LA REGOLA DEL MAESTRO
CAPITOLO III
DOTTRINA
Introduction, texte, traduction et notes par Adalbert de Vogüé. 
Sources Chrétiennes 105–7. Paris: Cerf, 1964–65
(Libera traduzione dal francese. 
Ndt.)
1. L'ideale spirituale
[1]
 La dottrina ascetica del Maestro poggia su un'antropologia (Scienze 
riguardanti l'uomo. Ndt.) ed una 
soteriologia 
(Dottrina della salvezza. Ndt.). 
Questo insieme di idee sulla natura umana, la redenzione da parte di Cristo e la 
salita verso la perfezione, non ha nulla d'originale se lo si colloca nel suo 
contesto storico. Il Maestro non fa che appropriarsi di un pensiero comune a 
tutta l'antichità cristiana. Tuttavia uno schema di questa dottrina non sarà qui 
inutile, innanzitutto perché alcuni temi, troppo poco familiari oggi, richiedono 
di essere messi in luce, ed inoltre perché si vedrà prendere forma un’immagine 
dell'autore e dell'opera: la stesura della RM presuppone una ben ampia cultura ed una certa 
riflessione personale in questo ambito.
Secondo la concezione corrente a partire da San Paolo (1 Ts 5,23), il Maestro si 
rappresenta l'uomo come un aggregato di tre principi:
corpo, anima e spirito (Thp 28; 1,80; 
81,18-19). L'elemento inferiore sarà molto spesso chiamato “carne„, con il 
valore peggiorativo che si collega a questo termine nel vocabolario paolino: la 
carne, è l'appetito corporale sregolato, che è in opposizione alla legge di Dio 
e dove regna il peccato. Lo spirito, al contrario, è la tendenza nobile e sana 
con la quale l'uomo ama Dio ed aderisce alla sua volontà. Tra queste due 
aspirazioni antagoniste, l’anima è il principio di libertà che obbedisce 
alternativamente all'una od all'altra. Questa oscillazione dell’anima tra la 
carne e lo spirito è tutto il dramma della vita umana, della vita cristiana, 
della vita monastica.
Infatti, da questa scelta dipende la salvezza. Il corpo è soltanto terra e 
polvere, solo l’anima gli dà forma umana e consistenza (8,11-17). Tutta la vita 
dell'uomo ha il suo principio nell’anima. È lei che sente, che muove, che 
agisce. Nulla di ciò che si opera con il corpo sfugge al suo controllo ed alla 
sua responsabilità (8,24; 14,82-83). Di conseguenza, è l’intera vita umana che 
si trova situata nel campo del libero arbitro e sottoposta al giudizio di Dio. 
Ogni azione umana, dalla più grande alla più trascurabile, impegna una scelta 
dell’anima pro o contro lo spirito, cioè pro o contro Dio. Quando arriva la 
morte, il corpo abbandonato ricade in polvere, ma l’anima porta via l’intero 
carico delle sue opere terrestri, buone o cattive, che la caratterizzeranno per 
l'eternità.
I beni materiali, che non possono seguire l’anima dopo la morte, sono dunque 
senza importanza (86,9-10). La sola cosa che rimane è questa stessa anima ed il 
conto che dovrà rendere di tutte le sue azioni. La visione del giudizio da cui 
dipende la felicità eterna o la geenna, è ciò che determina l'uomo alla 
conversione, in altre parole all'entrata nel monastero (Pr 6 e 17-21). È la 
stessa visione che determina tutta la struttura della comunità monastica e 
l’ascesi imposta ad ogni suo membro. Il monastero non è altro che una 
scuola (Ths 45) dove si apprende a servire Dio, un’officina (2,52) dove si 
eseguono i suoi ordini, un’armata (1,5) in guerra contro la "carne". Tutto vi è 
calcolato in vista di compiere la volontà divina e di eliminare del tutto il 
peccato da ogni esistenza individuale. Si tratta di offrire allo sguardo 
presente di Dio ed al suo giudizio futuro delle anime senza macchia, delle vite 
immacolate.
Nulla d'originale, ripetiamolo, in queste prospettive. Allora come oggi, le 
nozioni di salvezza eterna, di legge divina, di peccato, di giudizio, formavano 
il quadro mentale di ogni esistenza cristiana. Ciò che è singolare è l'intensità 
con la quale queste nozioni sono qui “realizzate„, nel senso newmaniano del 
termine 
[2]. Nel monastero del Maestro, la coscienza 
individuale e collettiva è veramente assillata da tali pensieri. La regola 
propone ad ogni istante il tema della lotta contro il peccato. Si 
va all'oratorio per celebrare una piccola ora? Il motivo addotto alla 
celebrazione sarà di rendere grazie a Dio per queste tre ore passate senza 
peccato. Si organizza un orario quotidiano? Il primo fine assegnato al lavoro è 
di occupare lo spirito, in modo di cacciare i cattivi pensieri. Si fa una 
preghiera prima di ogni lavoro? Si tratta di implorare l'aiuto divino per non 
commettere alcun peccato e non dispiacere al Signore in nessun momento (tutto 
il paragrafo si riferisce al cap. 50).
L’intensità di questo assillo consiste nel fatto che si ha coscienza di non 
lottare soltanto contro la "carne" ed il sangue, ma contro la potenza malefica del 
diavolo, accanito nel mandare in rovina gli uomini. Nel mondo Satana regna 
tranquillamente su un'umanità che gli appartiene. Nel monastero, al contrario, 
esso si scatena contro degli uomini che pretendono di resistergli (90,69-70). 
Entrare al servizio di Dio significa dunque entrare in lotta aperta con il 
diavolo. Lo si incontrerà in tutti i momenti della vita monastica: nella 
salmodia, in cui suscita a chi canta abbondanza di fastidiosi umori (47,24), 
nella preghiera, in cui provoca gli stessi disagi corporali ed inoltre 
immaginazioni sconvenienti (48,6 e 11), al servizio della cucina, dove esso 
tenta con la gula (21,8), fuori dalla 
clausura, dove approfitta dell'isolamento del fratello in viaggio per attirarlo 
a delle cattive azioni (15,48-54). Più di tutto l'azione del diavolo ha per 
oggetto di trascinare postulanti e religiosi all'apostasia, al ritorno nel mondo 
(87,8; 90,85; 91,36). Questi intrighi multiformi ed incessanti non sono soltanto 
una minaccia per ogni individuo, ma costituiscono la più pesante delle 
preoccupazioni per l'abate e per i suoi prepositi, obbligati ad una sorveglianza 
continua (11,2-14 e altri). La vita della comunità è interamente dominata da 
questa preoccupazione della lotta contro la carne, contro il peccato, contro il 
diavolo.
Di fronte a questi nemici terribili, i fratelli non sono abbandonati alle loro 
proprie forze, fortunatamente per loro. Dio non è soltanto l'arbitro del 
combattimento; vi interviene fortemente, poiché è buono e salvatore (Th 11,2-14 
e altri)). La sua grazia è anche l'agente principale, universale, di tutto il 
bene che si opera nel monastero nonostante il diavolo (2,51 e altri)
[3] . Il segno della croce fuorvia i cattivi 
pensieri (8,27), le tentazioni (15,25), le difficoltà fisiche (47,24), mentre la 
benedizione paralizza il diavolo maledetto (19,8). Nei casi gravi, il ricorso 
alla preghiera si impone ed è sovrano, sia che si tratti di preghiera 
individuale o di preghiera comune. Le promesse di Cristo sull'efficacia della 
preghiera sono l’oggetto di una fede incrollabile (1,79; 14,57-58). Il dogma 
della sua passione redentrice dona la sicurezza della vittoria (Thp 7). Cristo è 
realmente la roccia contro la quale viene a rompersi qualsiasi sforzo del male 
(Ths 24; 3,56).
Questa fiducia in Dio non impedisce che si mettano in campo tutte le risorse 
della pressione sociale per sostenere la virtù vacillante degli individui. In 
tale percezione il 
monastero è alla lettera una scuola dove uomini di tutte le età sono trattati 
come, al giorno d’oggi, si osano trattare appena i bambini. Non soltanto l'abate 
dispensa l'insegnamento con la sua parola ed il suo esempio, ma egli veglia 
sull'esecuzione delle sue consegne, sia lui stesso, sia per mezzo dei prepositi. 
La presenza continua di costoro tra i loro uomini è una delle idee fisse del 
nostro autore. Vi ritorna senza sosta (11). I prepositi hanno il compito di non 
lasciare passare alcuna mancanza e sono armati di piccoli sermoni già pronti, 
adatti ad ogni colpa. In caso di resistenza, il colpevole è deferito all'abate, 
colpito da scomunica, costretto ad una penitenza umiliante dopo dure privazioni. 
Il rifiuto di soddisfare tale penitenza comporta l'espulsione al termine di tre giorni. Delle 
minime colpe, una negligenza, un semplice ritardo, possono far scattare questa 
procedura penale (19,13).
Del resto, il timore delle sanzioni non è la sola molla che entra in gioco. Si 
specula ancora sulla vergogna (23,56; 53,9-10; 33). Soprattutto il Maestro 
sembra avere fondato grandi speranze sull'emulazione in vista di giungere 
all’abbaziato. Istituisce tra tutti i fratelli un concorso di virtù, arbitrato 
dall'abate stesso: il primo avrà come ricompensa la futura nomina ad abate (92). Questa trovata 
pedagogica, di cui il nostro autore sembra molto fiero, ci appare oggi come 
un'aberrazione. Nonostante alcune circostanze attenuanti, possiamo pensare che i 
suoi contemporanei non l’abbiano affatto giudicata differentemente.
Qualunque cosa si pensi di questa stravagante invenzione, occorre riconoscere 
che il tema educativo che riempie la RM fa parte di tutto l’antico cenobitismo. 
All'epoca, il coenobium era agli occhi dei 
nostri padri un'istituzione educativa dai metodi semplici e vigorosi. Occorre 
arrendersi a quest'evidenza, per quanto possa essere sgradevole alle nostre 
sensibilità moderne. A questo proposito, se la RM ci sconcerta  più di ogni altra 
regola, non è per il motivo che accentua in modo anormale l'aspetto pedagogico 
di ammaestramento, ma semplicemente perché la sua redazione molto più ampia, più 
