1. Il monachesimo nell’Impero bizantino
2. Da Monte Olimpo a Studion
Estratto da “Il monachesimo bizantino”, a cura di
Maciej Bielawski O.S.B., ed. Abbazia San Benedetto 2003
Messo a disposizione
dall’autore sul sito academia.edu
Il tema del monachesimo bizantino richiederebbe una trattazione immensa.
Bisanzio è stato l’impero cristiano più grande e più duraturo mai esistito, e il
suo monachesimo ne fece parte integrante. Basandosi su date simboliche come la
fondazione di Costantinopoli (11 maggio 330) e la sua caduta (29 maggio 1453) si
ritiene che questo Impero sia esistito 1123 anni e 18 giorni e che in alcuni
periodi sia arrivato ad estendersi dal Caucaso alla Sicilia e dall’Egitto al
Danubio, portando con sé in tutti questi luoghi anche il monachesimo. Dunque, il
tempo e lo spazio di Bisanzio e del suo monachesimo sono molto vasti. D’altra
parte, la cultura bizantina come anche il suo monachesimo oltrepassarono le
frontiere politiche dell’Impero e della sua esistenza storica. Il monachesimo
bizantino si diffuse anche al di fuori di Bisanzio e il suo patrimonio
sopravvive tutt’oggi nella tradizione sempre viva delle chiese ortodosse. Questo
monachesimo è testimoniato dallo sterminato numero di fonti: centinaia sulle
vite dei monaci, sulle regole monastiche, sulle lettere e sui trattati ascetici,
senza parlare delle cronache e dei documenti delle fondazioni, dei siti
archeologici, dei monasteri, delle chiese e delle varie testimonianze della
cultura materiale della Bisanzio monastica. Non meraviglia allora il fatto che
ancora attualmente non esista uno studio completo o un manuale sintetico
soddisfacente sull’argomento. Il presente saggio non intende riempire questa
lacuna, ma solo offrire un rimedio temporaneo con l’indicare luoghi, personaggi,
testi e tematiche che costituiscono le line principali del monachesimo
bizantino. D’altronde, la trattazione si limita al periodo dell’esistenza
storica dell’Impero bizantino. Inizieremo con l’indicare alcuni (otto) concetti
generali che caratterizzano Bisanzio, ai quali è strettamente legato anche il
suo monachesimo. Nell’Impero bizantino gli imperatori venivano considerati quali
rappresentanti di Dio. In altre parole, Bisanzio era ordinato a teocrazia.
Si può immaginare Bisanzio come un cono nel quale, attraverso la punta, entra la
luce a illuminare tutto l’interno. L’imperatore di Bisanzio era questa punta e
la luce che scendeva da lui era considerata divina. Tutto ciò che si svolgeva
nell’Impero in qualche modo dipendeva dall’imperatore e manteneva una relazione
con lui. Ovviamente lungo i secoli questo sistema subì diversi cambiamenti e
molteplici evoluzioni, ebbe i suoi alti e bassi; nonostante tutto, la teocrazia
fu una delle caratteristiche di Bisanzio, nella quale va compreso il suo stesso
monachesimo. L’imperatore infatti non solo era il capo dello stato, ma anche
della Chiesa. Bisanzio in tutta la sua storia ha cercato un equilibrio tra il
potere secolare e quello religioso, tra l’impero terrestre e il regno dei cieli.
Ma bisogna riconoscere che abbiamo qui a che fare con qualcosa più di un
equilibrio, con una tensione veramente drammatica. I monaci e le monache
potevano appoggiare l’imperatore o essere contro di lui (non poteva che
succedere di tutto in una storia più che millenaria), potevano identificare
l’Impero con il regno dei cieli o fuggire ai margini della società, anche di
quella ecclesiale, lontani dalla rete di sorveglianza imperiale, nella
convinzione che il regno dei cieli si trova soltanto nel cuore; tuttavia, non
potevano evitare il confronto con la realtà e con l’idea di teocrazia. Per
questo le lotte dottrinali o spirituali a Bisanzio mantenevano il loro versante
politico e il monachesimo era drammaticamente diviso tra il servilismo
all’imperatore e la fuga dal lui. Poiché monachesimo significa vivere nei
monasteri, Bisanzio, a causa del suo sistema teocratico, sviluppò un certo
sistema di fondazioni monastiche. Esistevano allora monasteri patriarcali,
metropolitani o provinciali, di cui la fondazione e la regola (typikon)
dipendevano rispettivamente dal patriarca, dal metropolita o dal vescovo locale.
Ma esistevano anche monasteri imperiali, cioè direttamente fondati e dipendenti
dall’imperatore, che con i loro privilegi economici, politici e ecclesiali,
scavalcavano la gerarchia ecclesiastica. La fortuna, come anche la sfortuna, di
diversi centri monastici di Bisanzio dipendeva dalla forma della fondazione e
dalla collocazione all’interno del cono teocratico dell’Impero. Bisanzio fu un
impero cristiano, e tale fu anche il suo monachesimo. La persona di Gesù
Cristo e la fede nella Santissima Trinità, la Bibbia, la presenza dei Padri e
l’insegnamento dei concili, la disciplina canonica della Chiesa e la liturgia
costruivano il contesto quotidiano di questa società e del suo monachesimo.
L’ideale della santità del monachesimo bizantino fu quello cristiano, anche se
concepito in un modo suo proprio, particolare per il tempo. I monaci e le
monache dell’Impero bizantino erano cercatori di Dio e bramosi di
contemplazione. La fede e l’ortodossia erano dimensioni importanti. I monaci
spesso erano i protagonisti e i difensori della retta fede. Non mancarono
tuttavia – in alcuni periodi – atteggiamenti eterodossi, o almeno abbastanza
lontani alla normalità ecclesiale. Si pensi ai ricercatori della luce divina,
ai messaliani o ai bogomili, e tanti altri: le tendenze di tal
genere non di rado si confondevano con il monachesimo ortodosso ed abitavano gli
stessi monasteri. L’elenco dell’eresilogia bizantina è piuttosto imponente.
