Bizanzio, Occidente),
Parigi, 1982, p. 127-140.
[41]
Y. Sassier,
Royauté et idéologie
(Regalità e ideologia),
op. cit. p. 110.
[42]
Regula 3 in particolare la formula
«Et audiens consilium fratrum
…Ideo autem omnes ad consilium vocari diximus, quia saepe iuniori
Dominus revelat quod melius est
(Dopo aver ascoltato il parere dei fratelli... Ma abbiamo detto
di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane
che il Signore rivela la soluzione migliore)».
[43]
Regula 2,13.
[44]
Ibid. 53, 47
«et domus Dei a sapientibus et
sapienter administretur (e la casa di Dio sia governata con saggezza da
persone sagge)».
[45]
Possiamo trovare un esempio sul modo come l'abate è giudice delle
trasgressioni durante i tempi di preghiera o di lavoro, G.-D. Guyon,
« Le temps et le droit dans la Règle bénédictine (Il
tempo ed il diritto nella Regola benedettina)»,
nel testo
Le temps et le droit, Actes des journées Internationales de la Société
d’Histoire du Droit
(Il tempo ed il diritto, Atti delle giornate Internazionali della
Società di Storia del Diritto),
Nizza 2000, Università di Nizza - Sophia Antipolis, Centro di Storia del
diritto, Nizza, 2002, p. 37-50.
[46]
Regula
2, 26-29.
[47]
Su questo tema, G.-D. Guyon,
«Réflexion sur le modèle pénal de la culpabilité monastique bénédictine
(Riflessioni
sul modello penale della colpevolezza monastica benedettina)»,
in
La Culpabilité, Cahiers de
l’Institut d’Anthropologie juridique
(La colpevolezza, Quaderni
dell'Istituto di Antropologia giuridica), n. 6, 2001,
Presse Universitaire de Limoges,
p. 403-427.
[48]
G.-D. Guyon,
«l’héritage religieux du pardon dans la justice pénale de l’Ancien droit
(l’eredità religiosa del perdono nel sistema della giustizia penale
dell’Antico diritto)»,
Le Pardon, Cahiers de l’Institut
d’Anthropologie Juridique,
(Il perdono, Quaderni
dell'Istituto di Antropologia Giuridica), n. 3,
Presse Universitaire de Limoges,
1999, p. 87-115.
[49]
A. Laingui,
La responsabilité dans l’Ancien Droit (La
responsabilità nell’Antico Diritto) (XVI-XVII secolo), Parigi, p. IX
evidenzia l’ampiezza quasi disperata, agli occhi del ricercatore, del
tema della colpevolezza, dell’imputabilità e della responsabilità. Idea
ripresa da
J.-L.
Gazzaniga,
«Notes sur l’histoire de la faute (Note
sulla storia della colpa)»'',
Droits
(Diritti),
5, 1987, p. 19-22.
[50]
J.
Gaudemet,
«Le problème de la responsabilité pénale dans l’Antiquité (Il
problema della responsabilità penale nell'antichità)»,
Studi Betti, 1962, vol. II,
p. 483 s.
[51]
Il linguaggio giuridico romano ha insistito a lungo meno sulla
perpetrazione di un atto criminale o nocivo che su «ciò
che rappresenta, una volta perpetrato, l'atto incriminato», secondo
la formula di Y. Thomas
«Acte, Argent, Société.
Sur l’homme coupable dans la pensée juridique romaine (Atto,
Soldi, Società.
L'uomo colpevole nel pensiero giuridico romano)»,
Archives de philosophie du droit
(Archivi di filosofia del diritto),
1977, p. 62-83. Il delictum
non è tanto il delitto in sé, ma ciò che viene a mancare (delinquere).
Per esempio: il furtum è la
cosa rubata.
[52]
I successori di san Benedetto, ed in particolare i confessori dei grandi
penitenziali, non avranno i suoi scrupoli. C. Vogel,
Le pécheur et la pénitence au Moyen Âge
(Il peccatore e la penitenza nel Medioevo),
Parigi, 1982.