dettagliata e più metodica di quella di nessun altro documento di vita 
comunitaria conferisce a 
queste realtà un rilievo molto più accentuato. L'elemento disciplinare non è 
ipertrofico, è soltanto descritto con una precisione ineguagliata. Per questo 
motivo si avrebbe torto nel meravigliarsi di fronte allo stile puerile o tirannico di 
alcuni metodi, come se si trattasse soltanto di odiose originalità dovute 
alla mania pedagogica del nostro autore. Se la regola di san Benedetto fosse tre 
volte più lunga, ci rivelerebbe anch’essa molti dettagli che siamo felici di 
ignorare…
Tuttavia la disciplina collettiva è impotente ad eliminare completamente il 
peccato. Occorre ancora che l'individuo compia uno sforzo personale. Questo 
elemento di ascesi individuale appare soprattutto nella prima parte della regola 
(cap. 3-10). Dopo gli elenchi di buone opere, di virtù e di vizi dei cap. 3-5, 
tre ampi trattati descrivono le virtù principali: obbedienza, silenzio, umiltà. 
L'obbedienza non è soltanto l'atteggiamento fondamentale del discepolo che 
rimette la sua volontà tra le mani di un “dottore„, affinché quest'ultimo faccia 
regnare la volontà di Dio nella sua vita; l’obbedienza è anche imitazione di 
Cristo, partecipazione alla sua passione, similitudine del martirio (7,59; 
90,12-59). Si raggiunge qui uno dei rari vertici dove si sente passare qualcosa 
come un soffio mistico. Del resto, l'obbedienza è gradita a Dio soltanto se 
procede dal profondo del cuore, se esegue l'ordine dato di buon grado e senza 
mormorazioni interiori (7,67-74). È dunque molto più di una semplice disciplina 
esteriore.
L'opposto dell'obbedienza è la “volontà propria„. Si intende con ciò sia 
l'opposizione al volere divino che al volere del superiore, dato che il 
discepolo non può conoscere la volontà di Dio altrimenti che tramite il suo 
“dottore„. Volontà propria significa dunque volontà peccatrice. Un'altra analoga 
espressione, spesso accoppiata alla volontà propria, è il “desiderio della 
carne„. Essa riconduce la nostra attenzione sulla tricotomia carne-anima-spirito 
(90,51).
Se l'obbedienza pone rimedio alla volontà propria, cioè alla radice stessa di 
ogni peccato, non è meno necessario sorvegliare specialmente alcuni ambiti 
pericolosi, dove il peccato si insinua più facilmente. Il Maestro prende come 
guida, nella descrizione dell’agire umano, uno schema pittoresco: l’anima è 
situata nel cuore, sede dei pensieri; con gli occhi guarda fuori e brama gli 
oggetti delle sue cupidigie; con la lingua mette al mondo ciò che ha concepito 
nel cuore. Ma se l’anima, gli occhi e la lingua fungono da organi all'attività 
peccatrice, l’anima dispone di un potere di controllo su questi organi, di cui 
si deve ben valere. Dunque, il Maestro indica  successivamente come si controlla 
il pensiero cattivo, lo sguardo impuro, la parola peccatrice, dilungandosi più 
diffusamente su quest'ultima, a causa della propria risonanza sociale. Lo 
sviluppo considerevole che, per questo motivo, è dato al “silenzio„ (questa 
virtù è anche la sola citata nei titoli dei cap. 8 e 9) non deve farci perdere 
di vista tutto il programma ascetico, di cui è soltanto un elemento. Il silenzio 
si situa in un vasto piano di lotta contro il peccato, che comporta anche 
l'esercizio interiore del ricordo di Dio e la modestia degli sguardi.
Questo piano di ascesi sarà ancora ampliato nel capitolo 10. In un quadro di 
“indici d'umiltà„ che ha preso in prestito da Cassiano ed ha trasformato, 
secondo la sua abitudine, in una pittoresca “scala del cielo„, il nostro autore 
riunisce tutta la materia dei due trattati sull'obbedienza e sul silenzio. Fin 
dal primo gradino si assiste a questa amalgama: alla lista degli ambiti da 
sorvegliare (pensieri, lingua, mani, piedi) che provengono dal trattato sul 
silenzio, si aggiungono la volontà propria ed i desideri della carne, che 
evocano la dottrina dell'obbedienza. Questa si sviluppa in seguito nei gradini 
2-4, mentre la dottrina del silenzio riempie i gradini 9-11. Il dodicesimo 
gradino, del tutto originale rispetto a Cassiano, è un rinnovo delle 
prescrizioni sulla modestia degli sguardi. Quanto all'umiltà, che dà il suo nome 
al capitolo, occupa in questa sintesi soltanto un posto abbastanza ristretto 
(gradini 5-7). Tutti e dodici i gradini si presentano come un'ascensione dal 
timore di Dio fino alla carità perfetta che scaccia via il timore. Quando questo 
vertice è raggiunto, l’anima acquisisce una specie di agevolazione a compiere il 
bene. La virtù è per l’anima una seconda natura, “l'amore delle buone abitudine„ 
regna in essa e rende inutili le motivazioni inferiori. A queste notazioni prese 
in prestito da Cassiano, il Maestro aggiunge una preziosa osservazione: è il 
Signore che realizza nel suo operaio questa condizione meravigliosa, è lo 
Spirito Santo che purifica così il fratello umile dai suoi vizi e dai suoi 
peccati (10,91). Qui, per la seconda volta, si fa sentire un tocco quasi 
mistico.
Lo si vede bene, la grande esposizione di dottrina spirituale che riempie i cap. 
7-10 non è costituita da tre trattati indipendenti, semplicemente giustapposti. 
Se si tratta in successione l'obbedienza, il silenzio e l'umiltà, è perché queste virtù 
sono tutte e tre studiate da uno stesso punto di vista: quello della
lotta contro il peccato. L'ultima 
frase del cap. 10, citato al paragrafo precedente, rende esattamente il tono di tutta 
l'espressione: mundum a peccatis et uitiis 
(purificato da peccati e da vizi). 
Dall’inizio alla fine 
si è trattato della purificazione di tutto l'uomo. L'obbedienza taglia corto alla volontà propria ed al desiderio 
carnale; la custodia del cuore, la modestia degli sguardi, il silenzio, 
arrestano il peccato sui punti più vulnerabili dell’insieme dell’uomo; l'umiltà 
completa l'opera, abbracciando nello stesso tempo le altre virtù e fornendo un 
rimedio specifico per il vizio capitale della superbia. Se il Maestro non ha 
giudicato utile studiare in modo particolare altri ambiti, come i peccati 
delle mani e dei piedi (furto e omicidio) (8,24-25; 10,12; 10,23-29), la
gula e l'appetito sessuale, è per il 
fatto che l’osservanza monastica, che sarà descritta nella seconda parte della 
regola, è di per sé stessa un freno sufficiente contro le colpe di questa 
natura. Solo gli aspetti principali dell’ascesi personale dovevano essere 
fissati nei primi capitoli. Ma non inganniamoci: non si tratta per il Maestro di 
raccomandare tre virtù dominanti, senza relazioni precise tra di loro: la sua 
opinione è di predisporre un dispositivo completo e metodico di difesa contro il 
peccato.
Fuggire il peccato per evitare la geenna, compiere la volontà di Dio per 
ottenere la gloria eterna: tale è dunque, nei suoi due aspetti, negativo e 
positivo, il concetto fondamentale che conferisce la sua unità a tutto questo 
trattato spirituale. Potrà del resto sembrare che l'accento sia messo sovente 
sulla circostanza negativa. Ma non si tratta soprattutto di evitare il peccato? 
Senza negare questa prevalenza del 
Declina a malo (Allontanati dal male) sul Fac bonum 
(Fa' il bene), che 
si spiega in parte con il carattere elementare di questa ascesi, destinata a dei 
nuovi convertiti, occorre notare che almeno nella presentazione dei fini ultimi, 
la prospettiva del cielo è più chiaramente tracciata rispetto a quella 
dell'inferno. Grande lettore della Visio 
Pauli, il Maestro avrebbe potuto prendere in prestito da questa apocalisse 
le sue visioni di orrore, così come i suoi quadri paradisiaci. Ma è un fatto 
che, se il paradiso è lungamente evocato a tre riprese nella RM (3,84-89; 
10,94-117; 90,16-27), l'inferno non vi è mai descritto (tranne 
che 
90,14-15).
Oltre a questa speranza positiva nell'ordine escatologico, il discepolo ha 
davanti a sé una carriera in cui egli deve normalmente progredire quaggiù. La 
RM non organizza soltanto la repressione del peccato; essa guida il fratello in 
un'ascensione verso l'ideale spirituale. Si è già visto l'itinerario del cap. 
10, dal timore alla carità. Purtroppo, tra questi due estremi, non è per niente 
possibile riconoscere tappe successive nei “gradini„ del Maestro, così come 
neanche negli “indici„ di Cassiano, a dispetto di alcune somiglianze di 
progressione
[4] . Proviamo piuttosto a raccogliere 
nell’intera regola le indicazioni sul progresso spirituale dei fratelli.
Il primo passo nell’ascesi monastica è la rinuncia al mondo. Il piano scelto dal nostro autore non gli permetteva di parlarne nel suo posto naturale, 
all'inizio della regola. È soltanto alla fine del lavoro, quando tratta 
dell'ammissione dei postulanti, che il Maestro ne parla
ex professo. Lo spogliamento assoluto 
è imposto: tutto ciò che possiede il richiedente, presente o futuro, deve essere 
abbandonato. Molte soluzioni sono ammesse: distribuzioni ai poveri, offerta al 
monastero, lascito ai genitori, ma con nessun espediente il nuovo venuto potrà 
conservare qualcosa a sua disposizione personale, sia nel monastero, sia nel 
mondo (87 e 91). Lo scopo è chiaro: si tratta in primo luogo di tagliarsi i 
ponti alle spalle, togliere ogni pensiero di ritorno nel mondo e garantire così 
la perseveranza del soggetto (87,8-12; 15;87,45 
e altri). 
In seguito, si vuole che il nuovo fratello non abbia il benché minimo oggetto 
