EVAGRIO MONACO

 

TRATTATO PRATICO SULLA VITA MONASTICA


Tradotto da “Patrologia Greca”, Vol. 40, col. 1220-1236, 1244-1252, 1272-1276,

da “Traité pratique ou le Moine”, Vol. 2, A. e C. Guillaumont, Sources Chrétiennes N° 171, (Paris, Cerf, 1971),

e da “Evagrius of Pontus”, R. E. Sinkewicz, Oxford University Press, 2006

(Ndt. Le note in carattere corsivo e situate al termine di ogni capitolo sono state estratte da Traité pratique ou le Moine. Tra parentesi quadre: testo non presente nei manoscritti)


[PROLOGO: Lettera ad Anatolio]

 

[Prol. 1.] Poiché recentemente mi hai scritto a Scete dalla Santa Montagna (cioè da Gerusalemme. Cfr. Sal 87(86),1: Is 27,13), caro fratello Anatolio, chiedendomi di spiegarti il simbolismo dell'abito dei monaci egizi; tu ritieni che non sia né casuale né senza un motivo che [l’abito] sia così diverso da quello che indossano le altre persone; allora ti farò conoscere tutto quello che abbiamo imparato riguardo a questo argomento dai santi Padri.

Nota: Anatolio aveva indirizzato ad Evagrio dalla "Santa Montagna" una richiesta per una spiegazione del simbolismo dell'abito monastico. Sfortunatamente c'è poco da dire sull'identità di Anatolio, al di là di alcune congetture. La "Santa Montagna" è molto probabilmente un riferimento a Gerusalemme ed alla comunità monastica fondata da Melania la Vecchia e Rufino sul Monte degli Ulivi. Evagrio, che era stato accolto in questo monastero prima di trasferirsi in Egitto, mantenne una corrispondenza con Melania, Rufino e la loro cerchia. L’Anatolio del Prologo può essere lo stesso Anatolio menzionato nella versione copta della Storia Lausiaca come un ricco notaio, originario della Spagna, che in seguito divenne monaco e visitò Abba Pambo. Con la sua ricchezza, potrebbe essersi impegnato a copiare ed a diffondere le tre opere che Evagrio gli aveva inviato: il Praktikos, lo Gnostikos e il Kephalaia Gnostika.

Per quanto dica: “tutto quello che abbiamo imparato riguardo a questo argomento dai santi Padri”, sembra che sia proprio Evagrio ad aver dato un significato simbolico alle diverse parti dell’abito monastico.

 

[Prol. 2.] La cocolla è un simbolo della grazia di Dio nostro Salvatore, che protegge il capo, la loro parte più importante, e ristora il loro infantile [rapporto] con Cristo di fronte a coloro che stanno sempre cercando di batterli e ferirli. Chiunque porti questo cappuccio in testa sta cantando in tutta verità il salmo: "Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella" (Sal 127(126),1). Parole come queste generano umiltà e sradicano il vizio primordiale dell'orgoglio che gettò sulla terra Lucifero, l'”Astro del Mattino” (Is. 14,12).

Nota: Per quanto riguarda la cocolla, sia Palladio nella Storia Lausiaca, che Sozomeno e Doroteo fanno notare che si trattava del copricapo dei bambini; da qui il simbolismo sviluppato da Evagrio con l’infanzia spirituale. Si veda 1 Cor 3,1, dove san Paolo parla di “neonati in Cristo”.

 

 [Prol. 3.] La nudità delle loro mani manifesta assenza di ipocrisia nel loro modo di vivere; la vanagloria, infatti, è abile nel coprire ed oscurare le virtù, poiché è sempre a caccia della “gloria che viene dagli uomini” (1 Ts 2,6) e respinge la fede. “E come potete credere, dice (il Signore), voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44). Perché il bene non deve essere scelto per nessun altro [motivo] che per se stesso; se non si è d’accordo su ciò, tutto ciò che ci spinge a fare del bene apparirà molto più prezioso del bene stesso e niente potrebbe essere più assurdo che considerare e affermare che qualcosa è migliore di Dio!

Nota: la nudità delle mani è dovuta al fatto che indossano una tunica di lino senza maniche (colobium) che lascia l’avambraccio e le mani scoperte, in contrasto con l’usanza mondana dell’epoca di indossare una tunica con maniche lunghe.

 

[Prol. 4.] Ed ancora, lo scapolare che avvolge le spalle nella forma di una croce, è il simbolo della fede in Cristo, che “sostiene i poveri”, (Sal 147(146-147), 6) reprime ciò che le disturba e permette loro di lavorare senza impedimenti.

Nota: Cassiano così lo descrive nelle Istituzioni Libro I, cap. V: "Indossano anche due piccole cordicelle intrecciate di filo di lino, che i greci chiamano analaboi, che noi possiamo chiamare bretelle (subcinctoria) o cinghie (redimicula) o, correttamente, fasce (rebrachiatoria). Partendo dalla nuca e separandosi in due attorno al collo, si avvolgono attorno ai fianchi, sollevano gli indumenti ampi e lunghi e li chiudono vicino al corpo. E con le braccia così mantenute, essi sono pronti e disponibili per ogni lavoro".

 

[Prol. 5.] La cintura legata intorno ai fianchi respinge tutte le impurità e dichiara, “E' cosa buona per l'uomo non toccare donna” (1 Cor 7,1).

Nota: Evagrio riprende il simbolismo tradizionale che risale a Filone di Alessandria (circa 20 a.C., 45 d. C.) nelle Quaestiones et solutiones in Exodus, I, 19 (Cfr. Es 12,11: “mangerete con i fianchi cinti”.

 

 [Prol. 6.] Indossano la melota (mantello di pelle di montone o pecora) coloro che “portano sempre nei loro corpi la morte di Gesù”: (2 Cor 4, 10) e così imbavagliano tutte le passioni irrazionali del corpo, mortificando i vizi dell'anima con la loro adesione alle cose buone; amano la povertà ed evitano l'avarizia in quanto madre dell'idolatria (Cfr. Col 3, 5).

Nota: Nella traduzione della Bibbia dei LXX il nome di melota viene dato al mantello dei profeti, soprattutto di Elia (1 Re 19,13 e 19: 2 Re 2,8.13.14). Le pelli degli animali sono simbolo della mortificazione secondo un’esegesi tradizionale. Si veda per es. Origene, In Exodum tractatus XIII, 5 e Gregorio di Nissa, Oratio Catechetica, VIII, 4.

Per quanto riguarda la povertà si veda Basilio, Le Grandi Regole, XXII: “... dobbiamo cercare di essere gli ultimi di tutti, ... colui che si abbassa con l'umiltà al rango più trascurabile deve naturalmente anche cercare ciò che c'è di più povero in fatto di vestiti”.

 

[Prol. 7.] Il bastone è un albero di vita per tutti coloro che lo tengono, un fermo sostegno per coloro che si appoggiano su di esso proprio come [si appoggiano] su Cristo (Cfr. Pr 3,18).

Nota: Il bastone come albero di vita può essere stato suggerito da 2 Re 4,29, dove Eliseo affida il suo bastone a Giezi per far risuscitare un bambino. Anche Cassiano cita esplicitamente questo testo biblico, ma con un diverso simbilismo. La definizione data da Evagrio si appoggia sull'assimilazione dell'albero della vita (Gen 2,9) a Cristo. Il versetto dei Proverbi 3, 18 è relativo alla saggezza ed a Cristo sono sempre collegate le espressioni della Scrittura concernenti la saggezza.

 

[Prol. 8] Tali sono le realtà di cui l’abito è, in modo riassuntivo, il simbolo; e queste sono le parole che sempre dicono loro i Padri: “La fede, o figli, è confermata dal timore di Dio e [questo timore] a sua volta [è rafforzato] dall’astinenza. Quest'ultima [virtù] diventa incrollabile grazie alla perseveranza ed alla speranza: da queste due nasce l’impassibilità [apatheia], che ha per figlia la carità; la carità è la porta della conoscenza naturale, alla quale succedono la teologia e la beatitudine suprema".

Nota: Evagrio, dopo aver parlato attraverso il simbolismo dell’abito di ciò che sono i monaci “in realtà”, espone in modo schematico la loro dottrina, attribuendo queste parole ai “Padri” del deserto. Questo schema abbraccia tutta la vita spirituale, così come la concepisce Evagrio.

La “conoscenza naturale” è la scienza delle nature create, che si distingue dalla conoscenza di Dio o “teologia”, come dice dopo.

 

[Prol. 9.] E così, riguardo al santo abito ed all'insegnamento degli anziani, le cose che abbiamo detto dovrebbero per ora bastare. Ma riguardo alla vita pratica e conoscitiva (letteralmente: gnostica), mi propongo ora di descrivere in dettaglio non tutto ciò che abbiamo visto o udito, ma solo ciò che ci è stato insegnato di a dire agli altri [da parte degli anziani]. Abbiamo condensato e ripartito le questioni riguardanti la vita pratica in cento capitoli e le questioni riguardanti la dottrina gnostica in seicentocinquanta. Abbiamo nascosto ed oscurato alcune cose, in modo da “non dare le cose sante ai cani e non gettare le perle davanti ai porci” (Mt 7, 6). Ma ciò sarà chiaro a coloro che si sono impegnati sulle stesse tracce degli anziani.

Nota: Evagrio divide la vita spirituale in due grandi parti: vita pratica e vita conoscitiva, o gnostica. Egli presenta la sua dottrina come insegnamento tradizionale dei monaci del deserto e annuncia i suoi tre libri riguardanti i monaci: il “Trattato pratico” (Praktikos) in cento capitoli (per i monaci in via di formazione), il “Trattato della conoscenza” (Gnostikos) in cinquanta capitoli (per i monaci già formati) ed i “Problemi gnostici” (Kephalaia gnostika) in sei centurie ognuna con novanta sentenze.

 

 

TRATTATO PRATICO

CENTO CAPITOLI

 

1. Il Cristianesimo è l'insegnamento di Cristo, nostro Salvatore, composto da: pratica (ascetica), fisica e teologia.

Nota: Pratica, fisica e teologia non devono essere qui intese come tre scienze teoriche ed astratte, bensì per Evagrio esse designano le tre tappe della vita spirituale. La pratica, o vita attiva ed ascetica, è l’oggetto di questo trattato, la fisica è la scienza naturale o contemplazione degli esseri creati, tappa che precede la teologia, intesa non come scienza discorsiva, ma unitiva di Dio. Queste due ultime tappe sono quelle che nel Prologo, 9, Evagrio chiama vita conoscitiva (o gnostica). Evagrio presenta questa dottrina, non senza qualche paradosso, come il “cristianesimo” stesso e l’insegnamento dello stesso Gesù.