Nondimeno, bisogna sottolineare che parlando del monachesimo bizantino si ha a
che fare con un immenso fiume di santità cristiana, che in diversi modi si è
manifestato lasciando le sue tracce nei stupendi testi teologici,
nell’innografia liturgica, nelle icone e nei mosaici, nel canto sacro e nel
silenzio che spesso, ancora oggi, si riesce a sfiorare entrando per esempio in
alcune chiese dei monasteri bizantini. Bisogna sottolineare quest’aspetto,
perché ogni tanto in diversi libri si trovano “pagine nere”, in cui vengono
sostenuti l’oscurantismo e il formalismo di questo monachesimo, come anche
vengono riferiti episodi scandalosi e di perversità dei monaci e delle monache.
Questo, ovviamente, non mancava in Bisanzio, come ovunque, ma limitarsi a tali
dimensioni non è meno perverso e scandaloso. Infatti il monachesimo bizantino
porta nel suo grembo anche un tesoro nascosto: la vita santa e inesprimibile del
silenzio e dell’interiorità. Se ci affascinano le sue stupende testimonianze
esterne, come le icone e gli spazi dei monasteri, ancora di più lo sono le
pagine della sua tradizione spirituale, che in qualche modo riflettono quello
che questo monachesimo veramente cercava di vivere e di trasmettere lungo i
secoli. Sono a conferma di ciò i tantissimi testi scritti, meditati, letti e
trasmessi nei monasteri e negli eremi dell’impero cristiano dei bizantini. Un
altro concetto che aiuta a capire in modo generale il ruolo del monachesimo
bizantino è il concetto di ordine (taxis). Bisanzio fu un “mondo
perfetto”. Questo impero ha prodotto moltissime leggi, affidate poi
all’applicazione della burocrazia, un sofisticato sistema amministrativo di
controllo delle province e dell’economia. A Bisanzio ognuno doveva avere il suo
posto nella società e questo posto era ben definito sia dalle leggi sia da un
comune convincimento. L’attaccamento di Bisanzio a quest’ordine andava molto
lontano, oltre la funzionalità puramente sociale, perché era radicato in una
coscienza teologica. Questa convinzione è stata in qualche modo espressa da
Dionigi Areopagita – un pensatore del V o VI secolo, rimasto anonimo, che i
bizantini identificavano con il discepolo di san Paolo. Dionigi a Bisanzio era
un classico – un classico a cui, come si suol dire, quasi tutti hanno fatto
riferimento, ma che pochi in verità hanno letto. Questo classico ha colto alcuni
aspetti autentici della mentalità bizantina, a cui anche gli stessi bizantini
facevano riferimento più o meno coscientemente. Nella visione di Dionigi il
cielo e la terra sono ben strutturati secondo un disegno di Dio che li ha
creati: sono organizzati gerarchicamente nella triade (un riflesso della
Santissima Trinità) – tutto questo è stato descritto da Dionigi nelle sue opere
La gerarchia celeste e La gerarchia ecclesiastica. Bisogna
rispettare l’ordine creato da Dio per ottenere la salvezza. Perciò, in questa
visione il male non tanto è insito nella materia, quanto nel disordine (gr.
ataxis): «Il male non proviene dalla materia, ma da un movimento disordinato
contrario alle regole che Dio ci impone» (Nomi divini 729B). Nella
teologia dell’Areopagita, il monaco fa parte della gerarchia ecclesiale,
tuttavia non appartiene alla triade sacerdotale dove si trovano i vescovi, i
presbiteri e i diaconi, ma allo stato dei non ordinati, insieme con i laici e i
catecumeni. Dionigi usa due termini riguardo al monaco: nelle lettere adopera il
termine “terapeuta” (gr. therapeutes), mentre nella Gerarchia
ecclesiale parla di “monaco” (gr. monachos). La vita monastica non è
per lui una vita angelica, perché è perfettamente inserita nell’ordine (taxis)
ecclesiastico. Dalla descrizione della gerarchia ecclesiastica risulta che il
monaco possiede una maggiore perfezione e un posto migliore nella gerarchia di
un semplice battezzato, tuttavia non gli è affatto permesso di occupare le
competenze del sacerdote (cf. Lettera VIII che descrive il grave peccato
conto l’ordine, quando il monaco occupa le competenze di un sacerdote). Secondo
Dionigi il monaco non svolge nessuna attività pastorale propria ai vescovi,
sacerdoti e diaconi. Il monaco, consacrato da un sacerdote, non fa parte della
gerarchia ecclesiale, non governa e non insegna. La sua funzione è interiore (in
sé). Il suo scopo è di trovare, attraverso la purificazione, l’unità perfetta
con l’Uno, cioè con Dio. Perciò il monaco non lavora e non predica, ma
esclusivamente si dedica alla solitudine per stare con il Solo, cerca unita in
sé per unirsi con l’Uno – questo raggiunge attraverso la rinuncia e la prassi
delle virtù, e seguendo gli insegnamenti di Cristo. Il monaco rimane in sé
stesso e con la Monade (en monadike kai eiera stasei – La gerarchia
ecclesiale 553 C, A). La ragione della sua esistenza secondo Dionigi sta
nella sua unione con l’Uno. Il monachesimo bizantino lungo tutta la sua storia è
rimasto aperto e sensibile al valore della contemplazione, della rinuncia e
dell’interiorità, e questo è il suo grande pregio. D’altra parte, questa fuga
mundi per stare con Colui che trascende il mondo, l’atteggiamento così
tipico per il monachesimo in genere, non di raro fu la causa del formalismo e
del mancato interesse per i problemi pastorali della chiesa. Un’altra dimensione
di Bisanzio, spesso sottolineata, è la sua romanitas. È necessario
considerare il modo in cui questa dimensione è colta all’interno del monachesimo
bizantino. I bizantini si chiamavano e desideravano essere chiamati romaioi,
cioè romani. Si sentivano i veri eredi dell’Impero romano, quindi i padroni del
mondo, e la loro grande pretesa fu l’universalismo. Volevano regnare dall’India
alla Spagna e dall’Africa alle Isole Britanniche, e ancora più lontano. Infatti,
quando Roma cadde nelle mani dei barbari all’inizio del quinto secolo, e ancor
più quando l’antica capitale dell’Impero romano scivolò nell’eresia – secondo le
categorie dei bizantini –, dopo lo scisma del 1054, fu proprio Costantinopoli a
sentire la responsabilità di portare avanti la missione di guida, come capitale
dell’Impero cristiano. Le tracce della romanitas nel monachesimo possono
individuarsi nello splendore di alcune costruzioni monastiche veramente
monumentali, ma sono presenti soprattutto nelle regole monastiche bizantine (typikà).