sul quale possa esercitare la sua volontà propria: la povertà condiziona 
l'obbedienza (87,17-18 
e altri). 
Infine la rinuncia alla proprietà significa che ci si distoglie da ogni 
preoccupazione carnale: ormai, il fratello ha rimesso la sua esistenza 
materiale, così come la sua condotta spirituale, all'abate; non si preoccuperà 
più del suo corpo. Lasciando al monastero la cura di pensarci al suo posto, egli 
penserà d'ora in poi soltanto alla salvezza della sua anima (89,21-22; 91,58
e altri).
Spogliarsi in questo modo di tutti i propri averi significa compiere la parola 
di Cristo: «Vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri ...; e vieni! 
Seguimi!» (Lc 18,22; RM 87,13-15 e 91; 18 e 44)). Ma una volta che si ha 
“venduto tutto „, rimane da riempire la seconda parte del programma, col 
“seguire Cristo„. Questo secondo passo dell’ascesi monastica è la rinuncia alla 
volontà propria, l'obbedienza. È infatti dell'obbedienza che il nostro autore 
comprende quest'altra parola di Cristo: «Se qualcuno vuole essere mio discepolo, 
rinneghi se stesso, ... e mi segua»
[5] .
Come lo spogliamento, l'obbedienza deve essere assoluta. Non si tralascia nulla 
per fare comprendere al nuovo venuto la dimensione delle sue esigenze. Non gli 
si nasconde che si tratta di una specie di martirio. Non è facile intuire le 
prove concrete che prevede l'autore, quando parla delle “cose dure e varie 
comandate dall'abate„ e delle “diverse mortificazioni delle nostre volontà„ 
(90,31-32). Indubbiamente occorre pensare in primo luogo alle mortificazioni 
imposte dalla regola, di cui l’abate è il custode. Fra queste, sembra che si 
consideri come particolarmente gravosa la disappropriazione (90,63; 81; 82
e altri) 
e la clausura (90,65-66), proibendo questa ogni visita ai genitori. Oltre a 
questi punti di osservanza comune, il sottoposto dovrà obbedire agli ordini 
particolari che gli darà l'abate. In questo ambito, i soli punti d'attrito che 
segnala la regola sono le commissioni all'esterno, — occupazione faticosa, che 
persino gli artigiani qualificati osservavano del resto come poco degna di loro
[6] , — e le pratiche di ascesi surrogatorie 
compiute senza permesso (84; Cfr. 22,5-8). Ne esistevano certamente altri 
ancora.
L'obbedienza non ammette alcuna limitazione da parte del sottoposto. Nessuna 
libertà di giudizio è lasciata a quest'ultimo, non essendo mai previsto il caso 
di un conflitto tra l'ordine dato e la legge divina. E nemmeno si ammette che 
l'esecuzione materiale dell'ordine ricevuto possa accompagnarsi a riserve 
nascoste e da reticenze. Occorre obbedire con tutto il cuore. Se ci sono limiti 
all'obbedienza, è soltanto a causa di alcune concessioni tollerate dalla regola 
stessa. Così i fratelli possono scegliere le loro occupazioni la domenica (85) e 
nell'intervallo che separa i notturni dai mattutini in inverno (44,12-19). 
Possono anche in parte decidere del loro regime alimentare, sia in quaresima, 
sia nel resto dell'anno (53,11-15 
e altri). 
Un margine è così lasciato alla spontaneità. Inoltre, la regola accorda una 
certa libertà anche nell'esercizio dell'obbedienza. Mentre i “perfetti„ 
obbediscono al primo suono, si riconosce agli “imperfetti„ il diritto di 
ottemperare all’ordine soltanto al secondo comando. Concessioni simili sono 
fatte in merito al silenzio (7,1-21; 9,41-50).
Questa classificazione dei fratelli, gli uni “perfetti„, gli altri “imperfetti„, 
può sembrarci sommaria e, la casistica applicata loro, molto ingenua. Tali 
distinzioni mostrano presso l'autore almeno una reale preoccupazione di adattare 
la sua pedagogia alla diversità delle grazie e dei caratteri, conformemente alle 
direttive che egli da all'abate (2,11-12 e 23-25). Il Maestro non mette subito 
sullo stesso livello tutto il suo mondo. Egli sa che la conversione è una cosa 
progressiva e, per il discepolo, predispone prudentemente delle tappe sulla via della perfezione. 
Si potrà bene esigere dal novizio all’inizio  un’osservanza “perfetta„ ed 
“ineccepibile„ (90,78-79) durante il suo anno di prova. Ma nella realtà la 
perfezione si incontra soltanto in un piccolo numero di religiosi; costoro, con 
l'esempio che danno, non devono scoraggiare i deboli, ma incitarli al progresso 
(7,10).
L'obbedienza alla regola ed all'abate implica globalmente tutte le rinunce della 
vita monastica. Ma una volta che si è acconsentito a questo sacrificio radicale, 
il solo che sia evocato nell'atto della professione (89,8 e 11-16), occorre 
prepararsi a lottare contro ognuna delle tendenze malvagie che abitano l'uomo 
peccatore. Questo combattimento contro i “vizi ed i peccati„ (1,5; 9,41; 10,12; 
10,70) è la sostanza stessa della vita monastica, l’abbiamo già visto. Il 
fratello dovrà fare la guerra in particolare alla superbia, alla loquacità, al 
riso ed alle buffonate, alla disattenzione nell'atteggiamento esteriore, alla
gula o appetito, alla polluzione 
notturna ed alle immaginazioni che la originano, alla vergogna che impedisce le 
confessioni, al sonno stesso… Ci sia perdonato questo elenco incoerente: il 
Maestro stesso non è per niente ordinato. Se ha tentato di coordinare alcuni 
aspetti dell’ascesi nei cap. 7-10, ciò è avvenuto per mezzo di schemi 
pittoreschi (l’anima situata nel corpo; la scala del cielo) piuttosto che grazie 
ad un sistema concettuale realmente profondo e coerente. Del resto questi 
capitoli di sintesi lasciano da parte numerose tendenze (appetito di cibo e di 
sonno, sessualità, ecc.), la cui prescrizione è descritta soltanto 
occasionalmente nel seguito della regola. Non bisogna neanche cercare l'ordine 
né la completezza nelle liste delle buone opere, dei vizi e delle virtù dei cap. 
3-5 e 92. L'autore si accontenta di mettere dall’inizio alla fine le 
enumerazioni della Scrittura, di San Paolo in particolare, completate da alcune 
reminiscenze di lettura. Si è colpiti dal constatare l'assenza della teoria 
degli otto vizi capitali, che serve da quadro all’esposizione di Cassiano nelle 
sue Istituzioni. Sapendo tutto ciò che il Maestro deve a Cassiano, questa 
mancanza ci mostra quanto poco il nostro autore si interessi ai sistemi 
[7] .
Comunque sia, a proposito di questa mancanza di speculazione, il fatto che qui ci 
importa è l’intenso sforzo ascetico che la regola richiede da ogni fratello, 
affinché si corregga da tutti i suoi difetti. Questo sforzo tende verso un 
fine: fare degli uomini spirituali. L'ideale del “fratello spirituale„ è ciò che 
conferisce una certa unità a questo programma di ascesi così poco sistematico.
Per comprendere tutto ciò che l'autore mette nella parola
spiritalis, che gli è così cara, 
occorre ricordarsi la concezione tricotomista dell'uomo che evocavamo all’inizio 
di questo studio: l'uomo è carne, anima, spirito. Tutta l'avventura religiosa 
dell'uomo, dicevamo, consiste nell'oscillazione dell’anima tra la carne e lo 
spirito, e nella sua opzione per l’una o l'altra di queste tendenze opposte. 
L'uomo spirituale è quello che ha fatto trionfare in lui lo spirito
[8] .
La prima volta che appare questa nozione nella regola è all'interno di una 
citazione di San Paolo: “Voi che siete degli spirituali„ (15,21 
citando 
Gal 6,1: Volg.), scrive l'Apostolo ai Galati, esortandoli alla mansuetudine. È a 
questo testo che il Maestro pensa in seguito, quando stabilisce la legge del 
digiuno quotidiano: “Noi che siamo degli spirituali, arrossiamo di fuggire il 
digiuno„ (28,3). Qui il termine è applicato a tutta la comunità monastica. Per 
professione, i monaci sono tutti degli spirituali, almeno in linea di massima. 
Dunque, si possono  designare generalmente con questa parola, in contrasto con i 
secolari, che sono in linea di massima “carnali„. Questa generica accezione si 
trova varie volte nella RM: i “fratelli spirituali„ sono semplicemente i 
religiosi, per opposizione ai laici, sia che si tratti di fratelli del monastero 
(56, 1 e 15), di monaci dell'esterno (57, 20 e 23; 61,5 e 12) o degli uni e 
degli altri (63, l). Non è del resto una semplice etichetta sociale. Si è ben 
consci del significato profondo del termine e delle sue esigenze. Lo abbiamo già 
notato a proposito del digiuno. Lo si constata ancora, quando il Maestro predica 
ai suoi “spirituali„ il disinteresse pecuniario (85,3) e l'astensione in 
relazione agli affari del mondo (86,8), o quando fornisce la definizione 
seguente, a proposito dell'abnegazione in materia d'abito:
ideo spiritalis homo Dei est, non 
carnalis (Perciò l’uomo di Dio è uno spirituale e non un carnale) (81, 20).
Ma accanto a questo senso generico, 
spiritalis ha un’accezione più ristretta. Anziché applicarlo, come prima, ad 
ogni monaco, in quanto egli appartiene per professione ad una categoria sociale 
determinata, lo si riserva a quei monaci che si mostrano realmente degni di 
questo nome. Questa accezione limitata appare già riguardo agli ospiti, monaci o 
sacerdoti: “se essi sono spirituali„ (di nuovo un'allusione a Gal 6,1), si 
metteranno al lavoro per guadagnare la loro vita, come lo vuole San Paolo 
(78,25; 83,13). Del pari, spiritalis 
in senso ristretto è applicato più volte ai membri della comunità che si 
distinguono per i loro sentimenti di grande sensibilità ed il loro entusiasmo. E’ così che, 
dopo una polluzione notturna, il fratello, “se è realmente spirituale„ (si 