 

2. Il Regno dei Cieli è l’impassibilità dell'anima, accompagnata dalla vera conoscenza degli esseri.

Nota: Ciò che Evagrio chiama “Regno dei Cieli” è la “conoscenza naturale” o “conoscenza degli esseri”, alla quale si giunge tramite l’impassibilità, che è il fine della vita pratica (la “practiké”). Evagrio la chiama “vera” per distinguerla dalla “conoscenza falsa”, “falsa contemplazione”, che si ferma all’aspetto materiale degli oggetti sensibili e che è condivisa dai demoni e dagli uomini che non vivono secondo la “practické”.

 

3. Il Regno di Dio è la conoscenza della Santa Trinità. Questa conoscenza ha la stessa estensione della capacità dell’intelletto, ma supera la sua incorruttibilità.

Nota: Evagrio fa una distinzione tra “Regno dei Cieli” e “Regno di Dio”, ed intende quest’ultimo come la conoscenza e la contemplazione di Dio. La conoscenza della Trinità supera l’incorruttibilità dell’intelletto, poiché a quest’ultima corrisponde la conoscenza degli esseri (o contemplazione naturale) definita come “Regno dei Cieli”. Solo la conoscenza della Trinità colma l’intelletto (“ha la stessa estensione della capacità dell’intelletto”, oppure è “coestensiva con la sua sostanza”), poiché essa è il fine per il quale è stato creato.

In conclusione si vede l’unità di questi tre capitoli: il “cristianesimo” deve condurre al “Regno di Dio”, cioè alla conoscenza della Trinità, avendo come tappe preliminari l’impassibilità, acquisita con la “practiké”, e la conoscenza degli esseri o “Regno dei Cieli”. Così si trovano definiti, all’inizio del libro, il posto ed il ruolo della “practiké”.

 

4. Ciò che si ama, lo si desidera ardentemente, e ciò che si desidera, si lotta per acquisirlo; se ogni piacere comincia dal desiderio, il desiderio nasce dalla sensazione, poiché ciò che non è soggetto alla sensazione è anche libero dalla passione.

Nota: Evagrio inizia con l’affermare il primato della sensazione, generatrice del desiderio e di tutte le altre passioni; per raggiungere l’impassibilità, fine della “practiké”, occorre sottrarsi alle sensazioni, ovvero praticare l’anacoresi.

 

5. Contro gli anacoreti i demoni ingaggiano un combattimento senza armi; ma contro coloro che si esercitano alla virtù nei monasteri o nelle comunità [cenobitiche] i demoni armano i fratelli più negligenti. Questa seconda battaglia è molto più leggera della prima, poiché non si possono trovare sulla terra uomini più rancorosi dei demoni, o [capaci] al tempo stesso di prendersi in carico tutta la loro malvagità.

Nota: L’anacoreta non è al sicuro dai demoni e, quindi, dalle passioni. Anzi, mentre contro i cenobiti i demoni agiscono per interposta persona, contro gli anacoreti lottano “senza armi”, letteralmente “nudi”, ovvero senza intermediari. Secondo la metafisica di Evagrio ciò che distingue gli uomini dai demoni non è una differenza di natura, ma la sovrabbondanza di collera e di cattiveria in questi ultimi.

 

SUGLI OTTO PENSIERI

6. Vi sono otto principali tipi di pensieri generici che contengono in sé tutti i pensieri: primo, quello della gola, poi quello della fornicazione, terzo quello dell'avarizia, quarto quello della tristezza, quinto quello della collera, sesto quello dell’accidia, settimo quello della vanagloria ed ottavo quello dell'orgoglio. Non dipende da noi se questi pensieri [tentatori] agitano l'anima o no; ma se rimangono [in noi] o non rimangono, o se suscitano o non suscitano in noi le passioni, ciò dipende da noi.

Nota: Evagrio ci dice che la guerra che i demoni fanno agli anacoreti è innanzitutto quella dei pensieri. Il termine "pensieri generici" significa che questi pensieri sono "i più generali" ed anche che sono "generatori" di altri pensieri.

 

 [I. La gola]

7. Il pensiero della gola suggerisce al monaco il crollo improvviso della sua ascesi; questo pensiero gli rappresenta lo stomaco, il fegato, la milza e l'idropisia, insieme ad una lunga malattia, alla mancanza del necessario ed alla indisponibilità di medici. Spesso lo porta a ricordare quei fratelli che hanno sofferto queste cose. A volte inganna persino coloro che hanno sofferto di questo genere di cose mandandoli a visitare coloro che praticano l'astinenza, per raccontare loro tutte le loro disgrazie e come ciò sia derivato dal loro ascetismo.

Nota: La gola qui non è da intendere come il desiderio eccessivo di cibo, bensì la tentazione che spinge il monaco ad attenuare i rigori del suo digiuno, col pretesto che questi rigori nuocciano alla sua salute. Timore non del tutto infondato, visto che Evagrio, alla fine della sua vita come dice Palladio nella Storia Lausiaca, soffriva di alcuni mali legati alla malnutrizione.

 

[II. La fornicazione]

8. Il demone della fornicazione costringe a desiderare seducenti corpi; soprattutto attacca violentemente coloro che praticano l'astinenza, in modo che la sospendano, persuasi che non otterranno nulla. Contaminando l'anima, il demone la piega verso atti vergognosi, la induce a pronunciare certe parole e ad ascoltarne uguali in risposta, come se l’oggetto (dei suoi desideri) fosse effettivamente lì per essere visto.

 

[III. L’avarizia]

9. L’avarizia suggerisce una lunga vecchiaia, mani impotenti a lavorare, fame e malattie devono che ancora venire, l'amarezza della povertà e la vergogna di ricevere le necessità [della vita] dagli altri.

Nota: Per comprendere la natura di questa tentazione bisogna tener conto che il solitario doveva provvedere ai propri bisogni col lavoro delle sue mani, senza contare sulla carità dei fratelli. Accettare l'elemosina era una cosa considerata umiliante e da qui poteva nascere il sentimento di insicurezza che forniva un appiglio al demone dell'avarizia.

 

[IV. La tristezza]

10. La tristezza a volte nasce da desideri frustrati, ma a volte è il risultato della collera. Quando i desideri sono frustrati, sopraggiunge così: alcuni pensieri per prima cosa afferrano l'anima e le ricordano la casa, i genitori ed il suo corso di vita precedente. Quando vedono l'anima seguirli senza resistenza e dissiparsi interiormente nei piaceri, la prendono e la immergono nella tristezza, ricordandole che le cose precedenti sono sparite e non possono essere recuperate a causa del modo di vivere attuale; allora l'anima miserabile, quanto più si è lasciata attirare dai primi pensieri, tanto più viene abbattuta e umiliata dai secondi.

 

[V. La collera]

11. La collera è una passione molto irruente. Si dice che sia un'ebollizione della parte irascibile (dell’anima) ed un movimento di indignazione contro il colpevole di un oltraggio od il presunto colpevole. Essa rende l'anima furiosa tutto il giorno, ma è soprattutto nelle preghiere che ghermisce l’intelletto, rappresentandole il volto della persona che l’ha contristata. Talvolta è anche persistente, si trasforma in rancore e [così] provoca turbamenti notturni, con debolezza corporea, pallore ed attacchi di bestie velenose. Questi quattro indizi, che fanno seguito al rancore, possono essere accompagnati da molti altri pensieri [maligni].

 

[VI. L’accidia]

12. Il demone dell'accidia, che è anche chiamato il demone del mezzogiorno (Sal 91(90),6), è il più gravoso di tutti i demoni. Assedia il monaco verso la quarta ora (10 del mattino), circondando la sua anima fino all'ottava ora (2 del pomeriggio). Innanzitutto gli fa sembrare che il sole rallenti o si fermi, così che la giornata sembra durare cinquanta ore. Quindi costringe il monaco a continuare a guardare fuori dalla finestra, a precipitarsi fuori dalla sua cella, ad osservare il sole per vedere quanto tempo manca alla nona ora [le 3 del pomeriggio] ed a guardarsi intorno in ogni direzione nel caso ci fosse qualcuno dei fratelli. Poi lo assale con l'odio verso il luogo in cui è, il suo modo di vivere ed il lavoro delle sue mani; inoltre gli ispira l’idea che l'amore tra i fratelli è sparito e non c'è nessuno che lo consoli (Cfr. Lam 1,17; 1,21). Se qualcuno ha recentemente contristato il monaco, il demone aggiunge anche questo per amplificare la sua avversione [per queste cose]. Gli fa desiderare altri posti dove può facilmente trovare tutto ciò di cui ha bisogno e praticare un mestiere più facile e conveniente. Dopotutto, compiacere il Signore non dipende dal luogo, aggiunge il demone; Dio può essere adorato ovunque. Aggiunge a ciò il ricordo dei suoi parenti e del suo precedente modo di vivere, e gli descrive una lunga vita, ponendo davanti ai suoi occhi una visione delle fatiche che comporta la vita ascetica; quindi, mette in moto, come si suol dire, ogni macchinazione per spingere il monaco a lasciare la sua cella e fuggire il campo di battaglia. Nessun altro demone viene subito dopo questo; anzi, dopo la lotta l'anima riceve a sua volta uno stato di pace ed una gioia indicibile

 

[VII. La vanagloria]

13. Il pensiero della vanagloria è un pensiero particolarmente sottile che facilmente si dissimula in colui che sta vivendo in modo virtuoso, facendogli desiderare di rendere noti i suoi sforzi e di procurarsi la gloria che viene dagli uomini. Questo pensiero gli fa immaginare demoni che gridano, donne da lui guarite ed una folla che vuole toccare i suoi vestiti; gli profetizza persino l’ordinazione al sacerdozio, collocando alla sua porta persone che lo cercano; ed anche se resiste sarà portato via [per essere ordinato] con la forza. E dopo averlo fatto esaltare con queste vuote speranze, improvvisamente va via, abbandonandolo alle tentazioni sia del demone dell'orgoglio, che di quello della tristezza, che provoca in lui altri pensieri opposti alle sue speranze precedenti. A volte lo consegna anche al demone della fornicazione, lui che, poco prima, era diventato [nel suo pensiero] un santo e venerato sacerdote.

