NORMA, MALEDIZIONE E FORMA DI VITA
NELLE “REGOLE” DI SHENUTE

Fabrizio Vecoli

Estratto e tradotto da “Augustinianum” - Volume 58, Numero 1, giugno 2018

 (Ndt: Note riportate solo parzialmente)

  

1. Introduzione.

Nell’autunno del 2014, il coptologo Bentley Layton ha pubblicato un corpus di testi dal titolo The Canons of our Fathers. Monastic Rules of Shenoute (I Canoni dei nostri Padri. Regole monastiche di Shenute) [1]. Questa raccolta è presentata dal suo editore come un corpus di regole monastiche. Raccoglie infatti le citazioni di regole e precetti sparse nei nove libri dei Canoni di Shenute, abate copto del IV e V secolo e figura centrale del cristianesimo egiziano della tarda antichità. Layton fa parte di un gruppo, guidato da Stephen Emmel, [2] che sta lavorando per pubblicare - in una versione filologicamente accettabile - gli scritti disciplinari e parenetici (i Canoni, in nove libri, e i Logoi, in otto) del più grande autore di letteratura copta. È interessante notare che parte di questi scritti ci è stata trasmessa sotto il titolo di Canoni, termine che evoca la letteratura normativa. All'interno di quest'opera, Shenute cita estratti delle disposizioni della tradizione della congregazione monastica alla quale appartiene (e di cui è il terzo superiore generale). Probabilmente non ne è l'autore (almeno non nella maggior parte dei casi), anche se ce li mette in relazione selezionandoli e fornendo loro un contesto testuale atto a guidarne l'interpretazione. Detto questo, potrebbe aver scritto lui stesso alcune di queste disposizioni. In ogni caso, per l'appropriazione e l'uso che ne viene fatto nei Canoni, queste istruzioni sono anche, in un certo modo, le “regole di Shenute”. D’altra parte, l’attribuzione di questa raccolta alla categoria delle “regole” monastiche è in qualche modo arbitraria: lo stesso curatore ammette di utilizzare questo termine in modo generico.  Eppure Layton è ancora convinto che questi estratti meritino di essere pubblicati separatamente perché, ai suoi occhi, costituiscono un corpus chiaramente indipendente. Inutile dire che ciò può porre difficoltà tassonomiche (Ndt: ovvero per classificarle): cosa ci autorizza a considerare questi passaggi come vere e proprie regole? Cosa stabilisce l’unità sostanziale di questa compilazione? Queste domande sono certamente legittime, ma non bisogna nemmeno esagerarne la portata: non inficiano l'impresa della raccolta, di per sé molto utile, ma invitano piuttosto lo storico ad una certa cautela interpretativa. All'epoca in cui furono scritti questi testi, infatti, il genere letterario della regola monastica non era ancora definito: del resto, la fluidità dei suoi contorni spiega forse le somiglianze che si possono discernere tra la raccolta di Layton e certe sezioni di opere monastiche normalmente attribuite a diversi generi letterari, ad esempio il Trattato ascetico di Isaia di Sceto/Gaza [3].

Meritano di essere sollevate questioni di carattere letterario, che acquistano un'importanza non trascurabile nella misura in cui la comprensione dell'ascesi comunitaria specifica della congregazione shenutiana risulta da un confronto specifico con i testi normativi pacomiani e da un confronto generale con un modello ideale della regola monastica (utilizzata come strumento euristico dagli studiosi moderni). Questi testi, da questo punto di vista, sono effettivamente comparabili? Possiamo analizzarli dal punto di vista del genere letterario della regola monastica? Infatti, una delle condizioni richieste nell'esercizio di comparazione è che gli oggetti confrontati condividano la stessa tipologia. Tuttavia, se la risposta a queste domande non può che essere sfumata, risulta tuttavia possibile effettuare un’analisi comparativa dei “ Canoni dei nostri padri ” considerandoli come un testo normativo, senza però la pretesa di poterli trattare come un corpus di norme nel senso più stretto del termine (dunque un genere letterario marcato, o una tipologia). È vero che i brani citati da Shenute nella sua opera si presentano come parole restrittive; costituiscono, in altri termini, un riferimento obbligatorio e fondante per l'intera congregazione monastica, riferimento che è oggetto di speciale venerazione e di pratica di ripetizione rituale (23, 24, 98). Questo è ciò che qui interessa: le considerazioni riguardanti gli aspetti specifici del genere letterario meritano una trattazione a parte.