osserva il ritorno di questa frase), non arrossirà nel confessare il suo difetto 
(80, 4). È ancora quasi spiritalis, 
da vero spirituale, che qualcuno rinunci volontariamente al sonno dopo l’ufficio 
notturno: costui “ama lo spirito più della carne„ (44,17-18).
La qualità di “spirituale„ non si riconosce soltanto da queste restrizioni sul 
sonno o sul cibo. Appare anche in alcuni movimenti di dolore spontaneo, causati 
da eventi che sembrano separare da Dio. Quando ad esempio un fratello, a seguito 
di un ritardo, è condannato a mangiare senza la benedizione, allora, “se è 
spirituale, soffrirà di prendere il suo pasto senza Dio„ (23, 48). Il “fratello 
spirituale„ si rattrista allo stesso modo, e fino alla “disperazione„, quando 
trova l'Ufficio già terminato dopo avere corso per recarvisi (55, 13).
È chiaro che per il Maestro lo scopo dell’ascesi monastica è di formare degli 
“spirituali„ di questo genere. Non soltanto degli spirituali di professione, in 
virtù dell’osservanza comune, ma degli spirituali col cuore, nella realtà intima 
della virtù. Per questo motivo l'educazione della libertà è indispensabile, 
oltre all'addestramento. Si pensa qui alle notazioni del Maestro sulla “purezza 
dell’anima„, termine dello sforzo ascetico, o piuttosto dono dello Spirito Santo 
a quelli che hanno sofferto nell’ascesi. Al vertice della scala dell'umiltà, 
quando il cenobita sbocca nella carità perfetta, lo Spirito Santo lo purifica 
dai suoi vizi e dai suoi peccati (10,91). Questo stato è comparabile a quello 
dell'eremita autentico, di colui che, a forza di temprarsi nella comunità, si è 
reso capace di combattere da solo, “Con Dio e lo spirito„, contro i vizi della 
carne e dei pensieri (1,5). Il Maestro considera tale “purezza di cuore„ non 
solo come la condizione dell'entrata nel cielo (10, 122), ma anche come il dato 
di fatto di un piccolo numero di religiosi che egli ha sotto gli occhi sin da 
ora. Sono i “perfetti„, i “puri di cuore„, coloro che sono “purificati dal 
peccato„ (9,41). Agli altri, non cessa di ricordare che devono “purificare la 
radice del cuore„, se vogliono che il loro essere e la loro attività sia senza 
macchia (14,84; 15,1). Fin dall'entrata nel monastero, si invita il postulante a 
“rendere puro l'intimo del suo cuore„, prima di rivestire l’abito monastico 
(90,75).
Questo ideale spirituale è così caro al Maestro che ne fa costantemente una 
regola di vita per i suoi. È la legge del primato dello spirituale. Per quanto 
sia mantenuto saldo l'obbligo del lavoro manuale, non bisogna che questo 
impedisca ai prepositi di esercitare la loro sorveglianza sui fratelli. Infatti, 
ci va di mezzo la “causa di Dio„ o “causa dello spirito„, cioè la repressione 
dei vizi. A questa non si devono preferire i “profitti della carne„, cioè il 
frutto del lavoro manuale. Ed occorre citare il testo evangelico
quaerite regnum Dei (cercate il Regno di 
Dio) (11,94-106).
La stessa idea riappare a proposito del lavoro in quaresima. Il fratello che 
si impone un digiuno volontario deve essere esentato del lavoro comune 
(53,38-41). Il digiuno è un “lavoro spirituale„ (53,12) e, come tale, deve 
essere preferito al lavoro manuale. Del resto i digiunatori non resteranno 
oziosi, ma faranno la lettura a quelli che lavorano; questa lettura è lei stessa 
un “lavoro in spirito„
[9] , superiore al lavoro manuale.
Più generalmente, il primato dello spirituale costringe a sacrificare il lavoro 
dei campi, incompatibile con il raccoglimento, con l'indifferenza alle cose 
terrestri e con il digiuno monastico (cap. 86). A varie riprese, il Maestro mette 
ancora in guardia contro gli “affari secolari„ (82,18 
e altri, citando 
2 Tm 2,4), la “preoccupazione del domani„ (11,101-106 
e altri, citando 
Mt 6,25-34), gli “ostacoli del secolo„ (86,7 e 91,29 
citando
Visio Pauli 10 e 40), tutte 
preoccupazioni di cui gli abitanti del monastero devono essere interamente 
liberi, per pensare soltanto alla loro anima ed alle cose di lassù. Si arriverà 
persino a vendere a prezzi inferiori a quelli del mercato, per ben affermare il 
disinteresse che ha sede negli “spirituali„ (85,1-7).
2. Teologia della vita monastica
Una delle qualità più apprezzabili della RM è la chiarezza con la quale la vita 
monastica è pensata e situata nella Chiesa. Per “vita monastica„, intendiamo 
ovviamente il cenobitismo, poiché l’eremitismo è citato dal Maestro soltanto in 
un breve paragrafo d'introduzione, di cui non si può del resto trascurare 
l'importanza (1,3-5).
Questo sforzo di riflessione traspare nella stessa organizzazione della regola. 
Lo si vedrà studiando il piano di questa. Tutto vi è ordinato con metodo 
partendo da una concezione globale del monastero e del suo governo. Ciò che 
occorre qui sottolineare è come la vita monastica così regolata si situi nella 
storia della salvezza e nella Chiesa.
Il Prologo, innanzitutto, è una presentazione della regola. Vi si afferma con 
forza l'autorità di questo documento e del suo autore. Quest'ultimo si presenta 
chiaramente come il portavoce di Dio. D'altra parte, la dottrina che svilupperà 
non è nient’altro che la “via stretta„, cioè il puro Vangelo. L'evocazione dei 
fini ultimi finisce di conferire prestigio all'opera ed al legislatore: è in 
gioco niente di meno che la salvezza eterna o l'inferno!
La stessa ampiezza caratterizza la seconda introduzione, quella del
Thema. Questa volta, si tratta di 
presentare la schola dominici servitii, 
il monastero. Vi si giunge soltanto dopo aver evocato il peccato originale, la 
vita peccatrice nel mondo e la rigenerazione battesimale. L'abbandono del secolo 
e l'entrata nel monastero sono visti come un seguito del battesimo. Il 
sacramento ci ha fatto deporre il peso del peccato: come lo riprenderemo poi 
sulle nostre spalle? La voce di Cristo che chiama a “prendere il suo giogo„ ed a 
“trovare ristoro„ aveva attirato al fonte battesimale il peccatore sfinito: ora, 
la stessa voce lo invita a lasciare i “cammini del mondo„.
Il commento del Pater e quello dei salmi non fanno che riflettere questa 
chiamata a tutti gli echi della Scrittura. Poco importa che questi testi siano 
forse dei brani presi in prestito a qualche catechesi battesimale. Qualunque ne 
sia l'origine, la loro presenza nella regola attesta un proposito molto notevole 
di mettere la vita monastica in relazione con i dati fondamentali di ogni vita 
cristiana, dopo averla situata nel prolungamento del battesimo. Questi due 
commenti abbondano infatti di formule ampie e profonde che descrivono, in tutte 
le sue dimensioni, la storia cristiana della salvezza (Thp 1-11; Ths 2-4). Allo 
stesso tempo chiunque è familiarizzato con la regola scopre in queste pagine 
l'annuncio di molti temi che il Maestro sviluppa con insistenza nei capitoli più 
decisamente “monastici„ della sua opera
[10] . Il
Thema non si presenta, dunque, come 
un'esortazione vaga e generale, valida per ogni cristiano, che l'autore avrebbe 
artificialmente premesso ad una legislazione destinata a monaci. Anche se è 
stata utilizzata una fonte non monastica di questo genere, questa ha subito un 
tale lavoro di rimaneggiamento che presenta ormai una solida continuità con il 
resto della regula. È una vera 
introduzione alla sua opera che il Maestro qui ci fornisce. Si tratta di 
radicare l’ascesi monastica nella Scrittura, mettere il lettore in presenza 
delle grandi verità cristiane che, “realizzate„ con intensità, diventeranno le 
idee portanti della vita del chiostro: Cristo è padre e signore; Cristo ci 
chiama; Cristo ci giudicherà; la sua volontà deve essere compiuta e la nostra 
propria volontà sacrificata; la sua provvidenza provvede alle nostre necessità; 
la sua grazia ci fa trionfare sul diavolo; occorre soffrire con lui per 
condividere la sua gloria.
Questo invito alla vita monastica ci conduce alla
schola dominici servitii (Ths 45). Di 
primo acchito il Maestro fornisce la definizione precisa del monastero ed indica 
il suo posto esatto rispetto alla Chiesa. Altrove, infatti, ci insegna che le 
“case divine„ sono di due tipi: chiese e monasteri (11,8), chiese di Cristo e 
scuole di Cristo (1,83). Queste due forme di istituzioni sono rigorosamente 
parallele. Si definiscono le une come le altre dalla gerarchia che le governa in 
nome di Dio: da un lato i vescovi, i sacerdoti, i diaconi ed il clero, dall'altro 
gli abati ed i prepositi (11,9-10). Le due gerarchie, benché distinte, hanno in 
comune la loro origine divina, il mandato di Cristo che le ha istituite e che le 
assiste. In realtà, esse formano un solo ordine gerarchico, quello dei “dottori„ 
(1,82-83), solidamente depositario delle promesse che Cristo ha fatto ai suoi 
apostoli (Gv 21,17 e Mt 28,20 citati da RM 1,85-88) ed ai suoi discepoli (Ldc 
10,16 citato da RM 1,98 e 11,11).
Per comprendere questa teoria dell'abate-dottore, che è la chiave della 
definizione del monastero come schola 
Christi, occorre prestare attenzione all'interpretazione di 
1 Cor 12,28 ed Ef 4,11, sulla 
quale la teoria riposa. Secondo il testo ricevuto, san Paolo enumera, in termini 
quasi identici, una serie di funzioni esercitate
simultaneamente nell'ambito della 
chiesa, corpo di Cristo: primum 
apostolos, secundo prophetas, tertio doctores. L'ordine di enumerazione (primum, 
secundo, tertio) è un ordine di dignità decrescente. Ma il Maestro legge un 
