STORIA DELLA MEDICINA

L’antichità e il medio evo

Elisabetta Bicheno, Brian Fox

Estratto da “Storia della medicina”, Jaca Book 1993


La storia della medicina, non diversamente dalla storia della filosofia o della scienza in generale, presuppone una definizione di «medicina», esattamente come la storia della filosofia, ovviamente, presuppone una definizione di «filosofia». Ora, una definizione di «medicina», così come una definizione di «filosofia», non deve essere né «troppo larga», né «troppo selettiva». Nel primo caso si rischia di prendere in considerazione una serie di fatti che difficilmente sono inquadrabili in una storia della medicina; nel secondo caso si rischia di non prendere in considerazione momenti della storia del pensiero scientifico e della cultura in generale, i quali, invece, hanno pieno diritto di rientrare nel quadro di una storia della medicina.

Così, se dicessimo che la medicina è l'insieme degli strumenti e dei mezzi teorici e pratici ai quali l’uomo ha sempre fatto ricorso per lottare contro il dolore fisico, da una siffatta definizione verrebbero esclusi settori quali la psichiatria e la psicoanalisi, che, in notevole parte di casi, nulla hanno a che fare o poco hanno a che fare con il «dolore fisico». D’altra parte, se allargassimo la definizione dicendo che la medicina è l'insieme degli strumenti e dei mezzi teorici e pratici ai quali l’uomo ha sempre fatto ricorso per lottare contro il dolore fisico e spirituale, intendendo per «spirituale» tutto quanto riguarda il mondo interiore dell’essere umano, daremmo una definizione di medicina tale per cui dovremmo, teoricamente, contemplare nella storia della medicina non solo psicologia e psichiatria, ma anche etica, teologia, filosofia, praticamente quasi tutta la cultura umana.

Per di più, come il concetto di «filosofia» e di «scienza» è variato nelle diverse epoche e nei diversi climi culturali, oltre che, sincronicamente, nelle diverse aree culturali, così anche il concetto di «medicina» ha subito non minori e non meno numerose variazioni. Basti, a darne prova più che evidente, un fatto: la parola greca phàrmakon, che va riportata a pharma, che significa «colpo» ed alla radice pher, che esprime il concetto di «colpire», e che, in epoca storica significa—come l’attuale «farmaco»—semplicemente quello che noi definiremmo una «medicina», in origine indicava il «sacrificio contro il colpo inferto dal dèmone», e, più precisamente, il «colpo subito dalla vittima per allontanare il colpo del dèmone», quindi, «capro espiatorio». Questo significato si ritrova nel posteriore pharmakós che si incontra nel greco soprattutto di Omero e, poi, dei grandi tragici. Che cosa significa tutto questo? Semplicemente che quella che, più tardi, divenne la «medicina» nel senso di «medicamento», in un diverso ambito culturale aveva tutt’altro significato ed è ovvio che in tale ambito anche la «medicina» intesa come attività scientifica e pratica era cosa profondamente diversa da quello che noi oggi intendiamo per «medicina», da quello che per «medicina» intendeva Ippocrate, dalle cui concezioni deriva, in ultima analisi, il nostro modo di concepire la «medicina».

Non per nulla uno dei cinquantatré trattati che, in complessivi settantadue libri, vanno sotto il nome di Corpus hippocraticum (Corpo ippocratico), quello Sulla malattia sacra, ossia l'epilessia, porta un attacco a fondo contro l'appellativo di «sacro» attribuito a questo morbo: «... Sulla malattia detta sacra i fatti stanno così. Essa non è, a mio parere, per nulla più divina o più sacra di altre malattie, ma essa ha la stessa natura da cui provengono anche le altre. Ma gli uomini credettero che la sua natura e la sua causa fossero qualcosa di divino per inesperienza e per la sua natura straordinaria, perché non somiglia affatto alle altre malattie. E mentre questa convinzione è conservata per la difficoltà che essi incontrano nel conoscere il divino, essa è confutata dalla facilità del sistema di cura che adottano, in quanto la curano con purificazioni ed incantesimi. Ma se la si vorrà considerare divina a causa della sua natura straordinaria, le malattie sacre sarebbero parecchie e non una sola, perché io dimostrerò che ce ne sono altre non meno straordinarie né meno prodigiose, e che nessuno, invece, considera di origine divina». E l’autore prosegue tacciando di ciarlataneria quanti, considerando appunto «sacra» l'epilessia, ricorrono a quelle pratiche terapeutiche che la loro concezione del morbo e, per conseguenza, le loro concezioni terapeutiche suggerivano: «Io credo che i primi che hanno definita sacra questa malattia siano uomini, come ancor oggi ve ne sono: maghi e purificatori e ciarlatani e imbroglioni, gente che si dà anche le arie di essere molto pia e di saperla più lunga degli altri...». Il giudizio dell'autore del trattato era sicuramente in parte valido, ché, accanto al medico, è sempre esistito il ciarlatano, come accanto alla medicina è sempre fiorita anche la ciarlataneria, ma sbagliava nell'impostazione del suo giudizio: egli non si rendeva conto che la prospettiva sotto la quale coloro che criticava così aspramente interpretavano il fenomeno morboso era completamente diversa dalla sua e che egli non aveva nessuna argomentazione valida per dimostrare giusta la sua ed errata la concezione dei suoi avversari: si trattava semplicemente di parametri diversi, di postulati diversi sulla base dei quali edificare due diversi «sistemi», ciascuno dei quali era valido solo ed esclusivamente in relazione, appunto, ai postulati sui quali poggiava. In altre parole: non è meno scienziato Tolomeo e non è meno scientifico il suo sistema di quanto lo siano Copernico ed il sistema copernicano.

