LA REGOLA DEL MAESTRO
CAPITOLO III
DOTTRINA
Introduction, texte, traduction et notes par Adalbert de Vogüé.
Sources Chrétiennes 105–7. Paris: Cerf, 1964–65
(Libera traduzione dal francese.
Ndt.)
1. L'ideale spirituale
[1]
La dottrina ascetica del Maestro poggia su un'antropologia (Scienze
riguardanti l'uomo. Ndt.) ed una
soteriologia
(Dottrina della salvezza. Ndt.).
Questo insieme di idee sulla natura umana, la redenzione da parte di Cristo e la
salita verso la perfezione, non ha nulla d'originale se lo si colloca nel suo
contesto storico. Il Maestro non fa che appropriarsi di un pensiero comune a
tutta l'antichità cristiana. Tuttavia uno schema di questa dottrina non sarà qui
inutile, innanzitutto perché alcuni temi, troppo poco familiari oggi, richiedono
di essere messi in luce, ed inoltre perché si vedrà prendere forma un’immagine
dell'autore e dell'opera: la stesura della RM presuppone una ben ampia cultura ed una certa
riflessione personale in questo ambito.
Secondo la concezione corrente a partire da San Paolo (1 Ts 5,23), il Maestro si
rappresenta l'uomo come un aggregato di tre principi:
corpo, anima e spirito (Thp 28; 1,80;
81,18-19). L'elemento inferiore sarà molto spesso chiamato “carne„, con il
valore peggiorativo che si collega a questo termine nel vocabolario paolino: la
carne, è l'appetito corporale sregolato, che è in opposizione alla legge di Dio
e dove regna il peccato. Lo spirito, al contrario, è la tendenza nobile e sana
con la quale l'uomo ama Dio ed aderisce alla sua volontà. Tra queste due
aspirazioni antagoniste, l’anima è il principio di libertà che obbedisce
alternativamente all'una od all'altra. Questa oscillazione dell’anima tra la
carne e lo spirito è tutto il dramma della vita umana, della vita cristiana,
della vita monastica.
Infatti, da questa scelta dipende la salvezza. Il corpo è soltanto terra e
polvere, solo l’anima gli dà forma umana e consistenza (8,11-17). Tutta la vita
dell'uomo ha il suo principio nell’anima. È lei che sente, che muove, che
agisce. Nulla di ciò che si opera con il corpo sfugge al suo controllo ed alla
sua responsabilità (8,24; 14,82-83). Di conseguenza, è l’intera vita umana che
si trova situata nel campo del libero arbitro e sottoposta al giudizio di Dio.
Ogni azione umana, dalla più grande alla più trascurabile, impegna una scelta
dell’anima pro o contro lo spirito, cioè pro o contro Dio. Quando arriva la
morte, il corpo abbandonato ricade in polvere, ma l’anima porta via l’intero
carico delle sue opere terrestri, buone o cattive, che la caratterizzeranno per
l'eternità.
I beni materiali, che non possono seguire l’anima dopo la morte, sono dunque
senza importanza (86,9-10). La sola cosa che rimane è questa stessa anima ed il
conto che dovrà rendere di tutte le sue azioni. La visione del giudizio da cui
dipende la felicità eterna o la geenna, è ciò che determina l'uomo alla
conversione, in altre parole all'entrata nel monastero (Pr 6 e 17-21). È la
stessa visione che determina tutta la struttura della comunità monastica e
l’ascesi imposta ad ogni suo membro. Il monastero non è altro che una
scuola (Ths 45) dove si apprende a servire Dio, un’officina (2,52) dove si
eseguono i suoi ordini, un’armata (1,5) in guerra contro la "carne". Tutto vi è
calcolato in vista di compiere la volontà divina e di eliminare del tutto il
peccato da ogni esistenza individuale. Si tratta di offrire allo sguardo
presente di Dio ed al suo giudizio futuro delle anime senza macchia, delle vite
immacolate.
Nulla d'originale, ripetiamolo, in queste prospettive. Allora come oggi, le
nozioni di salvezza eterna, di legge divina, di peccato, di giudizio, formavano
il quadro mentale di ogni esistenza cristiana. Ciò che è singolare è l'intensità
con la quale queste nozioni sono qui “realizzate„, nel senso newmaniano del
termine
[2]. Nel monastero del Maestro, la coscienza
individuale e collettiva è veramente assillata da tali pensieri. La regola
propone ad ogni istante il tema della lotta contro il peccato. Si
va all'oratorio per celebrare una piccola ora? Il motivo addotto alla
celebrazione sarà di rendere grazie a Dio per queste tre ore passate senza
peccato. Si organizza un orario quotidiano? Il primo fine assegnato al lavoro è
di occupare lo spirito, in modo di cacciare i cattivi pensieri. Si fa una
preghiera prima di ogni lavoro? Si tratta di implorare l'aiuto divino per non
commettere alcun peccato e non dispiacere al Signore in nessun momento (tutto
il paragrafo si riferisce al cap. 50).
L’intensità di questo assillo consiste nel fatto che si ha coscienza di non
lottare soltanto contro la "carne" ed il sangue, ma contro la potenza malefica del
diavolo, accanito nel mandare in rovina gli uomini. Nel mondo Satana regna
tranquillamente su un'umanità che gli appartiene. Nel monastero, al contrario,
esso si scatena contro degli uomini che pretendono di resistergli (90,69-70).
Entrare al servizio di Dio significa dunque entrare in lotta aperta con il
diavolo. Lo si incontrerà in tutti i momenti della vita monastica: nella
salmodia, in cui suscita a chi canta abbondanza di fastidiosi umori (47,24),
nella preghiera, in cui provoca gli stessi disagi corporali ed inoltre
immaginazioni sconvenienti (48,6 e 11), al servizio della cucina, dove esso
tenta con la gula (21,8), fuori dalla
clausura, dove approfitta dell'isolamento del fratello in viaggio per attirarlo
a delle cattive azioni (15,48-54). Più di tutto l'azione del diavolo ha per
oggetto di trascinare postulanti e religiosi all'apostasia, al ritorno nel mondo
(87,8; 90,85; 91,36). Questi intrighi multiformi ed incessanti non sono soltanto
una minaccia per ogni individuo, ma costituiscono la più pesante delle
preoccupazioni per l'abate e per i suoi prepositi, obbligati ad una sorveglianza
continua (11,2-14 e altri). La vita della comunità è interamente dominata da
questa preoccupazione della lotta contro la carne, contro il peccato, contro il
diavolo.
Di fronte a questi nemici terribili, i fratelli non sono abbandonati alle loro
proprie forze, fortunatamente per loro. Dio non è soltanto l'arbitro del
combattimento; vi interviene fortemente, poiché è buono e salvatore (Th 11,2-14
e altri)). La sua grazia è anche l'agente principale, universale, di tutto il
bene che si opera nel monastero nonostante il diavolo (2,51 e altri)
[3] . Il segno della croce fuorvia i cattivi
pensieri (8,27), le tentazioni (15,25), le difficoltà fisiche (47,24), mentre la
benedizione paralizza il diavolo maledetto (19,8). Nei casi gravi, il ricorso
alla preghiera si impone ed è sovrano, sia che si tratti di preghiera
individuale o di preghiera comune. Le promesse di Cristo sull'efficacia della
preghiera sono l’oggetto di una fede incrollabile (1,79; 14,57-58). Il dogma
della sua passione redentrice dona la sicurezza della vittoria (Thp 7). Cristo è
realmente la roccia contro la quale viene a rompersi qualsiasi sforzo del male
(Ths 24; 3,56).
Questa fiducia in Dio non impedisce che si mettano in campo tutte le risorse
della pressione sociale per sostenere la virtù vacillante degli individui. In
tale percezione il
monastero è alla lettera una scuola dove uomini di tutte le età sono trattati
come, al giorno d’oggi, si osano trattare appena i bambini. Non soltanto l'abate
dispensa l'insegnamento con la sua parola ed il suo esempio, ma egli veglia
sull'esecuzione delle sue consegne, sia lui stesso, sia per mezzo dei prepositi.
La presenza continua di costoro tra i loro uomini è una delle idee fisse del
nostro autore. Vi ritorna senza sosta (11). I prepositi hanno il compito di non
lasciare passare alcuna mancanza e sono armati di piccoli sermoni già pronti,
adatti ad ogni colpa. In caso di resistenza, il colpevole è deferito all'abate,
colpito da scomunica, costretto ad una penitenza umiliante dopo dure privazioni.
Il rifiuto di soddisfare tale penitenza comporta l'espulsione al termine di tre giorni. Delle
minime colpe, una negligenza, un semplice ritardo, possono far scattare questa
procedura penale (19,13).
