Segni dell’Architettura Antica sul Gran Monastero di S. Giovanni di Pantelleria

Di Giuseppe Sechi

Symposia Melitensia, n. 11, 2015 – Università di Malta

 

Lo storico francese Henri Bresc nell’agosto del 2000 in visita a Pantelleria ci disse che, se la toponomastica indica la presenza di un monastero nei luoghi della contrada di Monastero, le cronache storiche dell’alto medioevo ne accertano la presenza in virtù della tradizione rituale bizantina di sacralizzare con basiliche tutti quei luoghi del Mediterraneo di rilevante importanza lungo le rotte dei marinai e della Cristianità. [1] Ciò come rito di protezione universale nel Mediterraneo. [2] La presenza nell’isola di una comunità monastica ci viene tramandata dalle cronache carolingie, dalle quali si apprende che nel 803 l’imperatore Carlo Magno, nella Spagna musulmana, riscattava, liberandoli dalla prigionia, 60 monaci catturati a Pantelleria. Ma questa presenza è testimoniata, anche, da un manoscritto in lingua slava arcaica riportante le ‘Regole del Gran Monastero del santo nostro padre presbitero ed egumeno Giovanni, Superiore di Pantelleria’, conosciuto come il ‘Tipikon del monastero di S. Giovanni della Patellaria’. [3] Copiato da uno originale in greco del IX sec. (mai trovato, che si presume più articolato), elencava le rigide regole a cui i monaci dovevano sottostare per la salvezza dell’anima così come per il loro sostentamento materiale. Non è stato possibile stabilire la data in cui visse S. Giovanni, anche se le sue ‘Regole’, da una attenta osservazione storiografica, potrebbero essere state scritte a Pantelleria in un intervallo di tempo che va tra le prime esperienze monastiche cenobite: pacomiane e basiliane (IV sec.), vista la severità delle punizioni applicate quasi a carattere militare del Tipikon, e l’editto imperiale contro le immagini sacre, in considerazione del fatto che le ‘Regole’ sono prive di quegli elementi burocratici che caratterizzeranno la riforma monastica Studita avvenuta con la fine dell’iconoclastia (VIII sec.). Se a queste acute osservazioni, riportate da Scalia, [4] Acconcia e Von Falkenhausen, [5] aggiungiamo i fatti storici accaduti in Pantelleria tra la prima e la seconda caduta di Cartagine che va dai Vandali (439) agli Arabi (697) scopriamo che l’isola diventa un rifugio-presidio per quei Cristiani fuggiti, a turno, dalle diocesi africane in preda alle diverse eresie, caratterizzate dalla violenza delle dispute teologiche della chiesa africana e che i cristiani dell’isola pagheranno definitivamente tra l’803 e l’864 con lo sterminio di tutti i suoi abitanti e la deportazione dei monaci basiliani. Questa terribile strage sarà narrata dagli scrittori arabo-siciliani come l’‘abitato dei cattivi geni’ di al-Dimishqi dove i cadaveri, decapitati, prepareranno la propaganda per la caduta della Sicilia bizantina. [6] Sono questi secoli di lotte cruente, di eresie, e di scomuniche nei quali il confessor Giovanni ha trovato in Pantelleria il suo eremo per pregare. La scoperta recente di una fonte battesimale, [7] presumibilmente del V secolo, nel sito di Scauri Scalo all’interno di una originaria villa romana di epoca imperiale, prova l’esistenza di una comunità cristiana nell’area portuale di Scauri. Forse, una Domus Ecclesia, il complesso abitativo dello Scalo nasce intorno ad una sorgente termale e si sviluppa su diverse quote degradanti sino al mare. Gli ambienti scavati hanno messo in luce pavimenti in mosaico (di cui una croce in tesselle di ossidiana), cisterne-piscine, fornaci, e depositi di ceramica da fuoco, nonché tombe scavate nella roccia. All’occorrenza e nel tempo la ‘villa imperiale’ sembra trasformarsi da fabbrica di vasellame a Domus Ecclesia. Probabilmente lo è stato l’uno e l’altro, per secoli sotto la provincia proconsolare, così come sotto i vandali e anche sotto l’esarcato  sino alla distruzione dei suoi abitanti e delle sue chiese. E, probabilmente, Giovanni il confessor, sbarcato allo Scalo, fu accolto da questa comunità di cristiani, prima di arrampicarsi su per la scalinata di pietre che porta alla rocca di S. Gaetano e da lì per Zighidì da dove ha meditato di scegliersi quell’eremo che da lì a poco, grazie ad altri monaci che lo raggiunsero, si chiamò il Gran Monastero.

