La testimonianza ecumenica di
frère Roger di Taizé:
insegnamento, prassi, vita
Matthias Wirz, monaco di Bose
Corso di cultura monastica - Monachesimo e dialogo ecumenico
Monastero San Benedetto - Milano 14 febbraio 2011
Il nome di Taizé, per molte persone, suona famigliare: da ormai mezzo secolo, la
comunità accoglie ogni anno decine di migliaia di persone - giovani soprattutto
- a cui offre, attraverso la preghiera, di vivere una comunione con un Dio
infinitamente vicino e, nell’incontro con altri, di sperimentare la Chiesa al di
là delle barriere confessionali e in una dimensione che supera i confini dei
continenti.
Attorno al nome di Taizé si sono però anche focalizzati molti interrogativi,
soprattutto di ordine ecumenico. Ci si è chiesti qual è l’appartenenza
confessionale di una comunità nata in seno alle Chiese della Riforma, ma da
sempre molto vicina alla Chiesa cattolica. Si è perfino arrivati ad accusare
Taizé di avere “tradito” le Chiese protestanti dalle quali provenivano i primi
fratelli, e questo interrogativo si è dunque naturalmente posto anche per
l’appartenenza ecclesiale dei singoli membri della comunità. È stato sollevato
anche il problema dell’eucaristia celebrata a Taizé e quello della pratica di
ciò che è stato definito “intercomunione” in seno ad assemblee ecclesialmente
molto composite quali sono abitualmente quelle di Taizé. Altri interrogativi
potrebbero ancora essere elencati.
Qui vogliamo accostarci a Taizé e alle domande in materia ecumenica che nascono intorno a questo luogo attraverso l’incontro con la vita e l’insegnamento del suo fondatore, frère Roger Schutz: di fatti, la testimonianza di frère Roger è inseparabile da quella della sua comunità. O meglio, è nella comunità e attraverso di essa che la prassi e le iniziative ecumeniche di frère Roger trovano la loro concretizzazione e la loro risonanza. Se ci è tuttavia permesso di focalizzare l’attenzione in modo più particolare sulla sua persona, mi pare sia non solo perché, in quanto fecondo ispiratore, ha ininterrottamente vivificato e accompagnato la vicenda di Taizé fino alla propria morte, ma anche perché lui stesso è divenuto una figura mediatica, e, come la sua comunità, è stato oggetto di discussioni - per non dire di critiche - a causa dell’originalità delle posizioni ecclesiali ed ecumeniche che ha assunto.
1. Una vita donata per l’unità delle Chiese
Roger Schutz è nato il 12 maggio 1915, ultimo di nove figli, nel paesino di
Provence, nelle montagne che circondano il lago di Neuchatel (Svizzera)[1].
Suo padre era pastore riformato. All’età di ventun’anni, nel 1936, dopo una
grave tubercolosi polmonare che l’ha immobilizzato per vari anni, seguendo il
desiderio di suo padre inizia a Losanna gli studi di teologia, che proseguirà
poi a Strasburgo fino alla guerra. Nel 1939 viene eletto presidente
dell’Associazione cristiana degli studenti di Losanna, in seno alla quale crea
un gruppo di giovani, chiamato “la grande Comunità”, che si raduna per degli
scambi e dei ritiri.
All’inizio della seconda guerra mondiale, alla ricerca di un luogo fisso per
radunare questo gruppo e per vivere al cuore delle tensioni del momento, si reca
in Francia. Il 20 agosto 1940 gli viene offerta una grande casa nel villaggio di
Taizé, a pochi chilometri dalla linea di demarcazione che separa la Francia
libera da quella occupata dai tedeschi: vi si insedia e accoglie profughi,
soprattutto ebrei.
Presto entra in contatto con alcuni pastori e preti di Lione, e già nell’estate
del 1941 padre Paul Couturier (iniziatore della settimana di preghiera per
l’unità dei cristiani) fa un soggiorno a Taizé. L’anno successivo frère Roger
conosce il gesuita Henri de Lubac e incontra il gruppo ecumenico di Dombes, che
si dedica al dialogo teologico tra le diverse confessioni cristiane.
Dopo questi primi anni a Taizé, nel 1942, in seguito all’occupazione totale
della Francia, è costretto a ritornare in Svizzera, dove discute la tesi di
laurea presso la Facoltà di teologia di Losanna e conclude gli studi accademici.
È durante questo soggiorno svizzero, che durerà due anni, che il futuro
fondatore di Taizé inizia un’esperienza di vita comune e di preghiera a Ginevra
con altri tre studenti protestanti.
A luglio 1944 Roger Schutz è consacrato pastore riformato a Neuchatel e a
ottobre, con i tre compagni che si sono uniti a lui a Ginevra, si reinsedia
nella casa di Taizé, dove il gruppo accoglie prigionieri tedeschi e una ventina
di bambini francesi rimasti orfani a causa della guerra. Iniziano allora gli
anni fecondi della fondazione. Frère Roger ricorderà più tardi: “Nella vocazione
della nostra comunità, ci sono sempre state due aspirazioni: camminare in una
vita interiore attraverso la preghiera, e assumere delle responsabilità per
rendere la terra più abitabile. L’una non può stare senza l’altra”
(Avverti una felicità?, p. 79)[2].
La passione ecumenica si trova per così dire alla cerniera tra queste due
tensioni. Nel fascicolo pubblicato nel 1941, dove frère Roger spiega il proprio
progetto comunitario e che funge anche da prima regola, la ricerca dell’unità
dei cristiani appare già come parte integrante della vita comunitaria; vi si
legge: “Vorremmo tenere presente la visione della lacerazione del corpo di
Cristo, in modo da essere un fermento di inquietudine per i cristiani che
considerano come normale la divisione della Chiesa universale. La nostra
comunità deve essere un focolare di ecumenismo”[3].
Nel 1948 il nunzio a Parigi, Angelo Roncalli (futuro papa Giovanni XXIII),
concede alla giovane comunità riformata l’autorizzazione di utilizzare la chiesa
romanica del paese per gli uffici comunitari. Si instaura anche la prima
collaborazione con il gesuita Joseph Gelineau nella ricerca del canto liturgico.
Due filosofi visitano regolarmente la comunità: il cattolico Emmanuel Mounier e
l’evangelico Paul Ricreur. Ma i primi fratelli non dimenticano il ministero in
vista del quale si sono formati: Roger Schutz assume per quasi una decina d’anni
la responsabilità della parrocchia riformata di Macon, mentre Max Thurian e
Daniel de Montmollin assicurano una presenza pastorale presso i protestanti
della regione.
Nel frattempo la comunità, della quale frère Roger era diventato formalmente
priore, conosce nuove entrate e la mattina di Pasqua del 1949, nella chiesa
romanica di Taizé, i primi sette fratelli pronunciano il loro impegno per tutta
la vita nel celibato e nella comunione dei beni. Nell’inverno di tre anni dopo
frère Roger redige la
Regola di Taizé, nella quale sottolinea nuovamente l’urgenza
ecumenica; si legge a conclusione della premessa: “Non rassegnarti mai allo
scandalo della separazione fra cristiani che professano così facilmente l’amore
del prossimo, ma rimangono divisi. Abbi la passione dell’unità del Corpo di
Cristo” (p. 15).
Sin dall’inizio, i fratelli tessono legami importanti con le autorità
ecclesiastiche cattoliche: lo stesso anno delle prime professioni, il cardinale
di Lione organizza per frère Roger una prima udienza a Roma presso Pio XII (a
questo viaggio risale anche l’amicizia con Giovanni Battista Montini, futuro
papa Paolo VI). Poi nel 1958, solo pochi giorni dopo l’insediamento di Giovanni
XXIII, il priore di Taizé sarà ricevuto dal nuovo papa che gli manifesterà una
spontanea fiducia. Da allora i papi successivi - Giovanni XXIII, Paolo VI e
Giovanni Paolo II - riceveranno ogni anno il fondatore di Taizé in udienza. Egli
parteciperà anche, con frère Max Thurian, al concilio Vaticano II, come
osservatore non cattolico. Dal 1962 al 1965 assisterà a tutte le sessioni,
stringendo amicizia con molti teologi e prelati, fra cui dom Helder Camara e il
vescovo Karol Wojtyla che, in veste di papa Giovanni Paolo II, si recherà a
Taizé nel 1986.