Del resto, il timore delle sanzioni non è la sola molla che entra in gioco. Si
specula ancora sulla vergogna (23,56; 53,9-10; 33). Soprattutto il Maestro
sembra avere fondato grandi speranze sull'emulazione in vista di giungere
all’abbaziato. Istituisce tra tutti i fratelli un concorso di virtù, arbitrato
dall'abate stesso: il primo avrà come ricompensa la futura nomina ad abate (92). Questa trovata
pedagogica, di cui il nostro autore sembra molto fiero, ci appare oggi come
un'aberrazione. Nonostante alcune circostanze attenuanti, possiamo pensare che i
suoi contemporanei non l’abbiano affatto giudicata differentemente.
Qualunque cosa si pensi di questa stravagante invenzione, occorre riconoscere
che il tema educativo che riempie la RM fa parte di tutto l’antico cenobitismo.
All'epoca, il coenobium era agli occhi dei
nostri padri un'istituzione educativa dai metodi semplici e vigorosi. Occorre
arrendersi a quest'evidenza, per quanto possa essere sgradevole alle nostre
sensibilità moderne. A questo proposito, se la RM ci sconcerta più di ogni altra
regola, non è per il motivo che accentua in modo anormale l'aspetto pedagogico
di ammaestramento, ma semplicemente perché la sua redazione molto più ampia, più
dettagliata e più metodica di quella di nessun altro documento di vita
comunitaria conferisce a
queste realtà un rilievo molto più accentuato. L'elemento disciplinare non è
ipertrofico, è soltanto descritto con una precisione ineguagliata. Per questo
motivo si avrebbe torto nel meravigliarsi di fronte allo stile puerile o tirannico di
alcuni metodi, come se si trattasse soltanto di odiose originalità dovute
alla mania pedagogica del nostro autore. Se la regola di san Benedetto fosse tre
volte più lunga, ci rivelerebbe anch’essa molti dettagli che siamo felici di
ignorare…
Tuttavia la disciplina collettiva è impotente ad eliminare completamente il
peccato. Occorre ancora che l'individuo compia uno sforzo personale. Questo
elemento di ascesi individuale appare soprattutto nella prima parte della regola
(cap. 3-10). Dopo gli elenchi di buone opere, di virtù e di vizi dei cap. 3-5,
tre ampi trattati descrivono le virtù principali: obbedienza, silenzio, umiltà.
L'obbedienza non è soltanto l'atteggiamento fondamentale del discepolo che
rimette la sua volontà tra le mani di un “dottore„, affinché quest'ultimo faccia
regnare la volontà di Dio nella sua vita; l’obbedienza è anche imitazione di
Cristo, partecipazione alla sua passione, similitudine del martirio (7,59;
90,12-59). Si raggiunge qui uno dei rari vertici dove si sente passare qualcosa
come un soffio mistico. Del resto, l'obbedienza è gradita a Dio soltanto se
procede dal profondo del cuore, se esegue l'ordine dato di buon grado e senza
mormorazioni interiori (7,67-74). È dunque molto più di una semplice disciplina
esteriore.
L'opposto dell'obbedienza è la “volontà propria„. Si intende con ciò sia
l'opposizione al volere divino che al volere del superiore, dato che il
discepolo non può conoscere la volontà di Dio altrimenti che tramite il suo
“dottore„. Volontà propria significa dunque volontà peccatrice. Un'altra analoga
espressione, spesso accoppiata alla volontà propria, è il “desiderio della
carne„. Essa riconduce la nostra attenzione sulla tricotomia carne-anima-spirito
(90,51).
Se l'obbedienza pone rimedio alla volontà propria, cioè alla radice stessa di
ogni peccato, non è meno necessario sorvegliare specialmente alcuni ambiti
pericolosi, dove il peccato si insinua più facilmente. Il Maestro prende come
guida, nella descrizione dell’agire umano, uno schema pittoresco: l’anima è
situata nel cuore, sede dei pensieri; con gli occhi guarda fuori e brama gli
oggetti delle sue cupidigie; con la lingua mette al mondo ciò che ha concepito
nel cuore. Ma se l’anima, gli occhi e la lingua fungono da organi all'attività
peccatrice, l’anima dispone di un potere di controllo su questi organi, di cui
si deve ben valere. Dunque, il Maestro indica successivamente come si controlla
il pensiero cattivo, lo sguardo impuro, la parola peccatrice, dilungandosi più
diffusamente su quest'ultima, a causa della propria risonanza sociale. Lo
sviluppo considerevole che, per questo motivo, è dato al “silenzio„ (questa
virtù è anche la sola citata nei titoli dei cap. 8 e 9) non deve farci perdere
di vista tutto il programma ascetico, di cui è soltanto un elemento. Il silenzio
si situa in un vasto piano di lotta contro il peccato, che comporta anche
l'esercizio interiore del ricordo di Dio e la modestia degli sguardi.
Questo piano di ascesi sarà ancora ampliato nel capitolo 10. In un quadro di
“indici d'umiltà„ che ha preso in prestito da Cassiano ed ha trasformato,
secondo la sua abitudine, in una pittoresca “scala del cielo„, il nostro autore
riunisce tutta la materia dei due trattati sull'obbedienza e sul silenzio. Fin
dal primo gradino si assiste a questa amalgama: alla lista degli ambiti da
sorvegliare (pensieri, lingua, mani, piedi) che provengono dal trattato sul
silenzio, si aggiungono la volontà propria ed i desideri della carne, che
evocano la dottrina dell'obbedienza. Questa si sviluppa in seguito nei gradini
2-4, mentre la dottrina del silenzio riempie i gradini 9-11. Il dodicesimo
gradino, del tutto originale rispetto a Cassiano, è un rinnovo delle
prescrizioni sulla modestia degli sguardi. Quanto all'umiltà, che dà il suo nome
al capitolo, occupa in questa sintesi soltanto un posto abbastanza ristretto
(gradini 5-7). Tutti e dodici i gradini si presentano come un'ascensione dal
timore di Dio fino alla carità perfetta che scaccia via il timore. Quando questo
vertice è raggiunto, l’anima acquisisce una specie di agevolazione a compiere il
bene. La virtù è per l’anima una seconda natura, “l'amore delle buone abitudine„
regna in essa e rende inutili le motivazioni inferiori. A queste notazioni prese
in prestito da Cassiano, il Maestro aggiunge una preziosa osservazione: è il
Signore che realizza nel suo operaio questa condizione meravigliosa, è lo
Spirito Santo che purifica così il fratello umile dai suoi vizi e dai suoi
peccati (10,91). Qui, per la seconda volta, si fa sentire un tocco quasi
mistico.
Lo si vede bene, la grande esposizione di dottrina spirituale che riempie i cap.
7-10 non è costituita da tre trattati indipendenti, semplicemente giustapposti.
Se si tratta in successione l'obbedienza, il silenzio e l'umiltà, è perché queste virtù
sono tutte e tre studiate da uno stesso punto di vista: quello della
lotta contro il peccato. L'ultima
frase del cap. 10, citato al paragrafo precedente, rende esattamente il tono di tutta
l'espressione: mundum a peccatis et uitiis
(purificato da peccati e da vizi).
Dall’inizio alla fine
si è trattato della purificazione di tutto l'uomo. L'obbedienza taglia corto alla volontà propria ed al desiderio
carnale; la custodia del cuore, la modestia degli sguardi, il silenzio,
arrestano il peccato sui punti più vulnerabili dell’insieme dell’uomo; l'umiltà
completa l'opera, abbracciando nello stesso tempo le altre virtù e fornendo un
rimedio specifico per il vizio capitale della superbia. Se il Maestro non ha
giudicato utile studiare in modo particolare altri ambiti, come i peccati
delle mani e dei piedi (furto e omicidio) (8,24-25; 10,12; 10,23-29), la
gula e l'appetito sessuale, è per il
fatto che l’osservanza monastica, che sarà descritta nella seconda parte della
regola, è di per sé stessa un freno sufficiente contro le colpe di questa
natura. Solo gli aspetti principali dell’ascesi personale dovevano essere
fissati nei primi capitoli. Ma non inganniamoci: non si tratta per il Maestro di
raccomandare tre virtù dominanti, senza relazioni precise tra di loro: la sua
opinione è di predisporre un dispositivo completo e metodico di difesa contro il
peccato.
Fuggire il peccato per evitare la geenna, compiere la volontà di Dio per
ottenere la gloria eterna: tale è dunque, nei suoi due aspetti, negativo e
positivo, il concetto fondamentale che conferisce la sua unità a tutto questo
trattato spirituale. Potrà del resto sembrare che l'accento sia messo sovente
sulla circostanza negativa. Ma non si tratta soprattutto di evitare il peccato?
Senza negare questa prevalenza del
Declina a malo (Allontanati dal male) sul Fac bonum
(Fa' il bene), che
si spiega in parte con il carattere elementare di questa ascesi, destinata a dei
nuovi convertiti, occorre notare che almeno nella presentazione dei fini ultimi,
la prospettiva del cielo è più chiaramente tracciata rispetto a quella
dell'inferno. Grande lettore della Visio
Pauli, il Maestro avrebbe potuto prendere in prestito da questa apocalisse
le sue visioni di orrore, così come i suoi quadri paradisiaci. Ma è un fatto
che, se il paradiso è lungamente evocato a tre riprese nella RM (3,84-89;
10,94-117; 90,16-27), l'inferno non vi è mai descritto (tranne
che
90,14-15).