Il problema va posto in altri termini: si tratta di vedere quale dei due sistemi si riveli il meglio fruibile, il più adeguato alla soluzione dei problemi che si propone di risolvere. In assoluto, l'incantesimo non è meno «medicina» del farmaco ed un giudizio definitivo, o piuttosto valido per un certo periodo e per un certo ambito culturale, potrà essere pronunciato solo sulla base dei risultati concreti, l’esempio più eloquente di tutto ciò può essere fornito dall’agopuntura: considerata sino a non molti decenni or sono espressione di una medicina «primitiva», se non addirittura «barbara», oggi non solo è praticata a livello mondiale, ma è considerata prassi terapeutica di indubbia efficacia, almeno per una notevole serie di affezioni morbose. Persino la «pranoterapia» è oggi oggetto di attentissimi ed impegnatissimi studi nell’ambito di quella che consideriamo «scienza», mentre, sino a pochi lustri fa (ed in parte ancora oggi), veniva considerata pura e semplice espressione di una rinnovata forma di stregoneria, espressione, insomma, di ciarlataneria.

Certo ci risulta difficile considerare medicina le pratiche dello sciamano o dello stregone, ma sta il fatto che tale difficoltà è determinata semplicemente dalla nostra concezione attuale di «scienza» in generale e di «medicina» in particolare.

E questa nostra concezione affonda sicuramente le sue radici nel pensiero di Ippocrate, che viene considerato «inventore della medicina» e dovremmo, invece, considerare come creatore di quella che, dal V secolo a.C. ad oggi, sulla via da lui aperta si è sviluppata come «medicina».

Fu, infatti, Ippocrate che, nato intorno al 470 e morto forse nel 390 a.C., come afferma Aulo Cornelio Celso, separò la medicina come «arte» dalla speculazione astratta. Vale la pena di leggere, almeno in parte, le parole del Proemio del suo famoso trattato «Sulla medicina»: «... Come l’agricoltura fornisce gli alimenti ai corpi sani, così la medicina dà la salute ai corpi malati. Non v’è popolo presso il quale la medicina non esista, tanto che persino le popolazioni meno progredite conoscono erbe ed altre sostanze efficaci in caso di ferite o di malattie. Tuttavia la medicina venne coltivata presso i Greci molto più che presso tutte le altre nazioni, ma nemmeno presso di loro lo fu sin dagli inizi, bensì solo a partire da poche generazioni fa».

Dopo aver ricordato Asclepio, Podalirio e Macaone, osserva che sulla base della testimonianza di Omero (IX/VIII secolo a.C.) «Apprendiamo che a quei tempi (allude alla guerra di Troia, che va collocata intorno al XII secolo a.C.) le malattie erano fatte risalire all’ira degli dèi immortali e ad essi si chiedeva soccorso» ed aggiunge che è molto probabile che «non disponendo di validi ausilii contro le malattie, tuttavia a quei tempi si godesse nella maggior parte dei casi di buona salute grazie ai buoni costumi» che, invece, a suo parere sono quasi completamente scomparsi nella società del suo tempo, ossia nella Roma del I secolo d.C. E prosegue: «Dopo i personaggi che ho sopra ricordato, nessuno esercitò l’arte della medicina sinché non si cominciarono a coltivare gli studi letterari con impegno ed attenzione maggiori, dato che appunto questi studi sono da un lato una necessità dello spirito, ma, nello stesso tempo, sono dannosi al corpo. E dapprincipio la scienza della salute venne considerata come parte della filosofia, cosicché il trattamento delle malattie e la contemplazione intellettuale della natura ebbero gli stessi iniziatori evidentemente per il fatto che di salute fisica necessitavano soprattutto proprio coloro la vigoria del cui corpo era stata indebolita dalla continua meditazione e dalle lunghe veglie. Perciò riscontriamo che molti che furono filosofi furono anche esperti di medicina, primi fra tutti Pitagora, Empedocle e Democrito. Ma, come alcuni ritengono, fu un discepolo di quest’ultimo, Ippocrate di Cos, il più degno di tutti di essere ricordato, che separò la medicina dalla filosofia. Fu uomo eccezionale sia come medico che come scrittore. Dopo di lui Diocle di Caristo, poi Prassagora e Crisippo, infine Eròfìlo ed Erasìstrato esercitarono quest’arte ad un tale livello da farle compiere enormi progressi anche nel campo della terapia».

