Evagrio Pontico:
	
	
	
	discepolo dei cappadoci e dei padri del deserto
	
	di Gabriel Bunge
	Estratto da “Evagrio 
	Pontico, Trattato pratico", Ed. Qiqajon 2008
	
	Evagrio appartiene 
	al numero di quegli uomini, non rari nella storia della chiesa, ai quali è 
	capitata una sorte per più aspetti contraddittoria 	
	
	
	[1]: uomo di mondo in un primo 
	tempo, umile padre del deserto in seguito; molto ammirato in vita, ma 
	ritenuto per lungo tempo eretico dopo la sua morte; “padre della nostra 
	letteratura spirituale” (O. Chadwick), ma anche autore di un’opera fino a 
	poco tempo fa conosciuta solo in traduzione o sotto altro nome... Chi era 
	quest’uomo?
	
	Evagrio nacque 
	attorno al 345 a Ibora nella provincia del Ponto (Asia Minore). Il padre era 
	un corepiscopo
	
	
	
	[2] appartenente a una famiglia 
	assai influente e di elevata condizione. Non sappiamo nulla della sua 
	giovinezza e formazione. Sembra tuttavia che da ragazzo egli abbia ricevuto 
	un’eccellente educazione. Basilio, a partire dal 370 vescovo di Cesarea - 
	metropoli della Cappadocia di cui fa parte anche Ibora -, notò il giovane 
	Evagrio e lo fece entrare nel suo clero come lettore. Il nostro autore 
	appartiene così alla cerchia di quei famosi “grandi cappadoci” - Basilio di 
	Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa in particolare - il cui 
	pensiero ha profondamente marcato la teologia.
	
	Basilio muore già 
	nel gennaio del 379. Per delle ragioni che a noi non risultano più molto 
	chiare, Evagrio non rimane presso il successore sulla cattedra di Cesarea, 
	ma “fugge” presso l’amico intimo di Basilio, Gregorio di Nazianzo, che a 
	partire da marzo-aprile del 379 si trova a capo della minuscola comunità 
	ortodossa di Costantinopoli. Lì, nella capitale imperiale, Gregorio 
	conferisce il diaconato a Evagrio, che resterà diacono per tutta la vita. 
	Stando al testamento di Gregorio - 31 maggio 381 -, Evagrio deve essere 
	stato di notevole aiuto al suo vescovo nella lotta per far prevalere 
	l’ortodossia sull’arianesimo, all’epoca ancora estremamente potente. Così, 
	formazione teologica e fascino personale, uniti a un grande talento 
	oratorio, destinavano manifestamente il giovane chierico a una brillante 
	carriera, soprattutto dopo che l’imperatore Teodosio, nel 380, ebbe dato il 
	suo contributo al trionfo dell’ortodossia.
	
	Gregorio, peraltro, 
	scoraggiato dagli intrighi interni alla chiesa, rinunciò alla sua carica già 
	a metà del 381 e ritornò a Nazianzo. Evagrio, invece, rimase presso il 
	successore di Gregorio, Nettario, al quale seppe rendere preziosi servizi. 
	Tuttavia, pur non avendo seguito Gregorio nel suo rientro al paese 
	d’origine, Evagrio conservò per lui fino alla morte un ricordo di affettuosa 
	gratitudine
	
	
	
	[3], considerandolo maestro nella 
	“più alta filosofia” e celebrandolo come “bocca del Cristo” e “vaso 
	d’elezione”
	
	
	
	[4]. Anche il 
	
	
	Praktikos, ovvero il Trattato partico, 
	apporta, a questo riguardo, una testimonianza eloquente
	
	
	[5].
	
	Poco dopo la 
	partenza di Gregorio, presumibilmente, Evagrio fu implicato in una vicenda 
	che avrebbe dato alla sua vita un orientamento radicalmente diverso. La 
	moglie di un alto funzionario imperiale si invaghì del brillante e 
	affascinante oratore, il quale da parte sua non si sentiva più così sicuro 
	di se stesso. Un sogno assai interessante dal punto di vista psicologico - 
	raccontato più tardi da Evagrio a un suo confidente - gli mette davanti la 
	soluzione del conflitto: fuggire. È la seconda fuga di cui siamo a 
	conoscenza, ma non sarà l’ultima.
	