Oltre a questa speranza positiva nell'ordine escatologico, il discepolo ha
davanti a sé una carriera in cui egli deve normalmente progredire quaggiù. La
RM non organizza soltanto la repressione del peccato; essa guida il fratello in
un'ascensione verso l'ideale spirituale. Si è già visto l'itinerario del cap.
10, dal timore alla carità. Purtroppo, tra questi due estremi, non è per niente
possibile riconoscere tappe successive nei “gradini„ del Maestro, così come
neanche negli “indici„ di Cassiano, a dispetto di alcune somiglianze di
progressione
[4] . Proviamo piuttosto a raccogliere
nell’intera regola le indicazioni sul progresso spirituale dei fratelli.
Il primo passo nell’ascesi monastica è la rinuncia al mondo. Il piano scelto dal nostro autore non gli permetteva di parlarne nel suo posto naturale,
all'inizio della regola. È soltanto alla fine del lavoro, quando tratta
dell'ammissione dei postulanti, che il Maestro ne parla
ex professo. Lo spogliamento assoluto
è imposto: tutto ciò che possiede il richiedente, presente o futuro, deve essere
abbandonato. Molte soluzioni sono ammesse: distribuzioni ai poveri, offerta al
monastero, lascito ai genitori, ma con nessun espediente il nuovo venuto potrà
conservare qualcosa a sua disposizione personale, sia nel monastero, sia nel
mondo (87 e 91). Lo scopo è chiaro: si tratta in primo luogo di tagliarsi i
ponti alle spalle, togliere ogni pensiero di ritorno nel mondo e garantire così
la perseveranza del soggetto (87,8-12; 15;87,45
e altri).
In seguito, si vuole che il nuovo fratello non abbia il benché minimo oggetto
sul quale possa esercitare la sua volontà propria: la povertà condiziona
l'obbedienza (87,17-18
e altri).
Infine la rinuncia alla proprietà significa che ci si distoglie da ogni
preoccupazione carnale: ormai, il fratello ha rimesso la sua esistenza
materiale, così come la sua condotta spirituale, all'abate; non si preoccuperà
più del suo corpo. Lasciando al monastero la cura di pensarci al suo posto, egli
penserà d'ora in poi soltanto alla salvezza della sua anima (89,21-22; 91,58
e altri).
Spogliarsi in questo modo di tutti i propri averi significa compiere la parola
di Cristo: «Vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri ...; e vieni!
Seguimi!» (Lc 18,22; RM 87,13-15 e 91; 18 e 44)). Ma una volta che si ha
“venduto tutto „, rimane da riempire la seconda parte del programma, col
“seguire Cristo„. Questo secondo passo dell’ascesi monastica è la rinuncia alla
volontà propria, l'obbedienza. È infatti dell'obbedienza che il nostro autore
comprende quest'altra parola di Cristo: «Se qualcuno vuole essere mio discepolo,
rinneghi se stesso, ... e mi segua»
[5] .
Come lo spogliamento, l'obbedienza deve essere assoluta. Non si tralascia nulla
per fare comprendere al nuovo venuto la dimensione delle sue esigenze. Non gli
si nasconde che si tratta di una specie di martirio. Non è facile intuire le
prove concrete che prevede l'autore, quando parla delle “cose dure e varie
comandate dall'abate„ e delle “diverse mortificazioni delle nostre volontà„
(90,31-32). Indubbiamente occorre pensare in primo luogo alle mortificazioni
imposte dalla regola, di cui l’abate è il custode. Fra queste, sembra che si
consideri come particolarmente gravosa la disappropriazione (90,63; 81; 82
e altri)
e la clausura (90,65-66), proibendo questa ogni visita ai genitori. Oltre a
questi punti di osservanza comune, il sottoposto dovrà obbedire agli ordini
particolari che gli darà l'abate. In questo ambito, i soli punti d'attrito che
segnala la regola sono le commissioni all'esterno, — occupazione faticosa, che
persino gli artigiani qualificati osservavano del resto come poco degna di loro
[6] , — e le pratiche di ascesi surrogatorie
compiute senza permesso (84; Cfr. 22,5-8). Ne esistevano certamente altri
ancora.
L'obbedienza non ammette alcuna limitazione da parte del sottoposto. Nessuna
libertà di giudizio è lasciata a quest'ultimo, non essendo mai previsto il caso
di un conflitto tra l'ordine dato e la legge divina. E nemmeno si ammette che
l'esecuzione materiale dell'ordine ricevuto possa accompagnarsi a riserve
nascoste e da reticenze. Occorre obbedire con tutto il cuore. Se ci sono limiti
all'obbedienza, è soltanto a causa di alcune concessioni tollerate dalla regola
stessa. Così i fratelli possono scegliere le loro occupazioni la domenica (85) e
nell'intervallo che separa i notturni dai mattutini in inverno (44,12-19).
Possono anche in parte decidere del loro regime alimentare, sia in quaresima,
sia nel resto dell'anno (53,11-15
e altri).
Un margine è così lasciato alla spontaneità. Inoltre, la regola accorda una
certa libertà anche nell'esercizio dell'obbedienza. Mentre i “perfetti„
obbediscono al primo suono, si riconosce agli “imperfetti„ il diritto di
ottemperare all’ordine soltanto al secondo comando. Concessioni simili sono
fatte in merito al silenzio (7,1-21; 9,41-50).
Questa classificazione dei fratelli, gli uni “perfetti„, gli altri “imperfetti„,
può sembrarci sommaria e, la casistica applicata loro, molto ingenua. Tali
distinzioni mostrano presso l'autore almeno una reale preoccupazione di adattare
la sua pedagogia alla diversità delle grazie e dei caratteri, conformemente alle
direttive che egli da all'abate (2,11-12 e 23-25). Il Maestro non mette subito
sullo stesso livello tutto il suo mondo. Egli sa che la conversione è una cosa
progressiva e, per il discepolo, predispone prudentemente delle tappe sulla via della perfezione.
Si potrà bene esigere dal novizio all’inizio un’osservanza “perfetta„ ed
“ineccepibile„ (90,78-79) durante il suo anno di prova. Ma nella realtà la
perfezione si incontra soltanto in un piccolo numero di religiosi; costoro, con
l'esempio che danno, non devono scoraggiare i deboli, ma incitarli al progresso
(7,10).
L'obbedienza alla regola ed all'abate implica globalmente tutte le rinunce della
vita monastica. Ma una volta che si è acconsentito a questo sacrificio radicale,
il solo che sia evocato nell'atto della professione (89,8 e 11-16), occorre
prepararsi a lottare contro ognuna delle tendenze malvagie che abitano l'uomo
peccatore. Questo combattimento contro i “vizi ed i peccati„ (1,5; 9,41; 10,12;
10,70) è la sostanza stessa della vita monastica, l’abbiamo già visto. Il
fratello dovrà fare la guerra in particolare alla superbia, alla loquacità, al
riso ed alle buffonate, alla disattenzione nell'atteggiamento esteriore, alla
gula o appetito, alla polluzione
notturna ed alle immaginazioni che la originano, alla vergogna che impedisce le
confessioni, al sonno stesso… Ci sia perdonato questo elenco incoerente: il
Maestro stesso non è per niente ordinato. Se ha tentato di coordinare alcuni
aspetti dell’ascesi nei cap. 7-10, ciò è avvenuto per mezzo di schemi
pittoreschi (l’anima situata nel corpo; la scala del cielo) piuttosto che grazie
ad un sistema concettuale realmente profondo e coerente. Del resto questi
capitoli di sintesi lasciano da parte numerose tendenze (appetito di cibo e di
sonno, sessualità, ecc.), la cui prescrizione è descritta soltanto
occasionalmente nel seguito della regola. Non bisogna neanche cercare l'ordine
né la completezza nelle liste delle buone opere, dei vizi e delle virtù dei cap.
3-5 e 92. L'autore si accontenta di mettere dall’inizio alla fine le
enumerazioni della Scrittura, di San Paolo in particolare, completate da alcune
reminiscenze di lettura. Si è colpiti dal constatare l'assenza della teoria
degli otto vizi capitali, che serve da quadro all’esposizione di Cassiano nelle
sue Istituzioni. Sapendo tutto ciò che il Maestro deve a Cassiano, questa
mancanza ci mostra quanto poco il nostro autore si interessi ai sistemi
[7] .
Comunque sia, a proposito di questa mancanza di speculazione, il fatto che qui ci
importa è l’intenso sforzo ascetico che la regola richiede da ogni fratello,
affinché si corregga da tutti i suoi difetti. Questo sforzo tende verso un
fine: fare degli uomini spirituali. L'ideale del “fratello spirituale„ è ciò che
conferisce una certa unità a questo programma di ascesi così poco sistematico.