Durante gli anni Sessanta, Taizé si apre ugualmente all’ortodossia: nel 1962, a
Istanbul, frère Roger visita il patriarca ecumenico di Costantinopoli
Athenagoras, con cui si incontrerà più volte in seguito. Sulla strada del
ritorno il priore attraversa alcuni paesi ortodossi dell’est europeo dove poi
ritornerà a più riprese. Sempre nel 1962 è il metropolita Nikodim, responsabile
delle relazioni esterne del patriarcato di Mosca, a fare visita a Taizé. L’anno
successivo, frère Roger si reca in Grecia per i festeggiamenti del millenario
del Monte Athos.
Ma la dimensione ecumenica si concretizza anche nella comunità e intorno ad
essa: nel 1960, mentre Taizé annovera una quarantina di fratelli provenienti da
Chiese riformate e luterane, il primo anglicano entra a fare parte della
comunità. Lo stesso anno ha luogo a Taizé un incontro fra una decina di vescovi
cattolici e una sessantina di pastori protestanti per una condivisione su temi
pastorali: trattandosi del primo raduno di questo tipo dopo le rotture del XVI
secolo, l’incontro è considerato un evento. Nell’agosto del 1962 viene poi
inaugurata la nuova chiesa della comunità di Taizé, significativamente
denominata chiesa della Riconciliazione. Due anni dopo, una fraternità
francescana si insedia a Taizé, e nel 1965 dei monaci ortodossi si stabiliscono
nei pressi della comunità. Nel 1969 un primo giovane cattolico diventa fratello
di Taizé.
Con la fine degli anni Sessanta gli accenti di interesse si spostano: siccome da
una decina di anni i giovani sono sempre più numerosi a visitare la comunità,
nell’estate del 1966 Taizé organizza per loro un primo incontro internazionale.
Otto anni più tardi avrà luogo a Taizé l’importante “concilio dei giovani”, che
dopo una preparazione internazionale pluriennale, vedrà la partecipazione di
quasi quarantamila giovani. Da questa esperienza nasceranno sia gli incontri
settimanali per giovani che la comunità anima fino ad oggi durante tutto l’anno
a Taizé, sia il “pellegrinaggio di fiducia sulla terra” che comprende raduni
annuali nelle grandi città europee e in altri continenti. Per questi giovani
ospiti, frère Roger redige ogni anno una
Lettera che guida le meditazioni personali e di gruppo. Se
l’attenzione all’unità dei cristiani e alla riconciliazione vi è sempre
presente, le tematiche spirituali della ricerca di senso, della preghiera e
dell’impegno concreto occupano però il primo posto.
Ad aprile 2005 frère Roger effettua il suo ultimo viaggio fuori dalla comunità
per assistere ai funerali di Giovanni Paolo II. Come sappiamo dall’immagine di
agenzia che ha fatto il giro del mondo, in quell’occasione riceve pubblicamente
la comunione dalle mani del cardinale Joseph Ratzinger, che pochi giorni dopo
sarà eletto papa Benedetto XVI.
Poi il 16 agosto, tre mesi dopo avere festeggiato i suoi 90 anni, il fondatore
di Taizé viene pugnalato a morte da una ragazza psicolabile nel corso della
preghiera della sera nella chiesa della Riconciliazione. Molti hanno letto la
sua morte come il segno concreto di una vita offerta, vulnerabile perché aperta
agli altri senza riserve: una “vita donata per l’unità delle Chiese”, secondo le
parole con cui frère Roger viene ricordato al monastero di Bose nelle litanie
dei santi monaci.
Come indica il titolo, questa relazione evocherà innanzitutto la
testimonianza di frère Roger. Sì, perché il fondatore di Taizé non
era un “teorico”, ma ha invece sempre cercato di tradurre in pratica, in segni
concreti le proprie intuizioni. Si potrebbe dire che, piuttosto che sostenere
delle idee, ha continuamente cercato di favorire quel che vorrei chiamare il
primato della vita: ad esempio, da giovane, frère Roger era
colpito dal fatto che tante persone in Europa, che pure avevano sentito parlare
di Gesù Cristo, del Vangelo e della Chiesa, non ne erano minimamente
influenzate. Come mai, si chiedeva, la fede non ispira più le popolazioni
dell’Europa? La sua risposta è stata: non bastano le parole; ci vogliono segni
concreti, vissuti, per trasmettere il messaggio cristiano. Si può allora dire
che con la fondazione di una comunità ha voluto dare un tale segno, attraverso
il quale, senza troppe spiegazioni, poter far giungere il messaggio evangelico
alle persone del suo tempo. Inoltre, in un mondo in cui i cristiani sono divisi
in varie confessioni contrapposte, frère Roger ha avuto l’intuizione che una
comunità monastica nella quale vivano, preghino e lavorino insieme cristiani di
diverse tradizioni può costituire una risposta concreta al problema della
divisione delle Chiese.
Ma se frère Roger era impaziente che le idee si incarnassero nella realtà,
traeva ugualmente dalla vita stessa, da esperienze vitali anche di altri,
appelli per la propria auto-comprensione e la propria pratica. Così, sempre in
campo ecumenico, è stato influenzato per tutta l’esistenza dall’esempio della
nonna materna, come ha raccontato a più riprese:
Posso qui ricordare che mia nonna ha con intuito scoperto come una chiave della
vocazione ecumenica e che mi ha aperto una via verso la concretizzazione?
Segnato dalla testimonianza della sua vita, ancora molto giovane, ho trovato la
mia propria identità di cristiano riconciliando in me stesso la fede delle mie
origini con il mistero della fede cattolica, senza rottura di comunione con
nessuno (Dio non può che amare, p. 86)
[4].
Frère Roger non era dunque un ideologo, ma accordava il primato all’esperienza
viva. Non per questo però era un “attivista”; lo capiamo considerando il suo
modo ben preciso di guardare alla realtà: possiamo chiamarla la sua
visione universale, che anch’essa non è estranea al tema
dell’unità dei credenti in Cristo. Detto molto semplicemente, frère Roger
desiderava sempre capire gli altri, invece di giudicarli. Questo atteggiamento
di assoluta benevolenza risale a un’esperienza fatta in giovinezza:
Mi chiedevo: esiste una via sulla nostra terra, per giungere a capire tutto
dell’altro? Un giorno di cui ricordo la data, in un luogo che potrei descrivere,
colorato dalla luce filtrata d’una sera di fine estate, mentre le ombre
scendevano sulla campagna, accadde che presi una decisione. Mi dissi: se quella
via esiste, comincia da te stesso e impegnati, proprio tu, a capire tutto di
ogni uomo. Quel giorno ebbi la convinzione che la decisione presa sarebbe
rimasta valida fino alla morte. Si trattava, in verità, di ritornare, e
ritornare ancora per tutta la vita, a quella decisione: cercare di capire tutti
piuttosto che di essere capito
(Stupore di un amore, p. 9).
Tradotta in termini più teologici, quest’intuizione faceva di lui un uomo
convinto che il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù Cristo, non esclude nessuno dal
suo amore; con Gesù una sorgente di vita veramente universale è entrata nella
storia umana. Tale consapevolezza spingeva frère Roger a un atteggiamento mai
esclusivo, ma di ascolto rivolto a tutte le persone e a ogni Chiesa, un
atteggiamento “inclusivo” che si concretizzava a Taizé attraverso l’accoglienza
di tutti.
Sono dunque la vita e la prassi di frère Roger, caratterizzate dall’empatia per
ogni uomo, a permetterci di capire il suo impegno in campo ecumenico. I suoi
scritti - che non cercano mai di raggiungere una sorta di sistematicità né di
imporre norme, ma sempre di condividere un’esperienza, in modo breve e spesso
poetico - vengono per così dire solo a confermare le intuizioni vitali che egli
traduce in gesti concreti nella sua esistenza.