La pagina di Celso, a parte l’elogio degli antichi costumi, che da secoli costituiva un luogo comune della letteratura greca e latina, può essere considerata un rapido riassunto della storia della medicina nell’ambito della cultura greco-romana ancora oggi, nel complesso, accertabile, anche se è abbastanza probabile che la grande rivoluzione ippocratica sia stata in gran parte preparata da tutti quegli aspetti di profondo rinnovamento culturale che caratterizzano la civiltà greca fra il VI ed il V secolo a.C. Senza dubbio, tuttavia, dalle opere del Corpo ippocratico, almeno da quelle che più da vicino rappresentano il pensiero genuino di Ippocrate (ché forse nessuna può essere attribuita ad Ippocrate stesso!), emerge evidentissima una caratteristica: se per «scienza» si intende, come si intendeva nel V secolo a.C., la speculazione astratta, l'astratto theoreîn, la medicina non è una scienza, ma una tékhnē, ossia quella che i latini chiamano ars e che noi potremmo definire «attività pratica». Ciò significa che il medico non deve perdersi nelle elaborazioni astratte, ma attenersi ai dati dell’esperienza che soli possono fornire valido fondamento ad ogni elaborazione razionale. Il principio, quindi, al quale si deve ispirare la medicina è observatio et ratio, ossia attenta osservazione dei fenomeni ed elaborazione razionale di essi. Di qui deriva un fatto interessante nella storia della medicina post-ippocratica: sia la scuola dei cosiddetti «Empirici», sia quella dei cosiddetti «Dogmatici» rivendicavano ciascuna la propria diretta discendenza da Ippocrate ed ambedue, almeno in parte, non del tutto a torto. Ma a parte questo, l’importanza di Ippocrate fu fondamentale non solo perché a lui ed alle sue dottrine si richiamarono e si rifecero costantemente tutte le più o meno grandi scuole di medicina posteriori (ad eccezione dei Metodici che, nel I secolo d.C., si professarono apertamente antiippocratici), ma anche e soprattutto perché alle concezioni ed alle dottrine di Ippocrate si ispirò principalmente Galeno il cui pensiero, il cui sistema e le cui opere si può dire si siano identificati con la «medicina» per i secoli seguenti, sino, praticamente, al Seicento ed oltre. A parte, infatti, l’anatomia, che ebbe soprattutto in Eròfìlo ed Erasìstrato ed in generale in tutta la grande scuola di Alessandria dei cultori di genialità veramente eccezionale, ma che scarsissimamente è presente nelle opere attribuite ad Ippocrate e che, invece, trovò in Galeno un maestro per secoli insuperato, la «fisiologia umorale», la «patologia umorale» e la «terapia evacuante», che per più di due millenni furono le vie maestre battute dalla medicina occidentale, hanno il loro fondamento ed affondano le loro radici nel pensiero di Ippocrate anche se in nessuna delle opere a lui attribuite si trova una formulazione chiara e definitiva di queste dottrine. Essa si trova, invece, negli scritti di Galeno, che nei secoli seguenti viene definito il magister magistrorum, il «maestro dei maestri» e del quale, in numerosi trattati medievali di medicina, si dice che «sine eo nemo potest dici perfectus medicus», ossia «senza di lui nessuno può definirsi medico perfetto, completo».

Non pochi sono, nell'opera di Galeno gli errori, sia in campo anatomico che, soprattutto, in campo fisiologico (primo fra tutti quello relativo ai movimenti del sangue della cui circolazione Galeno non ha la più pallida idea), tuttavia la sua autorità rimase indiscussa per circa quindici secoli. Il fenomeno, che sembra rasentare l'assurdo, è. invece, spiegabilissimo, solo che si tengano presenti alcuni fatti fondamentali. Prima di tutto l'immensa opera di Galeno (gli si attribuiscono più di trecento opere, delle quali ci sono pervenuti, fra autentici e spurii e fra maggiori e minori, più di cento trattati), presenta un edificio teorico così perfettamente organizzato, così coerente sul piano teorico, così robusto e poderoso sotto il profilo della coerenza, da risultare difficilmente demolibile, a meno che non intervenga un radicale mutamento delle prospettive e delle concezioni scientifiche. In secondo luogo va tenuto presente che nei secoli successivi, ossia a partire dagli inizi del III secolo d.C., la cultura che si suol definire «classica» entrò in una crisi irreversibile.