Per comprendere tutto ciò che l'autore mette nella parola
spiritalis, che gli è così cara,
occorre ricordarsi la concezione tricotomista dell'uomo che evocavamo all’inizio
di questo studio: l'uomo è carne, anima, spirito. Tutta l'avventura religiosa
dell'uomo, dicevamo, consiste nell'oscillazione dell’anima tra la carne e lo
spirito, e nella sua opzione per l’una o l'altra di queste tendenze opposte.
L'uomo spirituale è quello che ha fatto trionfare in lui lo spirito
[8] .
La prima volta che appare questa nozione nella regola è all'interno di una
citazione di San Paolo: “Voi che siete degli spirituali„ (15,21
citando
Gal 6,1: Volg.), scrive l'Apostolo ai Galati, esortandoli alla mansuetudine. È a
questo testo che il Maestro pensa in seguito, quando stabilisce la legge del
digiuno quotidiano: “Noi che siamo degli spirituali, arrossiamo di fuggire il
digiuno„ (28,3). Qui il termine è applicato a tutta la comunità monastica. Per
professione, i monaci sono tutti degli spirituali, almeno in linea di massima.
Dunque, si possono designare generalmente con questa parola, in contrasto con i
secolari, che sono in linea di massima “carnali„. Questa generica accezione si
trova varie volte nella RM: i “fratelli spirituali„ sono semplicemente i
religiosi, per opposizione ai laici, sia che si tratti di fratelli del monastero
(56, 1 e 15), di monaci dell'esterno (57, 20 e 23; 61,5 e 12) o degli uni e
degli altri (63, l). Non è del resto una semplice etichetta sociale. Si è ben
consci del significato profondo del termine e delle sue esigenze. Lo abbiamo già
notato a proposito del digiuno. Lo si constata ancora, quando il Maestro predica
ai suoi “spirituali„ il disinteresse pecuniario (85,3) e l'astensione in
relazione agli affari del mondo (86,8), o quando fornisce la definizione
seguente, a proposito dell'abnegazione in materia d'abito:
ideo spiritalis homo Dei est, non
carnalis (Perciò l’uomo di Dio è uno spirituale e non un carnale) (81, 20).
Ma accanto a questo senso generico,
spiritalis ha un’accezione più ristretta. Anziché applicarlo, come prima, ad
ogni monaco, in quanto egli appartiene per professione ad una categoria sociale
determinata, lo si riserva a quei monaci che si mostrano realmente degni di
questo nome. Questa accezione limitata appare già riguardo agli ospiti, monaci o
sacerdoti: “se essi sono spirituali„ (di nuovo un'allusione a Gal 6,1), si
metteranno al lavoro per guadagnare la loro vita, come lo vuole San Paolo
(78,25; 83,13). Del pari, spiritalis
in senso ristretto è applicato più volte ai membri della comunità che si
distinguono per i loro sentimenti di grande sensibilità ed il loro entusiasmo. E’ così che,
dopo una polluzione notturna, il fratello, “se è realmente spirituale„ (si
osserva il ritorno di questa frase), non arrossirà nel confessare il suo difetto
(80, 4). È ancora quasi spiritalis,
da vero spirituale, che qualcuno rinunci volontariamente al sonno dopo l’ufficio
notturno: costui “ama lo spirito più della carne„ (44,17-18).
La qualità di “spirituale„ non si riconosce soltanto da queste restrizioni sul
sonno o sul cibo. Appare anche in alcuni movimenti di dolore spontaneo, causati
da eventi che sembrano separare da Dio. Quando ad esempio un fratello, a seguito
di un ritardo, è condannato a mangiare senza la benedizione, allora, “se è
spirituale, soffrirà di prendere il suo pasto senza Dio„ (23, 48). Il “fratello
spirituale„ si rattrista allo stesso modo, e fino alla “disperazione„, quando
trova l'Ufficio già terminato dopo avere corso per recarvisi (55, 13).
È chiaro che per il Maestro lo scopo dell’ascesi monastica è di formare degli
“spirituali„ di questo genere. Non soltanto degli spirituali di professione, in
virtù dell’osservanza comune, ma degli spirituali col cuore, nella realtà intima
della virtù. Per questo motivo l'educazione della libertà è indispensabile,
oltre all'addestramento. Si pensa qui alle notazioni del Maestro sulla “purezza
dell’anima„, termine dello sforzo ascetico, o piuttosto dono dello Spirito Santo
a quelli che hanno sofferto nell’ascesi. Al vertice della scala dell'umiltà,
quando il cenobita sbocca nella carità perfetta, lo Spirito Santo lo purifica
dai suoi vizi e dai suoi peccati (10,91). Questo stato è comparabile a quello
dell'eremita autentico, di colui che, a forza di temprarsi nella comunità, si è
reso capace di combattere da solo, “Con Dio e lo spirito„, contro i vizi della
carne e dei pensieri (1,5). Il Maestro considera tale “purezza di cuore„ non
solo come la condizione dell'entrata nel cielo (10, 122), ma anche come il dato
di fatto di un piccolo numero di religiosi che egli ha sotto gli occhi sin da
ora. Sono i “perfetti„, i “puri di cuore„, coloro che sono “purificati dal
peccato„ (9,41). Agli altri, non cessa di ricordare che devono “purificare la
radice del cuore„, se vogliono che il loro essere e la loro attività sia senza
macchia (14,84; 15,1). Fin dall'entrata nel monastero, si invita il postulante a
“rendere puro l'intimo del suo cuore„, prima di rivestire l’abito monastico
(90,75).
Questo ideale spirituale è così caro al Maestro che ne fa costantemente una
regola di vita per i suoi. È la legge del primato dello spirituale. Per quanto
sia mantenuto saldo l'obbligo del lavoro manuale, non bisogna che questo
impedisca ai prepositi di esercitare la loro sorveglianza sui fratelli. Infatti,
ci va di mezzo la “causa di Dio„ o “causa dello spirito„, cioè la repressione
dei vizi. A questa non si devono preferire i “profitti della carne„, cioè il
frutto del lavoro manuale. Ed occorre citare il testo evangelico
quaerite regnum Dei (cercate il Regno di
Dio) (11,94-106).
La stessa idea riappare a proposito del lavoro in quaresima. Il fratello che
si impone un digiuno volontario deve essere esentato del lavoro comune
(53,38-41). Il digiuno è un “lavoro spirituale„ (53,12) e, come tale, deve
essere preferito al lavoro manuale. Del resto i digiunatori non resteranno
oziosi, ma faranno la lettura a quelli che lavorano; questa lettura è lei stessa
un “lavoro in spirito„
[9] , superiore al lavoro manuale.
Più generalmente, il primato dello spirituale costringe a sacrificare il lavoro
dei campi, incompatibile con il raccoglimento, con l'indifferenza alle cose
terrestri e con il digiuno monastico (cap. 86). A varie riprese, il Maestro mette
ancora in guardia contro gli “affari secolari„ (82,18
e altri, citando
2 Tm 2,4), la “preoccupazione del domani„ (11,101-106
e altri, citando
Mt 6,25-34), gli “ostacoli del secolo„ (86,7 e 91,29
citando
Visio Pauli 10 e 40), tutte
preoccupazioni di cui gli abitanti del monastero devono essere interamente
liberi, per pensare soltanto alla loro anima ed alle cose di lassù. Si arriverà
persino a vendere a prezzi inferiori a quelli del mercato, per ben affermare il
disinteresse che ha sede negli “spirituali„ (85,1-7).
2. Teologia della vita monastica
Una delle qualità più apprezzabili della RM è la chiarezza con la quale la vita
monastica è pensata e situata nella Chiesa. Per “vita monastica„, intendiamo
ovviamente il cenobitismo, poiché l’eremitismo è citato dal Maestro soltanto in
un breve paragrafo d'introduzione, di cui non si può del resto trascurare
l'importanza (1,3-5).
Questo sforzo di riflessione traspare nella stessa organizzazione della regola.
Lo si vedrà studiando il piano di questa. Tutto vi è ordinato con metodo
partendo da una concezione globale del monastero e del suo governo. Ciò che
occorre qui sottolineare è come la vita monastica così regolata si situi nella
storia della salvezza e nella Chiesa.
Il Prologo, innanzitutto, è una presentazione della regola. Vi si afferma con
forza l'autorità di questo documento e del suo autore. Quest'ultimo si presenta
chiaramente come il portavoce di Dio. D'altra parte, la dottrina che svilupperà
non è nient’altro che la “via stretta„, cioè il puro Vangelo. L'evocazione dei
fini ultimi finisce di conferire prestigio all'opera ed al legislatore: è in
gioco niente di meno che la salvezza eterna o l'inferno!