Possiamo a questo riguardo riprendere un’immagine, quella della
parabola, che frère Roger stesso usava così volentieri. Quando
definiva la comunità di Taizé, la presentava sovente come una “parabola di
comunione”: come la comunità non ha il suo fine in se stessa, ma rinvia sempre a
una realtà di comunione più grande - allo stesso modo delle parabole bibliche di
Gesù -, così la testimonianza di frère Roger non può limitarsi a un discorso
teorico, ma si esprime in una storia vissuta, certamente non compiuta in se
stessa, ma aperta a ben altre realizzazioni. Tenendo presente che l’episodio
narrato da una parabola non è mai univoco, capiamo anche che il suo senso è come
sospeso, perché lascia a ciascuno il compito di
interpretarla, rinviando ancora a realtà ulteriori. La vita di comunione di
frère Roger non è dunque da leggere come una storia compiuta, ma molto di più
come un invito, rivolto ai cristiani tutti, a cercare di impegnarsi a loro volta
per aprire vie di riconciliazione nelle divisioni tra le diverse comunità
ecclesiali.
3. Lealtà e solidarietà con tutte le Chiese
L’urgenza del superamento delle divisioni fra cristiani - in vista di una
riconciliazione fra tutti gli uomini - ha sempre abitato il cuore e ispirato
l’azione di frère Roger. Già da piccolo, il figlio del pastore Schutz aveva
sentito intuitivamente lo scandalo, di fronte al mondo, delle separazioni
confessionali e l’appello interiore a impegnarsi per ricomporre l’unità delle
Chiese. L’esempio di alcune donne l’aveva segnato, come quello della signora
Bioley-Delacoste, una cattolica da cui era stato messo a pensione durante le
scuole medie; ma soprattutto sua nonna che, dopo la prima guerra mondiale,
cercando di compiere in prima persona la riconciliazione richiesta ai cristiani
che si erano combattuti con le armi in Europa, pur essendo di un’antica famiglia
evangelica, “cominciò a frequentare la Chiesa cattolica, senza peraltro
manifestare alcuna rottura con i suoi”
(Avverti una felicità?, p. 97)[5].
Se questi esempi hanno senz’altro formato il piccolo Roger, è poi soprattutto in
prima persona che egli si è impegnato a cercare la prossimità con le altre
Chiese e offrire vie di superamento delle divisioni confessionali. Ne troviamo
la testimonianza nei suoi scritti lungo tutta la sua vita. Già nel primo
capitolo del primo libro di Roger Schutz, pubblicato nel 1944, si leggeva:
“Pentiamoci perché, pur essendo figli di uno stesso Padre, ci abituiamo a vivere
in confessioni e Chiese separate, e perché la nostra divisione appare in modo
così visibile nella mancanza di amore”
(Introduction à la vie communautaire, p. 16). Quindici anni dopo
affermava ancora: “Aprendo gli occhi sullo scandalo delle nostre divisioni,
cerchiamo un’unità visibile, condizione di uno slancio missionario, capace di
portare il Vangelo a tutti gli uomini del mondo”
(L’oggi di Dio, p. 62). E ancora nel suo ultimo libro, pubblicato
poche settimane prima della morte, frère Roger scriveva:
Quando la comunione tra cristiani è una vita vissuta e non solo una teoria,
questa diffonde una speranza luminosa. E ancora più: può sostenere
l’indispensabile ricerca di una pace nel mondo. Allora, per quale motivo i
cristiani potrebbero ancora rimanere separati? Oggi è urgente una
riconciliazione dei cristiani, non può essere continuamente rinviata a più
tardi, sino alla fine dei tempi
(Avverti una felicità?, p. 93).
Tale impazienza ecumenica, sottolinea il priore di Taizé, richiede uno sforzo,
condiviso tra tutte le Chiese, verso un’unità che non può basarsi sulla vittoria
di una di esse:
L’unione dei cristiani non si otterrà col trionfo degli uni sugli altri. Se vi
fosse vittoria degli uni e sconfitta degli altri, nessuno accetterebbe una
simile unità ... Il lavoro ecumenico è fatto di pazienza e di carità. Non sarà
efficace che se attendiamo dai nostri fratelli i passi possibili invece di
chiedere loro passi che la loro fede rende impossibili, e se siamo pronti noi
stessi a fare quelli che non contraddicono le nostre convinzioni fondamentali
(L ’unità, speranza di vita, pp. 89-90 e 100).
Quest’atteggiamento porterà il fondatore di Taizé, da riformato, a vivere molto
presto una grande vicinanza alla Chiesa cattolica. Il suo interesse per l’altra
Chiesa, che non indica mai in lui un rinnegamento delle proprie origini, denota
invece un ardente desiderio di unità. In questo senso, la vita monastica stessa
che il giovane teologo intende fare nascere sul suolo evangelico non costituisce
una cattolicizzazione in qualche modo forzata suggerita alla propria Chiesa, ma
la volontà pressante di aprire tutte le Chiese alla ricerca dell’unità di cui la
comunità è parabola. Scriverà: “La particolare vocazione [della nostra comunità]
non le impedisce di essere solidale con le Chiese della Riforma: Taizé cerca
precisamente in mezzo ad esse la via dell’unità visibile dei cristiani” (L’oggi
di Dio, p. 13).
È stata questa la ricerca costante di frère Roger. Nel suo intento, questo sforzo paziente, leale e senza astuzia doveva passare attraverso segni (come appunto quello della comunità), iniziative audaci e soprattutto incontri personali, più che attraverso contatti ufficiali, programmi a lungo preparati o confronti polemici. Vediamo ora alcune tappe di questo cammino, passando successivamente in rassegna i legami del priore di Taizé con ognuna delle famiglie confessionali.
La Chiesa riformata, Chiesa delle sue origini familiari, era ovviamente la prima
con la quale frère Roger ha dovuto misurarsi, in particolare attraverso il suo
progetto di vita comunitaria. Nel XVI secolo, Lutero prima, e poi Calvino, sulla
base della loro teologia della grazia, avevano in effetti criticato la pratica
monastica. Essi sospettavano che i monaci volessero ottenere la salvezza
mediante delle opere, cioè mediante una disciplina e un’ascesi proprie. Così, a
partire dalla Riforma, non si sono costituite comunità monastiche protestanti.
L’inizio del XX secolo conosce però una nuova evoluzione al riguardo, una
dinamica nella quale si inserisce anche il giovane fondatore di Taizé. Già
nell’Ottocento una forma di vita religiosa era ritornata in vita in seno alle
Chiese evangeliche, mediante le comunità di “diaconesse”, soprattutto in
Germania, in Francia e in Svizzera. Poi, all’inizio del Novecento, fioriscono
alcune comunità contemplative: a Grandchamp (Svizzera), Pomeyrol (Francia),
Imshausen (Germania). Nello stesso periodo Dietrich Bonhoeffer pubblica il suo
libretto Vita comune
[6],
nel quale condivide con un largo pubblico l’esperienza comunitaria vissuta con
gli studenti del seminario confessante di Finkenwalde durante gli anni della
barbarie nazista. Nella stessa epoca ancora, in modo sorprendente, il grande
teologo Karl Barth giustifica anche lui l’esistenza di “comunità particolari
nella Chiesa” evocando “un certo ministero di fede e di amore che rende
necessaria una vita comunitaria a tutti gli effetti”, anche se “nessuna casa di
questo genere può interamente evitare una certa parentela con il convento
cattolico”[7].
Queste aperture rimangono però timide e largamente minoritarie nel contesto
delle Chiese protestanti. Con il suo progetto comunitario, esplicitamente volto
alla risoluzione delle divisioni confessionali, frère Roger si è dunque trovato
a lungo confrontato con incomprensioni in seno alle Chiese da cui lui e i suoi
primi fratelli provenivano e nelle quali alcuni di loro hanno poi anche
esercitato il ministero pastorale.
Le relazioni di Taizé con la Chiesa riformata di Francia in particolare non sono
mai state facili. Nel 1956, frère Roger desiderava che alcuni dei suoi fratelli
vi fossero consacrati pastori, ma il consiglio nazionale della Chiesa francese
si rifiutò di procedere a tali ordinazioni (come pure alcune Chiese riformate
svizzere), temendo per i fratelli pastori un possibile caso di conflitto tra
l’obbedienza alla comunità e l’obbedienza alla disciplina della Chiesa riformata
alla quale un ministro ordinato è tenuto. Più in profondità però, era
l’indipendenza istituzionale di Taizé che faceva problema: la forma inedita
della comunità le impediva, in effetti, di essere integrata in una Chiesa
istituita.