Se da un lato la legge è stata sviluppata dai romani, dall’altro lato essa è
stata codificata e perfezionata proprio dagli imperatori bizantini e dalla loro
burocrazia: si pensi in modo particolare ai contributi apportati in questo campo
da imperatori come Giustiniano I e Leone VI. Si è affermato che il monachesimo
occidentale antico e medievale abbondava nelle regole monastiche, e si è
sottolineato l’eccessivo formalismo dovuto dell’importanza attribuita, ad
esempio, alla regola di san Benedetto. Ma il monachesimo bizantino, almeno sotto
l’aspetto della quantità di regole monastiche, è ancora più abbondante. Quasi
ogni monastero aveva la sua regola (typikon). Alcuni ne possedevano più
di una, o piuttosto un insieme dei testi giuridici, ascetici, disciplinari e sul
tipo del codice liturgico, che regolavano la vita del monastero. Testi del
genere vennero accumulandosi lungo i secoli: un typicòn ne ispirava un
altro, appartenente ad un altro monastero, ecc. Il materiale per uno studio in
questo campo è immenso, assai complesso, spesso confuso e sfortunatamente poco
approfondito. Una recente pubblicazione ha divulgato in lingua inglese, in
cinque volumi, una raccolta delle typikà monastici bizantini,
raggiungendo il numero di 63 documenti – e questa è stata soltanto una scelta
dei testi che agli editori sono apparsi i più importanti. Sembra giusto
evidenziare l’aspetto della romanitas del monachesimo bizantino,
soprattutto tenendo conto del fatto che spesso viene sottolineato soltanto
l’elemento mistico o cultuale di tale monachesimo. In realtà anche questa
dimensione, nonostante alcune innegabili differenze e notevoli apparenze, rende
il monachesimo bizantino più vicino a quello occidentale. Ma Bisanzio era anche
impregnato di ellenismo: la lingua dominante, lo spirito della polis,
gli stessi concetti filosofici derivavano direttamente dalla Grecia. Bisanzio
aveva nei confronti della tradizione della Grecia antica un atteggiamento
ambivalente, che potrebbe dirsi caratterizzato da una forma di amore-odio.
Poiché dipendeva quasi completamente dalla Grecia, desiderava allo stesso tempo
liberarsene. Ma va sottolineato che, soprattutto a causa della lingua, Bisanzio
non ha subito la rottura tra il mondo antico e quello cristiano. Autori come
Omero, Sofocle, Platone o Aristotele erano, per così dire, di casa. Inoltre non
va dimenticato che nella stessa lingua è stato scritto il Nuovo Testamento, in
essa si sono espressi molti Padri della Chiesa e i concili. Frequentemente,
proprio all’interno del monachesimo si alzavano voci dirette a negare la
sapienza filosofica degli antichi – era un luogo comune, tipico di una certa
corrente intellettuale (o piuttosto anti-intellettuale) del cristianesimo
bizantino. Furono gli stessi bizantini i primi a sottolineare con forza la loro
origine ellenica e a volgere le spalle alla romanitas, soprattutto a
partire dal momento della loro separazione dall’Occidente e, in modo
particolare, della conquista e del saccheggio dell’Impero ad opera delle
crociate (1204 – 1261). Da questo momento in poi, lo spirito ellenico è stato
sempre di più affermato in opposizione a quello romano e occidentale. A questo
proposito, ai fini della tematica monastica rimane importante il fatto che la
maggior parte dei testi di vario tipo, riguardanti il monachesimo, siano stati
scritti in greco. I tesori della tradizione monastica bizantina sono nascosti
nei testi greci, e spesso non è possibile fare a meno di inchinarsi sopra una
parola o una frase scritta in greco. Prendendo in considerazione tali parole o
espressioni, bisogna spesso porsi domande sulla loro origine antica, indagare in
che relazione sono con il testo biblico (LXX e NT), trovare il loro significato
presso i Padri Greci e seguire con attenzione la loro evoluzione nel millennio
bizantino. È proprio il monachesimo bizantino che, attraverso i suoi testi,
introduce il lettore nella ricca e bella tradizione di concetti come esichia,
prosochè (attenzione), nepsis (vigilanza), praktichè
(prassi) o theoria (contemplazione), eros divino, ecc. Per un
lettore paziente e attento ognuna di queste parole può diventare la porta che
introduce a un giardino di saggezza spirituale anticha e sempre fresca. L’impero
bizantino era anche inter- o piuttosto pluri-nazionale, e la
stessa cosa dovrebbe essere affermata riguardo al suo monachesimo. Slavi, Siri,
Bulgari, Khazari, Georgiani, Armeni e tanti altri facevano parte di esso, oltre
i Greci. Bisanzio includeva queste nazioni nel suo spazio e le “bizantinizzava”;
d’altra parte, assorbiva inevitabilmente dentro di sé il loro spirito. Con
l’andare dei secoli, questi popoli spesso si organizzarono in stati
indipendenti, ma con una forte impronta bizantina; e questo fenomeno è valso in
modo particolare per la vita della chiesa. È possibile parlare di culture
diverse, cresciute sull’originario ceppo bizantino. Perciò la cultura o civiltà
bizantina si è estesa molto oltre le frontiere dell’Impero; anzi, ha continuato
ad esistere e svilupparsi anche dopo la caduta di Bisanzio. Nei monasteri
bizantini si incontravano gli “stranieri”, e gli stessi Greci si recavano in
terre lontane come Russia, Serbia o Italia. I monumenti della letteratura
ascetica bizantina furono tradotti in slavone, in georgiano, in armeno, in
latino o in arabo. Per altro canto, monaci che provenivano da altre nazioni e si
erano stabiliti nei centri monastici bizantini traducevano la loro letteratura
spirituale in greco. Molto spesso i centri monastici bizantini erano
pluri-nazionali. Così al Monte Athos troviamo, per esempio, il famoso monastero
di Iviron, che originariamente apparteneva ai Georgiani, e che divenne il centro
dell’epoca d’oro della letteratura di questa nazione. Uno degli autori più letti
dai monaci bizantini era, tradotto in greco nel IX secolo, il famoso Isacco il
Siro; inoltre, le typikà bizantine risalgono alle origini della
codificazione monastica kieviana; l’esicasmo athonita del XIV secolo, di cui
Gregorio Sinaita è considerato uno dei protagonisti più importanti, stabilì il
suo centro nelle montagne della Bulgaria e si diffuse anche in lingua slavone.