 

[VIII. L’orgoglio]

14. Il demone dell’orgoglio conduce l'anima alla peggiore caduta. La sollecita a non riconoscere l'aiuto di Dio, a pensare che sia lei stessa la causa delle sue buone azioni e ad essere arrogante nei confronti dei fratelli considerati poco intelligenti perché non condividono la stessa stima nei suoi confronti. Questo demone è seguito dalla collera, dalla tristezza e, quello che è il male supremo, il turbamento dello spirito, la follia e la visione di folle di demoni nell'aria.

 

 

CONTRO GLI OTTO PENSIERI

15. L’intelletto vagabondo è reso stabile dalla lettura, dalla veglia e dalla preghiera; la concupiscenza infiammata è placata dalla fame, dalla fatica e dalla solitudine; l’irascibilità è placata dal canto dei Salmi, dalla pazienza e dalla misericordia. Ma tutte queste pratiche devono essere messe in atto al momento opportuno e nella giusta misura; poiché ciò che viene fatto al momento sbagliato o fuori misura dura poco, e ciò che dura poco è più dannoso che benefico.

Nota: Evagrio ha ricevuto dalla tradizione filosofica la teoria platonica della tripartizione dell'anima, che sta alla base della sua concezione antropologica. Queste tre parti costitutive dell'anima sono la parte razionale (l'intelletto), la parte irascibile e la parte concupiscibile. Per giungere all'impassibilità occorre guarire le due ultime parti dell'anima, da dove scaturiscono le passioni, le malattie dell'anima. La praktikè è detta "il metodo spirituale che purifica la parte passionale dell'anima" (Cap. 78) e quando questa purificazione è realizzata l'intelletto non è più oscurato dai pensieri "che salgono dalla parte passionale dell'anima" (Cap. 74) e può dedicarsi senza impedimenti alla sua attività che è la conoscenza. A quel punto la parte irascibile e concupiscibile agiscono anch'esse secondo natura: la concupiscibile desiderando la virtù ed il piacere che accompagna la conoscenza spirituale, l'irascibile lottando per la salvaguardia di questi beni e per proteggere l'intelletto contro i demoni che cercano di impadronirsene.

 

[I. La gola]

16. Quando la nostra anima anela per una varietà di cibi diversi, allora la sua razione deve essere ridotta a pane ed acqua perché sia grata anche per un semplice boccone. È la sazietà che desidera la varietà nel cibo, mentre la fame considera una benedizione il solo avere la sazietà di pane.

 

[II. La fornicazione]

 17. Un grande aiuto alla continenza è il ridotto utilizzo dell'acqua. Ti convincano di ciò i trecento israeliti che sconfissero Madian in compagnia di Gedeone (Gdc 7, 5-7).

 

[III. L’avarizia]

 18. Come la vita e la morte non possono coesistere nello stesso soggetto allo stesso tempo, così anche la carità non può coesistere con le ricchezze. La carità distrugge non solo le ricchezze, ma anche questa nostra stessa vita transitoria.

Nota: Riferendosi a Giovanni 15, 13: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici", Evagrio dice che la carità è distruttrice della vita terrena e, quindi, delle ricchezze. La carità è considerata una specie di morte nel senso paolino del termine. Si veda Romani 6,8 in particolare: "Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui".  Attraverso questa morte si accede alla conoscenza che è la vera via dell'intelletto, poiché la carità è "la porta della conoscenza naturale" come Evagrio dice in Prologo 8.

 

[IV. La tristezza]

 19. Colui che fugge tutti i piaceri mondani è un inaccessibile torre per il demone della tristezza. Perché la tristezza è la privazione di un piacere che è presente oppure è atteso; quindi, è impossibile per noi scacciare questo nemico finché abbiamo un attaccamento appassionato a qualche bene terreno. Esso tende la sua trappola e produce la tristezza proprio dove vede che ci conducono le nostre inclinazioni.

 

[V. La collera]

 20. La collera e l'odio amplificano l'irascibilità, mentre la compassione e la gentilezza diminuiscono anche quella che è presente.

21. “Il sole non tramonti sulla nostra ira” (Ef 4,26), in modo che i demoni, insorgendo di notte, non terrorizzino l'anima e rendano l’intelletto più debole per il combattimento il giorno successivo. In effetti, le visioni terrificanti sono prodotte dal turbamento della parte irascibile; ed inoltre, niente porta l’intelletto a disertare [il combattimento] come la parte irascibile quando viene sconvolta.

 22. Quando, a causa di un occasionale pretesto, la parte irascibile della nostra anima viene profondamente turbata, allora i demoni ci suggeriscono quanto è bello ritirarsi in solitudine per impedirci di mettere fine a ciò che aveva causato la nostra tristezza e di liberarci dal nostro turbamento. Ma quando la nostra parte concupiscibile si infiamma, allora, al contrario, si impegnano per renderci socievoli, chiamandoci duri ed incivili, così che, desiderando degli esseri viventi, entriamo in contatto con degli individui. Non dobbiamo obbedire loro, ma invece dobbiamo fare il contrario.

23. Non concederti al pensiero della collera combattendo mentalmente la persona che ti ha contristato, né al pensiero della fornicazione trascorrendo la maggior parte del tempo in fantasie di piaceri. Perché l'uno oscura l'anima, l'altro invita a farci bruciare dalla passione; entrambi inquinano il tuo intelletto. E come al momento della preghiera ti rappresenti tali immagini e non riesci ad offrire una preghiera pura a Dio, così tu cadrai immediatamente vittima del demone dell’accidia. Questo demone attacca prontamente approfittando di tali disposizioni d’animo e, come un cane con una giovane cerbiatta, fa a pezzi l'anima.

24. La natura della parte irascibile è quella di combattere i demoni e di lottare in vista del piacere, qualunque esso sia. Per questo motivo gli angeli ci suggeriscono piaceri spirituali e la beatitudine che viene da essi, per incoraggiarci a dirigere la nostra irascibilità verso i demoni. Questi, però, ci trascinano verso desideri mondani e costringono violentemente la parte irascibile ad andare contro la natura ed a combattere gli esseri umani, così da oscurare l’intelletto e separarlo dalla Conoscenza, rendendolo un traditore delle virtù.

Nota: In questo capitolo Evagrio distingue tra un'attività naturale della parte irascibile ed una attività "contro la natura". La parte irascibile, come la parte concupiscibile dell'anima e del corpo stesso, è cosa naturalmente buona ed è stata donata all'uomo per essergli di aiuto nella guerra contro i demoni.

 

 25. Guardati bene dal far partire uno dei fratelli per averlo irritato, perché [a causa di ciò] tu non potrai mai sfuggire durante la tua vita al demone della tristezza, che sarà sempre per te un ostacolo al momento della preghiera

 26. I doni estinguono il rancore: credi in Giacobbe che, grazie a dei doni, ammansì Esaù quando gli venne contro con quattrocento uomini (Gen 32). Ma, poiché siamo poveri, suppliamo alla nostra indigenza con l'ospitalità a tavola.

 

[VI. L’accidia]

 27. Quando siamo oppressi dal demone dell’accidia, è allora che con le lacrime dividiamo la nostra anima in due parti: una parte incoraggia l'altra e, seminando buone speranze dentro di noi, confortiamoci con il canto di Davide: “Perché ti rattristi, anima mia, perché ti agiti in me? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio.” (Sal 42(41), 6).

 28. Non si deve abbandonare la cella nel tempo della tentazione, per quanto siano plausibili i pretesti che ci inventiamo: dobbiamo stare seduti all'interno, essere perseveranti e coraggiosamente ricevere tutti gli avversari, in particolare il demone dell’accidia che, essendo il più malvagio di tutti, opprime l’anima al massimo grado; poiché fuggire da tali conflitti e cercare di evitarli orienta l’intelletto ad essere pigro, pauroso e fuggitivo.

29. Il nostro santo maestro, che aveva una grande esperienza, diceva: “Il monaco deve essere sempre pronto come se dovesse morire domani, ma deve anche trattare il suo corpo come se dovesse vivere con esso per molti anni. Il primo criterio tronca i pensieri dell’accidia e rende il monaco più zelante, mentre il secondo mantiene il suo corpo in buona salute e mantiene sempre uguale l’astinenza”.

Nota: Ai margini del manoscritto siriaco viene precisato che questo maestro è Macario, verosimilmente Macario l'Egiziano (detto anche "il Grande") che Evagrio menziona esplicitamente al capitolo 93.

 

[VII. La vanagloria]

 30. È difficile sfuggire al pensiero della vanagloria, dal momento che tutto quello che fai per sbarazzartene diventa per te l'occasione per una rinnovata vanagloria. I nostri giusti pensieri non sono tutti contrastati dai demoni, ma talvolta ad essi si oppongono i vizi di cui siamo affetti.

 31. Ho osservato che il demone della vanagloria viene cacciato via da quasi tutti gli altri demoni; ma, quando vengono sconfitti i suoi rivali, si fa avanti senza vergogna, proclamando al monaco quanto sono grandi le sue virtù.

 32. Colui che ha raggiunto la conoscenza (cioè la contemplazione spirituale) e raccolto il piacere che essa porta, non si lascerà più persuadere dal demone della vanagloria che gli pone davanti tutti i piaceri del mondo. Perché cosa potrebbe offrirgli di meglio della contemplazione spirituale? Ma nella misura in cui non abbiamo assaporato il sapore della conoscenza, dobbiamo impegnarci con entusiasmo alla pratica, dimostrando a Dio che il nostro obiettivo è quello di fare di tutto in vista della sua conoscenza.

 

[VIII. L’orgoglio]

 33. Ricordati della tua vita trascorsa e delle tue vecchie trasgressioni, come eri soggetto alle passioni, tu che sei giunto all’impassibilità grazie alla misericordia di Cristo e come poi hai lasciato il mondo che ti aveva umiliato così frequentemente ed in tanti modi. Rifletti ancora su ciò: chi ti custodisce nel deserto e scaccia i demoni che digrignano i denti contro di te? Pensieri di questo tipo infondono umiltà e negano l'ingresso al demone dell’orgoglio.