Finalmente nel 1958, al sinodo nazionale della Chiesa riformata di Francia, un
accordo fu reso pubblico: vi si riconosceva “la forma caratteristica della
vocazione al servizio di Cristo nella Chiesa” dei fratelli che “appartengono
ognuno personalmente a una Chiesa particolare della Riforma”, accordando alla
comunità “la libertà di organizzare la sua vita interna”[8].
Frère Roger poteva considerarsi felice di questa fragile normalizzazione, lui
che affermerà l’anno successivo: “Con la vocazione monastica abbiamo
deliberatamente affondato le nostre radici al di là della Riforma, tentando di
ritornare alle fonti”[9]
della Chiesa indivisa.
Ma anche in seguito la Chiesa evangelica francese ha spesso temuto che i
fratelli potessero essere considerati a torto dei suoi rappresentanti nelle
iniziative internazionali che intraprendevano. Inoltre, sempre di più con il
passare degli anni, alcune posizioni di frère Roger vicine alla Chiesa cattolica
vennero aspramente criticate dagli organismi riformati. Ciononostante la
Federazione protestante di Francia associò Taizé alla fondazione del proprio
“Dipartimento di ricerche comunitarie” (1963) e fece entrare per alcuni anni un
rappresentante della comunità nel Consiglio nazionale della Federazione. Ma nel
1975 i rapporti si complicarono ulteriormente e la comunità chiese di non
figurare più nell’annuario ufficiale dei protestanti francesi. Per la verità,
frère Roger ha sempre temuto che la dimensione istituzionale spegnesse la
vitalità delle proprie iniziative. Ha scritto in tal senso: “Nella storia dei
cristiani, tante istituzioni, per conservarsi attraverso i tempi, hanno finito
col perdere il carattere provvisorio che era proprio delle loro origini. Hanno
bisogno per sopravvivere di circondarsi continuamente di barriere protettrici”
(Unanimità nel pluralismo, p. 42). Tra queste barriere, vi sono
anche quelle confessionali, che frère Roger ha sempre cercato di oltrepassare,
provocando spesso incomprensione nelle Chiese della Riforma.
La questione del posizionamento ecclesiale di Taizé fu nuovamente affrontata in
un incontro di chiarificazione a Parigi, nel 1982, tra il presidente della
Federazione protestante di Francia e il priore di Taizé. Fu chiesto a frère
Roger: “Riconosce ancora l’eredità della Riforma?”; pur rispondendo
affermativamente, il priore aggiunse: “Riconosco anche lo spirito e l’eredità
della Chiesa cattolica”[10].
Evidentemente nessuna istituzione ecclesiale poteva accogliere questa
appartenenza non esclusiva.
A livello informale, però, molti legami continuarono a unire frère Roger e la
sua comunità alle Chiese della Riforma. Basti ricordare l’amicizia profonda del
priore di Taizé con il vescovo luterano di Dresden Johannes Hempel negli anni
Settanta e Ottanta, ma anche le importanti visite a Taizé degli arcivescovi di
Canterbury Michael Ramsay nel 1973 e George Carey nel 1992, quella di tutti i
vescovi della Chiesa luterana di Svezia nel 1994, senza dimenticare la
delegazione della Federazione protestante di Francia recatasi a Taizé per
reinstaurare rapporti pacifici nel 2002.
Già durante la sua infanzia il piccolo Roger era stato confrontato con la
presenza della Chiesa cattolica, lo abbiamo evocato sopra. E sono soprattutto
esperienze personali che lo hanno segnato: lui stesso narra che, in un’epoca in
cui le confessioni si ignoravano quasi completamente, una visita a cinque anni
in una Chiesa cattolica e la presenza, di nascosto, alla celebrazione della
messa, alcuni anni più tardi, gli hanno fatto scoprire l’atmosfera carica di
senso del mistero della Chiesa cattolica. La vita gli permetterà di approfondire
questa realtà al punto di potere scrivere cinquant’anni più tardi: “Mi ritrovo
spesso nella piccola chiesa romanica, davanti alla custodia eucaristica. Questo
luogo è abitato. La fede della Chiesa cattolica lo testimonia fin dai primi
secoli”
(La tua festa non abbia fine, pp. 46-47).
L’attrazione del giovane Roger Schutz per la Chiesa cattolica si intuisce anche
dal tema della tesi di laurea che ha presentato nel 1943 alla Facoltà di
teologia di Losanna su “L’ideale monastico fino a san Benedetto e la sua
conformità con l’Evangelo”. Stupisce la straordinaria conoscenza del monachesimo
antico da parte di uno studente di teologia appartenente a una Chiesa nella
quale le comunità monastiche erano state bandite da quattro secoli. Nella tesi
si nota inoltre la grande familiarità del futuro fondatore con i padri della
Chiesa indivisa; uno dei primissimi fratelli ha raccontato al riguardo: “Me ne
parlava come se li avesse conosciuti di persona. Li considerava suoi amici e
ispiratori. Si trattava di una familiarità sorprendente, visto che non erano di
certo un argomento di studio privilegiato nelle facoltà protestanti svizzere”[11].
Ma è attraverso l’incontro con alcune personalità del mondo cattolico che frère
Roger perviene a creare legami concreti con la Chiesa di Roma. Sono teologi,
religiosi, ma anche vescovi con i quali il giovane priore entra in contatto. Già
nei primi anni della comunità, il cardinale di Lione Pierre Gerlier organizza
per il priore di Taizé un’udienza presso Pio XII. Sarà lo stesso cardinale ad
introdurlo presso Giovanni XXIII, solo pochi giorni dopo il suo insediamento.
Frère Roger ha spesso ricordato quest’udienza del 1958, e quelle successive:
Fin dal nostro primo incontro con lui, abbiamo avuto la certezza di essere
amati, compresi. Giovanni XXIII impresse su di noi un segno indelebile ...
Attraverso di lui una primavera entrò nella nostra comunità. Per noi fu come una
nuova partenza. Giovanni XXIII rimane l’uomo che forse ho più venerato sulla
terra[12].
Attraverso la testimonianza della sua persona, papa Giovanni ha trasmesso al
fondatore di Taizé il senso del mistero di comunione della Chiesa e gli ha
insegnato in profondità cosa significava il ministero di un pastore universale.
L’ultima udienza con lui ebbe di nuovo su frère Roger un’influenza decisiva.
Volendo ricevere come un testamento, il priore domandò al papa morente: “Qual è
il posto di Taizé nella Chiesa?”; Giovanni XXIII, facendo con le mani dei gesti
circolari, precisò: “La Chiesa cattolica è costituita da cerchi concentrici
sempre più grandi”; voleva fare comprendere a frère Roger - che da anni viveva
una certa comunione con la Chiesa cattolica - che Taizé si trovava già in uno di
questi cerchi. “Le sue parole ci hanno come inseriti nella realtà della Chiesa”[13],
ebbe a commentare il fondatore di Taizé.
La presenza del priore di Taizé, con frère Max Thurian, al concilio Vaticano II
offrirà anche molte opportunità di incontri e di collaborazione; tante amicizie
nasceranno, che inseriranno Taizé più fattivamente nell’ampio mondo cattolico
(attraverso operazioni di aiuto alle popolazioni del Sud America, per esempio).
Per frère Roger, l’esperienza porterà inoltre all’intimo desiderio di “una nuova
dimensione” dell’ecumenismo, senza la quale - secondo le sue parole - “l’ondata
ecumenica ricadrà, invece di guadagnare a poco a poco tutti i cristiani e per
mezzo loro tutti gli uomini”. Svilupperà queste riflessioni in un intero libro
che uscirà poche settimane prima dell’ultima sessione del Concilio
(Dinamica del provvisorio, cit. a p. 9).
La vicinanza di Taizé con Roma si misura negli anni successivi al Concilio
attraverso alcuni altri eventi: il più significativo è senz’altro la nomina nel
1971 di un rappresentante permanente del priore di Taizé presso la Santa Sede,
“affinché esistesse un legame diretto”
(Avverti una felicità?, p. 103). Inoltre, dal 1969, con l’accordo
del cardinale di Parigi François Marty, un primo fratello cattolico era entrato
a fare parte della comunità; farà professione nel 1972. Quello stesso anno,
frère Roger riceve per la prima volta la comunione durante l’eucaristia
cattolica presieduta dal vescovo di Autun. L’autorizzazione a comunicarsi sarà
poi estesa anche a tutti i fratelli[14].