	Non sappiamo perché 
	Evagrio si sia rifugiato a Gerusalemme e non presso Gregorio. In ogni caso, 
	vi fu accolto da Melania l’Anziana, vedova dell’alta nobiltà, che insieme a 
	Rufino, tra il 375 e il 380, aveva fondato un monastero doppio sul Monte 
	degli ulivi. Nel suo sogno, Evagrio aveva giurato di cambiare radicalmente 
	la sua vita mondana, ma, appena passato il pericolo, dimenticò subito di dar 
	seguito al suo voto. L’aveva “rimosso”, diremmo noi oggi alla luce di quello 
	che è capitato in seguito.
	
	Infatti, dopo 
	qualche tempo, Evagrio fu vittima di un’inspiegabile “febbre”, che lo bloccò 
	a letto per sei mesi, portandolo vicino alla morte. La perspicace ed 
	energica Melania sembra aver intuito l’origine “psicologica” di quella 
	febbre. In ogni caso, grazie alla sua insistenza, Evagrio le confessa il 
	voto da lui fatto a Costantinopoli. Melania si fa dunque promettere che 
	sarebbe diventato monaco e, in pochi giorni, Evagrio è guarito. Nella Pasqua 
	del 383, Rufino gli consegna l’abito monastico alla presenza di Melania.
	
	Invece di entrare 
	nella comunità monastica fondata da Rufino sul Monte degli ulivi, Evagrio si 
	ritira nel deserto egiziano. Dapprima a Nitria, a una cinquantina di 
	chilometri a sud-est di Alessandria, per due anni; poi, per il resto della 
	sua vita, a Kellia (“le celle”) situata nel deserto più interno e riservata 
	ai monaci più “sperimentati”[6]. 
	Perché Evagrio non è rimasto a Gerusalemme? Ancora una volta non lo 
	sappiamo. Forse questa città di pellegrinaggi era ancora troppo “mondana” 
	per il sensibile diacono. In ogni caso, a Kellia subito lo ritroviamo in 
	compagnia di vecchi amici di Melania. E in particolare con un discepolo del 
	grande Pambo, l’erudito e virtuoso Ammonio, che Evagrio entrerà in stretta 
	amicizia, mentre troverà un confidente pieno di esperienza in Albino, forse 
	un parente di Melania.
	
	Benché, stando alle 
	sue lettere, la vita nel deserto non gli sia mai risultata facile, Evagrio 
	non ha più abbandonato questo “esilio”, come lui lo chiama, tranne che per 
	alcune visite occasionali ad Alessandria e una fuga in Palestina per 
	sottrarsi al patriarca di Alessandria, Teofilo, che voleva consacrarlo 
	vescovo di Thmuis.
	
	Sotto la direzione 
	del severo asceta Macario l’Alessandrino, presbitero di Kellia, e del suo 
	omonimo, il grande mistico Macario l’Egiziano 
	
	
	
	[7], che abitava a Scete - situata 
	ancora più lontano nel deserto -, Evagrio con il passare degli anni si 
	trasforma e, da greco elegante e raffinato, diventa un padre del deserto, 
	pieno di comprensione e di straordinaria bontà, ma anche rigoroso e senza 
	compromessi nella sua vita personale. Nel corso di questi anni Evagrio 
	sviluppa pure una prodigiosa attività letteraria, molto apprezzata da 
	numerosi amici e discepoli. Questa “fama” crescente gli valse però, già 
	durante la sua vita, invidia e calunnie. Il giorno dell’Epifania del 399, 
	Evagrio muore, dopo circa due anni di malattia, probabilmente una nefrite, 
	contratta in seguito alla sua eccessiva austerità.
	