Quando, nel 476, Odoacre, poi proclamato re degli Eruli, depose l'ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo, soprannominato Augustolo, non pose fine all'impero, ma semplicemente al fantasma che di esso era sopravvissuto. E se era politicamente e territorialmente un fantasma, ancor più lo era culturalmente: del mondo spirituale, intellettuale e morale della romanità più nulla già da tempo sopravviveva. In essa, durante i secoli che seguirono la morte di Galeno, ossia a partire dall'inizio del III secolo, si assiste ad un progressivo degrado del mondo intellettuale classico e ad un lento, ma graduale ed inarrestabile disfacimento delle stesse strutture portanti della cultura classica. La responsabilità di questo degrado venne (ed in molti casi viene ancor oggi) fatta risalire all’avvento del Cristianesimo. Ma è tesi priva di qualunque serio fondamento, e per più di un motivo. Il fattore più determinante nel crollo politico e sociale di Roma non furono certo, come si è spesso affermato soprattutto nei secoli scorsi, la generale corruzione della società e dei costumi nonché il rammollimento dell’esercito, ormai incapace di opporsi validamente alla spinta delle popolazioni barbariche. Fu, invece, la profonda crisi economica che minò le basi stesse dell’enorme edificio dell’impero. Così non fu certo il cristianesimo a determinare il tramonto della cosiddetta cultura pagana, ma, al contrario, fu la profonda crisi del tardo pensiero classico quella che fornì il terreno fertile sul quale poté attecchire e svilupparsi, sino a trionfare, il pensiero cristiano. Il pensiero classico, che già dal II secolo a.C. dava più che evidenti segni di stanchezza e già abbandonava le vie battute dalla filosofia greca classica per volgersi con ansia sempre maggiore ai problemi morali—si ricordi che per Cicerone (106-43 a.C.) la vera filosofia, la massima espressione di essa è l’etica—, fra il I ed il II secolo d.C. rivela una visione del mondo e della vita quasi rassegnata e priva di speranza, una visione decisamente pessimistica nella quale la vita perde ogni senso ed ogni significato e l’uomo, si potrebbe dire, non ha più un motivo per vivere. È Seneca che amaramente afferma che l’uomo non nasce alla vita, ma alla morte: perché—afferma—piangere la morte di qualcuno? Cotidie morimur!, noi moriamo ogni giorno, ossia ogni giorno non è un giorno di vita, ma un giorno di morte! Sotto questa prospettiva non ha più senso alcuno neppure la conoscenza della natura, la scienza, la quale decade con la crisi, in particolare, della filosofia, intesa come conoscenza del mondo, e di tutta la cultura in generale. Anche del decadere della scienza in generale e della medicina in particolare si è voluto vedere responsabile il Cristianesimo, ma basta leggere le opere «scientifiche» prodotte fra il III ed il IV secolo per rendersi conto che ben prima che il Cristianesimo potesse esercitare qualche significativo influsso sul pensiero classico, la scienza classica era non in decadenza, ma decisamente già decaduta. Il cristianesimo fu, in effetti, una grande vampata di protesta, una vera rivolta contro la lunga e disperata agonia della cultura classica e compì l'operazione fondamentale: ridiede all'umanità intera una ragione per vivere! Come movimento di protesta e di rivolta è evidente che il Cristianesimo si oppose alle basi stesse sulle quali era stato edificato il pensiero classico e, pertanto, in tale senso il pensiero cristiano fu senza dubbio -antiscientifico» e mostrò sin dagli inizi un’avversione profonda—e del resto anche ben motivata—nei confronti delle prospettive del morente pensiero classico. Ma va tenuto presente che si trattava di un pensiero morente, si trattava di prospettive che non riuscivano più ad indicare una via lungo la quale l'uomo potesse, se non trovare, almeno cercare una soluzione ai nuovi, sconvolgenti problemi che ne agitavano lo spirito e la mente. Così il concetto stesso di «scienza» muta radicalmente, non è più «conoscenza della natura e dei fenomeni naturali», ma «conoscenza dello spirito e di tutto ciò che concerne la vita dello spirito».

Opponendosi alle prospettive di un pensiero non morente, ma già morto, il Cristianesimo, fra l’altro, non combatteva ottusamente contro una scienza viva e vivace, animata dall’entusiasmo e dal fervore della ricerca—anche solo sul piano intellettuale—ma contro una «tradizione» filosofica nell'ambito della quale si collocavano anche gli elementi di una scienza ormai defunta e, quel che è peggio, ormai non più compresa.

