EVAGRIO MONACO
TRATTATO
SUGLI OTTO SPIRITI MALVAGI
Estratto (con qualche piccola modifica) da “Evagrio Pontico - Otto spiriti maligni”,
a cura di Maria Bianca Graziosi, Ed. Fede e Cultura 2016
- La gola
- L'ira
Capitolo 1
L'origine del
frutto è il fiore e l'origine della vita attiva è la temperanza. Chi domina
il proprio stomaco fa diminuire le passioni, al contrario chi è soggiogato
dai cibi accresce i piaceri. Come Amalek è l'origine dei popoli così la gola
lo è delle passioni (Nm 24,20). Come la legna è alimento del fuoco così i
cibi sono alimento dello stomaco. Molta legna anima una grande fiamma e
un'abbondanza di cibarie nutre la cupidigia. La fiamma si estingue quando
viene meno la legna e la penuria di cibo spegne la cupidigia. Colui che ha
potere sulla mascella sbaraglia gli stranieri e scioglie facilmente i
vincoli delle proprie mani (Gdc 15,9-20). Dalla mascella gettata via sgorga
una fonte d'acqua e la liberazione dalla gola genera la pratica della
contemplazione. Il palo della tenda, irrompendo, uccise la mascella nemica
(Gdc 4,21) ed il lògos
(la ragione)
della temperanza uccide la passione. Il desiderio di cibo
genera disobbedienza e una dilettosa degustazione caccia dal paradiso (Gen
3,6-23). Saziano la gola i cibi fastosi e nutrono l'insonne verme
dell'intemperanza. Un ventre indigente prepara ad una preghiera vigile, al
contrario un ventre ben pieno invita ad un lungo sonno. Una mente sobria si
raggiunge con una dieta molto scarna, mentre una vita piena di mollezze
tuffa la mente nell'abisso. La preghiera di chi digiuna è simile ad una
giovane aquila che sale in alto, mentre quella di un ubriacone scende verso
il basso sotto il peso della sazietà. La nube nasconde i raggi del sole e la grassa digestione dei cibi
offusca la mente.
Capitolo 2
Uno specchio sporco
non riflette distintamente la forma che gli si pone di fronte e
l'intelletto, ottuso dalla sazietà, non accoglie la conoscenza di Dio. Una
terra incolta genera spine e da una mente corrotta dalla gola germogliano
cattivi pensieri. Come la melma non può emanare fragranza neppure nel goloso
sentiamo il soave profumo della contemplazione. L'occhio del goloso scruta
con curiosità i banchetti, mentre lo sguardo del temperante osserva i
simposi dei saggi. L'anima del goloso enumera i ricordi dei martiri, mentre
quella del temperante imita il loro esempio. Il soldato vigliacco
rabbrividisce al suono della tromba che preannuncia la battaglia, ugualmente
trema il goloso di fronte ai proclami di temperanza. Il monaco goloso,
sottomesso a sferzate dal proprio stomaco, esige il suo tributo giornaliero.
Il viandante che cammina di buona lena raggiungerà presto la città e il
monaco temperante arriverà presto ad uno stato di pace; il viandante lento
si fermerà solo, all'aperto, ed il monaco ghiottone non raggiungerà la casa
dell'apátheia (l'impassibilità). L'umido vapore del
suffumigio profuma l'aria, come la preghiera del temperante delizia
l'olfatto divino. Se ti concedi al desiderio dei cibi nulla più ti basterà
per soddisfare il tuo piacere: il desiderio dei cibi, infatti, è come il
fuoco che sempre accoglie e sempre avvampa. Una misura sufficiente riempie
il vaso mentre un ventre sfondato non dirà mai: "basta!". L'estensione delle
mani mise in fuga Amalek (Es 17,11) e una vita attiva elevata sottomette le
passioni carnali.
Capitolo 3
Stermina tutto ciò
che ti ispirano i vizi e mortifica fortemente la tua carne (Cfr. Col 3,5).