	La sua morte a soli 
	54 anni, percepita come prematura anche dai suoi contemporanei, si sarebbe 
	tuttavia rivelata provvidenziale. Già a partire dalla Pasqua del 399, 
	infatti, si accendono le polemiche che entreranno nella storia sotto la 
	designazione di “prima crisi origenista”. Per il momento esse riguardano 
	Evagrio solo indirettamente, ma non per questo saranno meno cariche di 
	conseguenze
	
	
	
	[8].
	
	Evagrio apparteneva 
	a un gruppo numericamente non irrilevante di asceti molto stimati, che gli 
	avversari qualificavano come “origenisti” - chiaramente in senso 
	peggiorativo - per il fatto che essi attingevano di preferenza ai tesori 
	della grande scuola dei teologi alessandrini: Clemente, Didimo il Cieco e, 
	ovviamente, Origene. Per motivi che non sono più per noi molto chiari, dalla 
	massa dei monaci illetterati si sollevò allora una violenta opposizione 
	contro i loro confratelli “origenisti”, che erano ben lungi dall’essere 
	tutti dei “letterati”. Il punto controverso era apparentemente la questione 
	riguardante la “forma” di Dio: si può dire che Dio ha una “forma”, come si è 
	portati a supporre leggendo i versetti del libro della Genesi concernenti la 
	creazione dell’uomo a “immagine” e “somiglianza” di Dio
	
	
	[9], oppure questo passo della 
	Scrittura è da intendere secondo il senso spirituale? E quello che facevano 
	Origene e i suoi discepoli, arrivando alla conclusione che, se Dio è 
	immateriale, deve anche essere senza forma. Evagrio, nei 153 capitoli del 
	suo trattato sulla preghiera, si pone risolutamente su questa linea.
	
	Ora, in un primo 
	tempo il patriarca Teofilo, noto per la sua volubilità, nella sua lettera 
	per la Pasqua del 399 condannò con la più grande fermezza 
	l’“antropomorfismo” degli avversari di Origene. Amico personale degli 
	“origenisti”, aveva scelto più di un vescovo dalle loro file. Ma sotto la 
	violenta pressione delle masse eccitate fece ben presto un totale 
	voltafaccia e condannò Origene e quelli della sua parte. Giunse perfino a 
	fare irruzione nelle case dei suoi vecchi amici con l’impiego della forza 
	militare (400). Lo storico ecclesiastico Socrate (ca. 380-450), che aveva a 
	sua disposizione delle fonti oggi perdute, attribuisce questo brusco 
	cambiamento di Teofilo a motivi per nulla limpidi e, comunque, del tutto 
	personali.
	
	In ogni caso, gli 
	“origenisti” perseguitati presero la fuga; più di 300 monaci furono 
	coinvolti in questi avvenimenti. Molti si recarono in Palestina; Ammonio e i 
	suoi fratelli si spinsero fino a Costantinopoli, dove furono accolti da 
	Giovanni Crisostomo. Sotto la spinta congiunta di Epifanio di Salamina e di 
	Gerolamo, il conflitto assunse contorni tali da riguardare la politica 
	ecclesiastica internazionale, facendo entrare in gioco la vecchia rivalità 
	tra Alessandria e la “nuova Roma”. Ma non è il caso che noi ci occupiamo del 
	seguito della vicenda. Il conflitto tra Teofilo e gli “origenisti” si 
	concluse in maniera poco chiara, così come lo erano stati i suoi inizi. 
	Senza che i sospettati di eresia fossero stati costretti ad abiurare, si 
	giunse a un accordo e i proscritti sopravvissuti poterono tornare alle loro 
	celle (403).
	