 

2. Maledizioni.

Queste precauzioni metodologiche appaiono necessarie di fronte ad una particolarità alquanto sconcertante, specifica del corpus delle regole di Shenute: vi troviamo un certo numero di precetti che appaiono sotto forma di maledizioni. Questi ultimi hanno goduto di un duraturo successo anche nella tradizione copta, al punto da diventare oggetto di citazioni in opere successive; ed è interessante notare che spesso viaggiano sotto il nome di Shenute, fatto che prova la fama della sua autorità carismatica (più che la paternità dei brani in questione, a mio parere). È stata avanzata l'ipotesi (che, allo stato attuale, si basa su elementi non probatori) che tali maledizioni avrebbero fatto parte innanzitutto di una raccolta distinta da quella delle norme. In ogni caso, la loro presenza rappresenta un elemento del tutto originale rispetto ad altri apparati normativi monastici dell'epoca, in particolare al corpus pacomiano. Inoltre, un'altra caratteristica singolare della raccolta di Shenute - ancora una volta a differenza delle regole pacomiane - è la vaghezza riguardo alle punizioni inflitte ai trasgressori della regola. Menzioniamo questo aspetto perché emerge anche nel caso specifico delle maledizioni, le quali (pur articolate in maniera variabile) si caratterizzano tutte, nessuna esclusa, per la loro genericità. Ciò emerge tanto più chiaramente se le sottoponiamo a un confronto (differenziale) con un ipotetico idealtipo della maledizione nella storia religiosa dell'antichità mediterranea. L'autore di questi testi, infatti, si accontenta di affermare che chi commette questa o quell'azione sarà maledetto o, più precisamente, si troverà sotto maledizione: la formula sembra voler esprimere l'idea dell'entrata del colpevole in una condizione soprannaturale duratura, piuttosto che minacciare una serie di disastri puntuali (come è consuetudine in questi casi). L'effetto della maledizione non è mai dettagliato. Inoltre, è importante notare che in altri punti del corpus il curatore utilizza formule - o dovremmo dire invocazioni - di disgrazie, che appaiono altrettanto vaghe quanto alla sorte attesa delle persone prese di mira (124-126, 129). -134). Questa particolarità permette di stabilire un legame con un terzo tipo di “regole”, che – in senso stretto – non appartiene alla categoria della maledizione o della sventura, ma manifesta tuttavia la stessa volontà di affermare una chiara riprovazione rispetto alle azioni designate. Anche qui, come negli altri due casi, l'autore non specifica le reazioni negative che le azioni censurate dovrebbero provocare: si accontenta di confermare che i loro autori commettono un peccato (498, 499) o di citarli con nomi diffamatori, di cui “trasgressori” o “traditori” sono i meno elaborati (137, 378, 448). L'indeterminatezza riguardo alle conseguenze delle azioni condannate è una caratteristica ricorrente del corpus.

L'inclusione delle maledizioni in un corpus di regole monastiche non manca di sorprendere e richiede una spiegazione, nonostante l'esistenza di un antecedente biblico (Dt 27, 15-26), che denota invece una connotazione rituale qui assente. Tralasciando il riferimento all'Antico Testamento, se si fosse trattato solo di formule di maledizione rivolte agli empi che minacciano - modificandola o invalidandola - l'integrità della regola (nel suo intero corpus normativo definente l'identità della congregazione monastica), la presenza di queste formule sarebbe stata allora più comprensibile. Questa misura di protezione di un testo contro qualsiasi modifica è ricorrente e non solleva dubbi sulla sua funzione. Nella nostra raccolta, del resto, ci sono infatti passi (162, 163, 168, 172, 216) dove si prescrive di non aggiungere né togliere nulla alle regole dei Padri (anche nel dettaglio della composizione dei pasti: 186). Tuttavia – nonostante la possibilità di fare appello al modello neotestamentario dell’Apocalisse di Giovanni (22, 18-19) – queste raccomandazioni non si basano su maledizioni (né sono collocate in luoghi chiave del corpus), in apertura o conclusione, ad esempio). Dobbiamo concludere che la funzione primaria degli anatemi nelle regole di Shenute non è quella di tutelare il testo, anche se studi in materia mostrano che in alcuni casi l'introduzione di maledizioni all'interno di raccolte normative mirerebbe proprio a garantirne l’integrità e l’applicazione.