Cercare tra queste contrade, per noi era un po’ come immaginarsi la vita rigida di questi monaci, anche se scrittori, storici moderni, ci indicano il sito del Monastero nell’area oggi denominata Zuebi–S. Maria. La nostra osservazione, invece, si è rivolta su per quel tragitto mare-monte, tra le maggiori presenze architettoniche disseminate nella valle di Monastero, che potessero nascondere tra i dammusi panteschi tracce di impianti architettonici bizantini.

Il primo complesso dammusico studiato è quello più prominente e fin troppo evidente vista la sua mole. Posto al centro della Valle del Monastero è un esempio dell’eccezionalità del costruire il dammuso in piena area agricola a discapito della coltivazione ad esso sacrificata. Tipico del dammuso è stato sempre quello di costruirlo vicino ai pendii rocciosi dove potessero essere cavate le pietre e nello stesso tempo lontano dalla terra agricola votata esclusivamente alla coltivazione. Esempi tipici sono la grande valle di Ghirlanda o le garche e le tanke in genere, dove le costruzioni più importanti sono ai margini delle piane coltivate, possibilmente su speroni di roccia da cui ricavare i cantuna, e dove iniziano i terrazzamenti sui rilievi.

Chiamata Azienda Valenza (Foto. 1), oggi questo complesso di costruzioni si inserisce in maniera atipica, come dicevamo, nel caratteristico paesaggio agricolo pantesco, al centro della valle del Monastero dove avrebbe trovato posto la migliore produzione del fondo. In effetti a guardare bene l’edificio a due livelli, esso vorrebbe apparire come i palazzetti dell’isola di maniera spagnuola tipici della zona Nord dell’isola, ma pochi sono gli elementi che lo fanno condurre a questi.

Si nota anzitutto che il secondo livello si colloca al centro e per quasi tutta la lunghezza di una pianta a base quadrata, come a scomporla in tre parti. E in sezione questa ricorda una tipica costruzione architettonica a tre navate. Quello che oggi appare come il fabbricato maggiore a due livelli dell’Azienda Valenza è una costruzione di recente passato. Noi pensiamo che questo sia stato realizzato sulle fondamenta di una costruzione molto più antica. Ma vediamo di spiegare gli elementi indiziari che ci inducono alla nostra tesi.

Il primo indizio molto interessante è il porticato d’ingresso ai due macaseni du vino e al mulino dell’Azienda (Fig. 2). Questo è tripartito ad arco a tutto sesto poggiante su ampie colonne sormontate da grosse lastre di pietra ribassate assimilabili a capitelli. Il porticato può essere ipotizzato come il nartece delle prime basiliche cristiane. Preamboli architettonici voltati che potevano stare all’interno  delle chiese o poste all’esterno come in questo caso.

In corrispondenza dei tre archi del porticato, vi sono tre porte con una eccezione: quella centrale, perfettamente allineata all’arco centrale del portico, porta al primo macasenu  dove sino a qualche decennio fa si vinificava; quella di sinistra, la porta immette nel secondo macasenu adibito a cantina, mentre quella di destra fa eccezione. La porta è posta sul lato destro e trasversale del porticato e conduce al mulino. Non è raro trovare esempi d’ingressi, siffatti, nelle chiese greco-bizantine. Esternamente dal lato destro del porticato, una serie di gradini portano alla terrazza superiore da dove si accede al piano nobile, superiore.