 

SULLE PASSIONI

 

34. Se abbiamo di certe cose dei ricordi pieni di passione, è perché una volta abbiamo accolto queste stesse cose con passione. Al contrario, tutte quelle cose che accogliamo ora con passione, le ricorderemo in seguito con passione. Quindi, chiunque ha sconfitto i demoni operando attivamente, farà poco caso ai modi da essi impiegati per molestarlo. La battaglia immateriale è più difficile della battaglia materiale.

Nota: I sei capitoli seguenti, 34-39, studiano la fonte ed il meccanismo che fa scatenare le passioni. Il capitolo 4 ha posto all'origine delle passioni la sensazione; qui Evagrio precisa che può essere sia l'origine diretta, per contatto con gli oggetti, sia l'origine indiretta per l'intermediazione dei ricordi. Così succede agli anacoreti che sono lontani dagli oggetti a causa del loro stato. Presso di loro sono soprattutto i pensieri che scatenano le passioni (Cfr. Cap. 5-33) e per questo motivo Evagrio riprende qui l'esame del meccanismo delle passioni a partire dai pensieri. Prima di affrontare la "battaglia immateriale", quella contro i pensieri, bisogna aver trionfato su quella materiale che sorge in occasione degli oggetti, poiché quella immateriale è ben più difficile.

 

 35. Le passioni dell'anima hanno origine dagli esseri umani, quelle del corpo [provengono] dal corpo. E mentre le passioni del corpo vengono eliminate dall'astinenza, quelle dell'anima dall'amore spirituale.

 36. I demoni che presiedono alle passioni dell'anima (cioè l’ira) persistono ostinatamente fino alla morte; quelli che presiedono alle passioni del corpo si ritirano più rapidamente. Ed altri demoni sono come il sole che sorge e tramonta, interessando solo una parte dell'anima; ma il demone del mezzogiorno (cioè l’accidia) generalmente avvolge l'intera anima e soffoca l’intelletto. Per questo motivo la vita solitaria è dolce dopo che sono state eliminate le passioni; allora rimangono solo ricordi puri e la lotta del monaco non consiste più nel prepararlo a combattere, ma piuttosto nella contemplazione [della lotta] in sé.

 37. Si deve riflettere se sia la rappresentazione a scatenare le passioni o le passioni a scatenare la rappresentazione. Alcuni propendono per la prima opinione, altri per la seconda.

Nota: La prima opinione, che sia la rappresentazione (o il pensiero) a scatenare le passioni, sembra essere derivata dagli stoici. Per esempio Epitteto dice: “Ciò che turba gli uomini non sono le cose in se stesse, ma le opinioni che si fanno sulle cose". La seconda opinione, che siano le passioni a scatenare la rappresentazione, è di più difficile attribuzione: forse è formulata da Aristotele. Evagrio sembra essere del parere che probabilmente sono vere entrambi, a seconda dei casi. 

 

38. Di solito le passioni sono suscitate dalle sensazioni: se sono presenti sia la carità che l'astinenza non saranno suscitate; ma, se assenti, saranno eccitate. La parte irascibile richiede più rimedi della parte concupiscibile, ed è a causa di ciò che la carità è chiamata "la più grande" (1 Cor 13,13), perché mette un freno alla parte irascibile; e quindi il santo Mosè nel suo trattato sulla natura la chiama simbolicamente ofiomaco, cioè "combattente di serpenti" (Lv 11,22).

Nota: Mosè possiede la virtù della carità in modo eminente (Cfr. Nm 12, 3: "Mosè era un uomo assai umile, più di qualunque altro sulla faccia della terra") e con ragione lo Spirito Santo aveva mostrato le sue vie a Mosè (Cfr. Sal 103(102),7: "Il Signore ... ha fatto conoscere a Mosè le sue vie"). Il trattato sulla natura di Mosè non è altro che l'elenco degli animali commestibili del cap. 11 del Levitico. In particolare al versetto 22 cita l'ofiomaco, letteralmente "combattente di serpenti" (Tradotto nella Bibbia C.E.I. con "cavallette").

 

 39. A causa del cattivo fetore che regna nei demoni, l'anima è solita infiammarsi contro i pensieri [tentatori] quando li percepisce avvicinarsi, essendo colpita dalla passione del demone che la tormenta.

Nota: Nella Vita di Antonio, cap. 63, di Atanasio, viene detto che: "Antonio, lui soltanto, sentì un odore disgustoso e penetrante... Tutti riconobbero allora che il fetore proveniva dal demonio".

 

ISTRUZIONI

 40. Non è possibile in ogni circostanza conformarsi alla norma [di vita] abituale, ma è necessario aver riguardo alle circostanze e sforzarsi di compiere il meglio possibile i comandamenti praticabili in quel momento. Su queste circostanze i demoni stessi non sono impreparati. Infatti, nei loro atti contro di noi ci impediscono di realizzare ciò che si può fare e ci costringono a intraprendere ciò che non può essere fatto. È così che impediscono ai malati di rendere grazia per le loro sofferenze e di sopportare pazientemente coloro che badano a loro; di contro [questi demoni] esortano i deboli a digiunare e quelli che sono gravati dal male a cantare i Salmi stando in piedi.

Nota: Dopo una serie di capitoli dedicati ai pensieri (Cap. 6-33), ed un'altra serie dedicata alle passioni (Cap. 34-39), ora viene una serie dedicata ai demoni (Cap. 40-53). La "norma" non è una regola scritta, cosa sconosciuta nei centri monastici di Scete e di Nitria a quel tempo, ma il regime di vita che i monaci si imponevano seguendo l'insegnamento dei maestri e le usanze fissate dalla tradizione. Qui il consiglio è quello di addolcire il proprio regime di vita tenendo conto delle circostanze. Evagrio parla anche della tentazione dei demoni che spingono il monaco ad un'ascesi che supera le sue possibilità.

 

 41. Quando siamo costretti a trascorrere del tempo nelle città o nei villaggi, dobbiamo soprattutto mantenere l’astinenza nelle occasioni in cui interagiamo con persone laiche, per timore che la nostra mente, diventata pesante e privata dall’abituale vigilanza a causa della attuale circostanza, non agisca contro la sua volontà e non diventi fuggitiva, attaccata dai demoni.

 42. Non pregare immediatamente quando sei tentato; prima pronuncia alcune parole con rabbia a chi ti tenta. Perché quando la tua anima è soggetta a pensieri tentatori, la preghiera non può essere pura. Ma se tu dici loro qualcosa con rabbia, li confondi e distruggi le rappresentazioni suggerite dai tuoi nemici. Questo è l’effetto  naturale della collera anche nel caso di buone rappresentazioni.

43. È necessario imparare a conoscere le differenze tra i demoni e di interpretare le diverse occasioni della loro venuta; noi sapremo dai pensieri - ed i pensieri li riconosciamo dagli oggetti che raffigurano - quali demoni sono meno frequenti e più pesanti, quali sono più frequenti e più leggeri, e quali sono quelli che ci assalgono all'improvviso e trascinano l’intelletto alla bestemmia.

Queste cose è necessario saperle, in modo che quando i pensieri iniziano a scatenare ciò che costituisce il loro contenuto e prima che ci allontaniamo troppo dal nostro stato, possiamo rivolgere loro [con ira] delle parole ed indicare quale di loro è presente. In questo modo progrediremo facilmente con l’aiuto di Dio: quanto a loro li faremo fuggire da noi, pieni di ammirazione per noi e sgomenti.

 44. Quando i demoni sono impotenti nella loro lotta con i monaci, si ritirano per un po' e con attenzione notano quali virtù sono nel frattempo [da loro] trascurate; poi all'improvviso attraverso di esse si precipitano dentro e fanno a pezzi la disgraziata anima.

45. I demoni malvagi chiamano in loro aiuto demoni ancora più malvagi di loro per assisterli. Nonostante si oppongano gli uni agli altri per le diverse inclinazioni, essi si accordano unicamente nel cercare la distruzione dell'anima.

46. Non lasciamoci turbare dal demone che trascina l’intelletto a bestemmiare contro Dio e ad immaginare fantasie indicibili che non oso nemmeno mettere per iscritto; né cose del genere devono ostacolare il nostro fervore. Poiché il Signore, “che conosce il cuore”, (At 1,24) sa che finché saremo nel mondo non conosceremo mai una simile follia. L'obiettivo di questo demone è quello di ostacolare la nostra preghiera, in modo da non farci stare davanti al Signore nostro Dio e da non osare più alzare le mani verso Colui contro il quale abbiamo concepito tali pensieri.

47. Segno delle passioni all'interno dell'anima è una parola che pronunciamo o qualche movimento del corpo, attraverso i quali i nemici percepiscono se abbiamo in noi i loro pensieri e se li nutriamo dentro di noi, oppure se li abbiamo rigettati per preoccuparci della nostra salvezza. Perché solo il Dio che ci ha creati, conosce il nostro intelletto e non ha bisogno di segni per sapere ciò che è nascosto dentro il nostro cuore.

48. I demoni preferiscono combattere i secolari per mezzo degli oggetti. Ma attaccano i monaci in primo luogo attraverso i pensieri; infatti, gli oggetti mancano loro a causa della solitudine. E poiché è più facile peccare interiormente che con l'azione, la guerra interiore è più difficile di quella che si fa a causa degli oggetti. L’intelletto è qualcosa che può essere facilmente mosso e difficile da frenare di fronte a proibite fantasie.

49. Non ci viene comandato di lavorare, di vegliare e di digiunare sempre, mentre per noi è legge il fatto che dobbiamo “pregare ininterrottamente” (1 Ts 5,17). Le prime tre attività, che guariscono la parte dell'anima in cui si trovano le passioni, hanno bisogno del nostro corpo per la loro pratica, ed esso è congenitamente troppo debole per tali fatiche; ma la preghiera rende la mente forte e pura in vista della lotta, poiché la mente è formata di sua natura per la preghiera, anche senza il corpo, e per combattere i demoni a favore di tutti le potenze dell'anima.

50. Se un monaco vuole fare esperienza dei crudeli demoni e vuole conoscere la loro arte, deve osservare i suoi pensieri, prendere nota delle loro tensioni, delle loro tregue, dei loro collegamenti, dei loro momenti, e quali demoni fanno una cosa o l’altra, quale demone viene dopo l'altro e quale demone non segue un altro; e chieda a Cristo i significati di queste cose. I demoni non sopportano coloro che si dedicano alla vita pratica con maggiore conoscenza, poiché desiderano “colpire nell’ombra i retti di cuore”. (Sal 11(10), 2).