In qualunque modo, infatti, sia ucciso il nemico, esso non ti incuterà più
paura, così un corpo mortificato non turberà l'anima. Un cadavere non
avverte il dolore del fuoco e tantomeno il temperante sente il piacere del
desiderio estinto. Se percuoti un egiziano, nascondilo sotto la sabbia (Es
2,11-12), e non ingrassare il corpo per una passione vinta: come infatti
nella terra grassa germina ciò che è nascosto così nel corpo grasso rivive
la passione. La fiamma che illanguidisce si riaccende se viene aggiunta
della legna secca e il piacere che si va attenuando rivive nella sazietà dei
cibi; non compiangere il corpo che si lagna per lo sfinimento e non
rimpinzarlo con pranzi sontuosi: se infatti lo rinforzerai ti si rivolterà
contro muovendoti una guerra senza tregua, finché renderà schiava la tua
anima e ti menerà servo della lussuria. Il corpo indigente è come un docile
cavallo e mai disarcionerà il cavaliere: questo, infatti, costretto dal
freno, arretra e obbedisce alla mano di chi tiene le briglie, mentre il
corpo, domato dalla fame e dalle veglie, non recalcitra per un cattivo
pensiero che lo cavalca né nitrisce eccitato dall'impeto delle passioni.
Capitolo 4
La temperanza
genera l'assennatezza, mentre la gola è madre della sfrenatezza; l'olio
alimenta il lume della lucerna e la frequentazione delle donne attizza la
fiaccola del piacere. La violenza dei flutti infuria contro il mercantile
mal zavorrato come il pensiero della lussuria sulla mente intemperante. La
lussuria accoglierà come alleata la sazietà, la congederà, starà con gli
avversari e combatterà alla fine con i nemici. Rimane invulnerabile alle
frecce nemiche colui che ama la tranquillità, chi invece si mescola alla
folla riceve in continuazione percosse. Vedere una femmina è come un dardo
velenoso, ferisce l'anima, vi intrude il tossico e quanto più perdura, tanto
più prospera l’infezione. Chi intende difendersi da queste frecce sta
lontano dalle affollate riunioni pubbliche e non gironzola a bocca aperta
nei giorni di festa; è infatti assai meglio starsene a casa passando il
tempo a pregare piuttosto che compiere l'opera del nemico credendo di
onorare le feste. Evita la dimestichezza con le donne se desideri essere
saggio e non dar loro la libertà di parlare e neppure fiducia. Infatti
all'inizio hanno o simulano una certa cautela, ma in seguito osano di tutto
spudoratamente: al primo abboccamento tengono gli occhi bassi, pigolano
dolcemente, piangono commosse, l'atteggiamento è grave, sospirano con
amarezza, pongono domande sulla castità e ascoltano attentamente; le vedi
una seconda volta e alzano un poco il capo; la terza volta si avvicinano
senza troppo pudore; hai sorriso e quelle si sono messe a ridere
sguaiatamente; in seguito si fanno belle e ti si mostrano con ostentazione,
cambia il loro sguardo annunciando l'ardenza, sollevano le sopracciglia e
ruotano gli occhi, denudano il collo e abbandonano l'intero corpo al
languore, pronunciano frasi ammollite nella passione e ti sfoggiano una voce
fascinosa ad udirsi finché non espugnano completamente l'anima. Accade che
questi ami ti adeschino alla morte e queste reti intrecciate ti trascinino
alla perdizione; e dunque non farti neppure ingannare da quelle che si
servono di discorsi ammodo: in costoro infatti si occulta il maligno veleno
dei serpenti.