Questa crisi profonda non colpì solo il mondo occidentale di lingua latina, bensì anche il mondo orientale di lingua greca nel quale il trionfo del Cristianesimo non provocò affatto il tramonto del pensiero classico, ma si sostituì come visione nuova dell'uomo, della società e del mondo ad una cultura ormai definitivamente esaurita e che non solo non aveva più nulla da dire all'uomo, non era in grado di rispondere alle istanze urgenti di una nuova spiritualità, ma aveva addirittura ormai perduto la sua stessa ragion d’essere. Anche nella cultura greca occorrevano nuovi parametri, occorreva trovare vie nuove per problemi nuovi, che la cultura classica aveva intravisto nella sua fase di tramonto ma ai quali non aveva saputo, ed in realtà non avrebbe potuto dare, un'adeguata risposta. Il fatto era che ci si era resi conto che quando la ragione aveva operato sino al limite delle sue possibilità, essa si trovava di fronte ad un irrazionale che era razionalmente necessario. Questo irrazionale era il problema fondamentale e ad esso si rivolse tutta la cultura come ad unico oggetto di un vero sapere, di una vera scienza. Così la scienza in generale e la medicina in particolare non furono più intese come campo di ricerca, ma piuttosto come palestra per esercizi intellettuali, sì che, mentre sul terreno della vera ricerca, la ricerca spirituale, morale e soprattutto religiosa, si assiste al meraviglioso fiorire del pensiero cristiano orientale con le grandi figure di Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo, Basilio, Origene, Massimo Confessore e tutti, insomma, i grandi Padri della Chiesa greca, nel campo della ricerca scientifica in generale e della medicina in particolare vediamo fiorire soprattutto da un lato i commentatori delle opere antiche di Ippocrate e di Galeno (Apollonio Citiense, Stefano di Bisanzio, Teofilo, Damascio, e numerosissimi altri), dall'altro i compilatori di manuali che null'altro fanno che ripetere, riassumere e combinare le opere di Ippocrate e di Galeno, e neppur tutte, bensì solo quelle comprese nei «canoni», ossia nelle scelte già da più di cinque secoli fissate dalla Scuola di Alessandria: in tutto sei libri del Corpo ippocratico—Sulle arie, le acque e i luoghi, Pronostico, Sulle settimane, gli Aforismi e due libri delle Epidemie—e sedici in tutto dei più di trecento trattati di Galeno, e dei sedici quasi esclusivamente, a partire dal V secolo, quattro: il trattato Sui polsi, l’operetta Sulle scuole di medicina, il primo libro del Metodo terapeutico e, soprattutto, la Piccola arte, che con il nome di Tegni—il greco Tékhnē con pronuncia bizantina e trascritto pari pari in caratteri latini—fu per secoli il testo fondamentale della cultura medica. Infine fioriscono i cosiddetti Iatrosofisti, ossia i «sapienti della medicina» che, in generale più abili logici che medici pratici, si sbizzarrirono in diatribe sterili, come quella, che occupa gran parte delle loro opere, circa la definizione della medicina come «scienza» o come «arte»; con essi fioriscono i compilatori di vere e proprie «antologie» delle opere dei medici antichi (soprattutto di Galeno, di Aetio. di Eliodoro, di Erodoto, di Antillo, di Agatino e di numerosissimi altri), antologie per noi preziose, come quella vastissima compilata da Oribasio, le Collezioni mediche, ma che nessun apporto nuovo danno alla scienza in generale ed alla medicina in particolare. Dal trattato ippocratico Sulla dieta deriva infine una strabocchevole letteratura di «Regimi dietetici», con elenchi di cibi, bevande e prassi quotidiane (bagni, sonno, esercizi fisici, ccc.), nei quali non è possibile rinvenire altro che una stucchevole ed estremamente banale ripetizione, privi come sono di un qualsiasi fondamento scientifico. Il fatto è non tanto che non si nutra più alcun interesse per la scienza, quanto piuttosto che la «scienza» è un'altra: non è il conoscere questo mondo, ma il mondo superiore, il «vero mondo». La vera scienza è la teologia. Si che se vorremo trovare fervore di ricerca, entusiasmo di indagine, espressione di altissima ed appassionata cultura non dovremo certo cercare tutto questo nelle opere che per tradizione noi definiamo «scientifiche», bensì in quelle che veramente «scientifiche» furono per la cultura del basso Impero e, poi, di tutto il Medioevo: le opere dei grandi Padri, dei teologi, dei mistici, perché questi sono l’espressione della vera cultura di questi secoli.

Nel mondo occidentale, dopo il trionfo del Cristianesimo, nella seconda metà del IV secolo, per circa sette secoli i resti della cultura e delle scienze classiche, ormai muti per la cultura nuova, rimasero monopolio dei centri di vita monastica. Solo nei monasteri sopravviveva un interesse per le testimonianze dell’antica cultura, solo nei monasteri si potevano copiare e conservare i manoscritti delle opere degli antichi poeti, letterati, filosofi ed anche—sia pure in numero decisamente minore—medici. Ma anche nell’ambito della cultura monastica si verificò quanto era accaduto durante il lungo periodo di decadenza della cultura classica- Soprattutto nel campo di quella che noi consideriamo «scienza», e, quindi, anche nel campo della medicina, già a partire dal IV secolo si era assistito ad un sempre crescente disinteresse per la lettura e lo studio delle opere originali dei grandi autori. Così, da un lato, anche nell’ambito del mondo occidentale, si formano e trionfano le «scelte» di un numero ridotto dei loro scritti (anche qui di Ippocrate si leggono dapprincipio solo le opere che si leggono a Bisanzio, e più tardi ci si limita praticamente a due sole: gli Aforismi ed il trattato Sulla dieta, più o meno riassunto e rimaneggiato, mentre di Galeno si leggono solo le quattro indicate in precedenza ed, alla fine, solo la Tegni); dall’altro fioriscono i riassunti, gli estratti e le antologie. Infine si moltiplicano le «Enciclopedie», che sempre, sino al Settecento (quando, con l’Illuminismo, l’Enciclopedia assume tutt’altro carattere e tutt'altra funzione che quella della semplice opera di rapida ed agevole consultazione), esprimono lo scadere dell’interesse per uno o per più settori della cultura, per i quali si rinuncia alla consultazione ed alla lettura delle grandi opere e ci si accontenta delle sommarie notizie fornite da un’opera enciclopedica. Nell’ambito della cultura monastica avvenne lo stesso: si andò sempre più riducendo il numero sia delle opere, sia degli autori letti e studiati e, parallelamente, fiorirono i «compendi», le «scelte» e le «Enciclopedie». Basti ricordare che il grande ed illuminatissimo Flavio Magno Aurelio Cassiodoro (480 ca.-575) ai monaci del suo convento di Vivarium, in Calabria, raccomandava lo studio, fra l'altro, delle opere scientifiche e, in particolare, degli autori di medicina presenti nella biblioteca del monastero: Dioscuride, il grande botanico e farmacologo greco del I secolo, Celso e Galeno (ovviamente la Tegni). Per quel che concerne le Enciclopedie, basterà ricordare quella che fu sicuramente la più famosa, la più diffusa e che costituì, per almeno sei o sette secoli, una delle fondamentali fonti del sapere «scientifico» medievale: le Etimologie di sant’Isidoro di Siviglia (570-636). Un libro di esse, il IV, è dedicato alla medicina: consta di tredici capitoletti e si sviluppa per quattordici pagine complessive di una moderna edizione a stampa in ottavo, il che significa poco più di quattrocento righe in tutto! A questo si è ridotto il «sapere medico» ed a questo è ridotta la «medicina scientifica»!