I tre ambienti a piano terra non sono comunicanti fra loro e nel loro impianto formano un quadrato.  Sono stretti e lunghi, e quello centrale, più largo dei due laterali, si proietta in altezza a formare un secondo livello. Se il primo indizio – le colonne massicce sormontate da lastre di pietra e da archi – ci indica la presenza di un porticato assimilabile ad un nartece, il secondo – la sovrapposizione del piano superiore, sull’ambiente centrale – ci induce a pensare che i due livelli in antico fossero un unico ambiente più alto e poggiante sulle fondamenta dei due ambienti laterali.

Se la parete di fondo dell’ambiente centrale fosse rimasta curva, a questo punto, le nostre intuizioni sarebbero state molto più chiare e forse qualcuno prima di noi le avrebbe meglio confutate. Un particolare, però, rimane: la finestrella posta al centro della parete era tipica nelle absidi greco-bizantine, da cui la luna, nella settima della Pasqua, illuminava l’altare. E, cosa ancora evidente, un piano sfalsato di forma rettangolare, che compone il tetto del dammuso, ha il lato minore uguale alla metà del suo lato maggiore, per cui si può iscrivere un semicerchio. Oltre ad avere delle caratteristiche strutturali diverse dal corpo centrale, questo volume che genera la parete di fondo, sembra sia stato disegnato da un compasso il cui raggio ci disegna la nostra ipotetica abside.

Sappiamo che i primi esempi di architettura cristiana vennero copiate dalle basiliche romane, il cui impianto, rivisitato nel rito ma non nella sostanza architettonica, in sintesi, era formato da tre ambienti longitudinali, collegati tra loro a formare in pianta un quadrato, chiamati navate; da un ingresso ad archi coperto con volte posto su uno dei due lati brevi e trasversali alle navate, chiamato nartece e da una parete curva, sormontata da una semicupola, chiamata abside, posta all’estremità del lato opposto all’ingresso. Tra l’abside e le navate vi era il transetto. Sebbene vi sia la traccia, sul tetto del dammuso, che la parete est potesse essere stata curva, bene, se questi indizi potessero essere meglio sondati nelle murature di fondazione, questa nostra tesi avrebbe più elementi per meglio definirla quale chiesa-cenobio del Gran Monastero (Fig. 3).

Alcune riflessioni comparative per meglio spiegare i segni dell’architettura antica

L’architettura che oggi appare nel fabbricato maggiore dell’Azienda Valenza, come dicevamo, crediamo sia la ricostruzione, ripresa dalle fondamenta tardo antiche, di quella che fu la chiesa-cenobio del Gran Monastero di S. Giovanni. Distrutta nell’803 da un’armata musulmana, l’impianto ricorda la chiesa bizantina di Santa Domenica di Castiglione di Sicilia (Fig. 4). Dalla pianta della presunta chiesa si evince che, alla tripartizione delle navate non corrispondono tre ingressi in corrispondenza del triportico, bensì due. Un ingresso ‘a latere’, in effetti, distingueva le funzioni laiche da quelle religiose. L’ingresso di destra è posto trasversalmente, di lato al portico, proprio come si rileva nella chiesa di Santa Domenica (Fig. 4). Se aggiungiamo altri elementi importanti, come l’orientamento e le mura che circondano la struttura, possiamo meglio confutare questa tesi. La costruzione è posizionata in direzione Nord-Est. Il complesso dammusico è stato costruito all’interno di un quadrato regolare i cui lati sono segnati da mura di cinta di 35 metri per lato, alto più di due. Due lati del quadrilatero murato confluiscono al vertice Est del fabbricato, chiudendo l’impianto chiesa-cenobio dentro un giardino pantesco assimilabile ad un hortus conclusus. All’interno alberi da frutto, agrumi, palme, piante medicinali, e un pozzo-cisterna. Elemento, questo, architettonico oltre che simbolico, di vitale importanza quanto mai raro all’interno di giardini.

