Inizio del
Monachesimo orientale
(Estratto da
“Dizionario di Storia della Chiesa” di Guy Bedouelle - Edizioni Studio Domenicano
1997)
La Tradizione è concorde nel definire S.
Antonio (c. 251-† 356) come il “Padre dei monaci”. Antonio era figlio di
ricchi agricoltori di Menfi, in Egitto; verso il 270, secondo S. Atanasio che ha
scritto la sua
Vita nel 358, Antonio sente
quell’appello che si ritroverà in tutta la vita monastica o consacrata: «legge
il Vangelo e sente il Signore dire al ricco: “Se vuoi essere perfetto, va’,
vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, poi viene e seguimi; avrai un
tesoro nel cielo”
(Mt 19, 21)»
(Vita di S. Antonio, 2).
Antonio comincia dunque una vita di preghiera, di digiuni, di veglie e anche di
duro lavoro nella sua casa, ma capisce che gli è necessaria una maggiore
solitudine: per questo si rifugia nel deserto in una tomba abbandonata. Qui
viene ripetutamente tentato dai demoni, che prendono la forma di bestie feroci:
«Viene tormentato da molti dolori fisici, ma mantiene vigilante e attenta la sua
anima». Si ritira poi per alcuni anni sulle montagne, dove molti cominciano a
visitarlo e ad ammirarlo per il suo raro equilibrio umano e spirituale: «né
contratto dal dolore, né dilatato dal piacere... sempre uguale a se stesso». Una
folla di eremiti si raduna non lontano da lui, sulle rive del Nilo, e per questo
ancora una volta Antonio deve allontanarsi e spostarsi verso il Mar Rosso; ma
anche qui è attorniato da molti discepoli e consultato spesso da filosofi e
politici; tra le altre cose, Antonio è di grande aiuto a S. Atanasio nella sua
lotta contro l’arianesimo. Nel 358, dopo alcune raccomandazioni ai suoi
compagni, il padre dei monaci si addormenta «con il viso lieto» e muore (cap.
92).
Nella stessa epoca altri eremiti scelgono di abitare nel deserto della Nitria,
dove risplende la santità di S. Macario d’Egitto (t 394), poi nella valle di
Sceti. La loro vita è narrata da Giovanni Cassiano, che visitò quei luoghi nel
400, poi da Palladio nella sua
Historia lausiaca,
dedicata a un
certo Lausio e composta nel 420. Ma l’insegnamento degli eremiti viene trasmesso
principalmente dagli
Apoftegmi, una straordinaria
raccolta di massime spirituali, che ci è pervenuta in due diverse collezioni,
una alfabetica (con i nomi dei vari Padri o Madri del deserto), l’altra
tematica.
Gli
Apoftegmi
descrivono la vita spirituale e ascetica utilizzando la forma del dialogo con un
“Anziano” capace di definire i valori della vita monastica. Ad esempio alla
domanda: «Abbà, dimmi una parola», il vecchio tace o risponde con una battuta
paradossale, ricca, di volta in volta, di semplicità o di severità. Ne citiamo
un esempio che caratterizza il Padre dei monaci: «Qualcuno chiese all’abate Antonio: “Che cosa devo fare per piacere a
Dio?”; il vecchio rispose: “Dovunque tu vada, devi sempre avere Dio davanti agli
occhi; qualunque cosa tu faccia o dica, che sia sempre secondo le testimonianze
della Sacra Scrittura; in qualunque luogo tu abiti, non te ne andare con troppa
facilità. Osserva questi tre precetti e sarai salvo”».
S. Evagro Pontico (346-399) contribuisce grandemente alla definizione di una
dottrina spirituale adatta alla vita eremitica nel deserto, battezzando il
concetto stoico di
apatheia (indifferenza) e gli
“otto cattivi pensieri”, che sono senza dubbio all’origine dei sette peccati
capitali.
Era però necessario dare al più presto una vera organizzazione alla vita
monastica: S. Antonio per primo scrive un
abbozzo di Regola in lingua copta; ma il primo vero legislatore dei cenobiti
(coloro che vivono in comune) è S. Pacomio (c. 290-346). Nato da genitori
pagani, nel 315 Pacomio fonda nella Tebaide, vicino al Nilo, una comunità di
frati non sacerdoti che fanno vita in comune, la quale ben presto si dilaterà in
altre fondazioni. Egli detta una
Regola per i suoi monaci, che devono «mettere in comune il loro
guadagno in tutte le attività, sia per il cibo che per l’ospitalità ai
pellegrini». Il lavoro in questa organizzazione assume un’importanza
fondamentale, al punto che nei monasteri che seguono la Regola di Pacomio i
monaci sono divisi in base al loro mestiere, anche se poi tutti si radunano
insieme per la preghiera liturgica in coro.