La stessa ampiezza caratterizza la seconda introduzione, quella del
Thema. Questa volta, si tratta di
presentare la schola dominici servitii,
il monastero. Vi si giunge soltanto dopo aver evocato il peccato originale, la
vita peccatrice nel mondo e la rigenerazione battesimale. L'abbandono del secolo
e l'entrata nel monastero sono visti come un seguito del battesimo. Il
sacramento ci ha fatto deporre il peso del peccato: come lo riprenderemo poi
sulle nostre spalle? La voce di Cristo che chiama a “prendere il suo giogo„ ed a
“trovare ristoro„ aveva attirato al fonte battesimale il peccatore sfinito: ora,
la stessa voce lo invita a lasciare i “cammini del mondo„.
Il commento del Pater e quello dei salmi non fanno che riflettere questa
chiamata a tutti gli echi della Scrittura. Poco importa che questi testi siano
forse dei brani presi in prestito a qualche catechesi battesimale. Qualunque ne
sia l'origine, la loro presenza nella regola attesta un proposito molto notevole
di mettere la vita monastica in relazione con i dati fondamentali di ogni vita
cristiana, dopo averla situata nel prolungamento del battesimo. Questi due
commenti abbondano infatti di formule ampie e profonde che descrivono, in tutte
le sue dimensioni, la storia cristiana della salvezza (Thp 1-11; Ths 2-4). Allo
stesso tempo chiunque è familiarizzato con la regola scopre in queste pagine
l'annuncio di molti temi che il Maestro sviluppa con insistenza nei capitoli più
decisamente “monastici„ della sua opera
[10] . Il
Thema non si presenta, dunque, come
un'esortazione vaga e generale, valida per ogni cristiano, che l'autore avrebbe
artificialmente premesso ad una legislazione destinata a monaci. Anche se è
stata utilizzata una fonte non monastica di questo genere, questa ha subito un
tale lavoro di rimaneggiamento che presenta ormai una solida continuità con il
resto della regula. È una vera
introduzione alla sua opera che il Maestro qui ci fornisce. Si tratta di
radicare l’ascesi monastica nella Scrittura, mettere il lettore in presenza
delle grandi verità cristiane che, “realizzate„ con intensità, diventeranno le
idee portanti della vita del chiostro: Cristo è padre e signore; Cristo ci
chiama; Cristo ci giudicherà; la sua volontà deve essere compiuta e la nostra
propria volontà sacrificata; la sua provvidenza provvede alle nostre necessità;
la sua grazia ci fa trionfare sul diavolo; occorre soffrire con lui per
condividere la sua gloria.
Questo invito alla vita monastica ci conduce alla
schola dominici servitii (Ths 45). Di
primo acchito il Maestro fornisce la definizione precisa del monastero ed indica
il suo posto esatto rispetto alla Chiesa. Altrove, infatti, ci insegna che le
“case divine„ sono di due tipi: chiese e monasteri (11,8), chiese di Cristo e
scuole di Cristo (1,83). Queste due forme di istituzioni sono rigorosamente
parallele. Si definiscono le une come le altre dalla gerarchia che le governa in
nome di Dio: da un lato i vescovi, i sacerdoti, i diaconi ed il clero, dall'altro
gli abati ed i prepositi (11,9-10). Le due gerarchie, benché distinte, hanno in
comune la loro origine divina, il mandato di Cristo che le ha istituite e che le
assiste. In realtà, esse formano un solo ordine gerarchico, quello dei “dottori„
(1,82-83), solidamente depositario delle promesse che Cristo ha fatto ai suoi
apostoli (Gv 21,17 e Mt 28,20 citati da RM 1,85-88) ed ai suoi discepoli (Ldc
10,16 citato da RM 1,98 e 11,11).
Per comprendere questa teoria dell'abate-dottore, che è la chiave della
definizione del monastero come schola
Christi, occorre prestare attenzione all'interpretazione di
1 Cor 12,28 ed Ef 4,11, sulla
quale la teoria riposa. Secondo il testo ricevuto, san Paolo enumera, in termini
quasi identici, una serie di funzioni esercitate
simultaneamente nell'ambito della
chiesa, corpo di Cristo: primum
apostolos, secundo prophetas, tertio doctores. L'ordine di enumerazione (primum,
secundo, tertio) è un ordine di dignità decrescente. Ma il Maestro legge un
testo diverso. Egli inverte i primi due termini della lista:
primum prophetarum, apostolorum secundum,
doctorum tertium
[11] . Conseguentemente, intende l'ordine di
elencazione in un senso cronologico, in modo che i ruoli di profeti, di
apostoli e di dottori siano esercitate successivamente nel corso della storia
del popolo di Dio. I profeti hanno compiuto il loro ministero sotto il Vecchio
Testamento. Gli apostoli hanno adempiuto al loro sotto il Nuovo Testamento, al
tempo di Cristo. Quanto ai dottori, essi sono in esercizio a partire dalla
scomparsa degli apostoli, ai quali sono legittimamente succeduti. Sono il
vescovo e l'abate, ciascuno nel suo proprio dominio (chiesa o «scuola»),
assistito dai suoi rispettivi collaboratori (sacerdoti, diaconi, clero, o
prepositi). “Dottore„ significa dunque semplicemente successore degli apostoli
[12] . Dando questo titolo all'abate, il
Maestro equipara quest'ultimo al pastore supremo della Chiesa, al vescovo, così
come assimila il monastero (o “scuola di Cristo„) ad una chiesa.
Questa assimilazione pone ovviamente un problema teologico apparentemente
abbastanza delicato: con quale diritto l'abate è così messo sullo stesso piano
del vescovo? Gli si possono legittimamente applicare le promesse fatte da Cristo
agli apostoli ed ai loro successori? Per cogliere la portata di queste domande,
è necessario ricordarsi che l'abate, secondo la RM, è un laico (83,9). Non è
dunque a titolo di un ordine consacrato, sacerdozio o diaconato, che egli può
rivendicare la qualità di “dottore„. Questa deve appartenergli in virtù della
stessa sua funzione di abate.
Si potrà leggere altrove lo studio che abbiamo un tempo dedicato a questo
problema (Si
veda La communauté et l'abbé, p.
132-138 e 176-186).
Oggi più che mai, il pensiero del Maestro ci sembra rigorosamente ortodosso e
tradizionale. Ce ne accorgiamo senza fatica, se consideriamo il ruolo che svolge
il vescovo nell’ “ordinazione„ abbaziale
[13] . È chiaro che agli occhi del Maestro,
due atti di questa lunga cerimonia hanno un'importanza decisiva: dapprima
l'iscrizione del nuovo eletto al dittico, iscrizione che è riservata alla mano
del vescovo (93,7); in seguito le preghiere indirizzate a Dio dal vescovo a
favore dell’ordinando (93,29 e 32-33). È a questi due riti essenziali che ci si
riferisce, quando si evoca la cerimonia ed i suoi effetti nel seguito del
capitolo (93,56). Il primo dovrà essere revocato dall'atto contrario: la
cancellazione del nome dal dittico per mano sacerdotale (93,78), se si vorrà un
giorno destituire il nuovo abate. Quanto al secondo, la sua importanza è
affermata in una formula molto significativa dello stesso rituale d'ordinazione:
“Che il grande sacerdote, con le sue preghiere, leghi negli atti del cielo ciò
che tu hai ricevuto sulla terra„ (93,26). Quest'allusione al potere di “legare„
e di “sciogliere„ (Mt 18,18) non lascia alcun dubbio sulla portata della
preghiera episcopale: essa è, si può dire, il rito costitutivo dell'ordinazione.
Del resto, la presenza del pontefice (Da
non confondere con il Papa. Ndt.) e del suo clero è anche richiesta per
convalidare gli altri riti che circondano quello. La si nota accuratamente ad
ogni passo della cerimonia (93,6-14). Si tratta dunque di un'ordinazione in
“presenza del vescovo„, meglio ancora, di una
ordinatio sacerdotalis, di
un'ordinazione il cui ministro è il vescovo (93,59).
Noi pensiamo che sia a questa cerimonia di benedizione abbaziale che il Maestro
si riferisca implicitamente, quando emette, all'inizio della sua regola, le sue
dichiarazioni solenni riguardanti il potere degli abati. Se l'abate è un
“dottore„, un rappresentante autentico di Cristo che usufruisce della stessa
autorità di un vescovo, è perché è stato debitamente investito della sua carica
dal vescovo stesso. Certamente i tre grandi testi sull'autorità abbaziale
(1,82-92; 11,5-14; 14,13-15) non fanno nessuna allusione esplicita alla
cerimonia d'ordinazione, che è descritta soltanto alla fine della regola. Si
vede male, in tal modo, la relazione che collega la teoria dell’abbaziato alla
sua base rituale. Ma si tratta di un semplice effetto ottico, conseguenza
inevitabile del piano adottato. Quanto alla realtà profonda, è indubbio che il
Maestro stabilisce tra la carica di abate e l'ordinazione abbaziale la stessa
relazione fondamentale che egli ha posto esplicitamente tra l’ “ordinazione„ dei
prepositi, degli ebdomadari, o del lettore, e le funzioni rispettive di questi
ufficiali. È infatti una pratica costante del suo spirito, lo abbiamo visto
studiando il rituale, quella di porre all'origine di una funzione, come
all'inizio di qualsiasi azione, un rito di preghiera che la raccomanda a Dio e
la fonda spiritualmente. Di solito, la descrizione di questo rito avviene in testa
al trattato dedicato all'ufficio corrispondente, così come è naturale che sia.