[53]
A partire dal III° secolo, le sentenze ed i testi legislativi
fondamentali mostrano che, sotto l'influenza dei giuristi, si pensa di
superare il quadro rigoroso dei
casus (occasioni). Tuttavia, ciò non cambia in profondità la
culpa che non è apprezzata
soggettivamente e che è sempre basata su criteri oggettivi. R. Lebigre,
La responsabilité en droit romain classique
(La responsabilità nel diritto romano classico),
Parigi, 1967, p. 73-76.
[54]
Regula 25 (De gravioribus culpis
(Le colpe più gravi)), 26
(De his qui sine iussione iungunt
se excommunicatis (Coloro che
si avvicinano agli scomunicati senza autorizzazione)).
[55]
Si veda "La
règle de Saint Benoît: Commentaire historique et critique", Vol. V,
a cura di Adalbert de Vogüé, Jean Neufville. Sources Chrètiennes N. 185,
Les Editions du Cerf 1971.
Nel
capitolo sul Codice Penale della Regola, a pag. 761, il de Vogüé cita la
"terapeutica ansiosa". Il capitolo si conclude così "Benedetto si ispira
senza dubbio ad una migliore conoscenza della psicologia dei peccatori
(rispetto alla Regola del Maestro). Il suo rituale della soddisfazione
porta il marchio dell'esperienza".
[56]
Regula
43, 19
(...ut visi ab omnibus vel pro
ipsa verecundia sua emendent
(perché si correggano almeno per la vergogna di essere visti da tutti)).
San Benedetto utilizza tutte le risorse ereditate dalla patristica.
Queste sono note a partire dalla
Didaché, dalle lezioni di Origene e di Ambrogio di Milano ed esse
passeranno nel Corrector sive
medicus (Correttore o
piuttosto medico) di Burchard di Worms.
Cfr. F. Hockey,
« Origen used by st Benedict in his rule?
(Origene
utilizzato da san Benedetto nella sua regola?)»,
Revue bénédictine,
72 (1962), p. 349-350.
[57]
Contrariamente ai suoi predecessori, san Benedetto ha un'ossessione
pedagogica: La colpevolezza concepita come una spiritualizzazione della
responsabilità penale in cui è fondamentale l'ammissione di tutto a
tutti.
«Ut
sanetur (perché si correggano)»
proclama la Regula 30, 3. Per
un'analisi contemporanea della dimensione teologica ed antropologica, si
veda P. Guilly,
La culpabilité fondamentale. Péché originel et anthropologie moderne
(La colpevolezza fondamentale. Peccato originale ed antropologia moderna),
Parigi, 1975.
[58]
I testi della Regola sembrano ripetere all'infinito le stesse
disposizioni, tanto il percorso è lungo, paziente e misericordioso, tra
la colpevolezza e sua confessione, la conversione e la riammissione
nella Comunità.
(Regula 27, 2-4; 28: 1-3; 29: 3).
[59]
Regula
46, 3. Le solenni disposizioni, sembrano essere ispirate alle
costituzioni imperiali, tanto i termini sono ripetitive (quovis,
quocumque, ubi ubi...). Alcune di tali disposizioni appaiono uscite
direttamente dal diritto romano (Per esempio:
de his qui in aliis quibus libet rebus delinquunt...(coloro
che commettono mancanze in altre occasioni…)).
[60]
Regula
27, 10
« et consolentur eum, ne abundantiori tristitia absorbeatur (e lo
incoraggino perché non sia sommerso da eccessiva tristezza)
»,
è allora che deve essere ancora maggiore la carità verso il colpevole (2
Cor, 2.8
« Dio parakaló ímas kirosai eis
auton ágapen » « propter quod obsecro vos ut confirmetis in illum
caritatem (Vi esorto quindi a far prevalere nei suoi riguardi la carità)»..).
[61]
Il P. J. Joblin, in un articolo sull'Osservatore
Romano, ha sottolineato come il fatto di essere liberi di ratificare
o no il loro rapporto con Dio ha spinto i credenti all'introspezione per
chiedersi se avessero risposto bene ai loro doveri verso Dio.