Capitolo 5
Accostati al fuoco
ardente piuttosto che ad una giovane donna, soprattutto se sei giovane anche
tu: quando infatti ti avvicini alla fiamma e senti un bel bruciore, ti puoi
allontanare rapidamente, mentre quando sei lusingato dalle ciarle femminili,
difficilmente riesci a darti alla fuga. L'erba cresce quand'è vicina
all'acqua, come germina l'intemperanza bazzicando le femmine. Colui che si
riempie il ventre e fa professione di saggezza è simile a chi afferma di
frenare la forza del fuoco nella paglia. Come infatti è impossibile
contrastare il mutevole guizzare del fuoco nella paglia, così è impossibile
colmare nella sazietà l'impeto infiammato dell'intemperanza. Una colonna
poggia sulla base e la passione della lussuria ha le fondamenta nella
sazietà. La nave preda delle tempeste si affretta a raggiungere il porto e
l'anima del casto cerca la solitudine: l'una fugge le minacciose onde del
mare, l'altra le forme femminili che portano dolore e rovina. Una fattezza
abbellita di donna affonda più di un maroso: ma l'uno ti dà la possibilità
di nuotare se vuoi salva la vita, invece la bellezza muliebre, dopo
l'inganno, ti persuade a disprezzare financo la vita stessa. Il rovo
solitario si sottrae intatto alla fiamma e il saggio che sa tenersi lontano
dalle donne non si accende d'intemperanza: come infatti il ricordo del fuoco
non brucia la mente, così neppure la passione ha vigore se manca la materia.
Capitolo 6
Se avrai pietà per
il nemico esso ti sarà nemico, e se farai grazia alla passione essa ti si
ribellerà contro. La vista delle donne eccita l'intemperante, mentre spinge
il saggio a glorificare Dio; se in mezzo alle donne la passione sta
tranquilla non prestare fede a chi ti annuncia che hai raggiunto l'apátheia
(l'impassibilità).
E infatti il cane scodinzola quando è lasciato in mezzo alla folla, mentre,
quando se ne allontana, mostra la propria malvagità. Solo quando il ricordo
della donna affiorerà in te privo di passione, allora ritieniti giunto ai
confini della castità. Quando invece la sua immagine ti spinge a vederla e
i suoi strali accerchiano la tua anima, allora ritieniti fuori dalla virtù.
Ma non devi perdurare così in tali pensieri né la tua mente deve per molto
familiarizzare con le forme femminili, la passione è infatti recidiva e ha
accanto il pericolo. Come infatti accade che un'appropriata fusione
purifichi l'argento, ma, se prolungata, facilmente lo distrugga, così una
insistente fantasia di donne distrugge la pudicizia acquisita: non avere
infatti familiarità a lungo con un volto immaginato affinché non ti si
appicchino le fiamme del piacere e non bruci l'alone che circonda la tua
anima: come infatti la scintilla, rimanendo in mezzo alla paglia, sprigiona
le fiamme, così il ricordo della donna, persistendo, incendia il desiderio.
Capitolo 7
L'avarizia è la
radice di tutti i mali (1 Tm 6,10) e nutre come maligni ramoscelli le
rimanenti passioni e non permette che inaridiscano quelle fiorite da essa.
Chi vuole recidere le passioni ne estirpi la radice; se infatti poti per
bene i rami e l'avarizia permane, non ti gioverà a nulla, perché essi,
nonostante siano stati recisi, subito fioriscono. Il ricco monaco è come una
nave troppo carica che viene sommersa dall'impeto di una tempesta: come
infatti una nave che imbarca acqua è messa alla prova da ogni onda, così il
ricco è sommerso dalle preoccupazioni. Il monaco che nulla possiede è invece
un agile viaggiatore e trova dimora ovunque. Egli è come l'aquila che vola
in alto e scende giù a cercare cibo quando vi è costretta. È superiore ad
ogni prova, se la ride del presente e si leva in alto allontanandosi dalle
cose terrene e accompagnandosi a quelle celesti: infatti ha ali leggere mai
appesantite dalle preoccupazioni. Sopraggiunge l'oppressione ed egli lascia
il luogo senza dolore; la morte arriva e quegli se ne va con animo sereno:
infatti l'anima non è stata legata da vincolo terreno di sorta. Chi invece
molto possiede soggiace alle preoccupazioni e, come il cane, è legato alla
catena, e, se viene costretto ad andarsene, si porta dietro, come un grave
peso e un'inutile afflizione, i ricordi delle sue ricchezze, è punto dalla
tristezza e, quando ci pensa, soffre molto, ha perso le ricchezze e si
tormenta nello scoramento. E se arriva la morte abbandona miseramente i suoi
averi, rende l'anima, mentre l'occhio non tralascia gli affari; a malincuore
viene trascinato via come uno schiavo fuggiasco, si separa dal corpo e non
si separa dai suoi interessi: poiché la passione (della proprietà) lo trattiene più di ciò che
lo trascina via [1153A].