Da una prospettiva completamente diversa, dobbiamo notare l'importanza di un nuovo elemento. In effetti, la maledizione si distingue nettamente dalla regola per quanto riguarda la sua funzione linguistica, perché testimonia la fede nell'efficacia metafisica della parola. Si tratta della funzione performativa del linguaggio. È dunque da questa singolare efficacia - comunemente ammessa dal pubblico a cui il testo è rivolto - che si definisce il ruolo della maledizione shenutiana: quest'ultima rappresenta il sostituto di una sanzione assente nei fatti (perché impossibile, inapplicabile o inefficace) . L'esecuzione impossibile di una frase viene sostituita da una parola performativa. Da questo punto di vista le imprecazioni di Shenute non sono niente di speciale. Quando un’organizzazione sociale non è in grado di attuare forme tangibili di repressione, ricorre allora ad alternative che si fondano su convinzioni profonde: così, maledizioni o altre qualificazioni negative dell’atto stigmatizzato (esso è impuro) lo proscrivono formalmente, senza però fare affidamento su reali sanzioni. La loro autorità non si basa sul potere fisico, ma sul condizionamento culturale o – per così dire – su un tribunale di coscienza (nella misura in cui si considera la coscienza culturalmente condizionata). È stato osservato che questo tipo di soluzione si verifica quando vi è una manifesta incapacità sia di accertare oggettivamente il verificarsi di una trasgressione e l'identità del trasgressore, sia di rispondere efficacemente a tale trasgressione. A questo proposito Jan Assmann pone l'accento sul libero arbitrio in materia di sanzione [4]. La differenza tra la legge e la maledizione - dice - non sta nel grado di efficacia della pena ma nell'identità di chi la infligge, ossia un'istituzione politica (lo Stato) o un'entità metafisica (una divinità). Nell'antico Egitto, invece, è la seconda ad essere invocata in relazione a crimini dove i colpevoli sono sconosciuti e la legge è di fatto impotente (ad esempio nel caso di profanazione di tombe). 

È quindi ovvio che la maledizione assolve ad una o più funzioni sociali. Jeff S. Anderson ne enumera sei [5]. Sappiamo, inoltre, che nel periodo medievale, in una situazione di instabilità politica e sociale, il monachesimo utilizzò la maledizione come sostituto rituale di fronte all'impossibilità di far rispettare la giustizia concreta.

A seguito di queste precisazioni è certamente possibile affermare che, nel caso che ci interessa, l'uso della maledizione testimonia una difficoltà nell'applicazione della norma nei monasteri dove essa è in vigore. Questa considerazione, però, non appare del tutto soddisfacente. A complicare le cose, da un lato, l’assenza di effetti concreti destinati a colpire l’autore del reato e, dall’altro, la natura dei reati presi di mira. Su questo secondo punto è necessario scavare un po’ più a fondo.

  