51. Attraverso l'osservazione tu scoprirai che due dei demoni sono molto veloci, in modo che quasi sorpassano il movimento della nostra mente: sono il demone della fornicazione e quello che ci trascina a bestemmiare Dio. Ma il secondo si trattiene poco, mentre il primo, purché i nostri pensieri che scatena non siano accompagnati dalla passione, non sarà per noi un impedimento alla conoscenza di Dio

52. Separare il corpo dall’anima appartiene solo a Colui che li ha uniti; ma separare l'anima dal corpo appartiene anche a colui che desidera la virtù. Il ritiro in solitudine, cioè l’anacoresi, è stato chiamato dai nostri Padri meditazione sulla morte e fuga dal corpo.

53. Coloro che nutrono troppo bene la loro carne e che “si lasciano prendere dai desideri della carne” (Rm 13,14) devono biasimare se stessi, non la carne. Poiché conoscono la grazia del Creatore coloro che hanno raggiunto l'impassibilità (apatheia) dell'anima per mezzo del corpo, ed in una certa misura si applicano alla contemplazione degli esseri.

Nota: Il corpo è stato donato da Dio agli intelletti decaduti per il loro bene, per aiutarli sulla strada della salvezza. Il corpo è loro utile per esercitare la praktiké ed attraverso di essa ottenere l'impassibilità dell'anima, finché siamo sottomessi alle passioni. Ed ancora, è grazie al corpo, partendo dalla conoscenza sensibile, che l'intelletto decaduto può giungere alla conoscenza spirituale ed in certo modo percepire la contemplazione degli esseri.

 

QUELLO CHE SUCCEDE DURANTE IL SONNO

 54. Quando, nelle fantasie che si presentano durante il sonno, i demoni attaccano la parte concupiscibile dell'anima e ci mostrano incontri con gli amici, banchetti di famiglia, canti di donne ed altri spettacoli simili che generano piacere, e noi con entusiasmo li riceviamo, è perché in quella parte dell’anima siamo malati e vi domina passione. E quando invece i demoni turbano la nostra parte irascibile, costringendoci a seguire sentieri pericolosi e facendo comparire uomini armati e bestie velenose o carnivore, e noi siamo terrorizzati da questi sentieri e fuggiamo, inseguiti da queste bestie e da questi uomini, allora dobbiamo prenderci cura della parte irascibile e, invocando Cristo nelle nostre veglie, utilizzare i rimedi già descritti.

Nota: Come indica il sottotitolo, i capitoli 54-56 concernono i sogni; questi sono esaminati in quanto forniscono una diagnostica sulla santità dell'anima e la sua situazione riguardo all'impassibilità. Con questa sezione inizia una seconda parte del libro: dopo aver mostrato come il monaco può rimediare alle passioni, scatenate in lui dai pensieri, che a loro volta sono suggeriti dai demoni, Evagrio indica quali sono i segnali attraverso i quali si può riconoscere che ci si avvicina all'impassibilità.

 

55. Se durante il sonno non ci sono immagini che accompagnano i movimenti naturali del corpo, allora questo significa che l'anima è in qualche misura in buona salute: ma la formazione di immagini è un segno di cattiva salute. Se si tratta di immagini indefinite sono segno di una vecchia passione, mentre le immagini definite sono il segno di una ferita recente.

Nota: Dicendo che l'anima è "in buona salute" intende dire impassibile, poiché la santità dell'anima non è altro che l'impassibilità. L'assenza di sogni erotici quando si producono i "movimenti naturali", è la prova che l'anima è giunta all'impassibilità, ma solo "in qualche misura". Evagrio ci fa capire che l'impassibilità perfetta non conosce più questi movimenti, come lo pensava Origene (In Ps. 15,7, PG 12, 1216A). Si veda anche la critica di san Gerolamo su questo punto nella Lettera 133,3.

 

56. Le prove dell’impassibilità (apatheia) le riconosciamo durante il giorno dai pensieri e di notte dai sogni.

E noi diremo che, se l’'impassibilità è la salute dell'anima, il suo cibo è la conoscenza, che è l'unico mezzo con cui possiamo essere uniti alle sante Potestà, poiché la nostra unione con gli [esseri] incorporei avviene naturalmente a causa della somiglianza della nostra indole con la loro.

Nota: La conoscenza è il nutrimento dell'anima, nel senso che la conoscenza tiene salda l'anima nell'impassibilità e la fa progredire nella vita spirituale. La fine del capitolo giustifica questa affermazione: la conoscenza spirituale ci unisce agli angeli e, in virtù del principio platonico che l'unione suppone la similitudine, essa implica che noi siamo come gli angeli, cioè perfettamente impassibili.

 

LO STATO PROSSIMO ALL’IMPASSIBILITÀ

 57. Sono due gli stati pacati dell'anima: il primo nasce da sementi naturali; mentre l'altro è generato dal ritiro dei demoni. Al primo si accompagna l’umiltà, la compunzione, le lacrime, un desiderio illimitato del Divino ed uno zelo incommensurabile per il lavoro. Dal secondo sorge la vanagloria che, accompagnata dall’orgoglio, trascina in rovina il monaco quando gli altri demoni se ne vanno. Chi, dunque, rispetta i limiti del primo stato pacato riconoscerà più rapidamente gli attacchi dei demoni.

Nota: I capitoli 57-62 trattano dello stato che precede immediatamente l'impassibilità e delle forme inferiori di questa. Lo stato pacato dell'anima è altra cosa rispetto all'impassibilità, come lo mostra il parallelismo in Otto spiriti: "Il viandante che cammina di buona lena raggiungerà presto la città e il monaco temperante arriverà presto ad uno stato di pace; il viandante lento si fermerà solo, all'aperto, ed il monaco ghiottone non raggiungerà la casa dell'apátheia (l'impassibilità)". Evagrio distingue qui due tipi d'impassibilità, la cui natura verrà precisata nei capitoli seguenti.

Le sementi naturali sono le virtù: Evagrio riceve l'idea stoica che le virtù sono le sementi messe naturalmente in noi le quali, se coltivate a dovere, producono i loro frutti. 

 

58. Il demone della vanagloria si oppone al demone della fornicazione ed è impossibile per entrambi attaccare l'anima allo stesso tempo, poiché il primo promette gli onori mentre il secondo conduce al disonore. Nel caso che uno dei due ti si avvicini e ti opprima, forma dentro di te i pensieri del demone avversario e se sei riuscito, come si suol dire, ad usare un chiodo per scacciare l’altro, sappi che sei vicino ai confini dell'impassibilità. Perché il tuo intelletto è abbastanza forte da impiegare pensieri umani per cancellare i pensieri demoniaci. Ma impiegare l'umiltà per scacciare il pensiero della vanagloria, o la continenza per scacciare il pensiero della fornicazione, sarebbe un segno dell’impassibilità più profonda. Tenta di praticare questo metodo a tutti i demoni che si oppongono gli uni agli altri e, nello stesso tempo, arriverai a sapere quale passione ti colpisce di più. Tuttavia, per quanto puoi, supplica Dio che allontani i tuoi nemici in questo secondo modo.

Nota: Scacciare un chiodo con un altro chiodo: proverbio già citato da Aristotele (Politica, 5,11,3) e da Cicerone: "Taluni pensano che occorre scacciare il vecchio amore con un amore nuovo, come un chiodo scaccia l'altro (Tusculanae Disputationes IV,75). Questo proverbio lo si ritrova in Evagrio e, probabilmente sotto la sua influenza, nella Vita di Santa Sincletica dello Pseudo Atanasio e nella Storia Lausiaca di Palladio. Anche Cassiano, senza citare il proverbio e citando Isaia 48,9, raccomanda di utilizzare il pensiero della vanagloria per scacciare lo spirito di fornicazione (Conferenza V, 12).

 

59. Più l’anima progredisce, tanto più forti sono gli antagonisti che si succedono contro di essa. Non sono convinto che siano sempre gli stessi demoni che le rimangono vicini. Questo fatto è meglio conosciuto da coloro che percepiscono le tentazioni in un modo più penetrante e che vedono vacillare l'impassibilità che hanno raggiunto a causa dei successivi assalti dei demoni.

Nota: Il progresso dell'anima per quanto riguarda l'impassibilità può essere misurata dalla qualità e dal vigore dei demoni che l'attaccano. Colui che è entrato nella vita gnostica deve affrontare delle tentazioni che prima non conosceva.

 

 60. La perfezione dell’impassibilità nasce nell'anima dopo la sconfitta di tutti i demoni che si oppongono alla vita pratica; l’impassibilità imperfetta viene considerata in relazione al potere del demone che sta ancora attaccando l’anima.

Nota: In “Pensieri” 15, Evagrio denomina l'impassibilità imperfetta con la "piccola impassibilità", in contrasto con la "salute perfetta". il monaco che si trova nella fase imperfetta può ancora essere vittima del demonio della vanagloria.

 

61. L’intelletto non potrà progredire, né partire per il grande viaggio ed entrare nel luogo degli incorporali se non ha corretto la sua vita interiore. Poiché i turbamenti dell’anima lo fanno ritornare abitualmente nel luogo da cui era partito.

Nota: Il grande viaggio è quello verso la vita gnostica. L'espressione si ricollega al tema filoniano della migrazione spirituale, la cui figura è quella di Abramo. "Entrare nel luogo degli incorporali", ovvero arrivare alla contemplazione spirituale; "se non ha corretto la sua vita interiore", ovvero se non ha raggiunto l'impassibilità.

 

62. Sia le virtù che i vizi accecano l’intelletto: le prime perché non veda i vizi; i secondi per impedirgli di vedere le virtù.

Nota: Lo stato di cecità spirituale provocato dall'impassibilità, di cui si parla qui, è poi descritto nella seguente sezione, in particolare nel capitolo 66, dove appare precisamente la nozione di insensibilità.

 

I SEGNI DELL’IMPASSIBILITÀ

 63. Quando l’intelletto inizia a svolgere le sue preghiere senza distrazioni, allora ha inizio la battaglia, sia di giorno che di notte, contro la parte irascibile dell’anima.