I parametri culturali sono radicalmente mutati e dirigono tutto il sapere verso obiettivi completamente diversi in quanto completamente diversi sono i problemi che occupano il pensiero. Quel che Dante afferma dell’uomo ci chiarisce eloquentemente la nuova posizione culturale:

O superbi cristian, miseri lassi,

che della vista della mente infermi,

fidanza avete ne’ retrosi passi,

non v'accorgete voi che noi siam vermi

nati a formar l’angelica farfalla,

che vola alla giustizia senza schermi?

Di che l’animo vostro in alto galla,

poi siete quasi entomata in difetto,

sì come verme in cui formazion falla?

(Purgatorio, X, 121 ss.)

Ecco la nuova prospettiva: quel che interessa non è, quindi, il «verme», non sono gli «entomata in difetto» (e non preoccupiamoci dell’errore di greco commesso da Dante che di greco nulla sapeva!), ma l’«angelica farfalla» cui l’uomo tende con tutte le sue forze ed alla realizzazione della quale è protesa tutta la cultura, tutta la «vera scienza» nei confronti della quale la stessa luce della ragione non è che una «lumera» che splende nel primo cerchio dell’Inferno, il Limbo, dove Dante incontra tutti i grandi del passato dei quali, direttamente o indirettamente, aveva notizia: fra i medici Ippocrate e Galeno; fra i farmacologi Dioscoride ed, infine, l’arabo Avicenna. Un confronto anche solo numerico con gli altri personaggi chiarirà ancor meglio la nuova prospettiva della cultura: mentre Dante scorge solo tre medici e due scienziati, Euclide e Tolomeo, intorno ad Aristotele, il «maestro di color che sanno», secondo il giudizio della Scolastica e soprattutto di san Tommaso d’Aquino, il poeta vede Democrito, Diogene, Anassagora, Talete, Empedocle, Eraclito e Zenone. Vede, in altre parole, soprattutto coloro che hanno fornito alla ragione umana i mezzi per prepararsi alla conquista della «verità», ma con i quali la «verità» non si raggiunge. Essa si raggiunge solo con quella «fede, ch’è principio alla via di salvazione». E questa è la «vera scienza», nei confronti della quale, al massimo, l’attività della ragione non è altro che strumento di preparazione. E se semplice strumento di preparazione è la filosofia, a che cosa si riduce quella che noi consideriamo «scienza», ossia la conoscenza del mondo dei fenomeni? Essa non è che «filosofia naturale», ossia sapere rivolto al mondo della natura, un sapere, per così dire, inferiore, che, al massimo può fornire qualche modesto supporto, com’è nel Cantico delle creature di san Francesco, nel quale la divisione dell’universo in mondo sopralunare e sublunare, l’insieme dei quattro tradizionali «elementi» (acqua, aria, terra e fuoco) non sono che il supporto del concetto che anima tutta la lauda: «Altissimu, onnipotente e bon Signore/ tue so le laude, la gloria e l’onore/ et onne benedtione». Il trascurare, quindi, la «scienza» in generale e la medicina in particolare non è affatto frutto di oscurantismo, bensì di una luce diversa che illumina e guida il mondo della cultura e del sapere: in funzione del quale non ci deve, quindi, stupire se la medicina scende dal piano che possiamo considerare scientifico nel nostro senso e si riduce al piano puramente pratico. Ma, come genialmente afferma il grande storico della scienza Charles Singer, «la rovina della scienza medica, come di tutte le scienze (intese, ovviamente, nel senso che noi oggi annettiamo al termine «scienza») è sempre stato il cosiddetto «pratico», il quale prende in considerazione solamente il fine immediato della sua arte, senza tenere in alcun conto la conoscenza teorica sulla quale l’arte stessa si fonda». Così la «medicina monastica» - l’unica che per lunga serie di secoli si praticasse perché l’unica che fosse, di fatto, sopravvissuta - finì per non mirare ad altro che a recare immediato sollievo ai malati, trascurando totalmente ogni conoscenza teorica. Per conseguenza perirono anatomia e fisiologia, o meglio si ridussero a puri e semplici scheletri; le raffinate tecniche di diagnosi e di prognosi si ridussero a mera pratica di droghe o di presunte tali, più o meno fantasiosamente identificate e descritte; rifece la sua comparsa la superstizione che si espresse anche con formule d’incantesimo (magari chiamando in causa pure i santi medici Cosma e Damiano), della maggior parte delle quali, storpiate nel passaggio da un manoscritto all’altro, si finì per non comprendere più nemmeno il significato originario. Ma in questo quadro un'oasi particolare si distingue nell’Europa occidentale, nella quale tenta di rifiorire ed, infine, rifiorisce la cultura scientifica in senso abbastanza vicino a quello attuale: il Mezzogiorno d’Italia. Lì la conoscenza della lingua greca era rimasta viva; li, nonostante il caotico disordine che caratterizzò i secoli immediatamente successivi il crollo dell’impero, si era salvato un livello culturale assai più alto che nel resto d’Europa, grazie ai sempre intensi e stretti rapporti con la cultura e la civiltà bizantine, che non brillavano certamente per originalità nel campo della medicina, ma che, almeno, leggevano un pur sparuto gruppetto delle opere di Ippocrate e di Galeno nel testo originale. Per di più nel Meridione d’Italia i Normanni conquistatori seppero, sia pure con il rigido pugno del tiranno, ristabilire quell’ordine che è la necessaria premessa per il fiorire ed il rifiorire di ogni cultura. Fu così che, intorno agli inizi del IX secolo, si vide sorgere a Salerno, pochi chilometri a Sud di Napoli, qualcosa che in un primo tempo somigliava, e che in seguito divenne di fatto una «scuola di medicina»: la gloriosa Scuola salernitana.