Capitolo 8
Il mare non si
riempie mai del tutto pur ricevendo la gran massa d'acqua dei fiumi (Qo
1,7), allo stesso modo il desiderio di ricchezze dell'avaro non è mai sazio,
egli le raddoppia e subito desidera quadruplicarle e non cessa mai questo
raddoppio, finché la morte non mette fine a tale interminabile premura. Il
monaco assennato baderà alle necessità del corpo e sopperirà con pane e
acqua allo stomaco indigente, non adulerà i ricchi per il piacere del
ventre, né asservirà la sua libera mente a molti padroni: infatti le mani
sono sempre sufficienti a servire il corpo e soddisfare le necessità
naturali. Il monaco che non possiede nulla è un pugile che non può essere
colpito in pieno e un corridore veloce che raggiunge rapidamente il premio
dell'invito celeste (Fil 3,14). Il monaco ricco gioisce per i molti
proventi, mentre quello che non ha nulla gode per i premi che gli vengono
dalle cose ben riuscite. Il monaco avaro lavora duramente mentre quello che
non possiede nulla usa il tempo per la preghiera e la lettura. Il monaco
avaro riempie d'oro i suoi recessi, mentre quello che nulla possiede
tesoreggia in cielo (Cfr. Mt 6,20). Che sia maledetto colui che foggia
l'idolo e lo nasconde (Dt 27,15), simile a colui che è affetto da avarizia:
l'uno infatti si prostra di fronte al falso e all'inutile, l'altro porta in
sé l'immagine della ricchezza, come un simulacro.
Capitolo 9
L'ira è una
passione furente e con facilità fa uscire di senno quelli che hanno la
conoscenza, imbestialisce l'anima e degrada l'intero consorzio umano. Un
vento impetuoso non piegherà la torre e l'animosità non trascina via l'anima
mansueta. L'acqua è mossa dalla violenza dei venti e l'iracondo è agitato
dai pensieri dissennati. Il monaco iracondo, come un cinghiale selvatico e
solitario, vede qualcuno e arrota i denti.
La diffusione della nebbia condensa l'aria e il moto dell'ira annebbia la
mente dell'iracondo. La nube procedendo offusca il sole e così il pensiero
rancoroso ottunde la mente. Il leone in gabbia scuote continuamente i
cardini come l'iracondo nella cella (quando è assalito) dal pensiero
dell'ira. È deliziosa la vista di un mare tranquillo, ma non è certo più
dilettosa di uno stato di pace: infatti i delfini nuotano nel mare in
bonaccia e i pensieri volti a Dio si immergono in uno stato di serenità. Il
monaco magnanimo è una fonte tranquilla, gradevole bevanda offerta a tutti,
mentre la mente dell'iracondo è continuamente agitata ed egli non darà
l'acqua all'assetato e, se gliela darà, sarà intorbidata e nociva; gli occhi
dell'animoso sono sconvolti e iniettati di sangue e annunziano un cuore in
tumulto. Il volto del magnanimo mostra assennatezza e gli occhi benigni sono
rivolti verso il basso.