testo diverso. Egli inverte i primi due termini della lista:
primum prophetarum, apostolorum secundum, 
doctorum tertium 
[11] . Conseguentemente, intende l'ordine di 
elencazione in un senso cronologico, in modo che i ruoli di profeti, di 
apostoli e di dottori siano esercitate successivamente nel corso della storia 
del popolo di Dio. I profeti hanno compiuto il loro ministero sotto il Vecchio 
Testamento. Gli apostoli hanno adempiuto al loro sotto il Nuovo Testamento, al 
tempo di Cristo. Quanto ai dottori, essi sono in esercizio a partire dalla 
scomparsa degli apostoli, ai quali sono legittimamente succeduti. Sono il 
vescovo e l'abate, ciascuno nel suo proprio dominio (chiesa o «scuola»), 
assistito dai suoi rispettivi collaboratori (sacerdoti, diaconi, clero, o 
prepositi). “Dottore„ significa dunque semplicemente successore degli apostoli
[12] . Dando questo titolo all'abate, il 
Maestro equipara quest'ultimo al pastore supremo della Chiesa, al vescovo, così 
come assimila il monastero (o “scuola di Cristo„) ad una chiesa.
Questa assimilazione pone ovviamente un problema teologico apparentemente 
abbastanza delicato: con quale diritto l'abate è così messo sullo stesso piano 
del vescovo? Gli si possono legittimamente applicare le promesse fatte da Cristo 
agli apostoli ed ai loro successori? Per cogliere la portata di queste domande, 
è necessario ricordarsi che l'abate, secondo la RM, è un laico (83,9). Non è 
dunque a titolo di un ordine consacrato, sacerdozio o diaconato, che egli può 
rivendicare la qualità di “dottore„. Questa deve appartenergli in virtù della 
stessa sua funzione di abate.
Si potrà leggere altrove lo studio che abbiamo un tempo dedicato a questo 
problema (Si 
veda La communauté et l'abbé, p. 
132-138 e 176-186). 
Oggi più che mai, il pensiero del Maestro ci sembra rigorosamente ortodosso e 
tradizionale. Ce ne accorgiamo senza fatica, se consideriamo il ruolo che svolge 
il vescovo nell’ “ordinazione„ abbaziale
[13] . È chiaro che agli occhi del Maestro, 
due atti di questa lunga cerimonia hanno un'importanza decisiva: dapprima 
l'iscrizione del nuovo eletto al dittico, iscrizione che è riservata alla mano 
del vescovo (93,7); in seguito le preghiere indirizzate a Dio dal vescovo a 
favore dell’ordinando (93,29 e 32-33). È a questi due riti essenziali che ci si 
riferisce, quando si evoca la cerimonia ed i suoi effetti nel seguito del 
capitolo (93,56). Il primo dovrà essere revocato dall'atto contrario: la 
cancellazione del nome dal dittico per mano sacerdotale (93,78), se si vorrà un 
giorno destituire il nuovo abate. Quanto al secondo, la sua importanza è 
affermata in una formula molto significativa dello stesso rituale d'ordinazione: 
“Che il grande sacerdote, con le sue preghiere, leghi negli atti del cielo ciò 
che tu hai ricevuto sulla terra„ (93,26). Quest'allusione al potere di “legare„ 
e di “sciogliere„ (Mt 18,18) non lascia alcun dubbio sulla portata della 
preghiera episcopale: essa è, si può dire, il rito costitutivo dell'ordinazione. 
Del resto, la presenza del pontefice (Da 
non confondere con il Papa. Ndt.) e del suo clero è anche richiesta per 
convalidare gli altri riti che circondano quello. La si nota accuratamente ad 
ogni passo della cerimonia (93,6-14). Si tratta dunque di un'ordinazione in 
“presenza del vescovo„, meglio ancora, di una
ordinatio sacerdotalis, di 
un'ordinazione il cui ministro è il vescovo (93,59).
Noi pensiamo che sia a questa cerimonia di benedizione abbaziale che il Maestro 
si riferisca implicitamente, quando emette, all'inizio della sua regola, le sue 
dichiarazioni solenni riguardanti il potere degli abati. Se l'abate è un 
“dottore„, un rappresentante autentico di Cristo che usufruisce della stessa 
autorità di un vescovo, è perché è stato debitamente investito della sua carica 
dal vescovo stesso. Certamente i tre grandi testi sull'autorità abbaziale 
(1,82-92; 11,5-14; 14,13-15) non fanno nessuna allusione esplicita alla 
cerimonia d'ordinazione, che è descritta soltanto alla fine della regola. Si 
vede male, in tal modo, la relazione che collega la teoria dell’abbaziato alla 
sua base rituale. Ma si tratta di un semplice effetto ottico, conseguenza 
inevitabile del piano adottato. Quanto alla realtà profonda, è indubbio che il 
Maestro stabilisce tra la carica di abate e l'ordinazione abbaziale la stessa 
relazione fondamentale che egli ha posto esplicitamente tra l’ “ordinazione„ dei 
prepositi, degli ebdomadari, o del lettore, e le funzioni rispettive di questi 
ufficiali. È infatti una pratica costante del suo spirito, lo abbiamo visto 
studiando il rituale, quella di porre all'origine di una funzione, come 
all'inizio di qualsiasi azione, un rito di preghiera che la raccomanda a Dio e 
la fonda spiritualmente. Di solito, la descrizione di questo rito avviene in testa 
al trattato dedicato all'ufficio corrispondente, così come è naturale che sia. 
Una necessità particolare ha fatto venire meno a questa usanza nel caso 
dell'abate, ma noi pensiamo che occorra certamente ristabilire quest'ordine mentalmente 
ed a vedere nell'ordinazione abbaziale la chiave della teoria 
dell'abate-dottore. Così come i prepositi ricevono il loro potere dall'abate che 
li ha “ordinati„ (11,15), allo stesso modo l'abate ha ricevuto il suo del 
vescovo, nel corso dell'ordinazione.
Se tale è, per il Maestro, la base dell'autorità abbaziale, non è necessario 
cercare la giustificazione di questa in qualche carisma direttamente assegnato 
dallo Spirito Santo all'abate. È piuttosto sul modello della consacrazione 
episcopale, dunque dal modo di ordinazione ed in virtù di un rito quasi 
sacramentale, che il nostro autore concepisce l’investitura dell'abate. Questo 
rito è certamente il segno sensibile che permette a tutti di riconoscere 
l’autentico “dottore„, ed a quest'ultimo di esigere da tutti l'obbedienza dovuta 
ad un rappresentante di Cristo. Il tono oracolare del Prologo si spiega di 
conseguenza senza fatica: l'autore, che deve essere un abate regolarmente 
“ordinato„ , ha coscienza di parlare in nome di Dio.
Di conseguenza, i grandi testi sull’abbaziato si situano al di fuori di ogni polemica 
contro l'autorità sacerdotale, od a qualsiasi rivendicazione riguardo a questa. 
Il parallelo con il sacerdozio è tracciato soltanto per destare la fede dei 
monaci nella missione divina del loro abate. Perciò questo parallelo non indica che la gerarchia monastica è indipendente dalla gerarchia sacerdotale Al 
contrario, è da questa che attira tutto il suo potere. Se l'abate è certamente, 
come dottore, un successore legittimo degli apostoli, è perché egli si 
ricollega all'unica successione apostolica con l'ordinazione che gli ha 
conferito il vescovo. Non c'è successione apostolica all'interno del monastero, 
anche se è il vecchio abate che designa il suo successore
[14] . Così l’abbaziato è innestato sulla 
gerarchia ecclesiastica, come il monastero è innestato sulla chiesa secolare. 
Che si tratti dell'autorità dei suoi capi o dell'esistenza sovrannaturale dei 
suoi membri, la comunità monastica dipende interamente dall'unica
mater ecclesia (Thp 2).
Significa che l'assimilazione del monastero ad una chiesa resterà sempre nel 
dominio dell'analogia. Il monastero è “come una chiesa„ (53,64), ma non è una 
chiesa propriamente detta. Il suo vero nome è piuttosto
schola Christi, la scuola di Cristo
[15] . Il Maestro non ignora certamente che 
questa espressione o il suo equivalente può designare la chiesa stessa, come lo 
si vede in molti scritti patristici
[16] . Egli sa anche che Cassiano ama 
definire il coenobium come una
schola, intendendo con ciò la scuola 
che prepara agli esercizi sublimi e solitari dell'eremita (Cassiano
Conl. 3,1,2
e altri). La sua terminologia si 
allontana tuttavia da questi precedenti. Per lui il monastero è scuola, non 
tanto come preparazione all’eremitismo, né quanto chiesa nel senso proprio del 
termine, ma precisamente perché costituisce una comunità
sui generis, simile alla chiesa ma 
distinta da questa (1,83). Già le espressioni 
schola, schola monasterii ed 
anche schola Christi appaiono di 
solito presso scrittori anteriori come sinonimi di
monasterium (Per 
es. Fausto di Riez e Passio S. Eugeniae). 
Nessuno di questi testi, tuttavia, fa di 
schola il nome proprio del monastero per distinguere quest'ultimo dalla 
chiesa, come lo vediamo qui fare da parte del Maestro.
Pertanto il monastero è una quasi-chiesa. Ciò vuole dire che esso deve somigliare 
alla ecclesia, sia nel suo aspetto 
esteriore di casa di preghiera (53,64), sia nei suoi impieghi liturgici 
(46,6-7), sia nella sua struttura gerarchica, come abbiamo appena visto. Ma ciò 
vuole anche dire che deve differire dalla chiesa secolare per un “servizio di 
Dio particolare„, tanto nella liturgia (28,46-47) che nel modo di vestirsi 
(81,6). Esplicito in alcuni casi, questo ravvicinamento è certamente presente 
allo spirito dell'autore in molti altri casi, sotto il suo doppio aspetto di 
rassomiglianza e di diversità.
Poiché il monastero è pensato come confronto con la chiesa, ci si potrebbe 
aspettare di vedere il Maestro evocare la chiesa modello, la chiesa primitiva di 
Gerusalemme descritta ai capitoli 2 e 4 dei
Atti degli Apostoli. Non è così, ed 
il fatto è tanto più notevole poiché il riferimento alla chiesa degli apostoli è 