Una necessità particolare ha fatto venire meno a questa usanza nel caso
dell'abate, ma noi pensiamo che occorra certamente ristabilire quest'ordine mentalmente
ed a vedere nell'ordinazione abbaziale la chiave della teoria
dell'abate-dottore. Così come i prepositi ricevono il loro potere dall'abate che
li ha “ordinati„ (11,15), allo stesso modo l'abate ha ricevuto il suo del
vescovo, nel corso dell'ordinazione.
Se tale è, per il Maestro, la base dell'autorità abbaziale, non è necessario
cercare la giustificazione di questa in qualche carisma direttamente assegnato
dallo Spirito Santo all'abate. È piuttosto sul modello della consacrazione
episcopale, dunque dal modo di ordinazione ed in virtù di un rito quasi
sacramentale, che il nostro autore concepisce l’investitura dell'abate. Questo
rito è certamente il segno sensibile che permette a tutti di riconoscere
l’autentico “dottore„, ed a quest'ultimo di esigere da tutti l'obbedienza dovuta
ad un rappresentante di Cristo. Il tono oracolare del Prologo si spiega di
conseguenza senza fatica: l'autore, che deve essere un abate regolarmente
“ordinato„ , ha coscienza di parlare in nome di Dio.
Di conseguenza, i grandi testi sull’abbaziato si situano al di fuori di ogni polemica
contro l'autorità sacerdotale, od a qualsiasi rivendicazione riguardo a questa.
Il parallelo con il sacerdozio è tracciato soltanto per destare la fede dei
monaci nella missione divina del loro abate. Perciò questo parallelo non indica che la gerarchia monastica è indipendente dalla gerarchia sacerdotale Al
contrario, è da questa che attira tutto il suo potere. Se l'abate è certamente,
come dottore, un successore legittimo degli apostoli, è perché egli si
ricollega all'unica successione apostolica con l'ordinazione che gli ha
conferito il vescovo. Non c'è successione apostolica all'interno del monastero,
anche se è il vecchio abate che designa il suo successore
[14] . Così l’abbaziato è innestato sulla
gerarchia ecclesiastica, come il monastero è innestato sulla chiesa secolare.
Che si tratti dell'autorità dei suoi capi o dell'esistenza sovrannaturale dei
suoi membri, la comunità monastica dipende interamente dall'unica
mater ecclesia (Thp 2).
Significa che l'assimilazione del monastero ad una chiesa resterà sempre nel
dominio dell'analogia. Il monastero è “come una chiesa„ (53,64), ma non è una
chiesa propriamente detta. Il suo vero nome è piuttosto
schola Christi, la scuola di Cristo
[15] . Il Maestro non ignora certamente che
questa espressione o il suo equivalente può designare la chiesa stessa, come lo
si vede in molti scritti patristici
[16] . Egli sa anche che Cassiano ama
definire il coenobium come una
schola, intendendo con ciò la scuola
che prepara agli esercizi sublimi e solitari dell'eremita (Cassiano
Conl. 3,1,2
e altri). La sua terminologia si
allontana tuttavia da questi precedenti. Per lui il monastero è scuola, non
tanto come preparazione all’eremitismo, né quanto chiesa nel senso proprio del
termine, ma precisamente perché costituisce una comunità
sui generis, simile alla chiesa ma
distinta da questa (1,83). Già le espressioni
schola, schola monasterii ed
anche schola Christi appaiono di
solito presso scrittori anteriori come sinonimi di
monasterium (Per
es. Fausto di Riez e Passio S. Eugeniae).
Nessuno di questi testi, tuttavia, fa di
schola il nome proprio del monastero per distinguere quest'ultimo dalla
chiesa, come lo vediamo qui fare da parte del Maestro.
Pertanto il monastero è una quasi-chiesa. Ciò vuole dire che esso deve somigliare
alla ecclesia, sia nel suo aspetto
esteriore di casa di preghiera (53,64), sia nei suoi impieghi liturgici
(46,6-7), sia nella sua struttura gerarchica, come abbiamo appena visto. Ma ciò
vuole anche dire che deve differire dalla chiesa secolare per un “servizio di
Dio particolare„, tanto nella liturgia (28,46-47) che nel modo di vestirsi
(81,6). Esplicito in alcuni casi, questo ravvicinamento è certamente presente
allo spirito dell'autore in molti altri casi, sotto il suo doppio aspetto di
rassomiglianza e di diversità.
Poiché il monastero è pensato come confronto con la chiesa, ci si potrebbe
aspettare di vedere il Maestro evocare la chiesa modello, la chiesa primitiva di
Gerusalemme descritta ai capitoli 2 e 4 dei
Atti degli Apostoli. Non è così, ed
il fatto è tanto più notevole poiché il riferimento alla chiesa degli apostoli è
corrente nella letteratura cenobitica (Per
es. Pacomio, Agostino, Cassiano, Basilio).
Questa carenza deve richiamare la nostra attenzione su due caratteri molto
marcati della concezione cenobitica del Maestro. Inizialmente il nostro autore
quasi non si interessa alle relazioni dei fratelli tra di loro. La sola cosa che
importa ai suoi occhi è la relazione “verticale„ che collega i fratelli ai loro
superiori, i prepositi e soprattutto l'abate
[17] . In questo senso, il monastero è
principalmente per lui una scuola, un luogo dove dei discepoli ricevono
l'insegnamento di maestri qualificati. Le relazioni “orizzontali„ che collegano
tra loro questi discepoli sono appena descritte. Non si attribuisce loro,
sembra, nessun ruolo apprezzabile nella formazione delle anime.
Un secondo carattere, correlativo a quello, è la mancanza d'interesse del
Maestro per la comunità come tale. Vi sono solo alcune notazioni che rilevano
l'aspetto comunitario della disappropriazione (91,53-54
e altri, senza rifer. ad At 4,32)
o della preghiera
[18] . Di solito è in una prospettiva di
ascesi puramente individuale che sono previste queste realtà, così come gli
altri valori della vita cenobitica: obbedienza, silenzio, umiltà, veglie,
astinenza
[19] , lavoro, castità… Il monastero non è
dunque affatto concepito come società di carità, nella comunione dei beni e
l'unione dei cuori, sul modello della chiesa primitiva ed ad immagine della
Trinità. Esso è soprattutto una scuola, un'istituzione dove degli individui sono
riuniti momentaneamente in vista della loro istruzione, senza che ci sia lo
spazio o anche la possibilità di approfondire molto i loro rapporti. Una scuola
è soprattutto orientata verso il futuro di ogni allievo; tutti insieme gli
allievi formano soltanto una riunione occasionale, provvisoria ed un po'
artificiale. Si direbbe anche che il monastero è soprattutto orientato verso
l’aldilà personale di ogni monaco. Si tratta di educare ogni membro in
previsione della vita eterna, piuttosto che di raccoglierli tutti in una
comunità che avrebbe di per sé valore in quanto riflesso di quella del cielo.
Questa presentazione verticale ed individualistica del coenobium può deluderci
per
la sua povertà. Tuttavia, essa offre un interesse: quello di svelare in tutta la
sua purezza la relazione del monaco con l'abate, che è storicamente la generatrice
di un certo tipo di cenobitismo che deriva dalla paternità spirituale del
deserto. La RM è proprio nella linea dell'evoluzione di quei solitari
dell'Egitto che, quasi due secoli prima (nel IV secolo), furono i primi padri di
comunità semi-anacoretiche o cenobitiche. L'abate resta per la RM, come per queste prime
comunità di monaci, la ragion d'essere della riunione dei fratelli. Ciò che
costoro sono venuti a cercare nel monastero è la direzione sicura, infallibile,
dell'uomo di Dio. Quest'uomo deve insegnare loro la volontà di Dio. Molto di
più, egli deve compierla in loro, in modo che l'obbedienza di tutti faccia di
lui, per così dire, l'unica volontà agente nel monastero. Grazie a questo
trasferimento di libertà e di responsabilità (2,6 e 33-36; 7,64-56), ciascuno ha
il diritto di sperare che la sua condotta sarà interamente approvata da Dio e
coronata della vita eterna. Andare verso Dio per mezzo dell'abate deve essere, dunque, la
preoccupazione primordiale, quasi esclusiva, di tutti coloro che entrano in
comunità.