Nota: I capitoli 63-70 concernono le forme superiori dell'impassibilità ed analizzano, sotto i loro diversi aspetti, l'insensibilità dell'intelletto che le caratterizza. "La battaglia contro la parte irascibile": per Evagrio la collera è la tentazione principale dello gnostico, cioè di colui che, avendo raggiunto l'impassibilità, gioisce della contemplazione spirituale.

 

64. Una prova dell’impassibilità si ha quando l’intelletto comincia a vedere la sua propria luce [interiore], quando rimane tranquillo in presenza di visioni durante il sonno e quando guarda gli oggetti con serenità.

Nota: "Vedere la sua propria luce": la visione che l'intelletto ha della sua propria luce nel momento della preghiera è un tema essenziale della mistica evagriana. Questa visione non è possibile senza l'impassibilità.

 

65. L’intelletto è vigoroso quando non immagina qualcosa di questo mondo al momento della preghiera.

66. L’intelletto che, con l'aiuto di Dio, ha completato con successo la propria vita pratica e si è avvicinato alla conoscenza non sente quasi più, o niente del tutto, la parte irrazionale dell'anima, perché  la conoscenza lo rapisce verso cose sublimi e lo separa dalle cose percettibili.

Nota: "Completare la propria vita pratica" significa giungere all'impassibilità, condizione necessaria per "avvicinarsi alla conoscenza".

 

 67. L’anima che possiede l’impassibilità non è quella che rimane indifferente verso gli oggetti, ma quella che rimane imperturbabile anche davanti al loro ricordo.

68. Colui che è perfetto non pratica l'astinenza, né colui che ha raggiunto l'impassibilità pratica la perseveranza, poiché la perseveranza attiene a chi è soggetto alle passioni e l'astinenza a chi è tormentato.

Nota: Questo capitolo è omesso nella versione siriaca S1 e probabilmente non è un'omissione accidentale. Il traduttore ha eliminato un testo che sembra affermare che il perfetto non ha più bisogno di praticare le virtù, secondo la concezione degli eretici messaliani (o euchiti) dell'impassibilità. Costoro asserivano che, raggiunto lo stato di "apatheia" nel quale avviene l'unione con lo Spirito Santo, non è più possibile nemmeno peccare. In realtà Evagrio la pensava diversamente, come precisa nel capitolo 70. Colui che ha raggiunto l'impassibilità pratica le virtù, non più per obbedienza alla legge o per timore dei castighi, ma spontaneamente, poiché egli ha stabilito dentro di sé le virtù e si è mescolato interamente con esse. A tale proposito si veda anche il seguente capitolo 85.

 

 69. È una grande cosa il pregare senza distrazioni, ma è ancora più grande il cantare salmi senza distrazioni.

Nota: Questo capitolo lo si trova identico negli Apoftegmata Patrum, Evagrio 3. “Cantare salmi senza distrazioni” suppone un’impassibilità maggiore riguardo al pregare senza distrazioni. Evagrio ne dà una spiegazione nel testo di Preghiera 85: “La salmodia appartiene alla saggezza multiforme, ma la preghiera è il preludio della conoscenza immateriale ed una”.

 

 70. Colui che ha stabilito le virtù in se stesso ed è interamente permeato di esse non si ricorda più della legge, dei precetti o della punizione, ma dice e fa tutto ciò che gli suggerisce la sua ottima disposizione d’animo.

Nota: La virtù è lo stato eccellente dell’anima razionale, nel quale stato essa è difficilmente messa in movimento verso il male. Per questo motivo l'impassibilità può offrire all'intelletto una solida base per la contemplazione.

 

CONSIDERAZIONI PRATICHE

71. I canti demoniaci muovono il nostro desiderio e gettano l'anima in fantasie inconfessabili. Ma “ salmi, inni, canti ispirati” (Ef 5,19) invitano l'intelletto al continuo ricordo della virtù, raffreddando la nostra irascibilità in ebollizione e spegnendo i nostri desideri.

Nota: I capitoli 71-90 concernono ancora l’impassibilità e formulano un certo numero di verità la cui conoscenza è utile all’impassibilità.

 

 72. Se è proprio dei lottatori essere battuti ed a loro volta battere [i rivali], così i demoni lottano con noi e quando ci battono, a loro volta sono da noi battuti. Come viene detto, "Li ho colpiti e non si sono rialzati" (Sal 18(17), 39), ed ancora "sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere”. (Sal 27(26), 2)

Nota: Con le due citazioni dei Salmi, Evagrio vuol dimostrare che dopo molte vicissitudini nella lotta contro i demoni durante la “practiké”, dove il vantaggio torna talvolta a noi e talvolta ai demoni, arriva infine un momento in cui noi abbiamo su di essi il vantaggio decisivo e durevole: è l’impassibilità.

 

73. Il riposo [dell’anima] (Cfr. Sal 116(114-115),7) è collegata alla saggezza, mentre il fervore [dell’anima] alla prudenza. Poiché proprio come la saggezza non può essere raggiunta senza la lotta, così la lotta non può essere condotta correttamente senza la prudenza. Ad essa è affidato [il compito di] resistere all'irascibilità dei demoni, costringendo le facoltà dell'anima ad agire secondo la natura e preparando la via della saggezza.

Nota: Il “riposo dell’anima” che segue le sofferenze e le fatiche della “practiké” è l’impassibilità. Evagrio collega l’impassibilità con le virtù, in particolare la saggezza e la prudenza. Questa concezione delle virtù di saggezza e di prudenza è conforme alle definizioni di Aristotele, secondo cui la prudenza è per eccellenza la virtù dell’azione, la virtù pratica, mentre la saggezza è la virtù contemplativa, quella che si ricollega alla conoscenza dei principi.

 

 74. La tentazione del monaco è un pensiero che sale attraverso la parte passionale dell'anima ed oscura l’intelletto.

 75. Il peccato del monaco consiste nel dare il consenso al piacere proibito che propone il pensiero.

Nota: I capitoli 74 e 75 si completano a vicenda e, dato il parallelismo con due simili capitoli della Gnostica, per monaco qui si deve intendere il pratico (colui che si esercita alla practiké). Questa definizione di peccato da parte di Evagrio è analoga alla teoria stoica secondo la quale il passaggio dalla rappresentazione all’atto si fa con il consenso. Il pensiero (logismos) non è lui da solo causa di peccato.

 

76. Gli Angeli gioiscono quando il vizio diminuisce, mentre i demoni quando la virtù diminuisce. Perché i primi sono al servizio della misericordia e dell'amore, mentre i secondi sono asserviti alla collera ed all'odio. Quando i primi si avvicinano a noi, ci riempiono di contemplazione spirituale, mentre i secondi gettano l'anima in fantasie vergognose.

Nota: Colui che si esercita alla “practiké” ha i demoni per avversari ma, di contro, è sostenuto dagli angeli.

 

77. Le virtù non fanno cessare gli assalti dei demoni, ma ci mantengono incolumi da essi.

Nota: Colui che ha acquisito le virtù, cioè è giunto all’impassibilità, conosce sempre le tentazioni, ma ne resta indenne.

 

78. La pratica [ascetica] è il metodo spirituale che purifica la parte passionale dell'anima.

Nota: Questo capitolo definisce ciò che è l’oggetto stesso del libro, la “practiké”. Questa purifica la parte passionale dell’anima ma purifica anche, indirettamente, l’intelletto, facendo cessare i pensieri che vengono da essa. In “Gnostico” 49 (ed. Guillaumont): “Il fine della pratica è quello di purificare l’intelletto e di renderlo impassibile”.

 

79. L’efficacia dei precetti impartiti non è sufficiente a guarire perfettamente le facoltà dell'anima, se ad essi non seguono le appropriate contemplazioni dell’intelletto.

Nota: Per pervenire all’impassibilità perfetta non basta la pratica pura e semplice dei comandamenti, ma occorre aver acquisito le “contemplazioni” dei comandamenti, ciò che equivale alla conoscenza teorica dei rimedi. Come Evagrio ha già detto nel capitolo 50 occorre “dedicarsi alla vita pratica con maggiore conoscenza”.

 

80. Non è possibile resistere a tutti i pensieri che ci vengono suggerito dagli angeli, ma è possibile respingere tutti i pensieri suggeriti dai demoni. I pensieri degli angeli sono seguiti da uno stato di pace, i secondi da uno stato di turbamento.

Nota: Quando l'anima è purificata riceve i buoni pensieri che le sono inviati dagli angeli e che costituiscono la contemplazione spirituale: mentre l'anima può respingere tutti i pensieri demoniaci, essa non può apporsi a tutti i pensieri angelici poiché in essa nulla può fare loro ostacolo.

 

81. La carità è figlia dell’impassibilità; l’impassibilità è il fiore della vita pratica; la vita pratica riposa sull'osservanza dei comandamenti; questi hanno per custode il timore di Dio, generato dalla retta fede; la fede è un bene immanente che esiste naturalmente anche in coloro che non credono ancora in Dio.

Nota: La genealogia delle virtù che costituisce questo capitolo appartiene ad uno schema che figura nella sua forma completa in Prologo, par. 8, e che si ritrova diverse volte nelle opere di Evagrio. L'ordine dei termini è qui rovesciato, in modo di mettere a capo la carità e presentare il suo stretto rapporto con l'impassibilità.

 

82. Proprio come l'anima, operando per mezzo del corpo, percepisce le membra che sono malate, così anche l’intelletto, esercitando la propria attività, riconosce i propri poteri e, attraverso ciò che ostacola l’anima, scopre la prescrizione che è in grado di guarirla.

Nota: Quando l'intelletto giunge vicino all'impassibilità, diventa capace di "esercitare la propria attività", cioè la contemplazione (si veda anche il cap. 86), ed è in grado di fare una diagnosi sullo stato della sua anima e prescrivere i rimedi appropriati.

 

83. L’intelletto, mentre fa guerra contro le passioni, non è in grado di contemplare le ragioni della guerra, poiché è come qualcuno che combatte nella notte; ma quando avrà acquisito l'impassibilità riconoscerà facilmente gli stratagemmi dei nemici.

Nota: Vi sono due specie di guerra contro i demoni: quella che si fa nella notte, cioè in modo empirico e senza una vera strategia, e quella che si fa in modo in modo chiaro, con la conoscenza. La prima è fatta da coloro che sono ancora assoggettati alle passioni, mentre la seconda presuppone l'impassibilità, poiché essa discende dalla contemplazione spirituale, quella che considera gli esseri nei loro logoi (cioè nella loro essenza).