Dibattutissima è la questione relativa alle sue origini. Sappiamo per certo che nell’820 l’arcidiacono Adelmo, dei benedettini di Montecassino, fondò a Salerno un ospizio per i malati, un valetudinarium, mentre già nell’Abbazia di Montecassino era da più di due secoli attiva un’infermeria, in osservanza di quanto stabiliva la Regola dettata da san Benedetto (450-547): «Prima di tutto e soprattutto bisogna curare gli infermi in modo che si serva ad essi come se si servisse a Cristo in persona. Infatti Egli disse: “io ero malato e voi mi avete visitato”. D’altra parte anche i malati debbono considerare che essi vengono curati per rendere onore a Dio, onde non debbono affliggere con pretese superflue i monaci che si pongono al loro servizio» (art. 36). Ma l’infermeria dell'Abbazia, com'è agevolmente intuibile, era riservata ai monaci, e Salerno si trovava quasi all’incrocio delle vie percorse dai pellegrini diretti in Terra Santa o che dal pellegrinaggio rientravano, nonché dai soldati crociati, in partenza o di ritorno dalle loro imprese. Era ovvio che sia gli uni che gli altri trovassero in Salerno il luogo più adatto, anche per il clima mite, per una sosta ristoratrice e magari anche per la cura o la convalescenza vuoi dalle malattie contratte, vuoi dalle ferite riportate. Di qui l’opportunità, anzi, la necessità di creare una specie di ospizio in cui la carità cristiana si ponesse al servizio dei sofferenti. Ma come nell'antica Grecia erano sorti dei luoghi di cura gestiti da laici, accanto ai santuari di Asclepio, nei quali i malati venivano curati dai sacerdoti con particolari pratiche magico-religiose, così accanto alle sedi della medicina monastica assistiamo alla nascita e al graduale sviluppo della medicina laica, la quale ebbe in Salerno il suo centro più antico e, per più di tre secoli, il più importante. Non è del tutto da escludere, quindi, se non l’origine monastica della Scuola salernitana, per lo meno uno stretto rapporto di essa con la medicina monastica. Studi più recenti hanno avvalorato l'ipotesi che sin dai tempi dell’imperatore Claudio (10-54 d.C.) fosse stata fondata a Velia, presso Salerno, una scuola laica di medicina, la quale, in seguito alla distruzione della città (tra l’VIIl ed il IX secolo), si sarebbe trapiantata a Salerno, dando, così, origine alla Scuola salernitana medievale.

Secondo una leggenda assai diffusa, comunque, i fondatori della Scuola sarebbero stati quattro Maestri: Maestro Salerno, latino, Maestro Ponto, greco, Maestro Helino, ebreo, e Maestro Adela, saraceno. Dietro il velo di questa leggenda si cela, tuttavia, una verità storica indubitabile: nella medicina salernitana confluì, in un primo tempo, quanto sopravviveva della tradizione latina e, attraverso Bisanzio, greca; in un secondo tempo si unirono a questi due filoni gli apporti della cultura ebraica e della cultura araba la quale di quella ebraica fu massicciamente debitrice. Nel primo periodo eccelse Garioponto, o Guaripoto (forse un Warbod di origine longobarda), il cui Passionarlo, ossia Trattato sulle malattie godette di tale celebrità da venire addirittura attribuito a Galeno. Attribuzione certamente errata, ma non del tutto ingiustificata: per quanto ci si sforzi di rinvenire, infatti, qualcosa di originale in quest’opera, essa non si riduce ad altro che ad una più o meno corretta rimasticazione delle dottrine e degli scritti di Galeno (soprattutto della Tegni) e non le si può neppure attribuire il pregio che comunemente le si riconosce, ossia di aver per prima introdotto nel linguaggio medico termini che ancor oggi ne fanno parte, come «gargarizzare», «cicatrizare» e simili. In realtà questi termini sono già presenti in testi di circa tre secoli precedenti a Garioponto. Accanto a Garioponto meritano di essere ricordati Petroncello, la cui Practica, tuttavia, non è neppur essa altro che una rimanipolazione di eredità galeniche, ed Alfano, arcivescovo di Salerno, al quale non è da escludere si debba l'introduzione nella cultura salernitana del trattato di medicina in versi.