 

Castiglione di Sicilia, Chiesa bizantina di Santa Domenica detta la Cuba. Esempio architettonico dell’VIII sec. coevo alla presunta chiesa del Gran Monastero

La volta a cupola poggia su murature di archi e pilastri a base quadrata delimitanti il presbiterio e le navatelle. La struttura dell’edificio unisce insieme il principio della pianta centrale bizantina e la basilica latina. Alle navatelle laterali corrispondono altezze più basse, così al presbiterio e all’abside sormontata da una semicupola. Sopra l’ingresso centrale corrispondono la bifora e le finestre a forma di testa di chiodo. Sul prospetto, ai lati, le pietre aggettanti di ancoraggio al nartece, non più visibile. L’ingresso alla chiesa, dal nartece, avveniva direttamente dagli ingressi ‘centrale’ e laterale sx attraverso le due porte visibili, mentre alla navatella laterale dx si accedeva attraversando trasversalmente il nartece. Questo ingresso ha delle analogie con il presunto nartece di Pantelleria.

Sappiamo dal Tipikon che tra le ‘Regole del Gran Monastero’ c’era quella che ‘allo scoccare del [sacro] Semantron, [i monaci] si riunivano sotto il portico (nartece) della chiesa ed entravano in chiesa non appena gli anziani fossero giunti’. Tutti questi elementi non sono altro che indizi esperibili che ci portano a concludere che, molto probabilmente, il fabbricato dell’Azienda Valenza appartenuto per secoli al casato nobiliare dei baroni Garsia, sia potuto essere il luogo della cristianità pantesca e Pantelleria l’avamposto di un impero d’oriente che non voleva abbandonare la friqiyya. Così come in una frontiera, Pantelleria è stata il cenobio di una fervida comunità religiosa che assunse una tale fama in tutto il Mediterraneo, tanto da giustificare il massacro dei suoi abitanti, come scrisse il poeta Ibn Hamdîs secoli dopo nel suo dîwân. [8] Questo docile simbolo della cristianità, abbattuto dalla ferocia delle guerre di religione, cambierà per sempre i luoghi del Mediterraneo.

Non può che far riflettere il gesto politico con cui Carlo Magno liberò in terra di Ispania dei Mori quei 60 monaci della Patellaria, a tre anni (?) dalla sua incoronazione papale ad imperatore.

Un’altra costruzione (Fig. 6), presente nella Valle del Monastero, ha riscosso da parte nostra un forte interesse, vista l’atipicità con il dammuso. Questa si presenta in pianta, formata da due ambienti trasversali come a formare una croce a tre braccia. Superata la soglia d’ingresso, l’altezza della costruzione appare molto slanciata rispetto alle dimensioni del vano. L’ambiente è segnato dalla trasversalità della lunga volta a botte dove, di fronte all’ingresso, si apre un arco sotto l’imposta della stessa volta. Molto più basso del primo, questo ambiente genera il terzo braccio della croce. Ai lati di questo, due piccoli vani, perfettamente simmetrici, si aprono attraverso due porte basse. Il rigore geometrico degli ambienti, la perfetta simmetria e l’eccessiva altezza, sono elementi architettonici che non si ritrovano nel tipico dammuso. Altro ambiente attiguo e comunicante alla costruzione stessa è un dammuso-portico, con ampi archi, dove all’interno è ubicato un forno a legna anticamente usato per la panificazione. Questi elementi messi insieme ci fanno presumere che questo fosse il Refettorio del Monastero con annesse le cucine.

Altro locale, ancora molto particolare è quello in adiacenza alle presunte cucine. Di piccole dimensioni, è formato da due vani contigui,

divisi da un arco. In fondo alla parete una finestrella in direzione Est. L’ambiente tra l’arco e la finestrella, perfettamente simmetrico, si allarga trasversalmente rispetto all’ambiente dove ha luogo l’ingresso. La perfetta geometria degli spazi e la presenza della finestrella in quella che apparentemente sembra una stalla, fa presumere che fosse una cappella o l’antica chiesa di S. Teresa. Anche in questo caso manca la curvilinearità della parete di fondo.