	Il nome di Evagrio 
	non è mai pronunciato durante tutta questa penosa controversia: né da coloro 
	che ne furono i protagonisti, né dagli storici successivi. Dalle lettere 
	dello stesso Evagrio si può però desumere che egli aveva percepito le 
	tensioni che precedettero lo scoppio del conflitto e che ne aveva sofferto. 
	Nonostante la composizione bonaria della vertenza, un’ombra era caduta su 
	Origene e su tutti coloro che erano stati bollati come “origenisti”. Da qui 
	essa si estese su Evagrio, sui suoi discepoli Palladio e Ammonio, e su 
	numerosi altri asceti, di cui, nella misura del possibile, si cercò di 
	cancellare i nomi, diventati, di conseguenza, parzialmente introvabili negli
	
	
	Apophthegmata Patrum.
	
	Questa controversia 
	attorno a Origene, tuttavia, divenne fatale per Evagrio solo 150 anni dopo 
	la sua morte, quando alcuni monaci palestinesi, utilizzando certi suoi 
	scritti e altri sospettati di “origenismo”, costruirono un “sistema” che 
	sollevò l’indignazione dei loro confratelli. Nel 553, questo partito di 
	opposizione riuscì a convincere Giustiniano a condannare Origene e coloro 
	che sostenevano determinati punti della sua dottrina. Con il grande 
	alessandrino erano ora anche Didimo il Cieco ed Evagrio a essere colpiti.
	
	A partire da questo 
	momento, la storia dell’influenza di Evagrio si svolge in certo qual modo 
	nella clandestinità, dalla quale, come un flusso potente, alimenta - in 
	maniera non di rado sorprendente - numerose correnti, in oriente e in 
	occidente, senza rivelare il suo nome. Molte delle sue opere vanno perse 
	nella loro lingua originale; altre vengono trasmesse sotto il nome di altri 
	autori. Ci sarà perfino un copista particolarmente scrupoloso che arriverà a 
	dividere in due figure la persona di Evagrio: quella di un origenista 
	“eretico”, da una parte, e quella di un discepolo “ortodosso” dei grandi 
	cappadoci, dall’altra.
	
	Questo tragico 
	destino pesa ancora oggi su una valutazione 
	
	
	sine 
	
	ira et studio della mistica evagriana. A 
	differenza di Meister Eckhart 
	
	
	
	
	[10], ad esempio, il cui destino non è 
	senza analogia con il suo, Evagrio non ha mai avuto la possibilità di 
	difendersi in uno scritto dalle accuse mossegli dai suoi detrattori. 
	Tuttavia, ciò che rende difficile l’approccio al pensiero dell’uno come 
	dell’altro non è in definitiva l’“ortodossia” o l’“eterodossia” delle loro 
	dottrine, bensì la loro inaccessibilità per uno spirito che proceda in 
	maniera esclusivamente storico-critica. In una delle sue prediche, Meister 
	Eckhart dice che la verità di cui sta parlando può essere compresa solo da 
	colui che è “diventato” lui stesso questa verità, poiché essa viene 
	“direttamente dal cuore di Dio”. Meister Eckhart non si avvale qui di alcuna 
	prerogativa derivante da qualche “rivelazione privata”, ma unicamente di 
	un’“intelligenza” del mistero del Dio rivelato; intelligenza per la quale 
	non basta la sola ragione che è alla portata di chiunque, anche dell’impuro.
	
	Evagrio non la 
	pensa diversamente. In una lettera, egli rimette la ragione - la 
	“dialettica” - al suo posto: solo il “cuore puro”, infatti, è atto alla 
	“contemplazione” 
	
	
	
	
	[11]. Riguardo poi alle intuizioni 
	ricevute in questa contemplazione, il mistico può solo parlarne tramite 
	concetti forzatamente inadeguati, in quanto tutti ricavati dalla realtà 
	materiale, mentre Dio è immateriale 
	
	
	
	
	[12]. Nella “Lettera ad Anatolio” 
	
	
	
	
	
	[13] si trova un’affermazione - in 
	riferimento soprattutto ai 
	
	
	Kephalaia gnostika - di cui occorre 
	tenere conto. Secondo essa, molto di ciò che viene detto è 
	(intenzionalmente) “oscuro” e “velato”. Per coloro che camminano sulle 
	“orme” dei padri, però, tutto diventa chiaro e luminoso.
	