 

84. Il termine della vita pratica è la carità, quello della conoscenza è la teologia; l’inizio dell’una è la fede e l’inizio dell’altra è la contemplazione naturale. Quei demoni che attaccano la parte passionale dell'anima sono quelli che si oppongano alla vita pratica, mentre quelli che disturbano la parte razionale sono chiamati nemici di ogni verità ed avversari della contemplazione.

Nota: Questa distinzione tra due categorie di demoni si ritrova nell'opera In PS. 117,10: "Tra i demoni, gli uni gli facevano la guerra in quanto "pratico", gli altri in quanto "contemplativo"; egli respingeva i primi con la giustizia ed i secondi con la saggezza. Riguardo a giustizia e saggezza si veda il cap. 89.

 

85. Nessuna delle cose che purificano i corpi rimane con loro una volta che sono stati purificati, ma le virtù tutte insieme purificano l'anima e rimangono con essa quando è purificata.

 Nota: Le virtù non giuocano solo un ruolo nel corso della practiké, servendo a purificare l'anima. Esse rimangono in essa una volta raggiunta l'impassibilità, continuano ad assisterla e la proteggono dagli assalti dei demoni.

 

86. L’anima ragionevole agisce secondo la natura quando la sua parte concupiscibile anela alla virtù, quando la sua parte irascibile combatte per la virtù e quando la sua parte razionale percepisce la contemplazione degli esseri.

Nota: Evagrio riprende la concezione filosofica, di origine platonica, secondo la quale la virtù è l'attività conforme alla natura. Questa concezione è largamente diffusa presso i Padri greci; si veda per esempio Vita di Antonio di sant'Atanasio, cap. 20: "Se l’anima custodisce la sua facoltà spirituale conforme alla natura, allora nasce la virtù. La custodisce conforme alla natura quando essa rimane tale e quale è stata creata, ed è stata creata bella e retta al di là di ogni misura... L’anima, infatti, è retta quando custodisce la facoltà spirituale conforme alla natura così come è stata creata; ... se perseveriamo nello stato in cui siamo stati creati, dimoriamo nella virtù".

 

87. Colui che progredisce nella pratica riduce le sue passioni, mentre colui che progredisce nella contemplazione riduce la sua ignoranza. Delle passioni ci sarà infine una completa distruzione, ma per quanto concerne l'ignoranza si dice che ce n’è una che avrà un termine, mentre ce n’è un’altra che non l’avrà.

Nota: L'ignoranza è doppia come la conoscenza stessa che Evagrio divide in "conoscenza degli esseri", o "contemplazione naturale", e "conoscenza di Dio": all'ignoranza che si oppone alla conoscenza degli esseri vi sarà un termine, poiché questa conoscenza diventa perfetta quando l'impassibilità stessa diventerà perfetta. La conoscenza di Dio, al contrario, è illimitata, essendo Dio un oggetto inesauribile di conoscenza; di conseguenza, questa conoscenza è correlativa ad un'ignoranza che è illimitata.

 

88. Le cose che sono buone o cattive, a seconda di come vengono utilizzate, producono sia le virtù che i vizi. Sta alla prudenza usarle con lo scopo di raggiungere l’uno o l'altro di quei due fini.

Nota: "Le cose che": si tratta delle parti dell'anima, di cui si può fare un buono o cattivo utilizzo, a seconda che si usi di esse in modo conforme o non conforme alla loro natura. Si veda anche il capitolo 24 riguardo al buono e cattivo utilizzo della parte irascibile.

 

89. Dato che l'anima razionale è costituita da tre parti, secondo il nostro saggio maestro, quando la virtù è nella parte razionale essa si chiama prudenza, intelligenza e saggezza; quando si trova nella parte concupiscibile si chiama continenza, carità ed astinenza; quando si trova nella parte irascibile si chiama coraggio e perseveranza; e quando si trova nell’intera anima si chiama giustizia. Ora il compito della prudenza è quello di dirigere l'attacco contro le potenze opposte, proteggendo le virtù, opponendosi ai vizi ed amministrando ciò che sta nel mezzo secondo le diverse circostanze; compito dell’intelligenza è quello di dirigere armoniosamente tutte le cose che ci aiutano a raggiungere il nostro obiettivo; compito della saggezza è quello di contemplare le ragioni degli esseri corporei ed incorporei. Il ruolo della continenza è quello di guardare in modo impassibile gli oggetti che provocano in noi fantasie irrazionali; ruolo della carità è quello di comportarsi nei riguardi di ogni immagine di Dio [, cioè di ogni uomo,] quasi nello stesso modo che nei riguardi del Prototipo [perfetto dell’uomo], quand’anche i demoni esercitassero le loro arti per contaminarla; ruolo dell’astinenza è quello di rigettare con gioia ogni piacere del palato; non temere i nemici e sopportare validamente le calamità appartiene alla perseveranza ed al coraggio. Quanto alla giustizia, il suo ruolo è quello di realizzare una certa sinfonia ed armonia tra le [diverse] parti dell'anima.

Nota: I capitoli precedenti presentavano l'impassibilità come lo stato virtuoso per eccellenza, realizzato quando le tre parti dell'anima agiscono secondo la loro natura. Il presente capitolo, dove termina questa sezione dedicata all'impassibilità, definisce ciascuna delle virtù raggruppandole secondo le tre parti dell'anima. In questo modo Evagrio riprende un insegnamento tradizionale che egli adatta alla sua propria dottrina. "Il nostro saggio maestro" probabilmente qui non intende Platone, bensì Gregorio Nazianzeno, di cui Evagrio fu discepolo. Per Evagrio, la saggezza è la più elevata delle virtù, come dice nella Kephalaia Gnostika VI, 51: "Se la parte razionale è la più preziosa di tutte le potenze dell'anima e se essa sola è influenzata dalla saggezza, si può dire che la saggezza è la prima di tutte le virtù; è lei che il nostro saggio maestro ha denominato anche spirito d'adozione". Il saggio maestro è sempre Gregorio Nazianzeno.

 

90. Il frutto delle sementi sono i covoni di frumento, quello delle virtù è la conoscenza; e come le sementi sono accompagnate dalle lacrime, così i covoni sono accompagnati dalla gioia (Sal 126(125), 6).

Nota: "Le sementi": Evagrio, al seguito degli stoici, assimila le virtù a delle sementi naturali. Si veda anche la nota al capitolo 57. La pratica è accompagnata dalle lacrime, ma la conoscenza dalla gioia: questa conclusione giustifica le fatiche della pratica con le prospettive aperte sulla gioia della vita gnostica.

 

I DETTI DEI SANTI MONACI

91. È necessario anche consultare i percorsi dei monaci che hanno viaggiato rettamente prima di noi e correggersi con riferimento ad essi. Perché si possono trovare molte pregevoli cose che hanno detto e fatto; ad esempio, uno di loro disse che una dieta un po' secca e regolare, unita alla carità, porta un monaco più rapidamente al porto dell’impassibilità. Lo stesso [monaco] ha liberato uno dei fratelli che era turbato da visioni notturne raccomandandogli di aggiungere al digiuno il servizio ai malati. Quando veniva interrogato diceva che nulla spegne tali passioni come la misericordia.

Nota: Gli ultimi dieci capitoli, 91-100, sono di carattere diverso dai precedenti: si tratta di una piccola collezione di Apoftegmi, alcuni dei quali sono nominativi (Antonio 92, Macario l'Egiziano 93, Macario (forse) l'Alessandrino 94) e gli altri anonimi. Malgrado le sue modeste dimensioni, questa collezione è di grande interesse per la storia del genere degli Apoftegmi, poiché è la più antica che ci è pervenuta. Con l'aggiunta di questi capitoli, Evagrio ha voluto dare alla dottrina personale appena esposta la garanzia della tradizione monastica. Per esempio essi confermano che l'astinenza e la carità costituiscono la via che conduce all'impassibilità (cap. 91) o che è la natura della parte irascibile dell'anima che lotta contro i demoni (Cap. 93). Probabilmente Evagrio ha aggiunto in seguito questi dieci capitoli: il capitolo 90 sembra essere la conclusione del Trattato Pratico, mentre il capitolo 100 serve di conclusione agli ultimi 10, insistendo sull'amore ed il rispetto dovuto ai sacerdoti ed agli anziani. Il primo degli Apoftegmi è passato nella raccolta degli Apophthegmata Patrum, Evagrio 6 e nella recensione latina di Pelagio I, 4. Il capitolo è inoltre citato da Socrate, da Doroteo ed altri ancora.

 

 92. Uno dei saggi di quel tempo venne a trovare il giusto Antonio, dicendo: "Come puoi resistere, o padre, senza il conforto dei libri?" Rispose: "Il mio libro, o filosofo, è la natura degli esseri creati, ed esso è lì ogni volta che desidero leggere i pensieri e le parole di Dio".

Nota: Questo Apoftegma può paragonarsi con i capitoli 72-80 della Vita di Antonio, dove Antonio si intrattiene con dei filosofi venuti a trovarlo nel deserto. Ma in questi precisi termini non c’è nella Vita di Antonio. "Il conforto dei libri": nella Vita di Antonio viene detto che non aveva appreso le lettere.

 

93. Il “vaso di elezione” [cioè lo strumento della scelta divina, Cfr. At 9,15], che era il vecchio Macario l'egiziano, mi chiese: “Perché mai quando proviamo rancore verso gli uomini facciamo sparire dalla nostra anima la facoltà di ricordarci [di Dio], mentre nel provare rancore verso i demoni ne rimaniamo indenni?”. E siccome non sapevo come rispondere e gli chiedevo di darmene una ragione, disse: “È perché nel primo caso si va contro la natura della parte irascibile dell’anima, mentre nel secondo si usa di essa secondo la sua natura”.

Nota: Fa parte della natura della parte irascibile il combattere i demoni. Si vedano i capitoli 24, 42 e 73. Si confronti anche il Trattato a Eulogio 21: “Colui che prova rancore verso i demoni non ne prova riguardo agli uomini, ed è in pace con i demoni colui che prova rancore nei riguardi di suo fratello”. Questo Apoftegma mette in evidenza l’opposizione tra ricordo dei mali e ricordo di Dio: se noi conserviamo il ricordo del male che ci hanno fatto gli uomini, perdiamo il ricordo di Dio.