Si può osservare che gl’involucri oggi visibili dei dammusi studiati sono la ripresa edilizia delle tracce di murature in fondazione della civiltà bizantina scomparsa drammaticamente nella prima metà del IX  sec. lasciando un vuoto spazio-temporale per circa un secolo. Sappiamo da Bresc di una nuova realizzazione della chiesa [9] del Monastero costruita intorno all’anno 1100, che forse molto presumibilmente, visti alcuni reperti ormai indecifrabili, sorgeva sotto il Monte Gelkhamar, sopra la località di Cimillia, di fronte Capo Bon in Tunisia.

Saranno popolazioni berbero-siciliane a ripopolare, cospicuamente, l’isola, quelle che non vollero sottomettersi ai Normanni, per essere ributtate in mare. Per molti secoli l’isola rimase un luogo maledetto ‘abitato da cattivi geni’, ripopolata da gente magrebina di terza generazione siciliana, così come avvenne a Malta. [10] Sappiamo dalla toponomastica della tribù berbera dei figli di Kulà che occuparono le terre tra Sibà e Monastero, le stesse che coltivavano i monaci. Pantelleria Dar-Al Islam, sembrerebbe dalla topononomastica lasciata sino ai nostri giorni. Le terre di Beniculà così come quelle di Rodoàn, terre che nel XV sec. vennero confiscate a questi musulmani per essere consegnate ai cristiani spagnoli. Ai Gio Batta De Ajete (di Navarra) ai Garcia (di Pamplona), come ai Pedro de Mursia o agli Arnau Negre. La Reconquista pantesca avveniva senza spargimenti di sangue, bensì con appropriazioni più o meno indebite delle terre e degli hermi dei musulmani che sino a quel momento pagavano salati tributi alle corone: normanna, sveva, angioina ed aragonese dopo. Ancora oggi parole di lingua araba sono presenti nel vocabolario pantesco che sino alla metà del XX sec. era correntemente parlato tra i commercianti panteschi e quelli del Magreb. [11]

L’impianto, ritornando al secondo interessante complesso dammusico, contiguo al dammuso-portico e alla stalla, da una visione esterna appare disgregato e poco armonico se si aggiunge anche la cisterna campaniforme, fuori terra, a lato e poco distante dallo stesso. Ma se a questo edificio ‘a tre braccia’ si aggiungesse un chiostro, di fronte la facciata d’ingresso, tra il dammuso-portico e la cisterna, si avrebbe un disegno planimetrico più logico e un’architettura coerente che segna le sue funzioni in rapporto non solo con gli ambienti appena descritti ma anche con l’ambiente vitale monastico caratterizzato da una cucina con forni, da una cappella e da l’indispensabile cisterna, quale fonte d’approvvigionamento dell’acqua. Il porticato (forse in legno) disegnerebbe meglio la croce dell’edificio, quale preambolo all’ingresso del presunto refettorio, e darebbe un significato di raccoglimento tra i monaci e gli abitanti della contrada che si accingevano alle presunte cucine, per avere il loro giusto pane. Molto probabilmente entrambi collaboravano alla coltivazione dei campi, alle messi, al molino ed alla preparazione del pane.

È ipotizzabile che con la caduta di Cartagine, prima con i Vandali e dopo con gli Arabi, all’isola mancarono quei collegamenti tra l’Africa e la Sicilia che la sostenevano economicamente. L’approvvigionamento del grano divenne un problema esistenziale, fondamentale, e storico che da questo momento in avanti sino all’epoca moderna, caratterizzerà tutta la realtà pantesca. Saranno cristiani provenienti a turno dalle diocesi africane e da quella di Lilybaeum a ripopolare l’isola che sicuramente venne saccheggiata e distrutta a più riprese dalle scorrerie vandaliche come da quelle arabe, in Sicilia. Dopo la fuga dei cristiani e la fine dell’esarcato d’Africa, l’isola diventerà un avamposto della religione cristiana con l’arrivo dei monaci greci, avvenuta nell’VIII sec. Un avamposto a confine di quel Mediterraneo cristiano che verrà dimenticato dalla storia per oltre un secolo, ma della cui storia cristiana, quella di S. Giovanni e di S. Basilio della Pantelleria, si continuerà a parlare in ben altri confini dell’Impero Romano d’Oriente.