	Questo discorso, 
	fatto da due mistici tanto significativi, contiene contemporaneamente una 
	messa in guardia e un invito: una messa in guardia nei confronti di ogni 
	tentativo puramente esteriore di afferrare l’inafferrabile, ma più ancora un 
	invito a lasciarsi esistenzialmente afferrare da esso. La via da adottare è 
	proprio la 
	
	praktiké, alla quale questo scritto (il
	
	Praktikos – Il Trattato Pratico) è 
	consacrato.
	2. L’opera: i cento capitoli del
	Praktikos
	Come la maggior parte delle opere di Evagrio, 
	anche il Praktikos è, se così si 
	può dire, uno scritto di circostanza, di cui si possono ancora cogliere 
	chiaramente le fasi di sviluppo. I capitoli 6-90 costituiscono certamente il 
	nucleo più antico. A esso verranno aggiunti successivamente, come “annesso 
	documentario”, i capitoli 91-100, quando Evagrio raccoglierà tre scritti 
	originariamente indipendenti - 
	Praktikos, Gnostikos e Kephalaia gnostika - in una trilogia dedicata al 
	suo amico e benefattore Anatolio. I capitoli introduttivi 1-5 daranno la 
	cifra completa di cento capitoli da inserire in questo nuovo e più ampio 
	quadro. La lettera dedicatoria ad Anatolio funge da prologo all’insieme, 
	mentre la sua ultima parte serve da epilogo al
	Praktikos.
			
			
			
			
			
			[1] 
			Il profilo che segue si basa essenzialmente su Palladio, e 
			precisamente su Historia 
			Lausiaca 38 e sulla sua recensione ampia, conservata unicamente 
			in copto; cf. Vita. Una dettagliata biografia, che raccoglie anche elementi 
			sparsi, si può trovare nel nostro libro, Evagrios Pontikos,
			Briefe aus der Wüste, 
			Trier 1986.
			
			
			
			[2] 
			Così viene chiamato il vescovo di quei centri in campagna che non 
			hanno il titolo di città.
			
			
			
			
			[3]
			Cf. Ep 21.
			
			
			
			
			[4] 
			
			
			Ep. Fid. 2,14-16.
			
			
			
			
			
			[5] Cf.
			Pract, Epil.
			
			
			
			[6] 
			Le vestigia di Kellia sono state recentemente riportate alla luce da 
			archeologi francesi e svizzeri. Cf. “Bibliografia”, in P. Miquel, A. 
			Guillaumont et al., Déserts 
			chrétiens d’Égypte, Nice 1993.
			
			
			
			
			[7] Cf. G. Bunge, “Evagre le Pontique et les deux 
			Macaire”, in Irénikon 
			56(1983),pp. 215-227; 323-360.
			
			
			
			
			
			[8] Cf. Id.,
			Briefe, pp. 54 ss.
			
			
			
			
			
			[9] Cf. Gen 1,26-27.
			
			
			
			[10] 
			Ndr.: Eckhart von Hochheim, meglio conosciuto come Meister Eckhart 
			(in italiano: Maestro Eccardo; Tambach-Dietharz o Hochheim, 1260 – 
			Colonia o Avignone, 1327/1328), è stato un teologo e religioso 
			tedesco. È stato uno dei più importanti teologi, filosofi e mistici 
			renani del Medioevo cristiano e ha segnato profondamente la storia 
			del pensiero tedesco. (Fonte 
			Wikipedia)
			
			
			
			[11]
			
			Cf. 
			
			
			Ep. 62.
			
			
			
			[12]
			
			Cf. 
			
			
			in Eccl 
			5,1-2 (Géhin 35).
			
			
			
			[13]
			
			
			Cf. 
			
			Pract, Prol [9].
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7 aprile 
2021       a cura di 
Alberto "da 
Cormano"    
   
      
alberto@ora-et-labora.net