3. Coscienza.

Nelle regole dei monasteri shenutiani c'è un secondo aspetto – oltre alla presenza delle maledizioni – che solleva interrogativi e contrasta con quanto si trova nelle regole pacomiane (e in molte regole monastiche successive). Un gran numero di precetti non prendono di mira gli atti fisici, ma i pensieri o le condizioni mentali (o anche emotive). Vediamo che ciò che è vietato o condannato dalle regole spesso nasce da un movimento della mente. Inoltre, anche quando si tratta di condannare azioni concrete, il redattore introduce spesso chiarimenti o disposizioni derogatorie che di fatto le trasformano in atti di coscienza. Ad esempio, riconosciamo una differenza essenziale tra l'agire consapevolmente o inconsciamente, tra il favorire qualcuno in vista della sua salvezza o piuttosto per una simpatia del tutto profana (263, e il contrario, l’antipatia: 466), tra il recitare le Scritture dopo essersi pentiti dell'impurità dei propri peccati o senza averlo commesso (50): vediamo chiaramente che è l'intenzione che conta e che determina il verificarsi di una vera offesa. È vero che clausole di questo tipo (in particolare quelle che contengono la formula “a meno che”) sono comuni nella letteratura normativa: mirano a restringere – e quindi a definire meglio – l'ambito di applicazione di una regola (o di una maledizione). Tuttavia, nella nostra raccolta, questi dettagli attribuiscono frequentemente all'atto stigmatizzato una modalità che lo qualifica come rientrante nella sfera mentale: la disposizione interiore diventa quindi discriminante tanto quanto l'azione stessa, se non di più. Ne consegue inevitabilmente che il fatto preso in considerazione dalla norma perde oggettività e diviene suscettibile di interpretazione, fino al limite estremo di una condizione interna che solo il potenziale colpevole sarebbe in grado di discernere. Non sorprende che, in queste condizioni, non sia specificato chi abbia il compito di decidere e quindi di definire chi è colpevole del reato.

La presenza, nelle regole, di questioni riguardanti la vita interiore dei monaci rappresenta una caratteristica singolare, che differenzia nettamente questo corpus da quello pacomiano. Certamente sarebbe difficile specificare per quel periodo cosa fosse una regola monastica, perché – come abbiamo detto – non si tratta di un genere letterario chiaramente stabilito. Inoltre, è importante ricordare che questo corpus è il prodotto, in una certa misura, artificiale di un editore moderno che ha riunito in un'unica raccolta un certo numero di estratti tratti da un insieme più ampio e composito. Inoltre, almeno due passaggi (403, 478) suggeriscono l'esistenza di un altro documento contenente disposizioni più dettagliate su questioni concrete, in particolare sulle pene previste per i reati. Tuttavia, nonostante queste precisazioni, sembra evidente che la regola shenutiana si sforza di tenere conto della condizione spirituale dei cenobiti, al punto che non sarebbe abusivo parlare di una “direzione spirituale” della regola (e questo, anche quando quest'ultimo ingiunge ai superiori di agire per il bene dei fratelli, perché è proprio la regola che lo prescrive loro: 461, 489). E si intende chiaramente una direzione della regola e non per mezzo della regola, perché se il curatore fa riferimento ad una gerarchia di figure autoritarie, alcune delle quali esercitano funzioni di direzione sui monaci, il loro ruolo non sembra estendersi alla sfera spirituale. Resta però vero che molte disposizioni rivolte alla coscienza individuale richiedono, per essere operative, l'esercizio del discernimento spirituale; ma poiché non vi è mai una questione esplicita di confessione di pensieri in questo contesto, è legittimo sostenere che questo esercizio spetti a ciascuno dei monaci: ogni cenobita è chiamato a confrontarsi personalmente con la regola, e a giudicare anche la propria colpa. di fronte ai suoi precetti (auto discernimento: 231).

Dopo aver preso atto del posto e del ruolo della coscienza nei testi normativi di Shenute, la spiegazione più immediata dell'uso delle maledizioni per sanzionare le trasgressioni deriverebbe da un fatto evidente: l'interiorità, dove verrebbero giudicate le buone e le cattive intenzioni, è irrimediabilmente opaca, e come tale resiste ad ogni valutazione oggettiva. Di conseguenza, non c'è modo di identificare oggettivamente il colpevole, e quindi di correggerlo mediante sanzioni corrispondenti alle sue colpe. Quindi, potremmo pensare che il ricorso alla maledizione resti l'unica strategia praticabile in una situazione in cui non si può denunciare la colpa (e tanto meno misurarne l'entità e la gravità) e dove manca il potere di punire. Riguardo quest'ultimo punto, sappiamo che i monasteri di Shenute attraversavano all'epoca diverse difficoltà: in primo luogo, le circostanze dell'ascesa al potere di Shenute testimoniano una situazione fin dall'inizio problematica, qualificabile addirittura come decadente (almeno secondo il punto di vista degli autori); in secondo luogo, le difficoltà dell'abate nell'imporre la propria autorità sul monastero femminile rivelano una fragilità nell'unità della congregazione; infine, le osservazioni relative ai problemi interni della confederazione monastica ben si adattano al quadro poco edificante che Besa disegnerà qualche decennio più tardi. È probabile che la via dell'interiorizzazione resti quindi l'unica praticabile in un contesto dove la disciplina monastica sembra in realtà difficile da controllare. Come ha sottolineato Assmann, in una situazione di indeterminatezza della colpa e/o di inapplicabilità della pena, non resta che maledire tutti i potenziali colpevoli. Questa spiegazione può sembrare soddisfacente, ma non esaurisce la questione.