Capitolo 10
La mansuetudine
dell'uomo è ricordata da Dio (Cfr. Sal 131(130),1) e l'anima mite diviene il
tempio dello Spirito Santo. Cristo reclina il capo su uno spirito mite (Cfr. Mt
8,20) e solo la mente pacifica diviene dimora della Santa Trinità. Le volpi
prosperano nell'anima rancorosa e le fiere si appiattano nel cuore
sconvolto. Fugge l'uomo onesto l'alloggio malfamato, e Dio un cuore
rancoroso. Una pietra che cade in acqua la agita, come un cattivo discorso
il cuore dell'uomo. Allontana dalla tua anima i pensieri dell'ira e non
bivacchi l'animosità nel recinto del tuo cuore e non lo turbi nel momento
della preghiera: infatti come il fumo della paglia offusca la vista così la
mente è turbata dal livore durante la preghiera. I pensieri dell'animoso
sono prole di vipera (Cfr. Mt 3,7) e divorano il cuore che li ha generati.
La sua preghiera è un incenso abominevole (Cfr. Is 1,13) ed il salmodiare di
un uomo adirato dà
un suono sgradevole. Il dono del rancoroso è come un'offerta colma di piaghe (Cfr. Lv 22,22) e di certo non si avvicinerà agli altari aspersi di
acqua lustrale. L'animoso avrà sogni turbati e l'iracondo si immaginerà
assalti di belve. L'uomo magnanimo ha la visione di consessi di santi angeli
e colui che non porta rancore si esercita con discorsi spirituali e nella
notte riceve la soluzione dei misteri.
Capitolo 11
Il monaco affetto
dalla tristezza non conosce il piacere spirituale: la tristezza è un
abbattimento dell'anima e si forma dai pensieri dell'ira. Il desiderio di
vendetta, infatti, è proprio dell'ira, l'insuccesso della vendetta genera la
tristezza; la tristezza è la bocca del leone e facilmente divora colui che
si rattrista. La tristezza è un verme del cuore e mangia la madre che l'ha
generato. Soffre la madre quando partorisce il figlio, ma, una volta
sgravata, è libera dal dolore (Cfr. Gv 16,21); la tristezza, invece, mentre
è generata, provoca lunghe doglie e, sopravvivendo, dopo i travagli, non
porta minori sofferenze. Il monaco triste non conosce la letizia spirituale,
come colui che ha una forte febbre non avverte il sapore del miele. Il
monaco triste non saprà muovere la mente verso la contemplazione né sgorga
da lui una preghiera pura: la tristezza è un impedimento per ogni bene.
Avere i piedi legati è un impedimento per la corsa, così la tristezza è un
ostacolo per la contemplazione. Il prigioniero dei barbari è legato con
catene e la tristezza lega colui che è prigioniero delle passioni. In
assenza di altre passioni la tristezza non ha forza come non ne ha un legame
se manca chi lega. Colui che è avvinto dalla tristezza è stato vinto dalle
passioni e come prova della sconfitta porta le catene (della tristezza). Infatti la
tristezza deriva dall'insuccesso del desiderio carnale poiché il desiderio è
congiunto a tutte le passioni. Chi vincerà il desiderio vincerà le passioni
e il vincitore delle passioni non sarà sottomesso dalla tristezza. Il
temperante non è rattristato dalla penuria di cibo, né il casto quando
raggiunge una folle dissolutezza, né il mansueto che tralascia la vendetta,
né l'umile se è privato dell'onore degli uomini, né il generoso quando
incorre in una perdita finanziaria: essi evitarono con forza, infatti, il
desiderio di queste cose: come infatti colui che è ben corazzato respinge i
colpi, così l'uomo privo di passioni non è ferito dalla tristezza.