Come spiegherà frère Alois, successore del fondatore quale priore di Taizé, “era
impensabile non comunicare alla stessa mensa eucaristica” mentre la comunità “si
apprestava a ricevere l’impegno a vita del primo fratello cattolico”[15].
Ma nonostante questa apparente serenità nelle relazioni, e nonostante l’amicizia
dei papi successivi con frère Roger, alcune difficoltà si manifestarono nei
rapporti tra Taizé e i responsabili dei dicasteri romani: si cercava uno statuto
per questa comunità inclassificabile, nata protestante, ma così vicina alla
Chiesa di Roma da avere ricevuto il permesso di accogliere membri cattolici. Nel
1974 frère Roger riceve una convocazione dalla Congregazione per la dottrina
della fede, dove si reca con altri tre fratelli. Deve a lungo esprimersi sulla
sua lealtà nei confronti della Chiesa cattolica. Deve anche precisare la sua
posizione sull’intercomunione, e spiega: “La comunità non la richiede secondo
una simmetria perfetta. La relazione tra cristiani divisi è asimmetrica,
ciascuno apporta i doni che ha ricevuto”[16].
Anche se, due giorni dopo quest’incontro, Paolo VI ribadirà a frère Roger la sua
totale fiducia, il priore di Taizé, la cui apertura alla Chiesa di Roma era così
sincera, conserverà fino alla fine dei suoi giorni la ferita provocatagli da
quell’episodio.
Durante la sua vita, frère Roger si è naturalmente aperto anche all’Oriente
cristiano. Anche in questo caso, “l’amore profondo per la Chiesa ortodossa
risale all’infanzia”, attraverso l’incontro con rifugiati russi in Svizzera;
ricorderà: “Cercavo di discernere sui volti la sofferenza di quei cristiani
venuti dalla Russia”
(Dio non può che amare, pp. 98-99). Diversi legami personali con
responsabili di Chiese hanno poi fatto crescere questa relazione. Quello con il
patriarca Athenagoras, visitato più volte a Costantinopoli, ha contato molto a
motivo della sua passione profetica per l’unità. Frère Roger raccontava
volentieri l’ultimo incontro avuto con lui: “Al momento della nostra partenza,
alzò le mani come per presentare il calice dell’eucaristia e ripeté ancora una
volta: ‘Il calice e la frazione del pane, non vi è altra strada,
ricordatevelo’...”
(La tua festa non abbia fine, p. 124). La fiducia di Athenagoras
permise di aprire, durante gli anni Sessanta, un
metachion ortodosso a Taizé. Ricordiamo anche il metropolita
Nikodim di Pietroburgo, venuto a Taizé fin dagli anni Sessanta e che frère Roger
visitò in Russia nel 1978. La sua testimonianza, scrisse il fondatore di Taizé,
“lasciava percepire che il segreto dell’anima ortodossa stava innanzitutto in
una preghiera aperta alla contemplazione” (Dio
non può che amare, p. 98).
Durante gli ultimi anni, è stato soprattutto attraverso l’accoglienza a Taizé di
numerosi giovani dell’Est che frère Roger ha cercato di vivere la comunione con
l’ortodossia. Nel suo ultimo libro si chiede: “Come esprimere abbastanza la
gratitudine agli ortodossi di Russia, di Bielorussia, dell’Ucraina per ciò che
sono stati nelle prove attraversate durante settant’anni e per ciò che sono
oggi? Come essere abbastanza attenti ai doni deposti nei popoli di Romania,
Serbia, Bulgaria, Grecia?”
(Avverti una felicità?,
pp. 116-117).
4. Un ecumenismo vissuto spiritualmente
L’azione ecumenica di frère Roger, ha scritto l’attuale arcivescovo di
Canterbury Rowan Williams, “ha trasformato l’intero clima di cultura religiosa”
della sua generazione, cambiando il quadro di riferimento per l’ecumenismo,
cambiando l’immagine stessa del cristianesimo e cambiando la percezione delle
Chiese sulla riconciliazione[17].
In che modo il priore di Taizé ha potuto avere questo influsso su così tante
persone e tante istituzioni? Attraverso un “ecumenismo vissuto spiritualmente”,
“un ecumenismo interiorizzato e spiritualizzato”[18],
secondo le parole di Benedetto XVI. Frère Roger stesso conferma questa
concezione di fondo della propria visione dell’unità quando scrive per esempio:
“Sappiamo che l’unità è opera soprannaturale di Dio e che tutta la nostra azione
non è valida che nella misura in cui essa continua la nostra preghiera per
l’unità e la rende vera”
(L'unità speranza di vita, p. 103)[19].
Cerchiamo ora di definire meglio cos’era questo ecumenismo spirituale. Come già
abbiamo accennato, si trattava di un impegno ecumenico “intuitivo”, nato cioè da
esperienze, fatto di incontri personali innanzitutto e vissuto nella preghiera.
Ma intendiamoci: questo ecumenismo non è facile irenismo; la comunione, che è lo
scopo al quale esso tende, non si riduce a qualcosa di sentimentale ma viene al
contrario scoperta come la dimensione essenziale. Nel pensiero di frère Roger,
in effetti, non troviamo “speculazioni sull’ecumenismo” che porterebbero a
rinviare l’unità visibile dei cristiani a un domani, “ma c’è un ecumenismo già
realizzato”, perché la parte migliore e centrale del cristianesimo, quella che
si tratta di vivere, non è una dottrina, ma è l’incontro, l’amore, la comunione.
Per frère Roger, la Chiesa indivisa può già essere sperimentata; lo è in
particolare a Taizé, per il fatto stesso che lì una comunità esiste, che raduna
cristiani di origine protestante, anglicana, cattolica. L’unità, dunque, non va
costruita ma va scoperta; “ed è quello che succede a Taizé dove esiste una
parabola della scoperta dell’unità” che vorrebbe poter essere estesa a tutte le
Chiese[20].
Frère Roger, pur percorrendo questa sua strada in qualche modo autonoma rispetto
ai dialoghi ufficiali, è però anche stato vicino alla ricerca ecumenica di tipo
istituzionale, con i suoi interrogativi teologici e dottrinali[21];
ma ne ha misurato i limiti. Nel 1970, dopo che gli entusiasmi nati intorno al
concilio Vaticano II si sono assopiti, contribuendo a fare svanire le speranze
ecclesiali di unità, il priore di Taizé non esita a parlare di “uno scacco”, di
un'"impasse in cui si trova la vocazione ecumenica ... dopo
parecchi anni di buon lavoro ecumenico”
(La tua festa non abbia fine, p. 19). Per uscire da questo blocco,
ed evitare che le Chiese, i cristiani separati, percorrano semplicemente vie
parallele che non sfociano in un’unità concreta del corpo di Cristo, frère Roger
si impegna a quel punto, ancora più decisamente di prima, a vivere un’unità che
non sia un fatto da compiere, ma un dono da ricevere, un’anticipazione da
sperimentare, in una ricerca che non sarà mai teorica ma sempre pratica. Questo
sforzo passerà attraverso il lavoro di accoglienza dei giovani e altre
iniziative ancora, volte tutte a creare un vero movimento di fondo che permetta
ai cristiani separati di ritrovare tra loro l’unità, vivendola già in un certo
senso in modo “visibile”. Frère Roger, abbiamo detto, è abitato da
un’“impazienza ecumenica”: per lui l’unità non può essere costruita a tavolino,
come risultato di trattative o di accordi quasi giuridici. I dialoghi non
bastano a instaurarla, perché l’unità è innanzitutto da ricevere. “L’unità
sorgerà quando meno la attendiamo, come un lampo nella notte”[22],
ha affermato; i testi di accordi teologici verranno solo dopo che quest’unità
sarà stata constatata.
Il priore di Taizé, pertanto, a un chiaro raffronto delle posizioni rispettive
predilige un atteggiamento di superamento degli opposti nella misericordia e
nella benevolenza. Adotta così una posizione che possiamo forse situare “oltre
le confessioni”: rifiuta di chiudersi in un atteggiamento confessionale, di
schierarsi da una parte nello scandalo della divisione dei cristiani; questo
perché è convinto che il mistero di Cristo è eccedente rispetto a tutte le
confessioni e che la ricchezza di ciascuna è indispensabile per accedere alla
pienezza del mistero.