Ma se questo rilievo dato alla funzione abbaziale è la caratteristica
fondamentale che avvicina il monastero del Maestro alle fondazioni di un
Apollonio o di un Pacomio (che sono
semianacoreti), non si possono trascurare due caratteri particolari che
distinguono la RM. Innanzitutto l’abbaziato non si presenta più come un carisma
direttamente assegnato a qualche solitario che irraggia santità. A questo
costume di investitura carismatica, che fu quello dei primi cenobiarchi egiziani
od occidentali (Per es. Romano, Lupicino,
Benedetto), si è sostituita nella nostra regola l'ordinazione dell'abate da
parte del vescovo. Certamente è a causa della perfezione acquisita che il
vecchio abate designa l'eletto e lo presenta al vescovo per
l'ordinazione. Ma il merito e l'attitudine non bastano. Il riconoscimento
dell'autorità ecclesiastica è richiesto per costituire il nuovo padre spirituale
nella sua funzione di rappresentante di Cristo e di dottore
[20] .
Una seconda caratteristica distintiva della RM è il ruolo che gioca la regola, a
fianco ed anche sopra l'abate, come organo della volontà divina. Fin dal
Prologo ne siamo informati e la celebre definizione dei cenobiti la enuncia in
tutta chiarezza: militans sub regula uel
abbate (1, 2). L'autorità della regola è sovrana nel monastero del Maestro.
La sua osservanza è il criterio secondo il quale si sceglie l'abate (92,8; 94,7
e 10). È la regola che è al centro della cerimonia d'ordinazione (93,12-19 e
24-30; in virtù della regola l’abate è il
solo maestro del suo gregge). È su di essa che l'abate sarà giudicato
(93,18-19). Parimenti, è la sua osservanza che promette il novizio nella formula
di professione (89,8) e che non cessano di ingiungergli i prepositi in ciascuna
delle loro ammonizioni (11,42; 11,50). La regola è veramente per tutti la “legge
di Dio„ (93, 15). Tale è la sua importanza che la si legge continuamente nel
refettorio.
In conclusione, nella RM si è lontani della sovrana libertà con la quale i Padri del
deserto disciplinavano, in nome dello Spirito, i discepoli che si affidavano a
loro. L'autorità abbaziale è impegnata da un documento scritto che le traccia — e
con quale minuziosità! — tutta la condotta da tenere. Ben ristretto ci appare il
margine d'interpretazione lasciato all'abate da questo regolamento quasi
tirannico
[21] . Anche nel dominio dell'insegnamento,
la regola pretende sicuramente di fornire alla comunità un programma completo,
che lascia apparentemente al superiore soltanto il compito di amministrare delle
particolari esortazioni ai fratelli tentati
[22] . Il ruolo dell'abate non è dunque di
inventare, ma di ripetere la dottrina della regola e di vegliare sulla sua
applicazione, con l'aiuto dei prepositi.
Da dove viene l'autorità della regola? Oltre alla Scrittura, il Maestro si
riferisce solo di rado a dei documenti normativi
[23] . Egli offre piuttosto la sua opera come
una “dettatura„ del Signore. Il legislatore è un ispirato. In ultima analisi,
questa convinzione deriva certamente dalla coscienza che egli ha di essere lui
stesso un abate regolarmente ordinato, dunque un vero dottore.
Tuttavia, nulla ci indica che la facoltà di comporre una regola, o anche di
modificare quella che esiste, si trasmetta agli abati successivi. Ciò indica che
il nostro autore riconosce a se stesso il potere legislativo ad un titolo
speciale, ad esempio in qualità di fondatore (forse
una formazione clericale?).
CONCLUSIONE: REALTÀ O FINZIONE?
Notevole tra tutte per la sua ampiezza, la sua precisione, il suo afflato e la
sua organizzazione metodica, la legislazione che abbiamo appena studiato è stata
scritta per una Comunità realmente esistente? Alcuni indizi possono farcene
dubitare. L'autore non sembra sicuro né del numero minimo di due decine di
monaci, che suppone tutta la regola (11, 20), né della disposizione dei locali
(16, 49; cap. 79,1; 95,1). Egli lascia in bianco il nome del “territorio„ al
quale appartiene il monastero (87,36; 93,6; 94,6), ed anche quello del santo
patrono dell'oratorio (45,17).
Avremmo dunque a che fare con un gioco d'immaginazione senza portata pratica?
Nulla è meno probabile. Ovviamente, l'autore è un abate perfettamente informato
delle cose monastiche ed è preoccupato dell'efficacia della sua legislazione. La sua opera suppone una
lunga esperienza delle istituzioni e degli uomini. Non si inventa dal nulla
un’osservanza, un ordo ed un rituale
così precisi, e non si organizza un dispositivo giuridico come quello della
disappropriazione del postulante (cap. 87) senza avere sperimentato i diversi
inconvenienti ai quali si pretende di rimediare. Altre parti dell'opera
comportano forse una più ampia parte d'immaginazione, o d'utopia (Per
es. la successione abaziale: cap.92-94).
Il fatto è che questa legislazione non può essere considerata nell'insieme come
un puro gioco dello spirito.
Questo doppio aspetto, determinato ed indeterminato, della RM dipende forse da
una situazione e ad un intento che ci si potrebbe rappresentare così: l'autore è
l'abate di un piccolo monastero che funziona pressappoco come lo descrive la
regola, ma lui scrive per altre comunità, di cui alcune sono forse ancora da
fondare. Questa destinazione gli permette di mettere a profitto una ricca
esperienza, ma sistematizzando questa secondo le esigenze di uno spirito
estremamente desideroso di logica. Alcune puntualizzazioni concrete dovevano
restare incerte o “in bianco„ in un'opera di questo genere.
Non tutte le note sono riportate, ma solo quelle che ho ritenuto più
importanti. Alcune brevi note, così come i riferimenti numerici, si trovano tra parentesi direttamente nel
testo. I riferimenti numerici, se non sono preceduti da abbreviazioni
(per esempio le abbreviazioni bibliche), si riferiscono al capitolo
oppure al capitolo ed al versetto della RM. (N.d.T.)
NOTE:
[2]
N.d.T. Lo scopo di Newman fu quello di portare gli uomini a "realizzare"
i misteri della fede, a comprendere il cristianesimo autentico, come una
regola concreta di vita, non come un programma astratto di condotta.
Estratto da ”Incontrando Newman”
di Giovanni Velocci - Jaca Book 2009.
[3]
RM 2,51. Questo ruolo della grazia è sottolineato molto: vedere Thp
76-80; Ths 25-28; 1,5; 1,79 e 92; 3, 46-47; 9, 48; 14, 49-56; 14, 61-62
e 65-66; 23, 56; 53, 10 e 14; 53, 28; 90,56. Ci sono forse in alcuni di
questi testi delle reminiscenze di scritti antipelagiani, sebbene la
necessità della grazia sia un luogo comune di tutta la letteratura
ascetica, tanto in Oriente, (si pensi a Gregorio di Nissa ed allo
Pseudo-Macario) che in Occidente, particolarmente da Cassiano. In quanto
al semipelagianesimo, non ce ne è traccia, del resto non più della
dottrina avversa. È a torto che si è voluto annettere il Maestro sia al
campo agostiniano, sia al semipelagianesimo. In realtà, presso il
Maestro non c’è nessuna punta teologica, né in un senso né nell'altro.
Gli si possono applicare le conclusioni molto prudenti alle quali è
giunto C. Vagaggini studiando san Benedetto ("La
posizione di S. Benedetto
nella questione semipelagiana", in
Studia Benedictina, Roma 1947
[Studia Anselmiana 18-19], p.
17 -84). L’una e l'altra regola utilizzano una terminologia antica,
comune, che resta sul filo della Scrittura, se si osa dire. Tutto ciò
che si può accordare è che questa terminologia non è esclusiva di un
interpretazione semipelagiana, dato che il nostro autore non manifesta
nessuna preoccupazione di prevenire l'errore. Ma Agostino stesso non
sempre si sforza di escludere formalmente una tale interpretazione,
anche nei suoi sermoni tardivi, e Cesario d’Arles (Serm.
212, 2, Morin, 797,25) ricopia senza batter ciglio delle formule
semipelagiane di Fausto! I testi i più "inquietanti " del Maestro sono
Ths 35 e soprattutto 1, 76-80 e 14, 57-59, dove sono utilizzati Zc 1, 3
e Lc 11, 9. Ricollocati nel loro contesto, non tradiscono alcuna
intenzione dottrinale.
[4]
Così come
10, 45-49 :
postquam... non solum... sed et,
al passaggio dal 2° al 3° gradino; 10, 52 :
in ipsa obedientia
(4° gradino); 10, 68 :
non solum sua lingua... sed eliam intimo cordis... affectu
(7° gradino); 10, 82 :
non solo corde sed eliam ipso corpore
(12 ° gradino). Vi sono dunque dei progressi da un gradino
all’altro, ma solo all’interno di certi gruppi di gradini: obbedienza
(2-4), umiltà (5-7), silenzio ed atteggiamento esteriore (8-12). Da un
gruppo all’altro, di contro, non si constata alcuna progressione.