Degne di menzione, infine, anche le donne che in Salerno esercitarono in buon numero la medicina e fra le quali emerge soprattutto Trotula, autrice di un trattato di ginecologia non del tutto spregevole.

E abbastanza naturale che data l'epoca nella quale fiorì, e data la vicinanza alla Sicilia, la Scuola salernitana non abbia potuto fare a meno di subire l'influsso della cultura araba, influsso che penetrò nella Scuola soprattutto in seguito all'arrivo, verso la metà dell’XI secolo di Costantino l’Africano, di origine cartaginese, conoscitore del latino, del greco—a quanto si tramanda—e dell’arabo. Da quanto risulta dalle sue opere appare chiaramente che conoscesse sicuramente il latino e l’arabo, ma di greco sapesse piuttosto poco, tanto che la maggior parte delle sue traduzioni di opere greche fu da lui sicuramente condotta su traduzioni arabe e non sul testo originale. Tuttavia la sua importanza per lo sviluppo ulteriore della Scuola salernitana fu determinante, anche se personalmente Costantino non diede nessun apporto originale alla medicina. Essa consiste nel fatto che da un lato Costantino reintrodusse, almeno in pane, nella cultura salernitana le opere originali di Ippocrate e di Galeno, che si conoscevano ormai solo attraverso riassunti, rifacimenti e rimanipolazioni, che spesso ne avevano addirittura falsato il contenuto; dall’altro fece conoscere ai medici salernitani le grandi opere della medicina araba, arricchendo, in tal modo, l'orizzonte culturale dei Maestri salernitani (ma anche, secondo qualche studioso, falsandone la più genuina e singolare tradizione, saldamente ancorata, sia pure molto alla lontana, alla tradizione medica greca).

Vero è che gli Arabi, nel campo della medicina, nella maggior parte dei casi non furono altro che «abili copisti»—come li definì il Daremberg—dei grandi medici greci, ma il loro influsso su tutta la medicina europea del basso Medioevo fu ugualmente determinante per il solo fatto che della letteratura medica greca essi conoscevano un numero di opere notevolmente maggiore rispetto a quelle conosciute in precedenza dalla cultura di lingua latina, che in tal modo concorsero ad ampliare enormemente. In un solo settore il loro apporto fu decisamente originale: quello della farmacia, che anche nel senso comune di «bottega ove si preparino e si vendano farmaci semplici o composti», si può dire sia, com’essa si presenta durante il basso Medioevo e durante i secoli seguenti, almeno sino al Seicento, un’invenzione araba. All'infuori di questo settore, vano sarebbe ricercare nelle opere dei pur celebratissimi medici arabi, quali Al Kindi o Avicenna o Albucasi, qualche tratto significativo di originalità.

Con l’arrivo di Costantino, comunque, e con lui della medicina araba, ebbe inizio, per la Scuola salernitana, il periodo di massimo fulgore, favorito anche dalle decisioni del Concilio di Reims (1131) prima e del Concilio di Roma (1139) poi, che vietarono ai monaci l’esercizio della medicina fuori dalle mura dei monasteri. Questi provvedimenti segnarono il declino della medicina monastica e, per conseguenza, favorirono il già notevole sviluppo delle scuole laiche, in particolare di Salerno e di Montpellier, che era stata creata sul modello della prima, ma con netta derivazione araba, ed ebbe meravigliosa fortuna in Francia.

Ma la fortuna della Scuola salernitana—che vide nella seconda metà del XII secolo fiorire i suoi massimi Maestri (soprattutto nel campo della chirurgia, nel quale eccelse Ruggero dei Frugardi)—cominciò a declinare quando, nel 1224, Federico II di Svevia fondò l’Università di Napoli, che andava ad affiancarsi alle già affermate di Bologna, di Padova, di Piacenza, di Roma, e poi di Palermo, di Firenze, di Pisa, di Pavia, di Forino, per tacere di quelle francesi, inglesi, tedesche e spagnole. Si ebbe, come conseguenza, un esodo sia degli studenti, sia dei docenti da Salerno all’Università di Napoli o di altre città, esodo determinato soprattutto dal fatto che mentre nella Scuola i docenti erano pagati dai discepoli, nell’Università essi godevano di uno stipendio fisso— e molto remunerativo anche!—il che ne favorì il trasferimento nelle nuove sedi. All’esodo dei docenti seguì l’esodo degli studenti, sì che la Scuola decadde rapidamente e sopravvisse solo di nome sino al 28 novembre 1811, quando venne definitivamente chiusa da un decreto di Gioacchino Murat.


Ritorno alla pagina iniziale: "Regola Sanitaria Salernitana"


| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |

| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |


8 maggio 2016                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net