Da indicare anche la prospettiva da cui si percepiva in antico quello che noi presumiamo sia il Gran Monastero. Questa avveniva attraverso l’antica ed allora principale strada – oggi uno stradello invaso dai rovi – che dalle coste di Zighidì scende verso la valle e che una volta raggiunta la contrada, la facciata della presunta chiesa del Monastero, si apriva a questa frontalmente. Questa strada era l’asse di collegamento tra l’entroterra agricolo e il mare. Se percorsa, oggi sul suo originario tracciato, possiamo trovare tracce di insediamenti umani e sue infrastrutture tipiche del periodo alto medievale, come le tombe scavate sulle rocce di Zighidì, l’insediamento umano dell’altipiano di S. Gaetano collegato al mare da una scalinata fortemente in pendio, e l’insediamento antico dello ‘Scauri-Scalo’ dedito alla produzione ed al commercio della ceramica da fuoco, le patelle. Pensare questo rapporto Terra-Mare attraverso il percorso a piedi, Scalo-Zighidì-Monastero, che porta il contadino a trasformarsi in marinaio e viceversa a seconda della stagione è ciò che quest’isola ha significato in tutta la propria storia ed in tutte le epoche a prescindere dalle dominazioni storiche.

Le risorse naturali, presenti nella zona di Scauri intesa nel quadrilatero S. Gaetano-Monastero-Rekhale-Favare sono state ben valorizzate attraverso la disciplina rigida d’insegnamento della regola monastica che, con la caduta di Cartagine e l’arrivo degli Arabi, pose l’isola come baluardo della Cristianità di fronte alla, oramai, perduta Africa. Venendo a mancare la certezza di un’autorità religiosa rappresentata dall’antico Monastero, di cui nemmeno i Normanni, malgrado i loro sforzi, riuscirono a ristabilire, l’isola fu abbandonata ad un destino ben descritto dai poeti arabi-siculi i cui effetti si trovano ancora oggi.



[1] H. Bresc, ‘Pantelleria Medievale’, Bioarchitettura,  marzo 2001, 52–7.

[2] Id., ‘Pantelleria entre l’Islam et la chrétienté’, Cahiers de Tunisie, XIX (1971), 105–27,

[3] I. Dujčev, ‘Il Tipico del monastero di S. Giovanni nell’isola di Pantelleria’, Bollettino della badia greca di Grottaferrata,  N.S. XXV (1971), 3–17,

[4] G. Scalia, ‘Le Kuriate e Pantelleria’, Extrait de Archivium Latinatis Medii Aevi (Bruxelles, 1984), 80–3,

[5] Dumbarton Oaks Research Library and Collection, ‘Pantelleria: Typikon of John for the Monastery of St. John the Forerunner on Pantelleria’, Byzantine Monastic Foundation Documents (Washington, DC, 2000),60–1.

[6] Ibn Hamdîs, ‘Il Canzoniere’, CXLIII, 47 (Palermo, 1998), 239.

[7] L. Abelli, ‘Rotte commerciali e dinamiche insediative tardo-antiche nel Canale di Sicilia: il caso dell’insedia-mento di Scauri a Pantelleria’, XIX Convegno internazionale di studi su ‘Africa Romana’ Sassari–Alghero 2010.

[8] Ibn Hamdîs, 239: ‘In Pantelleria tu vedi i teschi degli avi loro…’.

[9] Bresc, 52–7.

[10] Ibid.

[11] J.M. Brincat, ‘Malta e Pantelleria. Affinità e diversità storico-linguistiche’, http://www.pantelleria-isl.it/

 


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22 novembre 2020                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net