Capitolo 12
Lo scudo è la
sicurezza del soldato e le mura lo sono della città: più sicura di entrambi
è per il monaco l'apátheia. E
infatti spesso una freccia scagliata da un forte braccio trapassa lo scudo e
la moltitudine dei nemici abbatte le mura mentre la tristezza non può
prevalere sull'apátheia. Colui che domina le passioni signoreggerà sulla tristezza,
mentre chi è vinto dal piacere non sfuggirà ai suoi legami. Colui che si
rattrista facilmente e simula un'assenza di passioni è come l'ammalato che
finge di essere sano; come la malattia si rivela dal colore della carnagione, la presenza
di una passione è dimostrata dalla tristezza. Colui che ama il mondo (Cfr. 1
Gv 2,15) sarà molto afflitto mentre colui che disprezza ciò che vi è in
esso sarà allietato per sempre. L'avaro, ricevuto un danno, sarà
atrocemente rattristato, mentre colui che disprezza le ricchezze sarà sempre
indenne dalla tristezza. Chi brama la gloria, al sopraggiungere del
disonore, sarà addolorato, mentre l'umile lo accoglierà come un compagno. La
fornace purifica l'argento di bassa lega e la tristezza di fronte a Dio
(Cfr. 2 Cor 7,10) purifica il cuore preda dell'errore; la continua fusione
impoverisce il piombo e la tristezza per le cose del mondo sminuisce
l'intelletto. La caligine indebolisce la forza degli occhi e la tristezza
inebetisce la mente dedita alla contemplazione; la luce del sole non
raggiunge gli abissi marini e la visione della luce non rischiara un cuore
rattristato; dolce è per tutti gli uomini il sorgere del sole, ma anche di
questo si dispiace l'anima triste; la bile toglie il senso del gusto, così come la
tristezza sottrae all'anima la capacità di percepire. Ma colui che
disprezza i piaceri del mondo non sarà turbato dai cattivi pensieri della
tristezza.
Capitolo 13
L'accidia è una
debolezza dell'anima che insorge quando non si vive secondo natura né si
fronteggia nobilmente la tentazione. Infatti la tentazione è per un'anima
nobile ciò che è il cibo per un corpo vigoroso. Il vento del nord nutre i
germogli e le tentazioni consolidano la fermezza dell'anima. La nube povera
d'acqua è allontanata dal vento come la mente che non ha perseveranza dallo
spirito dell'accidia. La rugiada primaverile accresce il frutto del campo e
la parola spirituale esalta la fermezza dell'anima. Il flusso dell'accidia
caccia il monaco dalla propria dimora, mentre colui che è perseverante se ne
sta sempre tranquillo. L'accidioso adduce quale pretesto la visita degli
ammalati, cosa che garantisce il proprio scopo. Il monaco accidioso è rapido
a svolgere il suo ufficio e considera un precetto la propria soddisfazione;
la pianta debole è piegata da una lieve brezza e immaginare la partenza
distrae l'accidioso. Un albero ben piantato non è scosso dalla violenza dei
venti e l'accidia non piega l'anima ben puntellata. Il monaco girovago,
secco fuscello della solitudine, sta poco tranquillo e, senza volerlo, è
sospinto qua e là di volta in volta. Un albero trapiantato non fruttifica e
il monaco vagabondo non dà frutti di virtù. L'ammalato non è soddisfatto da
un solo cibo e il monaco accidioso non lo è da una sola occupazione. Non
basta una sola femmina a soddisfare il voluttuoso e non è abbastanza una
sola cella per l'accidioso.
Capitolo 14
L'occhio
dell'accidioso fissa le finestre continuamente e la sua mente immagina che
arrivino visite: la porta cigola e quello balza fuori, ode una voce e si
sporge dalla finestra e non se ne va da lì finché, sedutosi, non si
intorpidisce. Quando legge, l'accidioso sbadiglia molto, si lascia andare
facilmente al sonno, si stropiccia gli occhi, si stiracchia e, distogliendo
lo sguardo dal libro, fissa la parete e, di nuovo, rimessosi a leggere un
po', ripetendo la fine delle parole, si affatica inutilmente, conta i fogli,
calcola i quaternioni, disprezza le lettere e gli ornamenti e infine,
piegato il libro, lo pone sotto la testa e cade in un sonno non molto
profondo, e infatti, di lì
a poco, la fame gli risveglia l'anima con le sue
preoccupazioni. Il monaco accidioso è pigro alla preghiera e di certo non
pronuncerà mai le parole dell'orazione; come infatti l'ammalato non riesce a
sollevare un peso eccessivo così anche l'accidioso di
sicuro non si occuperà con diligenza dei doveri verso Dio: all'uno infatti
difetta la forza fisica, all'altro viene meno il vigore dell'anima. La
pazienza, il far tutto con molta assiduità e il timor di Dio curano
l'accidia. Disponi per te stesso una giusta misura in ogni attività e non
desistere prima di averla conclusa, e prega assennatamente e con forza e lo
spirito dell'accidia fuggirà da te.