«Euthanasie : l’Occident à la croisée des chemins (Eutanasia :
l'Occidente al bivio)
»,
n. 20 del 16 maggio 2000. Ciò che ha portato l'uomo occidentale ad
andare oltre se stesso.
[62]
Inserendo la colpevolezza nel campo della libertà umana, san Benedetto è
stato all'origine di un processo che lo ha portato fuori dal campo quasi
esclusivamente materiale della colpa. Accordando sempre più attenzione
all'intenzione colpevole, egli ne ha fatto una parte essenziale della
costruzione dell’essere. L. Mayali,
«The concept of discretionary in medieval jurisprudence (Il
concetto di discrezionalità nella giurisprudenza medievale)»,
Studia in honorem eminentissimi
cardinalis, A. Stickler,
Pontificia studiorum universitas Salesiana. Facultas iuris canonici.
Studia et Textus Historiae iuris canonici,
7, Roma, 1990, p. 299-315.
[63]
« Le procès révélateur du droit (Il
processo rivelatore del diritto)»,
Revue de la Recherche juridique
(Rivista della Ricerca Giuridica),
1983, p. 144.
[64]
7.8.10 (C.C.L, II, 306-311). Per Tertulliano, l’ammissione della colpa
deve essere una sofferenza dolorosa. I riferimenti biblici sono
ripetitivi: «Quando emetterai grida di dolore e ti convertirai, allora
sarai salvato (Nella conversione e nella calma sta la vostra
salvezza. Bibbia C.E.I.)» (Isaia 30,15) - «Prima riconosci i tuoi
peccati in modo che tu sia giustificato (parla tu per giustificarti.
Bibbia C.E.I.)» (Isaia 43,26).
[65]
Citato nella traduzione di C. Vogel,
La pénitence dans l’Eglise ancienne
(La penitenza nella Chiesa antica),
Parigi, 1982, p.82.
[66]
D. 12, C. 13. San Benedetto ricorda qui le lezioni di Cassiano che
insiste sull’ingresso nella penitenza, la confessione della colpa in
«lacrime
sparse in abbondanza»
(Conferenza 20 / C.S.E.L.,
XIII, 553). Si veda l’articolo di H. Vidal,
«Les larmes dans le Décret de Gratien (Le
lacrime nel Decreto di Graziano)»,
in La douleur et le droit, (Il
dolore ed il diritto),
Parigi, 1997, p. 199-209.
[67]
Regula
27, 6-8
«immitere sympectas, id est,
seniores sapientes fratres, qui consolentur fratrem fluctuantem
(inviando in qualità di amici fidati dei monaci anziani e prudenti che
quasi inavvertitamente confortino il fratello vacillante)».
[68]
Decreto,
19:26. Si possono anche trovare dei rituali vicini nei
Libri de Synodalibus Causis
di Réginon de Prüm I, 291 (P.L. 132, 245-260).
[69]
Regula 24,3
«Secundum modum culpae et
excommunicationis vel disciplinae mensura debet extendi (La scomunica e,
in genere, la punizione disciplinare dev'essere proporzionata alla
gravità della colpa)».
[70]
C'è una sintesi chiara e molto rigorosa sulle questioni relative alla
pena capitale in
J.-M. Carbasse,
La peine de mort
(La pena di morte),
(Coll.
Que sais-je? (Che
cosa so?)), Parigi, 2002.
[71]
In diritto canonico, la pena è basata sulla
communio, (qualsiasi colpa
grave è pertanto la colpa di tutti, perché mette in pericolo la salvezza
di tutti). Conviene dunque collegare strettamente la concezione
comunitaria della santificazione e la pena stessa.
L. Waelkens,
«La peine en droit canonique (La
pena in diritto canonico)»,
nel libro La peine (la pena),
Recueil de la Société (Collezione
della Società) J. Bodin,
LV, Bruxelles, 1991, p. 403.
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7 ottobre 2107 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net