Parlare del monachesimo bizantino significa parlare anche di terre lontane e di
mentalità “straniere”. Si può indicare una determinata tradizione spirituale
alla quale il monachesimo bizantino si riferì con preferenza, diventandone
l’erede e, in seguito a modo suo, contribuendone allo sviluppo. In altre parole,
esiste un canone di testi fondamentali, indispensabili a comprendere
questo monachesimo: questi testi, infatti, non solo ne costruiscono la base, ma
anche sono i suoi prodotti più caratteristici. Indubbiamente, i monaci e le
monache bizantine di ogni luogo e tempo strinsero tra le mani La vita di san
Antonio del vescovo Atanasio il Grande, conobbero le raccolte delle
Apoftegmata e le storie monastiche riportate da autori come Palladio,
Socrate o Sozomeno. Una buona parte delle vite dei monaci bizantini di tutti i
secoli fanno riferimento a queste fonti, da esse attingono ispirazione e
riprendono il genere letterario. Indispensabile sembra anche la conoscenza delle
Regole di san Basilio e gli scritti di due Gregorio (Nizianzeno e
Nisseno), come anche degli scritti di Giovanni Crisostomo o Doroteo di Gaza. I
monaci bizantini vi facevano riferimenti molto spesso, e la conoscenza di questi
autori è importante anche per conoscere le basi della codificazione giuridica di
questo monachesimo. La letteratura bizantina ascetica e mistica è nella sua
intima essenza evagriana. Evagrio – soprattutto dopo la condanna del 553 – fu
attentamente considerato e in qualche modo, “purificato” da Giovanni Climaco e
da Massimo il Confessore, o trasmesso sotto gli altri nomi, come ad esempio
Nilo. E tuttavia, i trattati ascetici scritti da monaci bizantini sono
variazioni che riprendono ampiamente i temi e lo stile di Evagrio Pontico. Si
parla spesso della monotonia e della ripetitività della letteratura bizantina,
ma questo è vero solo in parte. Di fatti queste variazioni approfondiscono e
illuminano i temi fondamentali della vita spirituale cristiana mostrandole
sempre in una luce diversa. Inoltre, questi testi sono la testimonianza della
ricerca e dell’esperienza spirituale, e proprio questi valori sono comunicati al
lettore della letteratura bizantina spirituale. Il libro forse più
rappresentativo ed indispensabile al riguardo è la famosa Filocalia di
Nicodemo l’Aghiorita e Macario di Corinto. È una antologia delle pagine più
importanti e belle di questa spiritualità, che include in sé una trentina di
autori appartenenti all’arco di tempo del millennio bizantino. È una ottima –
anche se non sempre facile – introduzione alla spiritualità di questo
monachesimo. Se invece si cercasse un’idea di base che va oltre le testimonianze
storiche e letterarie e che possa in qualche modo riassumere la realtà teologica
più profonda del monachesimo bizantino, si può indicare l’idea della
deificazione. In fondo, costruire monasteri, celebrare riti, fare sforzi
ascetici e praticare la misericordia, scrivere testi giuridici o ascetici, ecc.,
- perché tutto questo? Che cosa spingeva gli uomini e le donne di questa civiltà
a prendere la via della vita monastica? La risposta è inesauribile, perché
sprofonda nel mistero di tali vite. Guardando tuttavia da lontano, forse la
parola che getta la luce su tutto questo è “deificazione” (théosis).
Esiste tutta una teologia assai sviluppata su questo concetto. Uno dei maggiori
esponenti di questa teologia è stato Massimo il Confessore, ma non è da meno uno
come Gregorio Palamas. Tutto sommato, la teologia della deificazione esprime la
fede nella possibile trasformazione dell’uomo intero. Presi dall’idea di una
tale possibilità uomini e donne intraprendevano a Bisanzio la vita monastica. La
deificazione esprime la fede nel fatto che l’interno dell’uomo può essere
cambiato. La fede nella deificazione confessa che in questo processo partecipano
insieme Dio e l’uomo. Proprio perché la trasformazione è un’evoluzione verso
Dio, si è soliti parlare di deificazione. I teologi bizantini ritenevano che
l’uomo portasse dentro di sé un incredibile potenziale, l’energia divina, lo
Spirito Santo, che giace nel più profondo del cuore. L’ascesi, la rinuncia, la
preghiera e la pratica dell’amore hanno come loro scopo liberare e svelare
questa energia. Il monaco era spesso chiamato il portatore dello Spirito Santo (pneumatoforos),
perché è riuscito di liberare dentro di sé questa divina energia e seguirla. Lo
Spirito una volta liberato dal profondo del cuore umano trasforma la persona
umana, la libera dalle catene e la porta verso Dio. Questo cambiamento, questa
trasformazione e deificazione (perché principalmente causata da Dio e a Lui
orientata) può essere notata e si rivela. La Luce divina dello Spirito si vede
sul volto della persona spirituale, nelle sue opere, nei miracoli, nel profumo
del suo corpo che spesso dopo la morte non si decompone. Questa energia trova
una prolungata trattazione e sviluppo nei testi della tradizione teologica
bizantina. Si potrebbero considerare altri ulteriori concetti che in modo
generale caratterizzano Bisanzio e il suo monachesimo. Si potrebbero forse
indicare idee diverse. Ma bastano queste otto categorie come introduzione. Esse
offrono un primo orientamento di che cosa si pensa quando si dice “monachesimo
bizantino”. È una realtà ricca e bella, una tradizione spirituale che ancora
aspetta di essere veramente scoperta. Le pagine che seguono cercheranno di
avvicinare il lettore a questo mondo, e ciò sarà fatto – in quanto possibile –
seguendo il filo cronologico della storiografia bizantina.