Capitolo 15
La vanagloria è una
passione irragionevole e facilmente s'intreccia con tutte le opere di virtù.
Un disegno tracciato nell'acqua si confonde, come la fatica della virtù
nell'anima vanagloriosa. Diviene candida la mano nascosta in seno e l'azione
che rimane celata risplende di una luce più smagliante. L'edera s'avvinghia
all'albero e, quando giunge in alto, ne dissecca la radice, così la
vanagloria si origina dalle virtù e non si allontana finché non avrà reciso
la loro forza. Il grappolo d'uva, buttato a terra, marcisce facilmente e la
virtù, se si appoggia alla vanagloria, perisce. Il monaco vanaglorioso è un
lavoratore senza salario: si impegna nel lavoro e non riceve alcuna paga; la
borsa bucata non custodisce ciò che vi è riposto e la vanagloria distrugge i
compensi delle virtù. La continenza del vanaglorioso è come il fumo del
camino, entrambi si disperderanno nell'aria. Il vento cancella l'orma
dell'uomo come l'elemosina del vanaglorioso. La pietra lanciata non
raggiunge il cielo e la preghiera di chi desidera piacere agli uomini non
salirà fino a Dio.
Capitolo 16
La vanagloria è uno scoglio
sommerso: se vi urti contro rischi di perdere il carico. Nasconde il suo
tesoro l'uomo prudente quanto il saggio monaco le fatiche della sua virtù.
La vanagloria consiglia di pregare nelle piazze, colui che invece vi si
oppone prega nella sua stanzetta (Cfr. Mt 6,5-6). L'uomo poco assennato
rende nota la propria ricchezza e spinge molti a tendergli insidie. Nascondi
invece le tue cose: durante il cammino ti imbatterai in lestofanti finché
non arriverai alla città della pace (Cfr. Eb 7,2) e potrai usare i tuoi beni
tranquillamente. La virtù del vanaglorioso è un sacrificio consunto (Cfr. Lv
22,22) e non è certo offerto all'altare di Dio. L'accidia dissolve il vigore
dell'anima, mentre la vanagloria fortifica la mente che dimentica Dio, rende
robusto l'astenico e il vecchio più forte del giovane, solo finché sono
molti i testimoni che assistono a tutto questo: allora saranno inutili il
digiuno, la veglia e la preghiera, è infatti la pubblica approvazione che
eccita lo zelo. Né metterai in vendita le tue fatiche per la fama, né
rinuncerai alla gloria futura per essere acclamato. Infatti l'umana gloria
si accampa in terra (Cfr. Sal 7,6) e sulla terra la sua fama si estingue,
mentre la gloria della virtù rimane in eterno.