Così in quest’epoca si trovano già ben delineate le due forme di vita spirituale
che permettono agli uomini e alle donne di seguire il richiamo di Dio e di
lasciare il mondo: la vita solitaria e la vita in comune, che sono come i due
rami del grande albero monastico dell’Oriente e dell’Occidente.
In Oriente, nel V e VI secolo, la vita monastica incontra un successo
incredibile (centinaia di migliaia di persone). La spiegazione di questo
fenomeno non può essere trovata solamente nelle difficoltà economiche di quel
periodo, né nell’accresciuta importanza della Chiesa dopo le persecuzioni, ma
prima di tutto nella grande generosità delle anime nel rispondere al radicale
appello del Vangelo.
In Palestina la vita ascetica assume una terza forma, intermedia fra quella
solitaria e quella vissuta in comunità, con l’istituzione delle
Laure (dalla parola greca “laura”, che significa “strada
stretta”): gli eremiti si ritrovano insieme soltanto per la liturgia domenicale
e per il pasto in comune. Di questo tipo è il monastero di S. Saba (439-532),
che fonda una Laura nel deserto, a sud di Gerusalemme (Mar Saba).
In Siria, quando S. Efrem († 373) fonda a Edessa una prima scuola monastica,
sono numerosi gli anacoreti che praticano il più severo ascetismo - che del
resto continua ad affascinare le folle -: tra gli esempi più sbalorditivi si
possono citare gli stiliti, come S. Simeone, che vive per 37 anni (dal 422 al
459) su una colonna.
Il
monachesimo orientale trova
il
suo
secondo
legislatore
nella persona di S. Basilio di Cesarea. Fratello di S.
Gregorio di Nissa e di Santa Macrina, grande
amico
di S. Gregorio di Nazianzo, Basilio visita
tutti
i più
importanti luoghi del monachesimo orientale,
e
nel
359 decide di fondare nella sua proprietà di Annesi una
comunità monastica
maschile,
mentre sua madre e sua sorella riuniscono attorno a loro
una comunità femminile. Basilio si
schiera
dichiaratamente per la vita in comunità e polemizza,
spesso in modo assai aspro, con gli anacoreti. Il monastero basiliano
è
concepito come il Corpo di Cristo: esso obbedisce alla sua testa:
l'abate,
che è il responsabile della vita in comune, del lavoro, della beneficenza verso
i
poveri, della preghiera e della moderazione nei digiuni e nelle penitenze. La
sua Regola, che ci è pervenuta in due versioni, una più breve e una più ampia, è
redatta sotto forma di domande e risposte.
L'attrazione esercitata dalla vita monastica sui cristiani occidentali del IV e
V secolo fu assai potente. Giunti da Roma, S. Girolamo e Rufìno, così come le
loro allieve spirituali Melania, Paola ed Eusiochio, vanno a vivere a Betlemme
per condurre un’esperienza cenobitica. Con la mediazione di Cassiano, la
spiritualità monastica e la conoscenza delle tradizioni orientali passano in
Occidente, specialmente in Provenza, dove viene fondato il monastero di Lerino.
E il
richiamo alla conversione radicale è
inteso da S. Agostino
attraverso la mediazione della
Vita di
S.
Antonio
scritta da S, Atanasio (così infatti egli riferisce nelle
Confessioni
- Libro VII -): da quel momento Agostino non cessa di pensare alla migliore
organizzazione della vita comunitaria.
Infine, nel
secolo
seguente, S, Benedetto da Norcia
concepisce, elabora e riesce a vivere pienamente una forma di vita monastica
adatta ai Latini; non si deve, in ogni caso, dimenticare tutto ciò che il
monachesimo
occidentale deve a quello
orientale, S. Benedetto afferma, nell’ultimo capitolo della sua Regola (cap.
73): «Che cosa
si
può trovare nelle opere dei Padri, nelle loro
Istituzioni
nelle loro
Vite,
senza parlare della
Regola del nostro Padre S,
Basilio, se non tutto l’insieme delle virtù necessarie ai monaci per condurre
una vita santa nell’obbedienza?».
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2 maggio 2015 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net