2. Da Monte Olimpo a Studion
Uno dei fenomeni del monachesimo bizantino sono le “sante montagne”. In questi
casi si ha a che fare con qualcosa di più di un monastero costruito sulla cima
di un monte che domina il paesaggio – si pensi a San Michele o a Monte Cassino.
Luoghi del genere hanno fatto nascere il proverbio secondo il quale “san
Benedetto amava i monti”. A Bisanzio, una zona montagnosa spesso non ha solo
offerto le sue sommità per un monastero, ma è diventata un agglomerato di grandi
e piccoli monasteri, di eremi e di grotte, di chiese e di cappelle. Il tutto,
oltre alla rete di strade e di sentieri nascosti, era tenuto unito da un insieme
di fattori, fra cui la convivenza (clima, allontanamento, economia, ecc.) e la
spiritualità (persone, insegnamento spirituale, biblioteche, liturgie), che
faceva sì che una montagna fornisse un contesto fecondo per la vita monastica,
una vera polis monachorum. Ogni tanto tutto questo, col passare del
tempo, fu avvolto in un intreccio di mito e realtà, venendosi così a creare un
luogo sacro che, di conseguenza, fece sì che la montagna diventasse
nell’immaginario comune il paradiso ritrovato dei monaci. Un certo “senso
mistico” di queste montagne è espresso per esempio da un testo liturgico, legato
al famoso complesso monastico di Meteora in Talassia, in cui si legge: «Dice ai
monaci la rete montacarichi: state attenti, perché non vi porto soltanto dalla
terra sul monte, ma anche nel cielo». Metora e Monte Athos sono oggi i luoghi
simbolici del monachesimo bizantino, ma bisogna aggiungere che questi luoghi
famosi sono solo i superstiti di un fenomeno che era molto diffuso a Bisanzio;
essa, lungo la sua storia millenaria, ha avuto moltissime “sante montagne”, come
per esempio il Monte Sinai, Monte Assenzio vicino Calcedonia, Monte Negro, il
complesso monastico del Mercurion in Magna Grecia e gli altri posti come Monte
Kyminas, Monte Kellion (oggi Pellion), Barchios o Latros. Per alcuni secoli, uno
dei posti più importanti di tal genere, nella storia del monachesimo bizantino,
è stato il Monte Olimpo. La montagna si trova in Bitinia, nella parte
nord-occidentale dell’Asia Minore, vicino al Mar di Marmara. Nel Medioevo il
luogo era noto come Olimpo di Misis (oggi Kesis o Ulu Dag). La cima di questa
montagna, alta 2460 metri, poteva essere scorta nelle belle giornate da
Costantinopoli. Si dice che la vita monastica al Monte Olimpo sia iniziata nel
III secolo, cioè ancora ai tempi delle persecuzioni, quando sulle sue alture
arrivò, cercando rifugio e pace, un certo Neofita, chiamato “confessore ed
eremita”. È possibile, infatti, immaginare un vero neofita, cioè appena
battezzato, che, a causa delle persecuzioni, sia stato costretto ad abbandonare
i suoi possedimenti, e fuggendo abbia trovato una nuova e pacifica dimora su
questa montagna. Forse andò così. O forse abbiamo qui a che fare con una
leggenda creata più tardi, una versione bizantina della girolimiana Vita
Paoli? (Va ricordato che, proprio secondo questo leggendario testo, un certo
Paolo fuggì dalla propria casa, si nascose tra le montagne, quindi decise di
rimanervi per sempre e fu scoperto soltanto alla fine della sua vita da san
Antonio). Ma il vero sviluppo di siti monastici sul Monte Olimpo, nei pressi di
città come Prusa e Atroa, ebbe luogo tra il quinto e il nono secolo. In quei
tempi vennero fondati monasteri come Pelecete, Triglia, Chenolaccos, a cui
furono legati i futuri apostoli degli Slavi, Cirillo e Metodio, Saccudion in
Prusa, dove viveva il famoso Platone e suo nipote Teodoro Studita, e il
monastero di san Michele Meleinos, da dove provenne sant’Atanasio, uno dei
protagonisti del monachesimo athonita. Al Monte Olimpo è legato il nome di
monaci famosi, di cui abbiamo un abbondante materiale agiografico, come
Theocteriste, Ilarione il Giovane, Marco, Macario, Platone, Joannice il Grande,
Luca Stilita, Costantino Ebreo, ecc. Si dice che nel nono secolo, in questo
agglomerato monastico risiedessero circa 40 monasteri e alcune migliaia di
monaci e monache. Purtroppo, nel 1326 questo territorio fu conquistato e
totalmente distrutto dagli Ottomani. Nel periodo che ci interessa, la vita
monastica sul Monte Olimpo era molto diversificata. Si può immaginare in questo
contesto la presenza di monasteri assai numerosi, che non escludeva la forte,
elevata ed apprezzata presenza di eremiti e di piccole unità semieremitiche. Sul
monte Olimpo risiedevano coloro che, una volta arrivati, non si erano mai più
allontanati da questo ambiente, scegliendo qualche volta anche la reclusione
totale; non mancavano, tuttavia, anche monaci che giungevano a questo posto solo
di rado, e per periodi piuttosto brevi. Sembra che, almeno nei primi secoli, non
esistesse nessuna legge (regola) scritta, atta a coordinare in qualche modo
queste diverse forme di vita monastica e la convivenza di tante persone. Ma era
ben chiaro che la persona che giungeva al Monte Olimpo intendeva rinunciare al
mondo, abbracciava lo stile della vita monastica e si dedicava alla ricerca
della pace interiore (esichia). Sembra che, nonostante la forte presenza
di cenobi, l’ideale di vita a cui tanti prima o poi miravano, fosse l’eremo, al
quale anche ben volentieri si aprivano le porte dei monasteri. Perciò, capitava
che persino il superiore di un monastero fosse un eremita o un recluso, che “da
lontano” guidava e sorvegliava la vita di una comunità – così fu per esempio nel
caso del monastero di Saccudion, col suo abate Platone, che viveva proprio da
recluso. Su questo monte esistevano anche monasteri femminili e misti: per
esempio il monastero Montineon era misto (maschile e femminile), fondato e
diretto da un eremita. Per potersi fare però un’idea più concreta della realtà
monastica del Monte Olimpo è bene osservare più da vicino le vite di alcuni di