  

4. Forma di vita.

Con la ripetizione rituale della regola, con l'appello all'autoesame e soprattutto con l'uso delle maledizioni, stabiliamo un tribunale di coscienza che interiorizza le esigenze della vita ascetica. La convinzione personale è invocata come giudice ultimo: non per niente si maledice chi afferma l'inefficacia della norma (102) piuttosto colui che ne compromette l'integrità. Da un punto di vista sociale potremmo interpretare questa operazione come l'instaurazione, nel contesto specifico della koinonia shenutiana , di strutture di accettabilità vincolanti per il pensiero dei suoi membri. In una prospettiva diversa, si potrebbe anche considerare la regola come un potente modello simbolico della realtà, vale a dire un paradigma la cui funzione è quella di modellare una realtà non simbolica – questa realtà interiore della coscienza del monaco – secondo una configurazione simbolica. Il monaco stesso, sulla base di un ductus (Ndt: una guida) mentale tracciato dalla regola, individua e condanna le devianze più segrete della sua mente: sa di essere maledetto se agisce o pensa in un certo modo. È in un quadro così definito che diventa rilevante insistere sulla responsabilità personale in relazione ad eventuali inadempienze: esclusi i casi derivanti da una cattiva direzione da parte dei superiori, è la “durezza di cuore” del cenobita ad attirare la colpa (per esempio nel trascurare la liturgia: 328). Se dunque la colpa appartiene alla sfera della mente, anche la punizione non può rimanere che in questa stessa sfera. L'interiorizzazione della norma esercita sull'individuo un'influenza profonda, influenza altrimenti inconcepibile all'interno di questo microcosmo sociale che è la congregazione cenobitica. Questo approccio viene presentato come avente una funzione eminentemente soteriologica (Ndt: Relativa a una concezione della salvezza), ma non possiamo sottovalutarne le ricadute in termini di gestione comunitaria: infatti, la forza di standardizzazione di un vincolo psicologico si rivela uno strumento di formidabile efficienza. E questa forza non è estranea al fatto che la regola si presenta come un’idea a cui aderire. È ciò che Layton mostra chiaramente facendo leva su un precetto che ingiunge al postulante di impegnarsi a osservare tutte le regole senza conoscerle ancora: ciò che viene chiesto al futuro monaco è accettare la regola nella sua astrazione. [6] Idealmente (perché la pratica concreta non coincide necessariamente con il modello presentato), il consenso prestato non ha nulla a che vedere con la stipula di un contratto (dove il firmatario è informato di tutto), ma equivale piuttosto all’accesso diretto a una forma di vita e, allo stesso tempo, immediata integrazione nel gruppo che la pratica. La vaghezza dell'idea di regola a cui aderisce il nuovo monaco mostra tutta l'importanza della dimensione psicologica: è importante che la mente sia perfettamente soggetta ai requisiti della koinonia, e l'indeterminatezza in cui tali requisiti sono lasciati non fa altro che assolutizzarli. Non possiamo esaminare e negoziare ciò che richiede un impulso incondizionato del cuore. Inoltre, è possibile che tale logica agisca anche nella formulazione di maledizioni, la cui importanza in assenza di indicazioni circa il loro effetto concreto è stata sopra sottolineata. La mancanza di precisazioni sullo stato di chi è sotto maledizione indicherebbe un ritiro della gestione da parte della regola, che dichiarerebbe implicitamente di non avere giurisdizione sul territorio in cui si avventura chi devia dalla retta via. Non amministrare equivale a lasciarlo indifferenziato e quindi assolutizzare il carattere negativo di questo stato. Si tratta di un modo efficace per aumentare la pressione psicologica esercitata sul bersaglio: abbandonare la buona disposizione indicata dalla regola significa uscire dall'ambito della propria azione salvifica e vagare in uno stato di dispersione che equivale alla dannazione.