corrente nella letteratura cenobitica (Per 
es. Pacomio, Agostino, Cassiano, Basilio). 
Questa carenza deve richiamare la nostra attenzione su due caratteri molto 
marcati della concezione cenobitica del Maestro. Inizialmente il nostro autore 
quasi non si interessa alle relazioni dei fratelli tra di loro. La sola cosa che 
importa ai suoi occhi è la relazione “verticale„ che collega i fratelli ai loro 
superiori, i prepositi e soprattutto l'abate
[17] . In questo senso, il monastero è 
principalmente per lui una scuola, un luogo dove dei discepoli ricevono 
l'insegnamento di maestri qualificati. Le relazioni “orizzontali„ che collegano 
tra loro questi discepoli sono appena descritte. Non si attribuisce loro, 
sembra, nessun ruolo apprezzabile nella formazione delle anime.
Un secondo carattere, correlativo a quello, è la mancanza d'interesse del 
Maestro per la comunità come tale. Vi sono solo alcune notazioni che rilevano 
l'aspetto comunitario della disappropriazione (91,53-54 
e altri, senza rifer. ad At 4,32) 
o della preghiera
[18] . Di solito è in una prospettiva di 
ascesi puramente individuale che sono previste queste realtà, così come gli 
altri valori della vita cenobitica: obbedienza, silenzio, umiltà, veglie, 
astinenza
[19] , lavoro, castità… Il monastero non è 
dunque affatto concepito come società di carità, nella comunione dei beni e 
l'unione dei cuori, sul modello della chiesa primitiva ed ad immagine della 
Trinità. Esso è soprattutto una scuola, un'istituzione dove degli individui sono 
riuniti momentaneamente in vista della loro istruzione, senza che ci sia lo 
spazio o anche la possibilità di approfondire molto i loro rapporti. Una scuola 
è soprattutto orientata verso il futuro di ogni allievo; tutti insieme gli 
allievi formano soltanto una riunione occasionale, provvisoria ed un po' 
artificiale. Si direbbe anche che il monastero è soprattutto orientato verso 
l’aldilà personale di ogni monaco. Si tratta di educare ogni membro in 
previsione della vita eterna, piuttosto che di raccoglierli tutti in una 
comunità che avrebbe di per sé valore in quanto riflesso di quella del cielo.
Questa presentazione verticale ed individualistica del coenobium può deluderci 
per 
la sua povertà. Tuttavia, essa offre un interesse: quello di svelare in tutta la 
sua purezza la relazione del monaco con l'abate, che è storicamente la generatrice 
di un certo tipo di cenobitismo che deriva dalla paternità spirituale del 
deserto. La RM è proprio nella linea dell'evoluzione di quei solitari 
dell'Egitto che, quasi due secoli prima (nel IV secolo), furono i primi padri di 
comunità semi-anacoretiche o cenobitiche. L'abate resta per la RM, come per queste prime 
comunità di monaci, la ragion d'essere della riunione dei fratelli. Ciò che 
costoro sono venuti a cercare nel monastero è la direzione sicura, infallibile, 
dell'uomo di Dio. Quest'uomo deve insegnare loro la volontà di Dio. Molto di 
più, egli deve compierla in loro, in modo che l'obbedienza di tutti faccia di 
lui, per così dire, l'unica volontà agente nel monastero. Grazie a questo 
trasferimento di libertà e di responsabilità (2,6 e 33-36; 7,64-56), ciascuno ha 
il diritto di sperare che la sua condotta sarà interamente approvata da Dio e 
coronata della vita eterna. Andare verso Dio per mezzo dell'abate deve essere, dunque, la 
preoccupazione primordiale, quasi esclusiva, di tutti coloro che entrano in 
comunità.
Ma se questo rilievo dato alla funzione abbaziale è la caratteristica 
fondamentale che avvicina il monastero del Maestro alle fondazioni di un 
Apollonio o di un Pacomio (che sono 
semianacoreti), non si possono trascurare due caratteri particolari che 
distinguono la RM. Innanzitutto l’abbaziato non si presenta più come un carisma 
direttamente assegnato a qualche solitario che irraggia santità. A questo 
costume di investitura carismatica, che fu quello dei primi cenobiarchi egiziani 
od occidentali (Per es. Romano, Lupicino, 
Benedetto), si è sostituita nella nostra regola l'ordinazione dell'abate da 
parte del vescovo. Certamente è a causa della perfezione acquisita che il 
vecchio abate designa l'eletto e lo presenta al vescovo per 
l'ordinazione. Ma il merito e l'attitudine non bastano. Il riconoscimento 
dell'autorità ecclesiastica è richiesto per costituire il nuovo padre spirituale 
nella sua funzione di rappresentante di Cristo e di dottore
[20] .
Una seconda caratteristica distintiva della RM è il ruolo che gioca la regola, a 
fianco ed anche sopra l'abate, come organo della volontà divina. Fin dal 
Prologo ne siamo informati e la celebre definizione dei cenobiti la enuncia in 
tutta chiarezza: militans sub regula uel 
abbate (1, 2). L'autorità della regola è sovrana nel monastero del Maestro. 
La sua osservanza è il criterio secondo il quale si sceglie l'abate (92,8; 94,7 
e 10). È la regola che è al centro della cerimonia d'ordinazione (93,12-19 e 
24-30; in virtù della regola l’abate è il 
solo maestro del suo gregge). È su di essa che l'abate sarà giudicato 
(93,18-19). Parimenti, è la sua osservanza che promette il novizio nella formula 
di professione (89,8) e che non cessano di ingiungergli i prepositi in ciascuna 
delle loro ammonizioni (11,42; 11,50). La regola è veramente per tutti la “legge 
di Dio„ (93, 15). Tale è la sua importanza che la si legge continuamente nel 
refettorio.
In conclusione, nella RM si è lontani della sovrana libertà con la quale i Padri del 
deserto disciplinavano, in nome dello Spirito, i discepoli che si affidavano a 
loro. L'autorità abbaziale è impegnata da un documento scritto che le traccia — e 
con quale minuziosità! — tutta la condotta da tenere. Ben ristretto ci appare il 
margine d'interpretazione lasciato all'abate da questo regolamento quasi 
tirannico
[21] . Anche nel dominio dell'insegnamento, 
la regola pretende sicuramente di fornire alla comunità un programma completo, 
che lascia apparentemente al superiore soltanto il compito di amministrare delle 
particolari esortazioni ai fratelli tentati
[22] . Il ruolo dell'abate non è dunque di 
inventare, ma di ripetere la dottrina della regola e di vegliare sulla sua 
applicazione, con l'aiuto dei prepositi.
Da dove viene l'autorità della regola? Oltre alla Scrittura, il Maestro si 
riferisce solo di rado a dei documenti normativi
[23] . Egli offre piuttosto la sua opera come 
una “dettatura„ del Signore. Il legislatore è un ispirato. In ultima analisi, 
questa convinzione deriva certamente dalla coscienza che egli ha di essere lui 
stesso un abate regolarmente ordinato, dunque un vero dottore.
Tuttavia, nulla ci indica che la facoltà di comporre una regola, o anche di 
modificare quella che esiste, si trasmetta agli abati successivi. Ciò indica che 
il nostro autore riconosce a se stesso il potere legislativo ad un titolo 
speciale, ad esempio in qualità di fondatore (forse 
una formazione clericale?).
CONCLUSIONE: REALTÀ O FINZIONE?
Notevole tra tutte per la sua ampiezza, la sua precisione, il suo afflato e la 
sua organizzazione metodica, la legislazione che abbiamo appena studiato è stata 
scritta per una Comunità realmente esistente? Alcuni indizi possono farcene 
dubitare. L'autore non sembra sicuro né del numero minimo di due decine di 
monaci, che suppone tutta la regola (11, 20), né della disposizione dei locali 
(16, 49; cap. 79,1; 95,1). Egli lascia in bianco il nome del “territorio„ al 
quale appartiene il monastero (87,36; 93,6; 94,6), ed anche quello del santo 
patrono dell'oratorio (45,17).
Avremmo dunque a che fare con un gioco d'immaginazione senza portata pratica? 
Nulla è meno probabile. Ovviamente, l'autore è un abate perfettamente informato 
delle cose monastiche ed è preoccupato dell'efficacia della sua legislazione. La sua opera suppone una 
lunga esperienza delle istituzioni e degli uomini. Non si inventa dal nulla 
un’osservanza, un ordo ed un rituale 
così precisi, e non si organizza un dispositivo giuridico come quello della 
disappropriazione del postulante (cap. 87) senza avere sperimentato i diversi 
inconvenienti ai quali si pretende di rimediare. Altre parti dell'opera 
comportano forse una più ampia parte d'immaginazione, o d'utopia (Per 
es. la successione abaziale: cap.92-94). 
Il fatto è che questa legislazione non può essere considerata nell'insieme come 
un puro gioco dello spirito.
Questo doppio aspetto, determinato ed indeterminato, della RM dipende forse da 
una situazione e ad un intento che ci si potrebbe rappresentare così: l'autore è 
l'abate di un piccolo monastero che funziona pressappoco come lo descrive la 
regola, ma lui scrive per altre comunità, di cui alcune sono forse ancora da 
fondare. Questa destinazione gli permette di mettere a profitto una ricca 
esperienza, ma sistematizzando questa secondo le esigenze di uno spirito 
estremamente desideroso di logica. Alcune puntualizzazioni concrete dovevano 
restare incerte o “in bianco„ in un'opera di questo genere.
		Non tutte le note sono riportate, ma solo quelle che ho ritenuto più 
		importanti. Alcune brevi note, così come i riferimenti numerici, si trovano tra parentesi direttamente nel 
		testo. I riferimenti numerici, se non sono preceduti da abbreviazioni 
		(per esempio le abbreviazioni bibliche), si riferiscono al capitolo 
		oppure al capitolo ed al versetto della RM. (N.d.T.)
		