questi monaci. Prendiamo ad esempio uno chiamato Joannico (Giovannuccio) il
Grande (754-846). Nacque in una famiglia di contadini di origine slava, in
Bitinia. Da giovane entrò nell’esercito dell’imperatore, dove svolse servizio
per 24 anni. Combatté ad esempio contro i Bulgari nella battaglia di Merkellai
(792), dove morirono tanti suoi compagni. Tre anni dopo, all’età di 41 anni
Joannico, abbandonato l’esercito, per ragioni a noi sconosciute, fuggì proprio
sul Monte Olimpo. Questo soldato, convertito alla vita monastica, visse nel
monastero Antidion, dove ricevette anche i rudimenti di un’educazione in origine
mancata. I superiori però non lo ammisero alla professione monastica – forse
perché era un fuggitivo dall’esercito e ne avevano paura (la Capitale non era
tanto lontana), o forse perché Joannico con tutta probabilità apparteneva, fin
dall’inizio e in quanto soldato, al partito degli iconoclasti, al quale
generalmente si opponevano i monaci del Monte Olimpo. Finalmente, nel 808,
all’età di 54 anni, Joannico fu ammesso alla professione monastica e in seguito
visse per anni come eremita e viandante, vagando da posto a posto. Questo
periodo della sua vita, però, coincise con la seconda crisi iconoclasta (815-
843), durante la quale i monaci furono perseguitati; di conseguenza, il vagare
di Joannico in posti isolati potrebbe essere considerato come fuga. O forse,
semplicemente, cercava la quiete? A un certo momento, tuttavia, fu accusato da
Teodoro Studiata, uno dei protagonisti della resistenza contro l’iconoclasmo,
perché, secondo lui, cercava la solitudine delle montagne proprio quando gli
altri venivano arrestati, flagellati e uccisi per l’ortodossia. Finita la crisi
iconoclasta e dimenticate le critiche di Teodoro, che d’alta parte da tempo
aveva lasciato il Monte Olimpo e si era spostato nella capitale, Joannico si
stabilì definitivamente sull’Olimpo, dove fondò tre monasteri, diventando una
della “stelle” della Chiesa. Gli agiografi gli attribuiscono il dono della
profezia, della guarigione e della levitazione. È morto in odore di santità sul
Monte Olimpo nel 846. La sua vita è stata narrata, poco dopo la sua morte, da
due monaci, Pietro e Saba. La sua festa si celebra il 4 Novembre con
l’innografia composta da Giuseppe l’Innografo, dal Patriarca Metodio, da Giorgio
di Nicomedia e da Teodosio Melode. Col tempo Joannico ha acquistato fama e onore
soprattutto tra gli eremiti del Monte Athos, dove nel monastero del Pantocrator
si trovavano le sue reliquie. Altro esempio è costituito dalla vita di Eutimio
il Giovane (823-898), appartenente alla generazione posteriore a quella di
Joannico. Eutimio proveniva dalle zone di Ancira. All’età di 18 anni era già
sposato e divenne padre. Però, ben presto, lasciò la vita famigliare per recarsi
in un lungo (400 chilometri) pellegrinaggio proprio al Monte Athos, dove rimase
facendosi monaco. Bisogna a questo punto sottolineare che in quest’epoca e in
questa cultura ogni tanto accadeva che uno lasciasse la moglie e persino i figli
per farsi monaco. Così almeno fu il caso di Eutimio che, a seguito della scelta
della vita monastica, per i seguenti 17 anni (842-859) visse principalmente come
eremita, ammaestrandosi nell’ascesi sotto la guida di un certo Teodoro. Alla
fine di questo periodo – forse a causa di un’altra crisi politica ed ecclesiale,
causata dallo scisma di Fozio, o forse semplicemente perché sentiva il bisogno
di cambiare vita – Eutimio, intraprendendo un nuovo lungo (circa 900 chilometri)
pellegrinaggio, questa volta via Costantinopoli, si diresse nuovamente al Monte
Athos, dove si fermò per tre anni vivendo in una grotta. Quindi tornò al Monte
Olimpo dove riprese i contatti con il proprio maestro Teodoro; presolo con se
ritornò al Monte Athos, ma solo per breve tempo. Dall’Athos, poi, si recò a
Peristéra (località in posizione nord occidentale del Monte Athos), dove nel 870
fondò un monastero, da cui irradiò il proprio insegnamento spesso viaggiando
nelle zone vicine. Eutimio morì durante un ulteriore viaggio al Monte Athos.
Come si vede da questi esempi, essere un monaco al Monte Olimpo non significava
necessariamente fermarsi lì in modo permanente. Le loro vite mostrano questi
monaci in continuo movimento, in una inquieta ricerca di pace esteriore e
interiore. Essi si fermavano per un po’ di tempo al Monte Olimpo, ripartivano e
poi vi ritornavano per ripartire di nuovo. Tutto questo succedeva in un’epoca
politicamente inquieta. La vita monastica era poco controllata dall’apparato
ecclesiale e dal potere politico, ma le tensioni e le guerre che dilaniavano la
società influivano profondamente sulla quotidianità, la vita e la spiritualità
degli stessi monaci. Si cercava la vita monastica perché si desiderava la vera
pace, ma anche perché si fuggiva o perché si voleva prendere le parti di uno o
dell’altro partito. Si è visto, infatti, come la vita di Joannico fosse stata
segnata dalla crisi iconoclasta e quella di Eutimio dallo scisma di Fozio.
Perciò, ora è necessario soffermarsi per un momento sul primo di questi eventi,
perché proprio in questo periodo, e parzialmente a causa di questa crisi
chiamata iconoclasta, il monachesimo subì un forte cambiamento, una riforma e
una transizione che sono state espresse nel titolo di questo capitolo “Dal Monte
Olimpo a Studion”. Poiché le caratteristiche del monachesimo del Monte Olimpo
sono ormai state in modo sufficiente esposte, bisogna adesso spingersi verso lo
“Studion”, ma per farlo bisogna prima soffermarsi sulla crisi iconoclasta e
introdurre il protagonista della riforma monastica che ora ci interessa, cioè il
santo Teodoro Studita. L’iconoclasmo fu soprattutto una lunga guerra religiosa,
che sconvolse l’impero bizantino e la sua chiesa per più di un secolo.