Così, per quanto riguarda la vita del monaco e della comunità, lo sforzo profuso nella scrittura dei precetti mira a uniformare ciò che è sparso. Questa intenzione spiega l'accento posto sull'unità della comunità contro ogni forma di isolamento individuale (64, 388, 416, 438, 442, 450, 453, 454, 480), contro ogni disuguaglianza (36-39, 41, 43, 363, 364, 441) e contro ogni forma di dissidenza interna (279, 511, 541, 555). Non dobbiamo mai agire da soli e “fuori dai canoni stabiliti per noi dai nostri padri” (590, vedere anche 304). Raccomandiamo, al contrario, di inserirsi armonicamente nel ritmo collettivo (quali che siano i compiti, bisogna rispettare orari comuni: 434; nella preghiera i gesti si fanno «all'unisono» e «in un solo movimento»: 234), con una completa disposizione alla trasparenza (riferire sempre tutto ai superiori: 21, 27, 28, 45, 76, 88, 108, 136, 180, 455). Anche l'alimentazione, centro nevralgico della diversità delle identità individuali, mira a uniformare la comunità (malgrado tutte le eccezioni previste a seconda delle circostanze). Frutto di vari tentativi, ci dice il testo (370), la regola si presenta nel momento attuale come il miglior strumento di armonizzazione ed elevazione del gruppo: da essa non bisogna discostarsi (74), salvo eccezioni avallate dalle autorità stabilite (ad esempio 227, ma i casi sono numerosissimi) o se vi è assoluta necessità. Ma, in quest’ultimo caso, dobbiamo agire con tutto “timore e tremore” (92 o 200 ), perché stiamo uscendo dai sentieri segnati.

È ovvio che il fallimento finale, in un sistema così concepito, consiste nell'abbandonare la disciplina cenobitica per seguire la propria volontà. L'apparato disciplinare monastico mira – sempre, anche nelle sue forme più anacoretiche – a spezzare e soffocare ogni volontà umana: questo è il fondamento di ogni forma di purificazione ascetica. C'è molto da dire su questa operazione e sulle questioni teologiche che sottende: basterà ricordare che il fine ultimo di questa ascesi è il recupero di uno stato di indifferenziazione tra l'umano e il divino, dove l'individualità propria della volontà del primo deve cedere ad una completa uniformazione al disegno dell’ultimo. C’è qui un elemento fondamentale della teoria monastica che Giorgio Agamben trascura a torto [7]: quando, nel suo saggio sulle regole monastiche, offre al lettore l’esempio dell’abbazia di Thélème (tratto da Rabelais), dove ognuno fa “la propria volontà”, contesta che si possa davvero considerare questo luogo un anti-monastero, come si fa generalmente, perché l'obiettivo di una perfetta sintonia e di una completa identificazione con la regola è, malgrado tutto, raggiunto. Ma l'abbazia di Thélème è proprio un anti-monastero, perché - e questo è il fondamento di ogni forma di vita perfettamente unitaria - non può esserci libertà senza la rinuncia più totale ad ogni intenzione estranea a quella del progetto a cui aderiamo, in questo caso il regno celeste. Ciò che emerge con chiarezza dalla teoria monastica è che l’utopia di una comunità perfettamente sintonizzata non può che passare attraverso un’opera sistematica di morte dell’individuo e della sua volontà, unico mezzo per ridurre il molteplice all’unità (si torna sempre alla questione “μονοτροπία” (monotonia)). Si tratta di una spoliazione che è garanzia - in una prospettiva più anacoretica - dell'unione con Dio e - ciò su cui si insiste specificamente nel mondo cenobitico - dell'unione della comunità (naturalmente, entrambe sono, a diversi livelli, equivalenti). A questo proposito è del tutto attuale la riflessione di Roberto Esposito: la comunità si fonda non su ciò che riceviamo ma su ciò a cui rinunciamo, soprattutto in termini di perdita dell'identità individuale: è il munus che ciascuno deve alla communitas (cum-munus) [8].