Capitolo 17
La superbia è un
tumore dell'anima pieno di sangue. Se matura scoppierà, emanando un orribile
fetore. Il bagliore del lampo annuncia il fragore del tuono e la presenza
della vanagloria annuncia la superbia. L'anima del superbo raggiunge grandi
altezze e da lì cade nell'abisso. Si ammala di superbia l'apostata di Dio
ascrivendo alle proprie capacità le cose ben riuscite. Come colui che sale
su una tela di ragno precipita, così cade colui che si appoggia alle proprie
capacità. Un'abbondanza di frutti piega i rami dell'albero e un'abbondanza
di virtù umilia la mente dell'uomo. Il frutto marcio è inutile al contadino
e la virtù del superbo non è accetta a Dio. Il palo sostiene il ramo carico
di frutti e il timore di Dio l'anima virtuosa. Come il peso dei frutti
spezza il ramo così la superbia abbatte l'anima virtuosa. Non consegnare la
tua anima alla superbia e non avrai terribili fantasie. L'anima del superbo
è abbandonata da Dio e diviene oggetto di gioia maligna per i demoni. Di
notte egli si immagina branchi di belve che l'assalgono e di giorno è
sconvolto da pensieri di viltà. Quando dorme facilmente sussulta e quando
veglia lo spaventa l'ombra di un uccello. Lo stormire delle fronde
atterrisce il superbo e il suono dell'acqua spezza la sua anima. Colui che
infatti poco prima si è opposto a Dio respingendo il suo soccorso, viene poi
spaventato da volgari fantasmi.
Capitolo 18
La superbia
precipitò l'arcangelo dal cielo e come un fulmine lo fece piombare sulla
terra (Cfr. Is 14,12; Lc 10,18). L'umiltà invece conduce l'uomo verso il
cielo e lo prepara a far parte del coro degli angeli. Di che ti
inorgoglisci, o uomo, quando per natura sei melma e putredine (Cfr. Gb 4,19;
25,6), e perché ti sollevi sopra le nuvole? Guarda alla tua natura poiché
sei terra e cenere (Cfr. Gen 18,27) e fra un po' tornerai alla polvere, ora
superbo e tra poco verme (Cfr. Sal 21,7). A che pro sollevi il capo che tra
non molto marcirà? Grande è l'uomo soccorso da Dio; una volta abbandonato
egli riconobbe la debolezza della natura. Nulla possiedi che tu non abbia
ricevuto da Dio (Cfr. 1 Cor 4,7). Perché dunque ti scoraggi per ciò che
appartiene ad altri come se fosse tuo? Perché ti vanti di quel che viene
dalla grazia di Dio come se fosse una tua personale proprietà? Riconosci
colui che dona e non ti inorgoglire tanto: sei creatura di Dio, non
disprezzare perciò il creatore. Dio ti soccorre, non respingere il
beneficatore. Sei giunto alla sommità della tua condizione, ma lui ti ha
guidato; hai agito rettamente secondo virtù ed egli ti ha condotto.
Glorifica chi ti ha innalzato per rimanere al sicuro nelle altezze;
riconosci colui che ha le tue stesse origini perché la sostanza è la
medesima e non rifiutare per arroganza questa parentela.
Capitolo 19
Umile e moderato è
colui che riconosce questa parentela; ma il demiurgo plasmò sia lui sia il
superbo. Non disprezzare l'umile: infatti egli è più al sicuro di te:
cammina sulla terra e non precipita; ma colui che sale più in alto, se cade,
si sfracellerà. Il monaco superbo è come un albero senza radici e non
sopporta l'impeto del vento. Una mente senza boria è come una cittadella ben
munita e chi vi abita sarà imprendibile. Un soffio di vento solleva la
paglia e l'insulto porta il superbo alla follia. Una bolla scoppiata
svanisce e la memoria del superbo perisce. La parola dell'umile addolcisce
l'anima, mentre quella del superbo è ripiena di millanteria. Dio si piega
alla preghiera dell'umile, è invece esasperato dalla supplica del superbo.
L'umiltà è la corona della casa e tiene al sicuro chi vi entra (Dt 22,8).
Quando salirai al sommo delle virtù allora avrai molto bisogno di sicurezza.
Infatti colui che cade sul pavimento rapidamente si rialza, ma chi precipita
da grandi altezze, rischia la morte. La pietra preziosa si addice al
bracciale d'oro e l'umiltà umana risplende di molte virtù.
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15 aprile
2021 a cura di
Alberto "da
Cormano"
alberto@ora-et-labora.net