Principalmente, la causa in gioco fu il culto (possibile o non possibile) delle
icone. Ma, come in ogni guerra, anche in questa furono coinvolti e si
mescolarono il potere e la fede, gli imperatori e i patriarchi, l’economia e
l’arte, l’esercito e i monaci. Quanto più oscure e inspiegabili rimangono le
origini della crisi iconoclasta, incominciata nel 726, tanto più evidenti sono
invece le conseguenza di questa guerra (finita nel 843), soprattutto una
multiforme distruzione della vita sociale, economica, ecclesiale, intellettuale,
artistica, ecc., e ovviamente anche monastica. Alcuni studiosi sostengono che
l’iconoclasmo abbia provocato una rottura talmente radicale, da potersi persino
parlare, dopo questa crisi, di nascita di una nuova cultura e, soprattutto, di
una nuova forma di religiosità a Bisanzio. L’iconoclasmo ha avuto anche un forte
influsso sulla vita monastica e sul ruolo dei monaci in questa cultura e in
questa chiesa. I monaci furono coinvolti in questa crisi dall’inizio fino alla
fine. Anche se l’iconoclasmo fu una guerra lunga in cui, anche riguardo ai
monaci, accadde di tutto, generalmente si può dire che furono loro, alla fine di
questa guerra, i veri difensori del culto delle immagini, cioè dell’ortodossia.
Se i vescovi spesso risultavano troppo coinvolti in questa crisi, furono i
monaci a collocarsi nelle posizioni più radicali, sostenendo il culto delle
icone e opponendosi agli imperatori. Per questa ragione in alcuni periodi la
guerra contro le icone si mutò in guerra contro i monaci, che di conseguenza
furono costretti non solo ad abbandonare i loro monasteri, ma non di rado anche
l’abito e a sposarsi. I monasteri furono trasformati in caserme o in luoghi
pubblici e i loro beni confiscati. Tanti monaci e monache dovettero emigrare –
alcuni nelle zone più lontane, nascondendosi tra le montagne, altri trovando
accoglienza all’estero. È proprio in questo periodo che luoghi come il Monte
Olimpo o il Monte Assenzio diventarono non solo rifugi, ma anche veri centri di
opposizione all’iconoclasmo. Chi non riusciva però a scappare in tempo per
nascondersi, o per giunta tentava di opporsi pubblicamente, spesso subiva
diverse forme di persecuzione. Così, ad esempio, l’abate Stefano del Monte
Assenzio, che diventato uno dei capi dell’opposizione agli iconoclasti fu
crudelmente ucciso dalla folla sulle strade della capitale. A due monaci
palestinesi, Teodoro e Teofanie, furono impressi versi iconoclasti con ferro
rovente. Altri furono messi in prigione, torturati, accecati o uccisi. La
vittoria finale del culto delle icone non risultò solamente una felice battaglia
a favore delle formule dell’insegnamento dogmatico, cosa che ovviamente avvenne,
ma oltre ad essere risultata un “trionfo dell’ortodossia” (così in seguito fu
chiamata la conclusione di questa crisi), fu anche il trionfo dei monaci, che
vennero considerati – e si considerarono essi stessi – non più solo come asceti
ed esicasti, ma anche, e soprattutto, come i veri confessori della fede. La vita
e l’attività monastica di Teodoro chiamato Studita (759-826) si colloca e va
compresa proprio in tale contesto. Teodoro fu una personalità poliedrica:
monaco, teologo, poeta e scrittore fecondo, organizzatore e riformatore della
vita monastica, politico e confessore, santo – insomma una figura di spicco.
Nato a Costantinopoli dal padre Fotino e dalla madre Teoctista, ricevette una
buona educazione e risultò a pieno titolo l’uomo importante della capitale
dell’impero. Ma all’età di vent’anni si fece monaco al Monte Olimpo, nel
monastero di Saccudion, dove – si ricorda – il ruolo dell’abate era svolto
dall’eremita Platone, uno dei protagonisti dell’opposizione agli iconoclasti,
che per giunta era suo zio (fratello della madre), e divenne discepolo di
questi. In questa bufera fu coinvolto anche Teodoro, che col tempo sostituì lo
zio non solo nella polemica con gli iconoclasti, ma anche nella direzione e
nella riforma del monastero di Saccudion. Perseguitato con altri monaci, Teodoro
fu tre volte esiliato e morì in esilio nel monastero di san Trifone, nel golfo
di Artacino. Le sue reliquie furono portate a Costantinopoli soltanto in seguito
alla vittoria del culto delle icone, nel 844. Ai posteri Teodoro ha lasciato non
solo un radioso esempio di vita, ma anche un immenso patrimonio scritto, che
raccoglie: 134 Piccole catechesi, scritte nel tempo dell’esilio (821) –
un’opera molto popolare e diffusa; circa 260 Grandi catechesi; circa
mille Lettere; alcuni scritti polemici; omelie, opere agiografiche e
poesie. Per capire la sua proposta monastica rimangono fondamentali: i suoi
Scholia sulle costituzioni ascetiche di San Basilio; il Testamento
spirituale; l’Hypotyposis – un calendario liturgico redatto dopo la
morte di Teodoro; il Canone penitenziale monastico. Va anche sottolineato
che sia l’edizione critica di queste opere, sia un giudizio completo riguardo la
sua concezione della vita monastica, aspettano ancora di essere
approfonditamente studiati. Per adesso, è possibile tracciare soltanto alcune
linee di quest’opera, che tuttavia rimane fondamentale per tutta la storia
posteriore del monachesimo bizantino. Teodoro ha abbracciato la vita monastica
in quella forma che si caratterizza per la sua multiformità e che è associata
all’ideale eremitico del Monte Olimpo. Ma tale forma di monachesimo risultava,
in questo periodo, nel suo insieme piuttosto decadente, soprattutto a causa
delle distruzioni subite in conseguenza della crisi iconoclasta. Già suo zio
Platone andava perseguendo, se non una vera riforma, almeno un certo
rinnovamento della vita monastica. Teodoro invece desiderava restituire al
monachesimo quella forza che avrebbe potuto in seguito influire anche sulla vita
della chiesa del suo tempo. Nutrito dalla lettura dei testi di Basilio e di
Doroteo di Gaza, di fronte al dominate ideale multiforme e eremitico, Teodoro si