Alcuni temi costellano l’orizzonte di questo percorso in qualche modo profetico,
paradigmatico, e sicuramente singolare. Ci limiteremo qui a delinearne
brevemente tre.
Il tema della riconciliazione è certamente il primo da indicare. È quasi
onnipresente nel pensiero di frère Roger, dall’evocazione della figura della
nonna materna che “pensava che una riconciliazione tra i cristiani potesse
creare uno spazio di pace e magari impedire una nuova guerra in Europa”, al
commento sulla situazione ecumenica all’inizio de XXI secolo che situa i
cristiani “di fronte a un’urgenza: concretizzare la riconciliazione”[23].
La riconciliazione è alla base della visione pratica e spirituale dell’unità che
aveva frère Roger. Questo spirito, che Taizé cerca di diffondere, viene
simbolizzato dalla chiesa che i fratelli fanno costruire nella prima metà degli
anni Sessanta e denominata “chiesa della Riconciliazione”. All’entrata vi si
trova un cartello in più lingue che riporta questa scritta: “Voi che entrate
qui, riconciliatevi: il padre con il figlio, il marito con la moglie, il
credente con colui che non può credere, il cristiano con suo fratello
separato!”. La riconciliazione non può essere pensata o calcolata, né rinviata
all’indomani, ma va innanzitutto attuata. Il tema comporta dunque una dimensione
parenetica, ma ne comporta anche una di urgenza, perché “per il Vangelo, la
riconciliazione non può attendere”. E se non può subire dilazioni, la
riconciliazione chiama ciascuno in causa, in prima persona. Mettendola in
pratica personalmente, ciascuno potrà allora scoprire che “la riconciliazione è
una primavera del cuore. Sì, riconciliarsi senza tardare conduce a una scoperta
stupefacente: il cambiamento del nostro stesso cuore”
(Le fonti di Taizé, pp. 31 e 33).
Tale riconciliazione può sostenere la ricerca ecumenica solo se si accetta di
ricevere qualche cosa dall’altro:
Quando due persone separate cercano di riconciliarsi, è essenziale che cerchino
di scoprire innanzitutto le qualità positive di chi sta loro di fronte. Se
ciascuno afferma di avere tutte le qualità e vuol dar tutto senza nulla
ricevere, la riconciliazione non si realizzerà mai. Accade la stessa cosa tra le
Chiese separate ... La riconciliazione presuppone la scoperta delle qualità
presenti negli altri
(Stupore di un amore, p. 96).
Il pensiero del priore di Taizé è ormai chiaro: “La luminosa vocazione ecumenica
è e sarà sempre tesa a realizzare la riconciliazione senza tardare”
(Le fonti di Taizé, p. 31). La via da seguire in questo itinerario
sta nel rinunciare ai processi storici fra cristiani. Frère Roger l’ha spesso
ridetto: è quella la via limpida indicata da papa Giovanni XXIII nel 1959,
quando ha pronunciato delle parole che il priore ha portato nel cuore fino alla
fine della sua vita: “Non faremo alcun processo storico. Noi non cercheremo di
sapere chi ha avuto torto, non cercheremo di sapere chi ha avuto ragione, diremo
solamente: riconciliamoci!”[24].
Il fine di questo slancio sarà sempre quello di allargare la comunione della
Chiesa a tutti gli uomini. È difatti in favore del mondo non credente e
dilaniato da opposizioni che i cristiani sono chiamati a riconciliarsi, perché
“per costruire una famiglia umana pacificata, è importante che ognuno cominci
dentro di sé”[25].
“Il Cristo, Parola fatta carne, si dona a noi visibilmente nel sacramento”,
scrive frère Roger nella
Regola di Taizé, ricordando al fratello che l’eucaristia “è là per
te che sempre sei debole e infermo” (p. 21). L’eucaristia sostiene ogni
cristiano nel suo pellegrinare verso il Regno, ed è anche il sacramento che
fonda l’unità della comunità dei credenti; a questo riguardo, il priore di Taizé
ha potuto affermare che “l’eucaristia è sorgente di unanimità nella Chiesa,
fonte di unanimità della fede”
(Stupore di un amore, p. 96), “sacramento di unità, ci è offerta
perché si dissolvano, in noi e attorno a noi, tutti i fermenti di separazione”[26].
Ma se l’eucaristia è il sacramento dell’unità, della comunione, proprio
nell’eucaristia si misura però anche la divisione delle Chiese che continuano a
celebrare separatamente la cena del Signore. Questa incongruenza, ovviamente,
non sfuggiva al fondatore di Taizé: per questo, nel 1972, ha voluto poter
accedere con i suoi fratelli evangelici all’eucaristia della Chiesa cattolica
prima di accogliere nella comunità, con i voti, il primo membro cattolico.
Sarebbe infatti stato inconcepibile per lui condividere la vita comune
quotidiana tra fratelli provenienti da Chiese separate e ritrovarsi divisi al
momento di celebrare proprio il sacramento dell’unità.
Al di là del caso specifico di Taizé, su un piano dunque molto più vasto, frère
Roger esprimeva anche con risolutezza il desiderio che fosse possibile la
condivisione del sacramento dell’altare tra Chiese separate; invocava per questo
una concessione generalizzata dell’ospitalità eucaristica: “Quando un battezzato
ha fame dell’eucaristia e vorrebbe avvicinarlesi, quando il Cristo lo chiama,
chi oserebbe rifiutare?”
(Stupore di un amore, p. 97). Secondo lui, dall’ospitalità alla
mensa del Signore dipende la credibilità del movimento ecumenico: “Il dialogo
non basta. L’onda ecumenica attuale si smorzerà se non viene presto il giorno in
cui si raduneranno intorno alla stessa tavola tutti quelli che credono nella
presenza reale di Cristo nell’eucaristia”[27].
D’altronde, anche per cercare di avvicinare le Chiese in materia di celebrazione
eucaristica, i fratelli di Taizé avevano offerto, già nel 1963, un forte
contributo liturgico con il testo della liturgia dell’eucaristia a Taizé[28].
La comunità ha raggiunto con questo rito una “tappa concreta nel dialogo
ecumenico” attraverso il recupero, per la propria celebrazione eucaristica
presieduta da ministri protestanti, di elementi liturgici tradizionali della
Chiesa indivisa, integrati ad aggiornamenti confacenti alla mentalità moderna[29].
È perché aveva compiuto in precedenza questo sforzo in comunità che frère Roger
ha poi potuto esprimere la propria profonda soddisfazione per il nuovo
ordo della messa, frutto della riforma liturgica di Vaticano II,
che secondo lui andava nella stessa direzione ecumenica del tentativo fatto a
Taizé alcuni anni prima. Per lui la messa “di Paolo VI” era motivo di grande
speranza: “Uno dei frutti [della nuova messa] sarà forse che le comunità non
cattoliche potranno celebrare la cena con le stesse preghiere della Chiesa
cattolica”[30].
Su questo punto è però rimasta, attraverso i decenni, la sofferenza per il
perdurare di una divisione sperimentata in particolare nella celebrazione
eucaristica, cioè nel preciso momento fondante e fecondante la propria fede.
In vista di una comunione visibile fra tutti i cristiani, frère Roger ha
insistito spesso sul ruolo del ministero di unità nella Chiesa. Nel 1969, il
priore di Taizé si chiedeva:
L’unità di tutti i cristiani può ricomporsi senza un centro visibile, senza un
pastore universale? Certo, il ministero del servo dei servi di Dio è carico di
un enorme peso di storia. I rivestimenti sovrapposti gli uni sugli altri nel
corso dei secoli lasciano mal trasparire questo ministero unico. Ma se noi non
crediamo a questo ministero, chi parlerà a nome nostro a tutti gli uomini nei
momenti di necessità drammatiche? Chi attualizzerà una parola viva del Cristo,
valida per tutto il popolo di Dio, nel nostro oggi contemporaneo?
(La tua festa non abbia fine, p. 101).