[5]
RM 90,10 cita Mt 16,24 mescolato con Lc 14,26. Si veda anche RM 7,52,
dove l’applicazione del testo evangelico all’obbedienza è esplicito, ed
anche 3,10. In questi tre passaggi, il Maestro omette le parole
tollat crucem suam (prenda la
sua croce), alle quali non fa mai allusione in nessuna parte della
regola.
[6]
RM 57,14-16, dove viene richiamato il grande testo di Lc 10,16. Cfr.
50,72-74.
[7]
Niente di più naturale, del resto, da parte di un autore di una regola
monastica, documento del tutto pratico. Paragonata alle sue simili, la
RM colpisce piuttosto per la relativa importanza che la medesima accorda alle
considerazioni teoriche. Poche regole fanno altrettanto. D'altronde ci
si può chiedere se il Maestro non abbia conosciuto Cassiano attraverso
qualche compendio, così come quello composto da Eucherio di Lione.
Questo riassunto avrebbe messo da parte od offuscato la teoria degli
otto vizi. Oltre all’assenza degli otto vizi, si noterà quella delle
quattro virtù cardinali, così care ad un Ambrogio ed a un Giuliano
Pomerio.
[8]
Esitiamo a mettere la maiuscola alla parola "spirito". Nella RM come
nella Scrittura, il termine non è univoco. Talvolta designa lo Spirito
Santo, persona divina che risiede nell'anima del giusto (Thp 17; Ths 7 e
altri). Altrove si tratta piuttosto di un principio dell'insieme
dell'uomo (Thp28; 1,5 e altri), generalmente opposto alla "carne" od al
"corpo". Ma questo principio superiore dell'essere umano è giustamente
quello tramite il quale l'uomo aderisce a Dio ed al suo Spirito, così
che si distingue solo in modo imperfetto dalla persona divina. Lo spirito
dell'uomo è l'alleato di Dio, da qui l'equivalenza spesso stabilita tra
le "causa dello spirito" e la "causa di Dio". Occorre rilevare il
curioso testo (13,15) in cui lo spirito dell'uomo testimonia contro la
sua anima nel giorno del giudizio. Questa specie di sdoppiamento fa
pensare a certi passaggi della
Visio Pauli, che è all'origine di queste rappresentazioni.
[9]
RM 53,40 (in spiritu legendo
laborent). La lettura è anche chiamata
opus spiritale in 50,16. In
24,4, è chiamata esca divina
e opposta al nutrimento corporale.
[10]
Si confronti Thp 34-40 e 7: 51-52; 10, 43-49; 90, 10-12 e 48-54
(obbedienza ad imitazione di Cristo): si noti come il commento al Pater
dia una smisurata importanza alla terza domanda del Pater: ovviamente,
il Maestro pensa ad abbozzare la condanna della volontà propria, tema
centrale di tutta la regola. Si confronti anche Thp 55-56 (Provvidenza)
e 3, 49; 11 99-106 16, 1-26; 23, 2; 82, 16-18. La bella formula
"cristiana" Thp 11 ha la sua eco nel passaggio chiaramente "monastico"
Ths 46. Il tema della paternità di Cristo è comune a Thp 9-11, 21-22
(Tutto il Pater è rivolto a Cristo) e 2, 2-3. La tricotomia
corpo-anima-spirito si presenta allo stesso modo in Thp 28 e 1, 80; 81,
18-19. La teoria del corpo "di terra", in piedi come una
machina, si trova sia in Thp
52 e 77, che in 8, 1-5 e 12-16. Stessa analogia tra il
Thema e l'intera regola dal
punto di vista della dottrina della grazia. Si confronti Thp 76-80; Ths
25-28 e 1, 5; 1, 79 e 92, ecc. (Si veda sopra:
L'ideale spirituale). -
L'analogia non è limitata ai temi; la si constata anche sul piano del
vocabolario corrente. Così il
Thema ha le parole caratteristiche:
digne (Thp 13);
iuste (Thp 60);
uidete fratres et
rationes nostras (Thp 20);
discussa (Thp 30);
per formam faciendi in se et
demonstrat nobis dicens (Thp
34), etc.
[11]
RM 1, 82 ; cf. 14, 14 (post
prophetas et apostolos) e Thp 46 (per
prophetas et apostolos).
La stessa inversione nella citazione di 1 Cor 12, 28 la si trova in
Gerolamo, Commentaria in
Zachariam, Liber I, PL
25, 1438B. (et alios in Ecclesia
constituens prophetas, et alios apostolos, alios doctores).
[12]
La stessa cosa vale per pastor
(1,84), che è associato a doctor
(Cfr. Ef 4,11) in 11,12 e 14,14. Vescovi ed abati realizzano insieme la
profezia di "Isaia". Si veda Ger 3,15: "Vi darò pastori secondo il mio
cuore" (1,85 e 11,12).
[13]
Noi abbiamo già segnalato questo ruolo nel libro
La communauté et l'abbé, p.
137, n.2; p.182, n.3 e p. 360-361, ma senza estrarne tutto il
significato teologico che ci appare, oggi più di allora, di
un'importanza capitale.
[14]
Si vedano i capitoli 92-93. E' anche il vecchio abate che destituisce il
nuovo, se costui perde di merito (93,78). In queste due circostanze il
controllo episcopale (esame del candidato; ratificazione della scelta o
degradamento) non è formalmente indicato, ma lo si deve supporre: perché
il vescovo non dovrebbe aver voce? Il suo ruolo si ridurrebbe a quello
di officiante liturgico? Si può fare a meno del suo assenso? Stando al
capitolo 94, il vescovo interviene inoltre indirettamente nell'elezione
stessa, nel caso in cui il vecchio abate muoia improvvisamente.
[15]
RM 1, 83. Si trova anche schola
eius (= Domini) in 90, 12
et 46; schola dominici
seruitii (Ths 45); schola Dei
(92, 26); schola diuina (92,
29); schola sancta (87, 9);
schola monasterii (90, 29 et
55; 92, 64).
[16]
Si veda per esempio Agostino,
Serm. 177,2, dove la chiesa è chiamata
schola Christi in opposizione
alle scuole dei filosofi.
[17]
Molto significativo, a questo riguardo, è l'utilizzo che il Maestro fa
della grande metafora paolina del corpo e delle membra. La sola idea che
prende in considerazione è quella del rapporto della testa (l'abate)
alle membra (i fratelli). Si veda 2,29 e 47. Nella RM non si tratta
assolutamente delle relazioni che uniscono le membra in un solo corpo.
[18]
RM 15,20-25 (preghiera "unanime" per il fratello tentato); 16,51-52 e
l'intero cap. 20 (preghiera per gli assenti). Questi due ultimi passaggi
esprimono in modo notevole, probabilmente in dipendenza da Giuliano
Pomerio, la solidarietà di tutti, presenti ed assenti, nella preghiera
come nel lavoro. Ma la portata è limitata alla sola orazione, che è solo
una parte dell'Ufficio divino, e non ne deriva alcun insegnamento
concernente il carattere pubblico e comunitario della lode divina in
generale.
[19]
Astinenza e lavoro hanno pure una portata altruista (27,47-51; 50,7), ma
a beneficio dei poveri, cioè di persone estranee alla comunità. E' in
questa direzione che si orienta di solito il pensiero del Maestro quando
pensa al dovere della carità.
[20]
Nella Vita S. Eugendi 8
(Mabillon, Acta sanctorum
OSB; t. I, p. 555), all'inizio del VI secolo, si vedono dei vescovi che
si riuniscono orationis causa
attorno ad un abate appena eletto. Da parte sua, l'imperatore
Giustiniano riserva al vescovo l'approvazione dell'eletto ed il suo
insediamento (Cod. Iust. 1,
3, 47, anno 530). Dopo avere affidato al vescovo la stessa elezione (Nov.
5, 9, anno 535), l’imperatore
l'ha consegnata ai monaci, ma riservando ancora al vescovo
l'insediamento dell'eletto. (Nov.
123, 34, anno 546).
[21]
L'abate è giudice in materia di scomunica (13,50 e 64), di perdono
(14,22) e di castigo (13,70; 57,15). Egli può concedere un supplemento
di cibo o di bevanda (26,11-13; 27,44-46 e 52-54). Ma è solo nel campo
amministrativo (gestione del tempo, ordinanze di lavoro) che la regola
gli lascia le mani libere (2,41-50; 19,9; 50,18). Si veda anche 24,21
(letture).
[22]
RM 15,28-29 e 35. L'abate istruisce anche i novizi (Cap. 87-90).
Segnaliamo che la regola non prevede delle conferenze fatte dall'abate
alla comunità. Sono solo indicati dei commenti esplicativi sulla regola
letta al refettorio (24,19 e 34-37). L'assenza di conferenze regolari è
un tratto curioso, che contrasta con la loro frequenza ed importanza
nella congregazione pacomiana.
[23]
Instituta Patrum
(34, 2) ; a Patribus (90, 92)
; regulae nostrae a
Patribus...statutum consilium (91, 48).
Si vedano anche le proibizioni di papa Silvestro (28, 43).
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26 febbraio 2017 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net