indirizzò verso quello strettamente cenobitico e trasferì la vita dei monaci
dalla montagna in città. Il momento preciso di tale spostamento e il mandato per
una sollecita riforma si verificarono quando salì al potere l’imperatrice Irene
(797-802), dopo una parziale sconfitta degli iconoclasti. Irene, lodata da
Teodoro e dai vincitori dell’iconoclasmo, conquistò il trono dopo aver
esplicitamente ordinato l’uccisione di Costantino VI (suo figlio). Per favorirsi
l’opinione pubblica, l’imperatrice venne incontro ai monaci e, abolendo le
tasse, permise loro di stabilirsi nella capitale. Nell’anno 798 Teodoro iniziò
il trasferimento della sua comunità dal Monte Olimpo negli edifici collocati
all’estremità sud occidentale di Costantinopoli. Era questa un’antica chiesa,
fondata circa nel 460 da un console chiamato Studios. In questa chiesa si era
originariamente insediato un gruppo di monaci (akoimetoi), ma durante il
primo periodo della crisi iconoclasta il monastero si era parzialmente
spopolato. E, anche se la chiesa era dedicata a san Giovanni Battista, il luogo
prendeva il nome dal suo antico fondatore. Da qui, in seguito, è derivato il
nome Studita, che è posto accanto a quello di Teodoro, e più tardi il
nome della stessa riforma o regola (typikon), appunto studita, dei
monaci studiti e dello studitusmo. Ma il trasferirsi dalla montagna in città e
il promuovere tutta questa operazione risultarono una vera avventura, che
richiese non pochi sforzi e cambiamenti. L’ideale supremo dell’esichia
venne da Teodoro sostituito con quello della vita cenobitica, secondo le
maggiori ispirazioni provenienti non solo da Basilio e da Doroteo, ma anche da
Giovanni Climaco, Barsanufio e Giovanni e da Marco Eremita. L’ideale monastico
era dunque quello dei grandi monasteri palestinesi, anche se visti attraverso il
filtro di Teodoro. Perché, e ciò va sottolineato in modo particolare, questo
bizantino non solo faceva riferimento ai Padri, ma anche li interpretava. Si
comportava non solo come rinnovatore, ma anche come riformatore. Inoltre,
nonostante che Teodoro parli di Basilio, tuttavia fa più uso di Doroteo di Gaza,
la cui visione della vita cenobitica è più sviluppata (vocabolario,
organizzazione). Tale influsso si nota innanzitutto nelle sue Catechesi.
Lo scopo di Teodoro era quello di offrire una visione e un’organizzazione
integrale e perfetta del cenobitismo, in modo da rinnovare la vita monastica del
suo tempo e influire sulla vita della società. Teodoro desiderava creare una
comunità unificata e uniforme. Perciò introdusse l’abito povero e uguale per
tutti, distribuito nel monastero una volta alla settimana. I monaci non potevano
possedere niente in privato. Le celle erano state eliminate e introdotto invece
il dormitorio. Il lavoro manuale per il proprio sostenimento era diventato
obbligatorio in questo monastero urbano e Teodoro si occupò personalmente di
organizzare i luoghi di lavoro. La liturgia comunitaria divenne il focolare di
questo stile di vita. La preghiera comune, il lavoro per il proprio sostenimento
e la comunanza dei beni – tutto questo riconduceva Teodoro all’ideale e alla
comunità idealizzata dei primi cristiani, descritta da Luca negli Atti degli
Apostoli. Teodoro osava pure parlare del “corpo del monastero”, formato da tutti
monaci, in cui l’abate era la testa, gli officiali gli occhi e le mani, il resto
i piedi e le altre membra. Questa chiara definizione organizzativa era la vera
forza, l’originalità e l’essenza della riforma studita. Inoltre, il contesto
delle persecuzioni iconoclaste faceva sì che i monaci si sentissero veramente
come “i primi cristiani” e percepissero la vita monastica come la conseguenza
del battesimo indirizzato al martirio (sia di sangue, sia di coscienza). In
questa comunità si parlava anche di sacrificio quotidiano nel lavoro e nel
servizio fraterno. La contemplazione era cercata innanzitutto nel servizio
fraterno. Questa visione era rafforzata dal ritmo delle conferenze (catechesi)
tenute regolarmente dall’abate e rivolte a tutta la comunità. La riforma
monastica di Teodoro Studita, ripristinando la vita cenobitica, richiamò
l’attenzione della chiesa e dello stesso monachesimo bizantino all’importanza e
centralità di tale vita. Lo studitismo è conforme al cenobitismo, in cui il
ruolo centrale viene dato alla liturgia comune e accuratamente celebrata, alla
convivenza amorosa dei monaci e al servizio fraterno. Tutto ciò era sostenuto e
garantito dalla presenza, dall’insegnamento e dell’esempio dell’abate, che
venivano trasmessi – esclusa ogni struttura precisa e gerarchica – a tutti i
monaci della casa. Approfittando dell’opportunità del momento, Teodoro riuscì a
creare un’istituzione monastica che si rese utile e feconda nel periodo
successivo all’iconoclasmo. Il nuovo linguaggio liturgico, che includeva la
composizione di testi e melodie per il culto, le icone, i mosaici e i vestiti
sacri, l’insegnamento, il servizio vario alla società, si diffuse proprio a
partire del monastero di San Giovanni, chiamato appunto Studion. Col
tempo, tuttavia, la stessa figura di Teodoro fu posta eccessivamente in rilievo
e la sua proposta monastica fu idealizzata e assolutizzata. Teodoro fu fatto
santo e divenne confessore onorato nella capitale dell’impero. Il suo typikon,
redatto per il monastero, di fatto un insieme di testi occasionali scritti dallo
stesso Teodoro, fu appoggiato dalle leggi civili e additato lungo i secoli, come
modello di qualsiasi tipo di condotta cenobitica, all’intero mondo bizantino,
dal Sud d’Italia al Medio Oriente e dalla Bulgaria alla Russia. Per certi versi,
la riforma di Teodoro Studita e la sua diffusione possono essere paragonate alla
riforma monastica di Benedetto d’Aniane, utilizzata per il mondo occidentale e
benedettino.
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11 maggio 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net