		
		NOTE:  
		
		
		
		
		
		
		
		
		[2] 
		N.d.T. Lo scopo di Newman fu quello di portare gli uomini a "realizzare" 
		i misteri della fede, a comprendere il cristianesimo autentico, come una 
		regola concreta di vita, non come un programma astratto di condotta. 
		Estratto da ”Incontrando Newman” 
		di Giovanni Velocci - Jaca Book 2009.
		
		
		
		
		
		
		[3] 
		RM 2,51. Questo ruolo della grazia è sottolineato molto: vedere Thp 
		76-80; Ths 25-28; 1,5; 1,79 e 92; 3, 46-47; 9, 48; 14, 49-56; 14, 61-62 
		e 65-66; 23, 56; 53, 10 e 14; 53, 28; 90,56. Ci sono forse in alcuni di 
		questi testi delle reminiscenze di scritti antipelagiani, sebbene la 
		necessità della grazia sia un luogo comune di tutta la letteratura 
		ascetica, tanto in Oriente, (si pensi a Gregorio di Nissa ed allo 
		Pseudo-Macario) che in Occidente, particolarmente da Cassiano. In quanto 
		al semipelagianesimo, non ce ne è traccia, del resto non più della 
		dottrina avversa. È a torto che si è voluto annettere il Maestro sia al 
		campo agostiniano, sia al semipelagianesimo. In realtà, presso il 
		Maestro non c’è nessuna punta teologica, né in un senso né nell'altro. 
		Gli si possono applicare le conclusioni molto prudenti alle quali è 
		giunto C. Vagaggini studiando san Benedetto ("La 
		posizione di S.  Benedetto 
		nella questione semipelagiana", in
		Studia Benedictina, Roma 1947 
		[Studia Anselmiana 18-19], p. 
		17 -84). L’una e l'altra regola utilizzano una terminologia antica, 
		comune, che resta sul filo della Scrittura, se si osa dire. Tutto ciò 
		che si può accordare è che questa terminologia non è esclusiva di un 
		interpretazione semipelagiana, dato che il nostro autore non manifesta 
		nessuna preoccupazione di prevenire l'errore. Ma Agostino stesso non 
		sempre si sforza di escludere formalmente una tale interpretazione, 
		anche nei suoi sermoni tardivi, e Cesario d’Arles (Serm. 
		212, 2, Morin, 797,25) ricopia senza batter ciglio delle formule 
		semipelagiane di Fausto! I testi i più "inquietanti " del Maestro sono 
		Ths 35 e soprattutto 1, 76-80 e 14, 57-59, dove sono utilizzati Zc 1, 3 
		e Lc 11, 9. Ricollocati nel loro contesto, non tradiscono alcuna 
		intenzione dottrinale.
		
		
		
		
		
		
		[4] 
		Così come 
		10, 45-49 : 
		
		postquam... non solum... sed et, 
		al passaggio dal 2° al 3° gradino; 10, 52 : 
		
		in ipsa obedientia 
		(4° gradino); 10, 68 : 
		
		non solum sua lingua... sed eliam intimo cordis... affectu 
		(7° gradino); 10, 82 : 
		
		non solo corde sed eliam ipso corpore 
		(12 ° gradino). Vi sono dunque dei progressi da un gradino 
		all’altro, ma solo all’interno di certi gruppi di gradini: obbedienza 
		(2-4), umiltà (5-7), silenzio ed atteggiamento esteriore (8-12). Da un 
		gruppo all’altro, di contro, non si constata alcuna progressione.
		
		
		
		
		
		
		[5] 
		RM 90,10 cita Mt 16,24 mescolato con Lc 14,26. Si veda anche RM 7,52, 
		dove l’applicazione del testo evangelico all’obbedienza è esplicito, ed 
		anche 3,10. In questi tre passaggi, il Maestro omette le parole
		tollat crucem suam (prenda la 
		sua croce), alle quali non fa mai allusione in nessuna parte della 
		regola.
		
		
		
		
		
		
		[6] 
		RM 57,14-16, dove viene richiamato il grande testo di Lc 10,16. Cfr. 
		50,72-74.
		
		
		
		
		
		
		[7] 
		Niente di più naturale, del resto, da parte di un autore di una regola 
		monastica, documento del tutto pratico. Paragonata alle sue simili, la 
		RM colpisce piuttosto per la relativa importanza che la medesima accorda alle 
		considerazioni teoriche. Poche regole fanno altrettanto. D'altronde ci 
		si può chiedere se il Maestro non abbia conosciuto Cassiano attraverso 
		qualche compendio, così come quello composto da Eucherio di Lione. 
		Questo riassunto avrebbe messo da parte od offuscato la teoria degli 
		otto vizi. Oltre all’assenza degli otto vizi, si noterà quella delle 
		quattro virtù cardinali, così care ad un Ambrogio ed a un Giuliano 
		Pomerio.
		