Le regole di Shenute mirano a mantenere una comunità di salvezza. Si potrebbe addirittura sostenere che l'intera impresa si giustifica e si legittima in relazione a questo fine. Nella Congregazione, infatti, è disponibile un bene prezioso agli occhi di coloro che vi aderiscono: questo è ciò che motiva la scelta personale di appartenenza a pieno titolo, implicando una rinuncia libera e volontaria al potere decisionale del singolo. Si impone allora una nuova socializzazione, vale a dire una forma di vita totalizzante in cui lo scopo soteriologico corrisponde allo stesso tempo a un progetto sociale: coloro che entrano nella congregazione shenutiana devono abbandonare la vita e i suoi collegamenti precedenti (e tutti i suoi possedimenti). : 86, 243) per integrare una nuova struttura complessa (mantenuta dall'incrocio di diverse gerarchie di ruoli). Il cambio di abbigliamento rappresenta simbolicamente questa transizione (472). In cambio ottiene la possibilità di raggiungere la salvezza. Il valore di questo bene metafisico costituisce un campo che consente l'istituzione di un sistema di gestione. Con un pizzico di cinismo, si potrebbe osservare che la salvezza diventa lo strumento di legittimazione, oltre che di “occultamento”, di una struttura di potere. Va infatti notato che è in questione una salvezza collettiva: ne consegue inevitabilmente un rafforzamento della dimensione socio-politica dello spirituale. Inoltre, questa articolazione dello spirituale e del politico definisce il progetto della koinonia come un’utopia. Se facciamo riferimento alla definizione di utopia elaborata da Jean Séguy [9], che ha avuto il merito di tentare un’applicazione di questo concetto all’impresa pacomiana, vedremo che si tratta principalmente di trasformazione secondo il modello di un sistema ideologico (si ritorna all'idea di Geertz di un modello per la realtà). Séguy elimina dalla sua definizione l'idea di alterità, presente tra i suoi predecessori: ad esempio, alla teorizzazione di Ernst Bloch [10], per il quale l'utopia nasce quando si tenta, sulla base dell'immaginazione, di costruire una realtà diversa da quella presente, risponde che “tutto il resto rischia di essere utopia” [11]. Tuttavia è senza dubbio possibile aggirare questo ostacolo precisando che nel nostro caso questo “altro” riguarda anche l’assoluto: è la caratteristica del monachesimo.

Le congregazioni pacomiana e shenutiana condividono lo stesso obiettivo, che è infatti quello di ogni impresa cenobitica: creare una forma di vita totale. La specificità della regola di Shenute sta in questo: oltre alla sua natura di strumento operativo concreto, essa si configura in un certo senso come un sistema simbolico, nel senso in cui lo intendeva Clifford Geertz [12]. Con una precisazione, però: di fronte alla dicotomia che in Geertz divide (in astratto) le funzioni del sistema simbolico, che è quindi modello della realtà e modello per la realtà, è chiaro che la regola shenutiana (nel suo intento di forgiare un'altra realtà interiore a partire da un riferimento teologico) insiste particolarmente sulla seconda funzione, quella che presiede alla trasformazione della realtà. E il campo di applicazione è diverso da quello in cui agisce la norma pacomiana. In quest'ultima, tutto passa attraverso l'atto concreto - che fa dire al curatore che anche la più piccola delle cose ha un significato soteriologico, addirittura escatologico - o attraverso l'inserimento di ciascuna persona in una complessa organizzazione di gerarchie di ruoli (che definiscono molto precisamente il posto di ciascun monaco nel corpo della comunità). La norma shenutiana, che non trascura queste due dimensioni, le supera. La presenza di maledizioni dimostra che agisce direttamente sulla mente. La regola si interiorizza e pretende di disciplinare l'intenzione prima ancora che l'azione: obbedire a questi precetti equivale a prendersi cura della propria anima [13].

 

Conclusione.