Il fondatore di Taizé era cosciente delle resistenze che le sue convinzioni su
questo tema potevano provocare nelle Chiese protestanti, ma si diceva disposto a
portarne il peso. Per lui in effetti era chiaro che se la Chiesa è innanzitutto
una “società di fratelli”, l’autorità vi ha un suo posto legittimo: “L’autorità
nella Chiesa ha la funzione di suscitare l’unità. L’autorità è là per
raccogliere, unire coloro che sempre si separano, si dividono, si oppongono”
(Dinamica del provvisorio, p. 68). Che questa autorità, a livello
universale, si dovesse personalizzare in un uomo, lo ha espresso in modo
definitivo nel 1971, in occasione di una conferenza a Friburgo (Svizzera):
La vocazione del pastore universale non è forse di stare al cuore del cuore, non
su una piramide, non come capo (perché il capo della Chiesa è Cristo), ma al
cuore del cuore? ... Certo, al centro della nostra fede, per animare l’unità, si
trovano le realtà del Dio vivente, del Cristo morto e risorto, dello Spirito
santo. Rispetto a queste realtà di unità, il ministero del pastore universale è
secondo, ma è tuttavia essenziale in vista dell’ecumenicità della Chiesa[31].
Era Giovanni XXIII, ancora una volta, ad avergli aperto gli occhi su questa
realtà: frère Roger era convinto che il ministero profetico di papa Roncalli in
vista dell’unità, che si era espresso attraverso alcune parole che secondo lui
avevano rovesciato la situazione della Controriforma, era stato rifiutato in
particolare dalle Chiese dalla Riforma e che un
"kairós
per l’ecumenismo” era così stato lasciato passare. Ora il priore di Taizé si
sentiva in dovere di tornare a sottolineare la dimensione ecumenica del
ministero pettino; si chiedeva: se Cristo ha affidato la Chiesa a Pietro, il
pastore universale “non è forse naturalmente anche il pastore di tutti i
battezzati, anche di coloro che, cattolici o no, non comprendono il suo
ministero?” (I tuoi deserti fioriranno, p. 50). Certo, sottolinea frère Roger, se
la responsabilità del vescovo di Roma in quanto “pastore povero, libero di
professare delle intuizioni profetiche” si deve esercitare non solo sui
cattolici, ma anche sui non cattolici, lo può fare solo alla condizione di “non
chiedere, in vista dell’unità, un rinnegamento da parte dei non cattolici”[32].
Per le Chiese della Riforma, ovviamente, tale proposta si rivelava eccessiva. Ma
se l’intuizione di frère Roger non poteva applicarsi a livello ecclesiale,
poteva almeno coinvolgere la comunità di Taizé. In questo senso, il priore ha
scritto nel proprio diario: “Sono sempre più abitato da una convinzione: la
nostra comunità non potrà tenere se non anticipa una comunione con il vescovo di
Roma, senza per questo rinnegare le nostre famiglie spirituali di origine”
(La tua festa non abbia fine, p. 89).
Questa volontà di frère Roger di mantenere la comunione con il vescovo di Roma
viene infine sottolineata da un’ultimissima testimonianza del priore di Taizé.
In una lettera a papa Benedetto XVI, pervenuta alla Santa Sede il giorno stesso
della morte del priore di Taizé, frère Roger scriveva: “La nostra comunità di
Taizé vuole camminare in comunione con il Santo Padre”; e concludeva con queste
parole: “Santo Padre, le assicuro i miei sentimenti di profonda comunione”[33].
Conclusione: Anticipazione di una comunione
Quest’ultimo tema ci porta quasi naturalmente alla domanda che vorrei ora porre
a conclusione del nostro percorso: ha senso affermare, come viene fatto a volte,
che frère Roger era diventato cattolico? Certo, l’immagine della sua comunione
dalle mani del cardinale Ratzinger ai funerali di Giovanni Paolo II e il fatto
che i suoi stessi funerali siano stati presieduti da un cardinale di curia
possono avere fatto credere che frère Roger era passato alla Chiesa cattolica.
Qualche storico ha addirittura affermato che il priore di Taizé si sarebbe
convertito in segreto al cattolicesimo, o almeno che era diventato “formalmente
cattolico”[34].
Oltre al fatto che la parola “conversione” non andrebbe usata per definire il
passaggio da una Chiesa cristiana a un’altra, la cosa in sé è stata
ufficialmente smentita dal cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio
consiglio per l’unità dei cristiani: “Lungo gli anni, la fede del priore di
Taizé si è progressivamente arricchita del patrimonio di fede della Chiesa
cattolica ... Per rispetto del cammino nella fede del priore di Taizé tuttavia,
sarebbe preferibile non applicare nei suoi riguardi delle categorie che egli
stesso giudicava inappropriate alla sua esperienza”[35].
Applicando a frère Roger i limiti dei nostri ragionamenti confessionali
fraintenderemmo in larga misura il suo percorso spirituale e rifiuteremmo
inoltre il suo appello deciso alla riconciliazione. Per noi, se si è cattolici,
non si è protestanti; e se si è protestanti, non si è cattolici. Ora frère Roger
rifiutava questa antinomia esclusiva (e forse addirittura peccaminosa): era
entrato in un processo che potremmo definire post-confessionale, che cercava di
sorpassare le limitazioni confessionali ereditate dalla storia. In vista della
riconciliazione, pur senza separarsi dalla Chiesa in cui la fede gli era stata
trasmessa, ha voluto anticipare una comunione con la Chiesa di Roma.
Non è dunque possibile assimilare questo percorso originale con quello, del
tutto diverso, di Max Thurian, fratello di Taizé dalla prima ora e pastore
protestante che si fece segretamente ordinare prete cattolico a Napoli, il 3
maggio 1987. Qui, effettivamente, ci si trova di fronte a un passaggio da una
Chiesa all’altra. Nella vicenda di frère Roger, non si scorge nulla di simile.
Certo, frère Roger dopo il Vaticano II ha qualche volta messo in dubbio la
pertinenza della Riforma: già durante il Concilio, ha affermato che “le riforme
compiute dalla Chiesa cattolica stessa finivano per fare perdere la sua ragion
d’essere alla Riforma protestante”[36].
Riteneva infatti che tutte le richieste principali poste alla Chiesa dai
riformatori del XVI secolo erano ormai state accolte prima da papa Giovanni e
poi soprattutto dai padri conciliari. Però, allo stesso tempo, frère Roger non
voleva che nessuno avesse a rinnegare la propria origine confessionale per
raggiungere l’unità. Annotava: “L’evoluzione ecumenica attuale ci situa al cuore
di un dilemma: come entrare in una comunione più universale senza chiedere a
nessuno di passare per un rinnegamento di una fede che i suoi padri gli hanno
trasmesso con onestà?”; e offriva questa proposta in forma di domanda: “Come
soluzione provvisoria per la generazione ‘cerniera’, potremo trovare la
possibilità di una ‘duplice appartenenza’?”
(Lotta e contemplazione, p. 154).
Per sé e per la sua comunità, questa è la soluzione che il priore di Taizé ha
adottato e largamente praticato: viveva queste due aspirazioni
dell’“anticipazione di una comunione con Roma” e della “duplice appartenenza”,
al punto di potere affermare ufficialmente che “in quanto comunità, Taizé non ha
nessuna appartenenza confessionale”[37].
Per il fondatore, si trattava di rifiutare l’alternativa protestante o cattolica
al fine di raggiungere un superamento delle identità confessionali in cui ogni
Chiesa poteva arricchire le altre con i propri doni e lasciarsi arricchire a sua
volta accogliendo i tesori degli altri. Frère Roger ha descritto sotto forma di
preghiera questo ecumenismo della complementarietà, in cui l’accoglienza di ciò
che l’altro ha di meglio costituisce la condizione per la riconciliazione:
Noi ti ringraziamo, o Cristo Gesù, del fatto che la Chiesa cattolica sia la
Chiesa dell’eucaristia, radicata nelle tue parole ‘questo è il mio corpo, questo
è il mio sangue’, permettendo di vivere della tua adorabile presenza. Noi ti
ringraziamo del fatto che le Chiese protestanti siano le Chiese della Parola,
che richiamano costantemente la forza del tuo Evangelo. Noi ti ringraziamo del
fatto che le Chiese ortodosse, così spesso nella loro storia, siano guidate per
fedeltà ad andare fino all’estremo dell’amore[38].