		
		
		
		
		
		[8] 
		Esitiamo a mettere la maiuscola alla parola "spirito". Nella RM come 
		nella Scrittura, il termine non è univoco. Talvolta designa lo Spirito 
		Santo, persona divina che risiede nell'anima del giusto (Thp 17; Ths 7 e 
		altri). Altrove si tratta piuttosto di un principio dell'insieme 
		dell'uomo (Thp28; 1,5 e altri), generalmente opposto alla "carne" od al 
		"corpo". Ma questo principio superiore dell'essere umano è giustamente 
		quello tramite il quale l'uomo aderisce a Dio ed al suo Spirito, così 
		che si distingue solo in modo imperfetto dalla persona divina. Lo spirito 
		dell'uomo è l'alleato di Dio, da qui l'equivalenza spesso stabilita tra 
		le "causa dello spirito" e la "causa di Dio". Occorre rilevare il 
		curioso testo (13,15) in cui lo spirito dell'uomo testimonia contro la 
		sua anima nel giorno del giudizio. Questa specie di sdoppiamento fa 
		pensare a certi passaggi della 
		Visio Pauli, che è all'origine di queste rappresentazioni.
		
		
		
		
		
		
		[9] 
		RM 53,40 (in spiritu legendo 
		laborent). La lettura è anche chiamata
		opus spiritale in 50,16. In 
		24,4, è chiamata esca divina 
		e opposta al nutrimento corporale.
		
		
		
		
		
		
		[10] 
		Si confronti Thp 34-40 e 7: 51-52; 10, 43-49; 90, 10-12 e 48-54 
		(obbedienza ad imitazione di Cristo): si noti come il commento al Pater 
		dia una smisurata importanza alla terza domanda del Pater: ovviamente, 
		il Maestro pensa ad abbozzare la condanna della volontà propria, tema 
		centrale di tutta la regola. Si confronti anche Thp 55-56 (Provvidenza) 
		e 3, 49; 11 99-106 16, 1-26; 23, 2; 82, 16-18. La bella formula 
		"cristiana" Thp 11 ha la sua eco nel passaggio chiaramente "monastico" 
		Ths 46. Il tema della paternità di Cristo è comune a Thp 9-11, 21-22 
		(Tutto il Pater è rivolto a Cristo) e 2, 2-3. La tricotomia 
		corpo-anima-spirito si presenta allo stesso modo in Thp 28 e 1, 80; 81, 
		18-19. La teoria del corpo "di terra", in piedi come una
		machina, si trova sia in Thp 
		52 e 77, che in 8, 1-5 e 12-16. Stessa analogia tra il
		Thema e l'intera regola dal 
		punto di vista della dottrina della grazia. Si confronti Thp 76-80; Ths 
		25-28 e 1, 5; 1, 79 e 92, ecc. (Si veda sopra:
		L'ideale spirituale). - 
		L'analogia non è limitata ai temi; la si constata anche sul piano del 
		vocabolario corrente. Così il 
		Thema ha le parole caratteristiche:
		digne (Thp 13);
		iuste (Thp 60);
		uidete fratres et
		rationes nostras (Thp 20);
		discussa (Thp 30);
		per formam faciendi in se et
		demonstrat nobis dicens (Thp 
		34), etc. 
		
		
		
		
		
		
		[11] 
		RM 1, 82 ; cf. 14, 14 (post 
		prophetas et apostolos) e Thp 46 (per 
		prophetas et apostolos). 
		
		La stessa inversione nella citazione di 1 Cor 12, 28 la si trova in 
		Gerolamo, Commentaria in 
		Zachariam, Liber I, PL 
		25, 1438B. (et alios in Ecclesia 
		constituens prophetas, et alios apostolos, alios doctores).
		
		
		
		
		
		
		[12] 
		La stessa cosa vale per pastor 
		(1,84), che è associato a doctor 
		(Cfr. Ef 4,11) in 11,12 e 14,14. Vescovi ed abati realizzano insieme la 
		profezia di "Isaia". Si veda Ger 3,15: "Vi darò pastori secondo il mio 
		cuore" (1,85 e 11,12).
		
		
		
		
		
		
		[13] 
		Noi abbiamo già segnalato questo ruolo nel libro
		La communauté et l'abbé, p. 
		137, n.2; p.182, n.3 e p. 360-361, ma senza estrarne tutto il 
		significato teologico che ci appare, oggi più di allora, di 
		un'importanza capitale.
		
		
		
		
		
		
		[14] 
		Si vedano i capitoli 92-93. E' anche il vecchio abate che destituisce il 
		nuovo, se costui perde di merito (93,78). In queste due circostanze il 
		controllo episcopale (esame del candidato; ratificazione della scelta o 
		degradamento) non è formalmente indicato, ma lo si deve supporre: perché 
		il vescovo non dovrebbe aver voce? Il suo ruolo si ridurrebbe a quello 
		di officiante liturgico? Si può fare a meno del suo assenso? Stando al 
		capitolo 94, il vescovo interviene inoltre indirettamente nell'elezione 
		stessa, nel caso in cui il vecchio abate muoia improvvisamente.
		
		
		
		
		
		
		
		[15] 
		RM 1, 83. Si trova anche schola 
		eius (= Domini) in 90, 12
		et 46; schola dominici 
		seruitii (Ths 45); schola Dei 
		(92, 26); schola diuina (92, 
		29); schola sancta (87, 9);
		schola monasterii (90, 29 et 
		55; 92, 64).
		
		
		
		
		
		
		
		[16] 
		Si veda per esempio Agostino, 
		Serm. 177,2, dove la chiesa è chiamata
		schola Christi in opposizione 
		alle scuole dei filosofi.
		
		
		
		
		
		
		
		[17] 
		Molto significativo, a questo riguardo, è l'utilizzo che il Maestro fa 
		della grande metafora paolina del corpo e delle membra. La sola idea che 
		prende in considerazione è quella del rapporto della testa (l'abate) 
		alle membra (i fratelli). Si veda 2,29 e 47. Nella RM non si tratta 
		assolutamente delle relazioni che uniscono le membra in un solo corpo.
		
		
		
		
		
		
		[18] 
		RM 15,20-25 (preghiera "unanime" per il fratello tentato); 16,51-52 e 
		l'intero cap. 20 (preghiera per gli assenti). Questi due ultimi passaggi 
		esprimono in modo notevole, probabilmente in dipendenza da Giuliano 
		Pomerio, la solidarietà di tutti, presenti ed assenti, nella preghiera 
		come nel lavoro. Ma la portata è limitata alla sola orazione, che è solo 
		una parte dell'Ufficio divino, e non ne deriva alcun insegnamento 
		concernente il carattere pubblico e comunitario della lode divina in 
		generale.
		
		
		
		
		
		
		[19] 
		Astinenza e lavoro hanno pure una portata altruista (27,47-51; 50,7), ma 
		a beneficio dei poveri, cioè di persone estranee alla comunità. E' in 
		questa direzione che si orienta di solito il pensiero del Maestro quando 
		pensa al dovere della carità.
		
		
		
		
		
		
		[20] 
		Nella Vita S. Eugendi 8 
		(Mabillon, Acta sanctorum 
		OSB; t. I, p. 555), all'inizio del VI secolo, si vedono dei vescovi che 
		si riuniscono orationis causa 
		attorno ad un abate appena eletto. Da parte sua, l'imperatore 
		Giustiniano riserva al vescovo l'approvazione dell'eletto ed il suo 
		insediamento (Cod. Iust. 1, 
		3, 47, anno 530). Dopo avere affidato al vescovo la stessa elezione (Nov. 
		5, 9, anno 535), l’imperatore 
		l'ha consegnata ai monaci, ma riservando ancora al vescovo 
		l'insediamento dell'eletto. (Nov. 
		123, 34, anno 546).
		
		
		
		
		
		
		[21] 
		L'abate è giudice in materia di scomunica (13,50 e 64), di perdono 
		(14,22) e di castigo (13,70; 57,15). Egli può concedere un supplemento 
		di cibo o di bevanda (26,11-13; 27,44-46 e 52-54). Ma è solo nel campo 
		amministrativo (gestione del tempo, ordinanze di lavoro) che la regola 
		gli lascia le mani libere (2,41-50; 19,9; 50,18). Si veda anche 24,21 
		(letture).
		
		
		
		
		
		
		[22] 
		RM 15,28-29 e 35. L'abate istruisce anche i novizi (Cap. 87-90). 
		Segnaliamo che la regola non prevede delle conferenze fatte dall'abate 
		alla comunità. Sono solo indicati dei commenti esplicativi sulla regola 
		letta al refettorio (24,19 e 34-37). L'assenza di conferenze regolari è 
		un tratto curioso, che contrasta con la loro frequenza ed importanza 
		nella congregazione pacomiana.
		
		
		
		
		
		
		[23]
		Instituta Patrum 
		(34, 2) ; a Patribus (90, 92) 
		; regulae nostrae a 
		Patribus...statutum consilium (91, 48). 
		
		Si vedano anche le proibizioni di papa Silvestro (28, 43).
		
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26 febbraio 2017                a cura 
di Alberto "da Cormano"    
    alberto@ora-et-labora.net
      
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