In conclusione, la specificità della raccolta di Shenute risiede nel desiderio manifesto di intervenire sulla coscienza di ciascun membro della congregazione. Questa specificità si riflette nell'uso delle maledizioni e in tutta una serie di precetti che disciplinano l'interiorità stigmatizzando (o, in certi casi, raccomandando) alcuni stati d'animo che solo il monaco può individuare. L'interiorizzazione è la strategia originaria di questa forma di vita. Inoltre, è possibile che il ricorso a tale metodo derivi da una concreta difficoltà ad imporre, nella pratica, il rispetto della disciplina.

È vero che l'opera di contenimento della volontà del monaco era già oggetto di approfondita riflessione nella teoria dei solitari, ma la particolarità delle regole di Shenute (così come curate da Layton) consiste nel tentare di tradurre questo insegnamento all'interno di un nuovo dispositivo, la norma cenobitica. Sarebbe interessante, alla luce di questa osservazione, esaminare come si configura la pratica dell'esame di coscienza in questo monachesimo, ma ciò merita di essere oggetto di ricerca indipendente su tutta l'opera di Shenute.

 

Fabrizio Vecoli

Istituto di Studi Religiosi dell'Università di Montreal 2375,

Côte-Ste-Catherine, 5° piano, ufficio 5065

Montreal, QC H3T 1A8

CANADA

 

[1] B. Layton, The Canons of Our Fathers. Monastic Rules of Shenoute, Oxford 2014. Faremo spesso riferimento ai “canoni” di Shenute pubblicati in questo testo, che costituiranno la fonte esaminata nell’ambito di questo contributo: per questo motivo, indicheremo semplicemente il numero dei canoni citato tra parentesi.

[2] St. Emmel, Shenoute’s Place in the History of Monasticism, in Christianity and Monasticism in Upper Egypt. Volume I. Akhmim and Sohag, edd. G. Gabra - HN Takla, Il Cairo - New York 2008, 31-46.

[3] I testi delle lamentazioni di Isaia (Asceticon, logos 9) si uniscono a quelli di invocazione delle sventure nella raccolta attribuita a Shenute (di questo parleremo più avanti). Più importante è la presenza di precetti simili a quelli di Shenute nel corpus di Isaia (vedere logos 9). Da notare che le diverse parti del trattato di Isaia si chiamano "logoi", come l'altra opera di Shenute: e tuttavia comprendono testi molto vicini ai Canoni.

[4] J. Assmann, When Justice Fails : Jurisdiction and Imprecation in Ancient Egypt

and the Near East,, in The Journal of Egyptian Archaeology 78 (1992), 149-162.

[5] Si veda J. S. Anderson, The Social Function of Curses in the Hebrew Bible, dans Zeitschrift fur die alttestamentliche Wissenschaft 110 (1998), 223-237.

[6] B. Layton, The Ancient Ruldedres of Shenoute’s Monastic Federation, in Christianity and Monasticism in Upper Egypt. Volume I. Akhmim and Sohag, edd. G. Gabra - H. N. Takla, Cairo - New York 2008, 73-81 (à p. 77)

[7] G. Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Vicenza 2011, 16.

[8] R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino 1998

[9] "L'utopia è qualsiasi sistema ideologico totale che mira, implicitamente o esplicitamente, facendo appello alla sola immaginazione (utopia scritta) o passando alla pratica (utopia praticata), a trasformare radicalmente i sistemi sociali globali esistenti": J. Séguy, Une sociologie des sociétés imaginées, monachisme et utopie, in Annales, Économies, Sociétés, Civilisations 26 (1971), 328-354 (a p. 331).

[10] E. Bloch, L’esprit de l’utopie, Paris 1977 (Leipzig 1918).

[11] J. Séguy, Une sociologie des sociétés imaginées, 331.

[12] C. Geertz, Religion as a Cultural System, 87-125.

[13] "In ogni caso, in questi quattro periodi dell'anno, esse (le regole) saranno recitate senza eccezioni, anche se qualcuno odia ascoltarle perché odia la propria anima" (24). In un altro passo si afferma che chi non osserva la regola su un punto qualsiasi "pecca contro la propria anima" (201).

 


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8 marzo 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net