Tutta la vita di frère Roger è stata orientata verso la Chiesa che deve venire,
quella dove una confessione non ha il sopravvento sull’altra, ma dove i doni di
ciascuna Chiesa colmeranno della loro pienezza l’unica Chiesa di Dio. Questa
visione di una Chiesa “inclusiva”, e mai esclusivista, gli imponeva di rifiutare
tutto ciò che vi è di separatore nelle identità ecclesiali confessionali, per
cercare una fedeltà alla dinamica unificatrice che questa stessa identità
ecclesiale comporta. Pur tenendo in considerazione le disunioni storiche, non si
lasciava rinchiudere in esse, con il falso pretesto della fedeltà all’identità
di una confessione sola, ma voleva obbedire solo all’autorità dell’unico Corpo
di Cristo che può garantire la piena ecclesialità a ogni Chiesa particolare.
Questo nella convinzione che, di fronte alle sfide del mondo contemporaneo, le
divisioni della Chiesa “appaiono davvero come tempeste in un bicchier d’acqua”
(I tuoi deserti fioriranno, p. 9). Ogni Chiesa deve dunque sempre
essere disposta ad aprirsi alle altre, in modo da allargarsi poi a tutti gli
esseri umani. L’unità della Chiesa in effetti ha senso solo se prepara la strada
all’unità di tutta la famiglia umana. Ha scritto frère Roger: “Quando la Chiesa
ascolta, guarisce, riconcilia, diviene ciò che di più luminoso essa è: il
limpido riflesso di un amore”[39].
[1] Per tutto il paragrafo, cf. Scegliere di amare. Frère Roger di Taizé, 1915-2005, Elledici, Leumann 2007; Jean-Claude Escaffit, Moïz Rasiwala, Storia di Taizé, Lindau, Torino 2008.
[2] Le opere citate di fr. Roger Schutz verranno
indicate nel corso del testo con il solo titolo. Si tratta di:
Introduction à la vie communautaire, Labor et Fides/Je
sers, Genève/Paris 1944;
L’oggi di Dio (1962),
L’unità speranza di vita (1962),
Dinamica del provvisorio (1965),
La regola di Taizé (1967),
Unanimità nel pluralismo (1967),
La tua festa non abbia fine (1971),
Lotta e contemplazione (1973),
Stupore di un amore (1980),
I tuoi deserti fioriranno (1984),
Passione di un’attesa (1986), pubblicati da Morcelliana,
Brescia;
Le fonti di Taizé (1998),
Dio non può che amare (2003),
Avverti una felicità? (2005), pubblicati da Elledici,
Leumann (tra parentesi la data dell’edizione italiana).
[3]
Roger Schutz,
Communauté de Cluny. Notes explicatives,
G. Neveu, Lyon 1941.
[4]
Cf. anche
Passione di un’attesa, pp. 167-168.
[5] Cf.
I tuoi deserti fioriranno, pp. 76-77. D’altra parte il
nonno, morto nel 1912 e che frère Roger non ha dunque conosciuto, aveva
fatto un itinerario diametralmente opposto: dopo essersi formato nel
seminario cattolico di Sens, aveva aderito, dopo il Vaticano I, alla
chiesa vetero-cattolica, dove era stato ordinato prete, prima di passare
poi alla chiesa riformata, nella quale aveva esercitato il ministero
pastorale: cf. Yves Chiron,
Frère Roger, 1915-2005. Fondateur de Taizé, Perrin, Paris
2008, pp. 13-17.
[6] Dietrich Bonhoeffer,
Vita comune, Queriniana, Brescia 2003.
[7]
Karl Barth,
Les communautés chrétiennes dans la tourmente, Delachaux
et Niestlé, Neuchâtel/Paris
1943; cf. Id.,
Dogmatique IV/2, Labor et Fides, Genève 1968, pp. 10-18.
[8]
Annie PERCHENET,
Renouveau communautaire et unité chrétienne. Regards sur les communautés
anglicanes et protestantes,
Mame, Paris 1967, pp. 375-376.
[9]
Le Monde, 11 febbraio 1959.
[10]
Escaffit,
Rasiwala,
Storia di Taizé, pp. 85-86.
[11]
Escaffit,
Rasiwala,
Storia di Taizé, p. 29.
[12]
Scegliere di amare,
pp. 74-75.
[13]
Le Monde, 2 settembre 2000.
[14]
Escaffit,
Rasiwala,
Storia di Taizé, pp. 73 e 177.
[15]
La Croix, 6 settembre 2005.
D’altronde, anche nel 1972, il Gruppo di Dombes - del quale frère Max
Thurian era membro influente - pubblicava presso le edizioni di Taizé il
suo “accordo dottrinale sull’eucaristia” intitolato
Verso una stessa fede eucaristica.
[16]
Escaffit,
Rasiwala,
Storia di Taizé, p. 89.
[17]
Cf.
Scegliere di amare,
p. 67.
[18]
Benedetto
XVI, Incontro ecumenico nell’arcivescovado di Colonia, 19
agosto 2005.
[19] Cf. anche
L ’oggi di Dio, pp. 71-72.
[20] Cf. Olivier Clément,
Taizé. Un senso alla vita, Lindau, Torino 2009, pp. 38-42.
[21] Cf. per esempio due suoi articoli, “Résultats
théologiques et spirituels des rencontres mcuméniques avec les
catholiques romains” e “Pour un bon mcuménisme”, in
Verbum Caro X (1956), pp. 16-22 e XI (1957), pp. 2-8.
[22]
Le Monde, 22 marzo 1966.
[23] Daniele Rocchetti,
“A colloquio con frère Roger”, in
L’Incontro no. 136-137 (dicembre 2005-febbraio 2006), p.
56.
[24]
Giovanni
XXIII, Discorso ai preti di Roma, febbraio 1959; cit. in
fr. Roger,
Avverti una felicità?, p. 100.
[25] Daniele Rocchetti,
“A colloquio con frère Roger”, p. 58.
[26]
Roger Schutz,
“Ardente patience”, in Max Thurian,
Le pain unique, Les Presses de Taizé, Taizé 1967, p. 9.
[27]
Roger Schutz,
“Ardente patience”, p. 9.
[28]
Eucharistie à Taizé, Presses de
Taizé, Taizé 1963.
[29] Cf. Marco Guido,
L ’eucaristia di Taizé, Ecumenica Editrice, Bari 1974.
[30]
La Croix, 30 maggio 1969.
[31] Testo riprodotto in
Chrétiens en marche no. 89 (gennaio-marzo 2006), p. 3; cf.
Lotta e contemplazione, p. 74-76. Significativamente,
l’intervento venne pronunciato il 13 luglio 1971, a pochissimi giorni
della decisione della nomina di un “rappresentante del priore di Taizé
presso la Santa Sede” (16-18 luglio).
[32]
Chrétiens en marche
no. 89, p. 3. Alcuni anni più tardi suggerirà inoltre al vescovo di Roma di
circondarsi “di cristiani di origine non cattolica che vivano della
passione dell’unità del corpo di Cristo”: cf.
La Documentation catholique no. 1770 (2 settembre 1979),
p. 782.
[33]
Benedetto
XVI, Udienza generale a Castel Gandolfo, 17 agosto 2005.
[34]
Le Monde, 6 settembre 2006; cf.
Yves Chiron,
Frère Roger, pp. 270 e 364.
[35]
L’Osservatore romano, 15 agosto 2008; cf. anche le
dichiarazioni del pastore Gill Daudé, responsabile dell’ecumenismo nella
Federazione protestante di Francia, e del vescovo di Nanterre Gérard
Daucourt, pubblicate entrambe il 7 settembre 2006. Anche fr. Alois ha
smentito la “conversione formale” del fondatore di Taizé al
cattolicesimo (cf.
La Croix, 6 settembre 2006).
[36]
Yves Chiron,
Frère Roger, p. 194.
[37]
Informations catholiques internationales
no. 404 (15 marzo 1972), p. 31.
[38]
La Documentation catholique no.
1714 (20 febbraio 1977), p. 195.
[39] Taizé au vif de l’espérance, Bayard, Paris 2002, p. 253.
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14 novembre 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net