 

94. In un'occasione ho fatto visita al santo Padre Macario nel pieno calore del mezzogiorno ed ho chiesto dell'acqua da bere mentre ardevo di sete. E lui disse: “Accontentati dell'ombra, perché ci sono molte persone che ora sono in viaggio per terra o per mare e non hanno neanche questa”. In seguito, mentre discorrevo con lui riguardo all’astinenza, disse: “Coraggio, figlio mio. Per venti interi anni non ho assunto pane, acqua o sonno a sazietà. Infatti, controllavo il peso del pane che mangiavo, la misura dell’acqua che bevevo e poi, appoggiandomi contro il muro, mi concedevo una piccola parte di sonno.

Nota: “Il santo Padre Macario”: questa espressione designa probabilmente non Macario l’Egiziano del capitolo precedente, ma Macario l’Alessandrino, che era presbitero del deserto dei Kellia; Evagrio lo designa così anche nel testo dell’Antirretico. “Mentre discorrevo”: Evagrio oppone al suo comportamento quello di Macario che, invece di discorrere, fornisce come esempio la propria condotta, così come è d’uso nella tradizione degli Apoftegmi. “Figlio mio”: Macario, che morì centenario nel 394, aveva circa cinquant’anni più di Evagrio.

 

95. Uno dei monaci fu informato della morte di suo padre e disse a colui che lo informò: "Smettila di bestemmiare, mio padre è immortale".

Nota: Palladio, nella Storia Lausiaca, attribuisce questa sentenza ad Evagrio stesso. Il racconto si adatta con ciò che Cassiano racconta di un monaco originario del Ponto, verosimilmente Evagrio stesso, che, avendo ricevuto delle lettere della sua famiglia le bruciò senza leggerle, per paura di “perdere l’ardore del suo spirito” e di “richiamare alla mente ciò da cui era fuggito”.

 

 96. Un fratello chiese a uno degli anziani se gli permetteva di mangiare con sua madre e le sue sorelle quando tornava a casa per una visita. Ma lui disse: "Non devi voler mangiare con una donna". Nota: Una consegna analoga è data, dopo Evagrio, da Abba Isaia nell'Asceticon, Logos 3, 77: "Se stai per desinare in un posto e vieni a sapere che una donna deve mangiare là, non metterti assolutamente a sedere. È meglio infatti dare un dispiacere a chi ti ha invitato che commettere segretamente adulterio nel tuo cuore". Si veda anche negli Apophtegmata Patrum, Daniele 2: "Un fratello chiese al padre Daniele: "Dammi un precetto e lo osserverò". Gli dice: "Non intingere la mano nella scodella con una donna e non mangiare con lei, e così ti allontanerai un poco dal demone della concupiscenza". Negli Apoftegmi si viene messi in guardia di frequente nei riguardi della visione di donne, siano anche madri o sorelle (per esempio Sisoe 3, Marco 3 e Poemen 76).

 

 97. Un fratello possedeva solo una copia del Vangelo; lo vendette e destinò il ricavato al nutrimento degli affamati, dicendo queste memorabili parole: "Ho venduto lo stesso libro che mi diceva: ‘Vendi quello che possiedi, dallo ai poveri’" (Mt 19,21).

Nota: Il testo di Evagrio è da comparare con il capitolo 116 della recensione lunga della Storia Lausiaca, dove lo stesso riferimento è riferito dall'abate Bessarione. Nella versione armena della Storia Lausiaca questo stesso episodio è inserito nel capitolo dell'Abate Serapione ed attribuito a quest'ultimo. Probabilmente, tra i numerosi monaci egiziani che portavano questo nome, questo Serapione è colui che era soprannominato il Sindonita ed al quale è dedicato il capitolo 37 della Storia Lausiaca. Una storia analoga è raccontata da Palladio al capitolo 68 riguardo ad un monaco caritatevole: “Se un confratello gli fa dono di un libro, subito lo vende, e a quelli che lo prendono in giro risponde in questo modo: «Come posso convincere il mio maestro che ho appreso la sua arte, se non vendo Lui in persona per la perfetta realizzazione di quest’arte?».

 

98. Nei pressi di Alessandria c'è un'isola situata nella parte settentrionale del lago che si chiama Maria; là vi abita un monaco, il più eccellente dei seguaci degli Gnostici, che ha proclamato che tutto ciò che fanno i monaci viene fatto per cinque motivi: Dio, la natura, l’abitudine, la necessità, il lavoro manuale. Diceva anche che la virtù è per natura una, ma che assume una specifica forma in ciascuna delle facoltà dell'anima; infatti, diceva, la luce del sole, pur non avendo forma, prende naturalmente la forma dalle finestre attraverso le quali passa.

Nota: Il lago Maria o Mareotide era molto importante nell’antichità e, secondo Strabone, conteneva otto isole. Della quattro che sussistono ai nostri giorni quella che è più al nord porta il nome di Gheziret el Namus. "Il più eccellente dei seguaci degli Gnostici": non si tratta solo di un asceta eminente e completo, ma designa qualcuno che si distingue per la scienza. Forse si tratta di Didimo il Cieco, che Evagrio cita nominalmente e definisce "il grande e gnostico didascalo" in Gnostica 150. Didimo era monaco e viveva in una cella nei dintorni di Alessandria, dedicandosi sia allo studio che al lavoro manuale. Evagrio si recò talvolta ad Alessandria e può avere avuto personali rapporti con Didimo. Riguardo ai differenti nomi della virtù secondo le tre potenze dell’anima si veda il capitolo 89, dove Evagrio sviluppa la dottrina qui enunciata dal “più eccellente dei seguaci degli Gnostici”.

 

 99. Un altro monaco disse: “Io mi spoglio dei piaceri in modo da eliminare ogni pretesto alla parte irascibile. Io so che [l’ira] combatte sempre a profitto dei piaceri, disturba il mio intelletto e bandisce la conoscenza”. Uno degli anziani diceva che la carità non sa come immagazzinare cibo o denaro. E lo stesso [monaco] diceva: “Io non so di essere mai stato ingannato due volte dai demoni sullo stesso argomento”.

Nota: Tre Apoftegmi anonimi: il primo formula una dottrina familiare ad Evagrio: la parte irascibile combatte in vista del piacere, turba l’intelletto e gli impedisce di contemplare (si veda il cap. 24). Il secondo afferma l’incompatibilità tra la carità e la ricchezza (Si veda il cap. 18).

 

100. Non è possibile amare in modo uguale tutti i fratelli, ma è possibile agire con sopportazione nei rapporti con tutti, purché non abbiamo in noi rancori ed odio. I sacerdoti sono da amare dopo il Signore, perché per mezzo dei sacri misteri e dei sacramenti ci purificano e pregano per noi. Dobbiamo venerare i nostri anziani come gli angeli, poiché sono loro che ci addestrano ai combattimenti e ci guariscono quando siamo morsi dalle bestie selvagge [i demoni].

Nota: Quest'ultimo capitolo serva di conclusione sia al libro, definendo concretamente cosa sia la carità, "termine della pratica" (Cap. 84) ed alla serie degli Apoftegmi, mostrando che la carità è il sentimento che il monaco deve avere soprattutto nei confronti di coloro che lo guidano, i sacerdoti e gli anziani. Anche qui, come in altri brani degli Apophtegmata Patrum, il sacerdote dimostra di avere una certa autorità, malgrado la libertà che regnava nei gruppi di anacoreti. Sul rapporto dell'impassibilità e della carità, essendo questa ad un gradino superiore, si veda il cap. 81. I monaci dei Kellia, come quelli di Nitria e di Scete, si riunivano per la celebrazione liturgica nei giorni di sabato e di domenica. "Come gli angeli": colui che ha ottenuto la scienza spirituale adempie l'ufficio degli angeli e sostiene gli altri uomini nel combattimento spirituale. Si vedano i cap. 24 e 76.

 

[EPILOGO]

Ecco quello che volevo dirti, mio caro fratello Anatolio, riguardo alla vita ed alla virtù pratica: questo è tutto ciò che abbiamo trovato da raccogliere, per grazia dello Spirito Santo, spigolando tra le nostre uve in maturazione: ma quando “il sole di giustizia” (Mal 3,20) splenderà su di noi nella sua altezza, e l'uva sarà completamente matura, allora noi berremo il suo vino, che “allieta il cuore dell'uomo” (Sal 104(103),15), grazie alle preghiere ed all'intercessione del giusto Gregorio che mi ha piantato e dei santi Padri che ora mi irrigano e per la potenza di Cristo Gesù nostro Signore che “mi fa crescere” (1 Cor 3, 6-7), “al quale appartengono la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!” (1 Pt 4,11).

Nota: "Spigolando (έπιρωγολογούμευοι)": esempio interessante di questo raro verbo di cui si conoscono solo altri due esempi, nel libro apocrifo dell'Antico Testamento IV Maccabei 2, 9 e, sotto una forma leggermente differente in Climaco, Scala del Paradiso 10. Questo verbo è qui applicato ad un grappolo non ancora maturo, prima della vendemmia. La metafora biblica della vigna è utilizzata altre volte da Evagrio. Così come l'espressione "il sole di giustizia" è utilizzata, al seguito di Origene, per designare il Cristo. “Nella sua altezza (Lett. nel suo zenith)”: l’ignoranza è paragonata alla notte, causata dall’intercettazione della luce solare da parte della terra, che simboleggia il male; quando il male, a poco a poco, scompare per effetto della pratica, non c’è più nessun ostacolo ai raggi del “sole di giustizia”, il Cristo illuminatore. “L'uva sarà completamente matura”, ovvero quando noi otterremo l’impassibilità, grazie alla quale potremo bere il vino della conoscenza. Questo vino “allieta il cuore dell’uomo” (Sal 104(103),15), poiché la conoscenza è accompagnata dalla gioia (Si veda anche il cap. 90). “Il giusto Gregorio” è, molto probabilmente, Gregorio di Nazianzeno, mentre “i santi Padri” sono i monaci del deserto, al cui insegnamento si riferisce in particolare negli ultimi capitoli.

 


Ritorno alla pagina iniziale "Le regole di Evagrio Pontico"


| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |

| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |


8 giugno 2021       a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net